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IL FOGLIO E IL PUNTO NERO – Gianfranco Ravasi

http://www.novena.it/mattutino/mattutino03.htm

IL FOGLIO E IL PUNTO NERO

Gianfranco Ravasi

Un maestro indù mostrò un giorno ai suoi discepoli un foglio di carta con un punto nero nel mezzo. «Che cosa vedete?», chiese. «Un punto nero!» risposero.
«Nessuno di voi è stato capace di vedere il grande spazio bianco!», replicò il maestro. È questa la legge che fa riempire di cronaca nera i giornali e le televisioni: un solo delitto ha più peso di mille atti di generosità e d’amore, secondo i parametri dell’informazione. Anche noi siamo pronti a cogliere la pagliuzza nell’occhio dell’altro e ignoriamo la luminosità sorridente di tanti sguardi. È normale elencare tutte le amarezze dell’esistenza e ignorare la quiete e le gioie che pure accompagnano la maggior parte dei nostri giorni.
Il nostro pensiero si fissa con più facilità sui punti neri del cielo della storia che non sulle distese di azzurro e di luce. Certo, non si deve essere così ottimisti o ingenui da ignorare il male che pure costella le vicende umane, ma non è giusto considerare come marginali la meraviglia delle albe e dei tramonti, lo stupore del sorriso dei bambini, il fascino dell’intelligenza, il calore dell’amore. Il sì è più forte del no.
E in questa linea vorremmo aggiungere un’altra nota. Ce la offre Pirandello nel suo dramma Il piacere dell’onestà (1918) quando il protagonista dichiara: «È molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini si dev’essere sempre». Anche nel bene può, quindi, vigere la stessa legge: il punto più luminoso dell’eroismo attira tutta l’attenzione, facendo dimenticare che è ben più mirabile il tenue filo di luce che percorre tutte le giornate di un genitore dedicato alla sua famiglia, forse con un figlio disabile. C’è un eroismo quotidiano che non fa suonare le trombe davanti a sé, ma che ha in sé una grandezza ben più gloriosa.

LA BELLEZZA FERISCE – Gianfranco Ravasi

http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/recensioni/art.html

LA BELLEZZA FERISCE

Gianfranco Ravasi

Discorso al Teatro durante il Cortile dei Gentili a Berlino

Nel suo ormai celebre film del 1987, Wim Wenders ha fatto volare nel cielo grigio di Berlino un angelo, pronto a perdere le ali della sua immortalità per stare vicino a un’artista di circo, ripetendo la vicenda di un altro ex-angelo, anch’egli sceso in questa città che è un grande emblema di vitalità artistica e culturale, soprattutto teatrale. Infatti, come non ricordare in questa sede la figura di Bertolt Brecht la cui opera conobbi nella mia città, Milano, attraverso le mirabili regie di Giorgio Strehler? È, quindi, con emozione che parlo in questo teatro, davanti a personalità di rilievo internazionale come quelle che tra poco ascolteremo.
Nella religione ebraico-cristiana la metafora estetica o ludica è divenuta una via analogica per rappresentare Dio stesso. È quella che già nel Medio Evo era chiamata la via pulchritudinis, ossia l’analogia della bellezza per cui – come si legge nel libro biblico della Sapienza – «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analógôs) si contempla il loro Artefice» (13,5). In un altro testo scritturistico la Sapienza divina creatrice è rappresentata come una fanciulla che «gioca [o danza] in ogni istante, gioca [o danza] sul globo terrestre ponendo la sua felicità tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8,30-31).
Così come esiste l’homo ludens, cioè la persona umana che libera le sue potenzialità creative, artistiche, culturali e sportive, attraverso le sue opere estetiche e atletiche condotte nella gratuità, libertà e creatività, così Dio crea l’universo e, come suggerisce il libro della Genesi nella sua pagina d’apertura, si ferma stupito a contemplare la sua opera: «Dio vide che era cosa bella/buona». L’aggettivo ebraico tôb ha, infatti, un’accezione sia estetica sia etica: è espressione del “bello” ma anche del “buono” e dell’“utile”.

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In questa luce fede e arte sono sorelle perché di loro natura – come diceva Paul Klee per l’arte – «non rappresentano il visibile ma l’Invisibile che è nel visibile». Henry Miller, lo “scandaloso” autore del Tropico del cancro, in suo saggio, La sapienza del cuore, affermava che, come la religione, l’arte «non insegna nulla, tranne che a mostrare il senso della vita». E non è certamente poco. La stessa liturgia ha una dimensione “drammatica”, come è evidente nella sua ritualità, nella scenografia del tempio, nell’apparato degli oggetti, delle vesti, degli atti. Essa è contemporaneamente numen e lumen, cioè mistero, trascendenza, sacro; ma è anche luce, visibilità, spettacolo, coinvolgimento dei sensi.
Si comprende, perciò, perché nel “secolo d’oro” della letteratura spagnola le rappresentazioni di un Calderon de la Barca o di un Lope de Vega venissero classificate nel genere degli Auto sacramental, con chiaro rimando al sacramento liturgico. Un altro celebre personaggio di quell’epoca storica, Francisco de Quevedo, allargava teologicamente il simbolismo teatrale: «La vita umana è una commedia, il mondo un teatro, gli uomini sono gli attori, Dio è l’autore. A lui tocca distribuire le parti, agli uomini recitarle bene».
Come accade nell’esistenza e nella stessa esperienza di fede, due sono i registri fondamentali del teatro: il dolore e la gioia, il dramma e la commedia. Per usare la mitologia greca, Dioniso e Apollo procedono insieme sulla strada della vita, della musica, dell’arte, del teatro. In modo folgorante Dostoevskij dichiarava che «la tragedia e la satira [commedia] sono sorelle e vanno di pari passo e tutte due insieme si chiamano verità». L’arte autentica cerca di esprimere questa verità anche nel suo aspetto oscuro.
Infatti, nella prima delle sue Elegie duinesi Rainer M. Rilke ricordava che «das Schöne ist nichts als des Schrecklichen Anfang». E a lui faceva eco Virginia Woolf nella sua opera Una stanza tutta per sé (1929) quando affermava in modo lapidario che «la bellezza ha due tagli, uno di gioia, l’altro di angoscia e taglia in due il cuore». L’allora card. Joseph Ratzinger in un testo del 1992 andava oltre affermando che «la bellezza ferisce, ma proprio così richiama l’uomo al suo destino ultimo».
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La ferita si rivela, allora, come una feritoia che – similmente a quanto accadeva per i tagli delle tele di Lucio Fontana – si affaccia sull’infinito e sull’eterno, sull’assoluto, sul mistero, sul divino, a prescindere dalla fede o meno dell’artista. Purtroppo, a partire dal secolo scorso, si è assistito a un divorzio tra arte e fede. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi di epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando chiese simili a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure e tutto quel “grande codice” che era stata la Bibbia. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è rinchiusa nel cerchio dell’autoreferenzialità, si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo.
Ora si sta registrando un avvicinamento. Il Pontificio Consiglio della Cultura da me presieduto ha presentato, proprio quest’anno, un Padiglione della S. Sede alla Biennale d’Arte di Venezia – che si è chiusa la scorsa domenica – con una trilogia tematica che si lega alle pagine di apertura della Genesi biblica, affidandole alla libera rielaborazione di tre artisti dalle diverse esperienze anche personali: l’italiano Studio Azzurro, il boemo Josef Koudelka, l’australiano Lawrence Carroll. I temi proposti sono stati la creazione, la de-creazione, la ri-creazione.
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Persino certe espressioni blasfeme o dissacranti che hanno recentemente avuto una forte eco rivelano, in ultima analisi, non solo l’impatto forte che i grandi simboli e i temi religiosi conservano anche in una società secolarizzata, ma manifestano forse la nostalgia di segni e immagini che hanno costituito una straordinaria fonte d’arte e di cultura per due millenni. Come confessava Chagall, «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che sono le S. Scritture.».
È per questo che riserviamo una particolare attenzione al dialogo che ora seguirà. E anche se discussa e non aliena da rischi, accettiamo l’esaltazione della gratuità dell’arte presente in una considerazione che ancora Bertolt Brecht – la citazione in questa sede è obbligatoria – faceva nel suo Breviario di estetica teatrale: «Da che mondo è mondo, compito del teatro, come di tutte le altre arti, è ricreare la gente. Questo compito gli conferisce sempre la sua speciale dignità».

PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO – di GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/vita/0706vp/0706vp93.htm

(non trovo la data, ma di Gianfranco Ravasi è scritto « Prefetto della Biblioteca Ambrosiana »)

Nella Sacra Scrittura -

PAROLA DI VITA E DI GIOIA: NESSUNO È MAI PERDUTO

di GIANFRANCO RAVASI

Il senso profondo della fragilità umana percorre tutta la Bibbia, a partire dalla caducità strutturale della creatura. A tal proposito la Genesi non lascia dubbi: l’uomo è polvere e torna alla polvere; è precario perché è finito. Ma c’è anche il risvolto delle responsabilità personali, delle miserie umane. La fragilità peccatrice, però, non è condannata: Cristo cerca chi si è perduto.
È quasi impossibile, pur sfogliando tutti i dizionari biblici nelle principali lingue, imbattersi in una voce dedicata alla « fragilità ». La parola deriva dalla radice arcaica frag-, che ha dato origine a una costellazione di vocaboli latini e italiani come « (in)frangere », « naufrago », « frammento », « fragore », « frutta », « frattaglia », « frazione » « frattura » e così via.
C’è, dunque, qualcosa di spezzato alla base, proprio perché quella realtà è debole, fallace, gracile, precaria. È per questa via, di taglio più esistenziale, che è possibile isolare nella Sacra Scrittura il senso profondo della fragilità umana. Anzi, si ha la possibilità di individuare una vera e propria radice fondamentale della stessa antropologia biblica. Due sono i profili di questa labilità:

1 La finitudine
C’è innanzitutto la caducità strutturale della creatura, precarietà legata alla sua finitudine. Giobbe usa un’immagine folgorante: «L’uomo è ospite di una casa di fango, fondata sulla polvere, pronta a cedere al tarlo» (4,19). L’essere profondo, spirituale e intellettuale dell’uomo è deposto, come dirà il libro della Sapienza, in «una tenda d’argilla» (9,15). Qohelet con l’implacabile provocazione delle sue rilevazioni classificherà l’intero essere creato sotto quel vocabolo impietoso hebel, ossia « soffio, fumo, vuoto » e, riprendendo l’antica lezione della Genesi (3,19), concluderà amaramente: «Tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere» (Qo 3,20).
Un monito che percorrerà anche la preghiera di Israele, se è vero che ripetutamente sentiamo i salmisti presentarsi davanti a Dio così: «In pochi palmi hai misurato i miei giorni, la mia esistenza davanti a te è un soffio. Solo un soffio è l’uomo che vive, come ombra è l’uomo che passa, solo un soffio che si agita. [...] Sì, sono un soffio i figli di Adamo; insieme sulla bilancia, sono meno di un soffio. [...] Essi sono carne, un soffio che va e non ritorna. [...] L’uomo è come un soffio, i suoi giorni sono un’ombra che passa» (Sal 39,6-7; 62,10; 78,39; 144,4). Molte sono le immagini che tratteggiano questa fragilità radicale dell’essere umano. La più comune e fragrante è quella dell’erba: «Sono come l’erba che germoglia al mattino; all’alba fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca», canta ancora il Salmista (90,5-6).
A lui fa eco Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo: secca l’erba, il fiore appassisce quando il soffio del Signore spira su di essi» (40,6-7). Ma anche san Pietro nella sua Prima lettera contrapporrà alla Parola divina, ferma, stabile e indistruttibile, «i mortali che sono come l’erba e ogni loro splendore è come fiore d’erba: l’erba inaridisce e i fiori cadono; solo la parola del Signore rimane in eterno» (1,24-25).
C’è, dunque, una prima fragilità che è legata al limite creaturale, al nostro essere prigionieri del tempo che finisce e dello spazio che ci circoscrive. In questa luce si delineano tante figure che rivelano la consapevolezza della loro debolezza strutturale, dell’avere – per usare una celebre immagine paolina – «un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7).
Pensiamo, ad esempio, a Mosè e al suo reiterato tentativo di sottrarsi alla sua missione, nella certezza di una impreparazione e di un ostacolo di fondo: «Mio Signore, io non sono un buon parlatore, non lo sono mai stato prima, sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Così Geremia non esiterà a obiettare: «Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (1,6). E lo stesso Salomone, nella notte antecedente alla sua intronizzazione, confessa a Dio: «Sono un ragazzo e non so come regolarmi» (1Re 3,7). Dopo tutto, l’intero popolo d’Israele nella sua storia secolare rivela un’immaturità sostanziale, a partire dalla nostalgia della schiavitù, pur di non rischiare l’avventura della libertà nel deserto e nella ricerca della terra promessa.
Gesù nella sua predicazione ha illustrato in modo vigoroso l’instabilità soprattutto dei giovani. Chi non ricorda la scenetta dei ragazzi che non s’accordano sul gioco da fare in piazza, se mimare un funerale o un matrimonio, e così perdono il tempo del divertimento (Mt 11,16-17)? Oppure, come non evocare la vicenda dei due figli difficili della parabola di Matteo 21,28-31, l’uno tutto parole e niente fatti e l’altro sgarbato e sguaiato ma alla fine buono?
È impressionante, ma proprio sulla base della verità dell’incarnazione, anche Cristo è rappresentato fragile nel momento della morte, quando implora il Padre di evitargli quel calice avvelenato (Mc 14,36) e la Lettera agli Ebrei non esita a dichiarare che Gesù «È in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza» (5,2). Similmente san Paolo, che ci ha lasciato nel cap. 7 della Lettera ai Romani un ritratto vigoroso della frattura profonda dell’anima umana, si vedrà costretto a «vantarsi della sua debolezza», riconoscendo la sua fragilità (2Cor 11,30) e la spina che lo tormenta nella carne e nella vita.

2 La peccaminosità
A questo punto c’è da lasciare spazio all’altro profilo della finitudine creaturale, quello della sua peccaminosità. Non bisogna, infatti, ignorare che la pagina di antropologia che apre la Bibbia e ne costituisce il punto di riferimento capitale (Gen 2-3) comprende proprio la « frattura » delle tre relazioni costitutive dell’essere adam, ossia uomini: quella che intercorre con Dio dal quale si riceve la vita, la libertà e la coscienza; il rapporto col proprio simile, incarnato dalla donna; e infine il nesso con la materia, col creato, con gli animali.
Ecco, infatti, dopo il peccato, l’uomo espulso dal giardino del dialogo intimo con Dio; eccolo prevaricare sul prossimo, a partire dal dominio sulla donna (3,16) per giungere al fratricidio di Caino e alla prepotenza di Babele; ecco, infine, la dissociazione dell’uomo con la terra che si ribella generando «spine e cardi» (3,18).
Questa onda limacciosa lambisce tutta l’umanità e la storia biblica è una lunga vicenda di debolezze, di miserie, di fallimenti, di tradimenti, come per altro sarà la trama costante della storia umana. La fragilità peccatrice colpisce anche le grandi figure: pensiamo a Davide che per il corpo e il fascino di una donna, Betsabea, si trasforma in adultero e in assassino (2Sam 11-12) o alla ribellione tragica di suo figlio Assalonne o all’altro suo figlio e successore, il grande Salomone, che invecchia lasciandosi corrompere dal suo harem (1Re 11,1-13); oppure (tanto per scegliere a caso un altro esempio) la meschina figura rimediata dai due anziani vogliosi che attentano alla fedeltà di Susanna (Dn 13).
La gamma delle debolezze morali umane è quasi del tutto perlustrata dalle Sacre Scritture, a partire proprio da un Israele sistematicamente sedotto dall’idolatria (si legga la celebre e veemente pagina simbolica di Ez 16). Noi vorremmo solo evocare un tratto molto specifico di questa variegata fragilità, cioè la tipologia del tradimento e del relativo fallimento. Forse è poco nota la storia di Achitofel, consigliere di Davide che decide di passare nel campo avverso del ribelle Assalonne e che, alla fine, vistosi a sua volta tradito e perduto, «andò a casa sua nella sua città, sistemò i suoi affari familiari e s’impiccò» (2Sam 17,23). E naturalmente in dissolvenza vediamo profilarsi la tragedia di Giuda, traditore e suicida.
Ma ci sono anche debolezze meno clamorose ma altrettanto umilianti e infami: Pietro in quella notte, nel cortile del palazzo sinedrale, non esita – per evitare rischi personali – a spergiurare senza pudore: «Non conosco Gesù! Non sono un suo discepolo! Non so quello che dite!» (Lc 22,54-62).
Si potrebbe a lungo infierire sulle miserie della fragilità, soprattutto quando essa sconfina nella sua superficialità, nella tiepidezza incolore, quell’atteggiamento che suscita il « vomito » di Cristo, come si dichiara nella celebre invettiva dell’Apocalisse contro la Chiesa di Laodicea (3,15-16). Tuttavia non bisogna mai dimenticare che l’ultima parola divina nei confronti della fragilità creaturale e morale dell’umanità non è mai la condanna aspra e implacabile. Cristo va per monti e dirupi a cercare la pecorella smarrita, stando accanto a peccatori, pubblicani e prostitute.
Il Padre celeste è sempre sulla soglia di casa per riabbracciare quel figlio prodigo, debole e moralmente sfibrato per riportarlo alla vita, alla gioia, alla speranza, alla certezza di essere sempre amato. Nessuno è mai perduto, purché si lasci liberare e risollevare da Colui che «è venuto proprio per cercare chi era perduto», che è giunto in mezzo a noi non per badare ai sani ma ai malati, ai deboli, ai peccatori.

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA – di GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/fa_oggi00/1099f_o/1099fo39.htm

LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA

Il dolore umano resta invalicabile. La ragione ne comprende alcuni aspetti, ma non tutti i varchi le sono aperti. La Bibbia insegna che la sofferenza dell’uomo è un mistero che fa parte di un piano trascendentale, del quale possiamo intuire la coerenza generale. Un’ampia porzione del male, diffuso nel mondo, è riconducibile alla libertà e quindi al comportamento di chi possiede il libero arbitrio. Il dolore dell’umanità costringe ciascun uomo a porsi un forte interrogativo sull’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie messe in atto a danno di altre persone. Al contrario, sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il suo dolore, significa continuare l’opera di Cristo.

BIBBIA E SOFFERENZA

LA ROCCIA DA SCALARE

di GIANFRANCO RAVASI
(biblista)

«Perché soffro? È questa la roccia dell’ateismo». La famosa battuta del dramma La morte di Danton (1835) di George Buchner, uno dei più intensi scrittori dell’Ottocento tedesco, riassume in modo folgorante uno dei due approdi antitetici a cui conduce l’esperienza del dolore, in particolare del dolore innocente. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov ove Dostoevskij s’interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza?».
Per millenni l’umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l’antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del « Papiro di Berlino 3024″ (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’ »ateismo » che fa leva sul proprio dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (capitolo 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». »
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella ragione tenebrosa della sofferenza personale che si celebrano le apostasie, come affermava il pensatore agnostico francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella teodicea a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un Dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste). Si è appellato alla cosiddetta « teoria della retribuzione », per altro ben attestata anche nella Bibbia, come vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore francese Albert Camus osservava: «C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahmanesimo indiano per il quale il male è solo maya, cioè « illusione ». In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività.

Giobbe, l’impaziente
La cittadella fortificata del dolore, comunque, rimane non del tutto valicabile dalla ragione umana, anche se in essa possono aprirsi brecce e varchi. Il suo centro ultimo, come insegna la Bibbia che ora interrogheremo su questo tema, può essere chiuso e non necessariamente nell’assurdo, ma anche nel « mistero » di un progetto metarazionale e trascendente del quale possiamo al massimo intuirne una coerenza generale. C’è, però, un dato preliminare rilevante: un’ampia porzione del male diffuso nel mondo è riconducibile alla libertà e quindi al peccato dell’uomo. È, allora, necessario partire con l’esame di coscienza ideale che è proposto da Genesi 2-3 ove è protagonista appunto ha-adam, in ebraico « l’uomo » di tutti i tempi e di tutte le regioni del mondo. Al progetto di armonia con Dio, con la natura e con il suo simile, descritto come desiderio del Creatore nel capitolo 2, egli, nella sua libertà, decide di opporre un progetto alternativo di alienazione, violenza, sopraffazione, imperialismo (si vedano il capitolo 3 e la storia successiva di Caino, del diluvio e di Babele).
Il dolore dell’umanità, allora, in molti casi, prima di appellare al mistero dell’agire divino, deve trasformarsi in un atto di accusa che l’uomo lancia contro il proprio agire immorale. Prima di gridare a Dio protestando perché lascia morire di fame o senza cure molti bambini o ne fa nascere altri deformi, l’uomo deve interrogare il suo egoismo, le sue prevaricazioni, la sua politica, le sue oppressioni e ingiustizie, la sua scienza distruttrice.
Detto questo, bisogna però riconoscere che c’è – per usare un’espressione del commento a « Giobbe » del filosofo francese Philippe Nemo – un « eccesso di male » che deborda dall’azione e dalla responsabilità umana. È appunto il « libro di Giobbe » a porre sul tappeto questa interrogazione per ragioni strettamente teologiche, cioè per scoprire il vero volto di Dio. Infatti, il testo di Giobbe – equivocato come simbolo di pazienza (cfr. Gc 5,11) – è una ricerca lacerante della genuina realtà divina che nel dolore appare in modo scandalosamente sconcertante: «La rabbia di Dio mi perseguita per dilaniarmi, contro di me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi. Ero sereno e lui mi ha stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb 16,9.12-14). Dio, quando si ha la pelle torturata dal dolore, non è visto come un padre, ma come un imperatore trionfatore, come un arciere sadico che trafigge l’uomo senza pietà. In quei momenti l’unica preghiera è solo una domanda di tregua: «Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). «Inghiottire la saliva» è un curioso modo orientale per indicare un istante di respiro e di tregua.
Per l’uomo tormentato dalla sofferenza l’unico spiraglio liberatore sembra essere la morte: «Se devo sperare, è solo l’Ade la mia casa, nelle tenebre stenderò il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: Padre mio sei tu! Ai vermi: Madre mia, sorelle mie!» (17,13-14). Giobbe nel dolore si spoglia di qualsiasi appoggio umano e spirituale. Il suo itinerario è quello della fede pura e nuda, priva di facili appoggi, lontana dagli schemi freddi che gli amici teologi gli oppongono per spiegare il mistero del male. Ed è proprio attraverso la povertà assoluta del soffrire che Giobbe giunge al vero Dio. Verso di lui l’uomo apre un’offensiva processuale per farlo deporre in un’ideale assise giudiziaria perché giustifichi il suo strano infierire sull’uomo: «Ecco qui la mia firma. L’Onnipotente mi risponda! Il mio Rivale scriva il suo protocollo! Sono pronto a rendergli conto di tutti i miei passi; come un principe, mi presento davanti a lui» (31,35.37).
E sorprendentemente Dio accetta di fare la sua deposizione, imboccando la via del dialogo. Il Signore pronunzia due discorsi monumentali, che sono anche le pagine poeticamente più alte del libro. Da quelle strofe grandiose emerge il mondo delle meraviglie cosmiche (terra, mare, astri, costellazioni, aurore, leoni, ibis, gazzelle, struzzi, bufali, cavalli, camosci), ma anche tutta la sfera delle energie caotiche e negative che attentano allo splendore della creazione, energie personificate nei due mostri simbolici Behemot e Leviatan (capitoli 38-41). Giobbe è un pellegrino stupito tra questi misteri, di cui egli non sa sondare che qualche particella microscopica mentre Dio li percorre totalmente con la sua onniscienza e onnipotenza.
Giobbe, allora, comprende che, accanto alla piccola logica dell’uomo che riesce solo a comprendere e a sistemare piccoli frammenti della realtà e che quindi ha ragione di trovarsi a disagio di fronte al male, esiste un grande e superiore « progetto » di Dio, infinitamente più completo e invalicabile ai nostri piccoli schemi. Questo progetto divino è capace di collocare al suo interno anche gli aspetti che a noi risultano debordanti o inutili o dannosi. Gli amici di Giobbe si illudevano, come molti « consolatori », di conoscere questo progetto identificandolo con le loro facili spiegazioni teologiche, soprattutto con la già menzionata teoria della retribuzione per cui ogni dolore è generato da una colpa. Ma la realtà li smentiva, come smentiva anche Giobbe, quando credeva che non esistesse nessuna via per sistemare la sofferenza nell’arco della storia della salvezza. Il dolore non è, quindi, spiegato a Giobbe ma, incontrando il vero Dio, Giobbe comprende che il Dio infinito e sapiente potrà inquadrarlo nel suo supremo disegno di salvezza. Solo così Giobbe si abbandona alla mano divina.

Una teologia del dolore
Con Giobbe, dunque, si passa da un’antropologia della sofferenza a una vera e propria teologia. Egli è fermamente convinto che, proprio perché « mistero » terribile e supremo, la realtà del dolore non può essere « razionalizzata », addomesticata attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ’esah, una « razionalità » da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto. E Giobbe, allora, resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce « logicamente » la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la sua autentica fede.
In questa stessa linea nettamente teologica – che corre accanto a quella più « filosofica » della retribuzione, della sofferenza come catarsi e pedagogia dell’uomo (così l’ultimo amico di Giobbe, Elihu), del limite creaturale (Qohelet) – si colloca la figura del Servo sofferente del Signore cantato da Isaia in quattro carmi (capitoli 42; 49; 50; 53), figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo. Noi seguiremo ora il fondamentale quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Egli nasce come un virgulto in un deserto solitario, ma cresce e si configura come un essere «disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire». Ma quella sofferenza non è frutto della punizione di una colpa, come insegnava la citata tesi della retribuzione legata al binomio « delitto-castigo ». È il peccato degli altri che viene espiato da quel giusto. Il suo dolore è salutare per noi tutti, dà salvezza e pace, genera in noi pentimento e perdono.

Crocifisso, mosaico. Basilica di San Marco (Ve).
«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (versetti 4-5). La sua donazione è totale e docile come quella dell’agnello sacrificale che vede irrompere su di sé la spada del sacerdote. E ciò che attende il Servo è ormai la morte e la sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è buttato nella fossa dei perversi, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (versetto 9). Ma la morte non è la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva. Ora il Servo giusto contempla la luce, si sazia nella dolcezza della gloria che è il vedere Dio. «Il giusto mio servo giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità» (versetto 11). La cornice conclusiva del carme ribalta la vicenda e presenta l’innocenza del Servo, la cui sofferenza espiatrice ha liberato gli uomini peccatori.
La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio. Per questa pagina del Secondo Isaia, allora, il dolore ha in sé una forza insospettata, una fecondità straordinaria che aiuta il compiersi della storia della salvezza. Per vie misteriose il soffrire unisce intimamente a Dio e produce al tempo stesso solidarietà salvifica coi fratelli. Apparentemente la sofferenza sembra una maledizione, in realtà essa diventa un principio di vita, come avviene per i dolori del parto (cfr. Gv 16,21).

La compagnia di Cristo
Una delle grandi figure della letteratura spirituale e filosofica del ’900 è stata certamente Simone Weil, una donna di straordinaria intensità umana, di origine israelitica, impegnata nel mondo sociale e politico, vissuta lungamente in contatto con l’esperienza cristiana e autrice di opere folgoranti. In uno di questi suoi scritti la Weil osserva: «La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa, in quale epoca, non importa in quale Paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità». Queste parole ci invitano a portare il nostro viaggio all’interno del pianeta oscuro del dolore « secondo le Scritture », fino all’ultima tappa della Bibbia, quella del Nuovo Testamento.
Durante la sua vita terrena Cristo ha messo al centro della sua attenzione proprio il mistero del dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in compagnia di malati. C’è stato un teologo, René Latourelle, che ha scritto: «Eliminare i miracoli di Gesù dai vangeli sarebbe come immaginare l’Amleto di Shakespeare senza Amleto». E i miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari autopromozionali, destinati a sollecitare applausi e successi (quante volte Gesù impone il silenzio al malato guarito!), ma piuttosto orientati a liberare l’uomo dal male e dal dolore.
Emblematico di questa vicinanza del Cristo ai sofferenti è il suo atteggiamento nei confronti dei lebbrosi. Essi erano non solo dei malati ma degli scomunicati. Secondo le prescrizioni ufficiali della legge biblica dovevano vivere ai margini delle città, isolati dal loro passato e da ogni affetto; dovevano segnalare la loro presenza qualora sulla loro strada si fosse presentata una persona sana (Lv 14). La lebbra, infatti, era considerata – secondo la teologia « retribuzionistica » dell’Antico Testamento – frutto di una colpa gravissima di cui diventava punizione ed espiazione. Gesù, invece, spazzando via tutte queste remore, non solo si avvia sulla strada di questi « appestati », ma… Ascoltiamo la narrazione di Marco (1,41-42): «Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì».
Di fronte a un morbo, che oggi potremmo comparare al grande incubo dell’Aids, Gesù non si lascia coinvolgere in sofismi religiosi, non si fa tentare da preoccupazioni artificiose di autodifesa come fanno certi cristiani benpensanti, ma è pronto subito a condividere, a curare, ad amare. E, così, davanti a Gesù sfilano poveri, malati, angosciati, persone colpite da mali morali, fisici, sociali e psichici. Per tutti egli ha una parola e un gesto di speranza, proponendo così alla sua Chiesa di essere sempre accanto a chi soffre, anzi di considerare questi «fratelli più piccoli» la realtà più preziosa del Regno di Dio.
Possiamo, allora, dire che in Gesù è Dio stesso che viene incontro all’umanità sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva, destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. Nel ritratto della Gerusalemme celeste, simbolo del mondo che Cristo ha inaugurato e che noi dobbiamo collaborare a costruire, l’Apocalisse ci offre questo profilo: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,3-4).
Cristo, però, sperimenta non solo all’esterno, ma anche in se stesso la forza tenebrosa del dolore. Egli piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro; egli sa che «deve molto soffrire ed essere respinto e poi venire ucciso» (Mc 8,31). E soprattutto egli entra nella passione che è un itinerario continuo di sofferenze, è la « via dolorosa », la « via crucis » per eccellenza. È un’esperienza condotta nella solitudine, anche degli amici più cari («Non siete stati capaci di vegliare una sola ora?»), nel silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), nella lotta fisica dell’agonia (il sudore di sangue), nelle torture (flagellazione e incoronazione di spine), nella crocifissione, nella catastrofe finale della morte.
Un personaggio di un film di Bergman, il sagrestano di Luci d’inverno, al pastore in crisi di fede ricorda la scena della sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». Eppure era proprio passando attraverso il dolore e la morte, qualità « impossibili » a Dio, che Cristo diventava veramente uno di noi e poteva liberare e salvare attraverso la sua divinità la nostra miseria, il nostro limite, il nostro male.
In questa luce il dolore diventa il segno supremo d’amore e di fraternità del Cristo nei confronti dell’uomo. Non per nulla egli aveva ripetuto durante la sua vita terrena: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È illuminante, al riguardo, quanto scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg ove sarebbe stato, di lì a poco, impiccato: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza». La frase è certamente paradossale, ma coglie una dimensione fondamentale dell’Incarnazione: Cristo ci aiuta, capisce il nostro dolore, lo può fare perché l’ha incontrato e l’ha vissuto come noi. E questa solidarietà del Figlio di Dio è efficace e liberatrice.
In tale luce è comprensibile la dichiarazione di Paolo: «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Anzi, l’apostolo può scrivere questa frase sorprendente: «Io gioisco nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Questa dichiarazione non va intesa, ovviamente, nel senso che la passione di Cristo sia incompleta o che possa mancare qualcosa alla sua croce: la morte e la risurrezione di Gesù sono, infatti, l’evento definitivo della salvezza. Il credente soffre in comunione con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa, e anche il suo dolore acquista valore redentivo: la redenzione, infatti, pur compiuta nella morte e nella gloria di Cristo, si distende nel tempo e nello spazio dell’umanità.

Le lacrime nell’otre di Dio
Al termine di questo lungo viaggio nella galleria oscura della sofferenza, facciamo risuonare le Beatitudini di Cristo. Esse sembrano una voce lontana dal groviglio della vita, delle paure e delle sofferenze: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati… Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Mt 5,4; Lc 6,21). Queste parole, però, non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza». Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili. Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé.
Ma, proprio perché egli è il Figlio di Dio, attraverso il dolore e la morte, ha lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. L’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza. L’esperienza del dolore può essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci costringe e ci soffoca.

D. Bonhoeffer con dei ragazzi (1932).
L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro del nulla e del non-senso, ma la liberazione definitiva del male, come ci ricorda l’Apocalisse (21,4). Ora, durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nell’otre suo le lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Sal 56,9). Ci è, quindi, solidale e compagno di strada, in attesa di condurci verso la nuova creazione che redime ogni male. Noi non dobbiamo «avere speranza in Cristo soltanto in questa vita», perché, come osserva Paolo, «saremmo da compiangere più di tutti gli uomini»; dobbiamo, invece, sperare nella meta della storia, segnata già dalla Pasqua di Cristo: là «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,19.28).
Tutti coloro che, durante l’itinerario della storia, curano i malati e sono vicini a chi soffre non fanno che anticipare la meta del Regno di Dio, la costruiscono con le loro mani, accanto alle mani decisive di Dio. Sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il dolore, è una continuazione dell’opera di Cristo ed è un’anticipazione della liberazione offerta dal Regno. Tergere le lacrime dagli occhi dei sofferenti è compiere lo stesso gesto che Dio riserverà alla fine del tempo (Is 25,8; Ap 21,4). È in questa luce che a tutti costoro è riservata la citata benedizione di Cristo re: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Gianfranco Ravasi

G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

http://gpcentofanti.wordpress.com/2014/01/20/g-ravasi-san-paolo-su-anima-e-corpo/

G. RAVASI. SAN PAOLO SU ANIMA E CORPO

Di Pmartucci

Come spesso gli accadeva, san Girolamo era stato sbrigativo: san Paolo «non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto», “non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato”. Questo può essere vero per lo stile, meno per l’uso della lingua greca che egli aveva in realtà assunto e plasmato con molta originalità, assegnando a vari termini nuove e originali accezioni. Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte. A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo. A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato. Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8,16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5,16-17). L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia. Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1,27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15,49). Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento. Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale. Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere. Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44). Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la suapsyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino. Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata. È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).  

Gianfranco Ravasi

LA LETTERA AGLI EFESINI – IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO (di Mons. G. Ravasi)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/Anno%20Pastrorale.htm#vita

LA LETTERA AGLI EFESINI

ANNO PASTORALE 2001-2002

PAOLO SI RACCONTA …

IL PENSIERO POSSENTE DI S.PAOLO

La Lettera agli Efesini di San Paolo

In alcuni importanti codici antichi, che ci hanno trasmesso le sacre Scritture, nell’indirizzo iniziale di questa lettera manca l’indicazione « a Efeso », per cui si è pensato che essa sia stata originariamente una missiva destinata alle varie Chiese dell’Asia Minore costiera, che avevano il loro centro più significativo nella splendida città di Efeso. Certo è che la lettera si rivela profondamente originale nel linguaggio e nei temi, tanto da far ipotizzare a molti studiosi che essa sia opera di una mano diversa rispetto a quella di Paolo, forse un discepolo che conduce oltre il discorso del maestro. Questo naturalmente non intaccherebbe l’ispirazione e quindi l’appartenenza al Canone biblico della lettera che, tra l’altro, è molto vicina a quella ai Colossesi (probabilmente conosciuta e citata).
Comunque sia, la lettera, che consigliamo vivamente a tutti di leggere, è particolarmente densa e ricca di temi e si rivela nettamente divisa in due parti: i primi tre capitoli affrontano i grandi argomenti teologici, mentre i capitoli 4-6 sono dedicati a illustrare l’impegno morale del cristiano nella sua vita di fede. L’accento è posto su due motivi teologici capitali. Da un lato, si apre una profonda riflessione sulla figura di Cristo, presentato come Signore di tutto l’essere creato e non solo della Chiesa, e cantato in un solenne inno-benedizione posto proprio in apertura alla lettera (1,3-14).
Gesù Cristo è, d’altro lato, alla radice del secondo motivo teologico, quello della Chiesa, che è costituita da Giudei e pagani ornai uniti in un solo corpo che è quello di Cristo, nel quale, però, diversamente da quanto già detto nella prima lettera ai Corinzi (capitolo 12), egli ha la funzione di essere il « capo » (1,22). L’unità di questo corpo, nel quale si manifesta la pienezza della divinità, è operata da Cristo stesso « nostra pace », che ha riconciliato i due popoli separati, Ebrei e pagani, in un solo popolo attraverso il suo sangue (2,14-22). E questa la Chiesa, che dall’apostolo viene presentata come « tempio santo nel Signore » (2,21).
Vivace è anche la parte pastorale della lettera ove, tra l’altro, viene disegnato un « codice » dei doveri familiari (5,21-6,9), che ha al suo interno una suggestiva presentazione del matrimonio cristiano, come grande segno dell’unione vitale tra Cristo e la Chiesa. Uno scritto, quindi, ricco sul piano del « mistero » divino, che è rivelato da Gesù Cristo e che comprende la salvezza di tutti, inclusi i pagani, e sul piano della vita cristiana da condurre in pienezza, come creature che hanno « deposto l’uomo vecchio » per « rivestire l’uomo nuovo » (4,22-24).

IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO

(di Mons. G. Ravasi)

1 Brevi sono il saluto e l’augurio di apertura di questa lettera. Ben più solenne è, invece, la benedizione iniziale, che ha l’andatura di un inno e si presenta come uno splendido abbozzo del disegno di salvezza rivelato e attuato in Cristo. Dall’orizzonte celeste, cioè dal mistero trascendente di Dio, scendono le benedizioni “spirituali”, cioè i doni di santità che trasformano i credenti. Si delinea, così, l’itinerario a cui essi sono chiamati all’interno del progetto di Dio: prima ancora della loro esistenza, Dio li aveva scelti e destinati a divenire figli adottivi attraverso Cristo; tutto questo avrebbe realizzato la piena gloria di Dio che si compie nel suo donarsi all’umanità, nel suo amore rivelato in Gesù, il Figlio «Prediletto». La salvezza dell’uomo è, quindi, la gioia, la lode, la gloria più alta di Dio.
E questa salvezza si attua attraverso la morte di Gesù, sorgente della redenzione, del perdono e della grazia effusa nell’umanità. Noi conosciamo, dunque, «il mistero della volontà» divina perché non solo ci è stato rivelato, ma anche perché lo viviamo all’interno della storia. Infatti, la «pienezza dei tempi» è l’ingresso di Cristo nel mondo per trasformare la realtà umana secondo il disegno prestabilito fin dall’eternità da Dio. Tutti noi siamo “ricondotti” in Cristo insieme con l’intero universo creato: l’immagine usata rimanda al «capo» che tiene coeso il corpo. Ogni realtà è destinata a trovare senso e unità in Cristo, costituito da Dio come capo unico e universale.
È interessante notare come Paolo in questa visione grandiosa della salvezza sottolinei un aspetto che gli sta a cuore. In 1,11-13 distingue, infatti, due pronomi: da un lato, c’è il «noi», i primi eredi della promessa divina, cioè gli Ebrei, coloro che hanno alimentato la speranza messianica prima della venuta di Cristo; d’altro lato, c’è il «voi», cioè l’orizzonte dei pagani, che hanno ascoltato e accolto nella fede «la parola della verità», il vangelo, e così sono stati consacrati dallo Spirito Santo. L’apostolo passa poi a un ringraziamento per la fede e l’amore testimoniato dai cristiani di Efeso, ai quali augura di ottenere una pienezza nella conoscenza del mistero di salvezza, che ha al centro la risurrezione di Cristo. Essa è cantata in 1,20-23 in una specie di professione di fede di tono innico, dalla quale emerge la figura del Risorto che è il Signore di tutto l’universo e di tutte le sue energie, ma che è anche il capo di quel corpo che è la Chiesa.

DALLA MORTE ALLA VITA PER ESSERE UNA COSA SOLA IN CRISTO
2 Nel capitolo 2, continuando l’intreccio dei due pronomi «noi» e «voi», si esalta la redenzione operata da Cristo per l’umanità peccatrice, sia ebraica sia pagana. L’amore misericordioso di Dio ci ha strappato a Satana, «il principe delle potenze dell’aria», e ci ha fatto partecipare alla stessa vita di Cristo attraverso l’esperienza battesimale che ci ha condotto alla gloria della risurrezione. La salvezza è, quindi, non solo liberazione dal male, ma anche intimità, comunione, partecipazione alla vita divina.
In un linguaggio tipicamente paolino si ribadisce la vicenda della salvezza, che è dono della grazia divina a chi risponde con la fede, e che non è frutto delle opere umane. La centralità di Cristo è ribadita in una pagina di grande intensità, che ha in qualche sua parte un’andatura innica e lirica. Il tema fondamentale della salvezza è considerato secondo un’angolatura che è già stata adottata precedentemente: con la sua morte in croce, Cristo ha costituito un’unica comunità, cancellando le divisioni tra i circoncisi e coloro che erano «stranieri ai patti della promessa», cioè tra Ebrei e pagani. Cristo è, allora, definito come la «pace» per eccellenza, che, nella tradizione biblica, era il tipico dono messianico (Isaia 9,5; Michea 5,4).
Egli ha abbattuto le barriere che dividevano questi due popoli: «il muro di separazione» a cui Paolo fa riferimento potrebbe alludere sia alla legge mosaica sia al setto divisorio posto tra il cortile degli Ebrei e quello dei pagani nel tempio erodiano di Gerusalemme, parete invalicabile, pena la condanna a morte. Cristo ha anche eliminato le osservanze legali che caratterizzavano la religiosità giudaica, e ha fatto sì che tutti si ritrovassero uniti, i vicini e i lontani (vedi Isaia 57,19 e Zaccaria 9,10), destinati a costituire un solo corpo, a essere concittadini e familiari di Dio, appartenenti alla stessa comunità che è la Chiesa, la famiglia di Dio. Tutti costituiscono un tempio vivo, che ha la sua pietra angolare in Cristo e il basamento negli apostoli e nei profeti, cioè negli annunciatori del vangelo (vedi 1Corinzi 3,10-11.16). La rappresentazione di questa unità generata dalla croce di Cristo è preziosa per definire la missione di Paolo aperta ai pagani.

PAOLO, APOSTOLO DEL MISTERO DI CRISTO
3 Egli, infatti, è stato chiamato da Dio proprio a svelare il «mistero di Cristo» che ha nel suo cuore la salvezza universale: «I pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e a essere partecipi della promessa» (3,6), cioè a fruire della dignità donata al popolo ebraico e, così, a costituire l’unico popolo di Dio che è la Chiesa, corpo di Cristo. A questo annunzio l’apostolo ha dedicato se stesso perché il disegno divino, che era celato nel mistero, venisse reso noto a tutti, anche alle potenze cosmiche e celesti, e attuato nella storia. A questo punto Paolo rivolge un’appassionata preghiera a Dio Padre, creatore di tutti gli esseri, perché trasformi la coscienza dei cristiani così da giungere alla piena maturità della fede e dell’amore. Potranno allora scoprire il cuore profondo del mistero divino, che è l’infinito amore di Dio offerto a noi in Cristo, un amore che ci avvolge conducendoci alla pienezza, un amore totale che abbraccia tutto l’essere, rappresentato secondo le quattro dimensioni sotto le quali la tradizione popolare concepiva la realtà: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità. Con un’acclamazione di lode finale a Dio Padre (3,20-21) si chiude la prima parte della lettera.

LE ESIGENZE DELLA VITA CRISTIANA
4 Con il capitolo 4 si apre una seconda parte della lettera, di taglio più esistenziale: si intende delineare un profilo della vita cristiana, fondata sull’unità di tutti i credenti nell’unico corpo di Cristo. Si ha innanzitutto un appello a riscoprire questa «unità dello spirito», rafforzata dal «legame della pace», ricordando la sua sorgente, cioè l’unico Dio che agisce in tutti, l’unico Cristo Signore e Salvatore, l’unica fede e l’unico battesimo. Se tutti hanno ricevuto la grazia, ciascuno la manifesta secondo forme diverse che sono espressioni dei doni divini effusi dal Cristo risorto (si cita nel versetto 8 il Salmo 68,19 in modo libero, applicandolo all’ascensione e alla glorificazione celeste di Cristo).
Paolo elenca cinque doni spirituali che costituiscono altrettanti ministeri destinati a condurre alla maturità cristiana tutta la comunità dei credenti: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Ma il modello che tutti dobbiamo tenere davanti agli occhi per raggiungere la maturità della fede è Cristo stesso, che è la pienezza per eccellenza. Solo con questa meta passiamo dall’infanzia, che è ancora debolezza e immaturità, alla maturità. E la via per raggiungere questa completezza spirituale è la «verità nell’amore». Solo così si configura il corpo di Cristo nella sua armonia e nella sua perfetta compagine. Si presenta in questa pagina il tema del corpo di Cristo che è la Chiesa in un modo lievemente differente rispetto a 1Corinzi 12. Là, infatti, la Chiesa era il corpo di Cristo in modo globale; qui si dice che Cristo è il capo e i cristiani sono il corpo. Comune è, però, il rilievo dato all’amore come anima dell’intero organismo.
Si passa poi a una riflessione sull’esperienza battesimale vissuta dai fedeli. Essa è stata una svolta radicale che ha totalmente mutato la realtà dell’uomo. Il battezzato, infatti, deve lasciare alle spalle «l’uomo vecchio», con la sua miseria e il suo peccato, e deve rivestire la qualità di «uomo nuovo», che è il profilo voluto da Dio creatore e che è la condizione umana inaugurata e attuata dalla morte e risurrezione di Cristo. Il tema delle due creature, la vecchia e la nuova, la peccatrice e la redenta, era già apparso in Romani 6,4-6, in 2Corinzi 5,17 e riapparirà in Colossesi 3,10.
Questo mutamento radicale che si è compiuto nel cristiano deve generare un differente comportamento morale, che la lettera esemplifica in alcuni impegni che rimandano al Decalogo e a moniti presenti già nell’Antico Testamento. Si citano, infatti, Zaccaria 8,16 sull’impegno di servire la verità e il Salmo 4,5 per quanto riguarda l’ira; ma si evoca anche il «non rubare», il «non pronunziare falsa testimonianza» del Decalogo e l’esortazione, frequente nella Bibbia, a combattere il peccato di parola. In particolare, in questa che è una nuova lista di vizi da evitare, si sottolinea l’importanza dell’amore e della concordia fraterna, la cui assenza rattrista lo Spirito Santo che è effuso in noi.

IL COMPORTAMENTO DEL CRISTIANO
5 L’amore è, infatti, il cuore della morale cristiana. Il modello ideale è Cristo, che si è donato a noi attraverso la morte in croce, definita come «sacrificio di soave odore», cioè come una vittima sacrificale gradita a Dio e capace di cancellare ogni peccato (per l’espressione usata, tipica dell’Antico Testamento, vedi Genesi 8,21; Esodo 29,18; Salmo 40,7). Il cristiano, purificato da questo atto d’amore divino, deve abbandonare lo stile di vita precedente, che l’apostolo illustra attraverso alcuni vizi emblematici del paganesimo come volgarità, impurità, idolatria. Queste realtà impediscono il legame con Cristo e quindi con la vera vita e la luce. Si ricorre, infatti, alla tradizionale opposizione ­ cara anche al giudaismo ­ tra tenebra e luce, come simboli di due stati di vita antitetici.
I cristiani nel battesimo sono stati illuminati da Cristo e, perciò, dalla tenebra sono divenuti «luce nel Signore» (vedi 1Tessalonicesi 5,4; Romani 13,12; Colossesi 1,12-13). Come conferma si cita un frammento di inno battesimale presentato quasi come fosse una parola biblica («sta scritto» è la formula introduttoria alle citazioni bibliche): immersi nelle tenebre del sonno e della morte, noi siamo risorti e abbagliati dalla luce di Cristo. Si precisa, allora, come dev’essere la vita dei figli della luce. Paolo segnala due atteggiamenti fondamentali.
Da un lato, bisogna fare buon uso del tempo, cioè di questa èra di salvezza in cui ci ha introdotto la Pasqua di Cristo. In essa bisogna scorgere e seguire la volontà di Dio, che ci conduce alla pienezza della vita. D’altro lato, è necessario lasciare spazio allo Spirito che trasforma l’esistenza del credente in un canto di lode e ringraziamento a Dio. Il discorso si fa ora ancor più concreto e si delinea una specie di tavola dei doveri della vita familiare (vedi anche Colossesi 3,18-4,1). Si devono, però, notare due differenze rispetto ai paralleli del mondo giudaico e greco-romano: si sottolinea la reciprocità dei doveri degli sposi, nonostante il contesto maschilista in cui l’apostolo viveva (che pure lascia qualche traccia); inoltre, Gesù Cristo diventa il riferimento fondamentale su cui vivere l’esperienza d’amore, essendo egli la fonte della carità.
È per questo che la considerazione sui doveri dei mariti verso le mogli si trasforma in una catechesi sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, sua sposa, purificata attraverso il lavacro battesimale. Il matrimonio diventa, perciò, simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa, il “grande mistero”, come lo chiama Paolo, cioè il mirabile disegno salvifico di Dio. L’uso dell’immagine nuziale per rappresentare la relazione tra Dio e Israele era già stato praticato dall’Antico Testamento (vedi, ad esempio, Osea 1-3). Ora il matrimonio cristiano ­ illustrato sulla base di Genesi 2,24 ­ diventa segno della nuova alleanza ed è in questa luce che il passo è stato letto come la base della visione sacramentale dell’unione matrimoniale cristiana.

ALTRE ESORTAZIONI E SALUTO
6 Dal rapporto tra i coniugi la “tavola” dei doveri familiari delineata dall’apostolo passa a quello tra i figli e i genitori, con un rimando esplicito al comandamento, presente nel Decalogo (Esodo 20,12), di onorare il padre e la madre. Tuttavia anche in questo caso si esalta la reciprocità: i genitori devono educare i loro figli senza esasperarli. Si riserva poi spazio al settore delle relazioni tra schiavi e padroni. È un’esortazione che risente del contesto storico in cui vive la Chiesa delle origini. Ma c’è una sottolineatura nuova e significativa. Da un lato, lo schiavo deve compiere il suo lavoro con onestà, consapevole che ogni azione del cristiano ha un valore agli occhi di Dio. Dall’altro lato, i padroni devono comportarsi senza violenze o minacce, perché c’è sopra di loro un Signore di tutti che non guarda allo stato sociale o di privilegio, ma giudica ognuno con giustizia.
Conclusa la “tavola” degli impegni del cristiano nella famiglia e nella società, la lettera si avvia alla fine con un’ampia esortazione ad affrontare con decisione la lotta spirituale contro il male, che insidia la vita del credente. Paolo fa esplicito riferimento al diavolo e alle forze oscure che dominano la storia. Egli le denomina secondo il linguaggio apocalittico come principati, potenze, dominatori del mondo tenebroso in cui siamo immersi, e spiriti del male che, invece, trascendono il nostro orizzonte terreno. Si ricorre, così, alla simbologia marziale dell’armatura da indossare. Anche Dio nell’Antico Testamento era raffigurato come un guerriero che si schierava, con il suo re-Messia, a difesa del bene e dei giusti contro l’assalto del male (Isaia 11,4-5; 59,16-18; Sapienza 5,17-23).
Le armi del cristiano sono la verità come cintura, la giustizia come corazza, le calzature per annunziare il vangelo, la fede come scudo, la salvezza come elmo, lo Spirito e la parola di Dio come spada (vedi anche 1Tessalonicesi 5,8). La lotta spirituale dev’essere sostenuta dalla preghiera allo Spirito Santo, perché sia vicino a tutti coloro che annunziano il vangelo. Paolo si colloca tra costoro ed è presentato dalla lettera «ambasciatore in catene» del messaggio di Gesù: anche se non si è certi su questa carcerazione (quella romana o un’antecedente prigionia, forse efesina), è sulla base di questa nota che si colloca lo scritto agli Efesini tra le cosiddette “lettere dalla cattività” (o prigionia).
La lettera è chiusa da un intenso saluto. Al suo interno c’è una particolare esaltazione dell’amore «incorruttibile» che deve unire il cristiano al suo Signore. Prima, però, si fa riferimento a un collaboratore dell’apostolo di nome Tichico, inviato come delegato di Paolo. Egli espleterà la stessa missione anche nei confronti dei cristiani di Colosse (Colossesi 4,7): era, perciò, un rappresentante dell’apostolo nell’area dell’Asia Minore o almeno in alcuni ambiti di essa, nei quali egli comunicava ufficialmente notizie e messaggi paolini.

PAOLO APOSTOLO DI GESÙ CRISTO E DELLE GENTI, IERI E OGGI
Quando appare sul quadrante della nostra storia, Saulo, o con il nome latino Paolo, ha circa 30 anni.
Cartina geograficaA mezzogiorno. Sulla via che va da Gerusalemme in Giudea a Damasco in Siria (240 km circa). Giovane dottore in Legge, zelante difensore delle tradizioni dei padri nella fede, su quella via di Damasco insegue successo e gloria. Si, quel giorno sognato e atteso doveva segnare sull’agenda personale una specie di solenne collaudo del suo primo nome, Sha-ù-l o Saulos (At 7,58). Nome semitico che significa ‘invocato con preghiere, desiderato ‘ e che lo faceva sentire importante nella storia del suo popolo: Sha-ù-l era il nome del primo grande re d’Israele!
« Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, educato nella città di Gerusalemme, istruito ai piedi di Gamaliele nelle rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio… »(Atti degli Apostoli, capitolo 22).
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, quando ero nel Giudaismo: come perseguitavo la Chiesa di Dio, accanito com’ero nel difendere le tradizioni dei padri… Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò a sé con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo, perché io lo annunziassi ai pagani, io subito andai in Arabía… poi tornai a Damasco… Dopo tre anni salii a Gerusalemme a consultare Cefa… Personalmente ero sconosciuto alle chiese della Giudea che sono in Cristo: avevano solo sentito dire: « colui che un tempo ci perseguitava adesso annuncia quella fede che allora cercava di distruggere », e glorificavano Dio a causa mia. (lettera ai cristiani della Galazia, capitolo 1,13-24)Paolo prigioniero per Cristo, dipinto di Rembrant
Messo a ko sul ring della via di Damasco da Gesù di Nazaret, Colui che egli considerava il suo più grande rivale, tutta l’esistenza di Saulo si qualifica ormai in prima e dopo Damasco. E per amore di Gesù ‘il mio Signore’ diventa volontariamente il più piccolo colui che, per amore di se stesso, mirava con tutto l’essere a diventare il più grande
A me, il più piccolo di tutti (= paulissimus!) è stata concessa questa grazia: di annunziare a tutte le genti la straordinaria ricchezza che è Cristo Gesù. (Lettera ai cristiani di Efeso 3,8; vedi Lettera ai cristiani di Filippi 3).

COME SI SCRIVEVA AI TEMPI DI PAOLO, DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.gliscritti.it/blog/entry/464

COME SI SCRIVEVA AI TEMPI DI PAOLO, DI GIANFRANCO RAVASI

Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /06 /2010

Riprendiamo dal volume Sulle orme di Paolo, III, pp. 86-91, allegato alla rivista “Jesus”2009, un articolo di Gianfranco Ravasi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (12/6/2010)

Ora leggiamo le Lettere di Paolo tradotte e stampate nelle varie lingue. Ma vediamo come nascevano in originale, scritte a mano in lingua greca su fogli di papiro, più di venti secoli fa. Nel 1933 veniva pubblicata un’opera molto dettagliata di un autore tedesco, O. Roller, sul Formulario delle lettere paoline, in cui lo studioso affrontava per la prima volta in maniera sistematica la questione: come materialmente venivano stesi gli scritti paolini? Era un’operazione molto più complessa di quanto si possa oggi immaginare. Secondo Roller, Paolo avrebbe dettato a uno scrivano (il librarius latino) alcune lettere: precisamente, la seconda ai Tessalonicesi, la prima ai Corinzi, quella ai Galati, il biglietto a Filemone e l’ultima parte della Lettera ai Colossesi; a questi scritti egli avrebbe poi apposto la firma autografa, per autenticarli. E gli autografi sono: « Il saluto è di mia mano, di Paolo» (1Corinzi 16,21); «Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo » (Colossesi 4,18); «Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così» (2Tessalonicesi 3,17). Il biglietto a Filemone è stato scritto probabilmente tutto da Paolo (« di mio pugno», leggiamo al versetto 19), mentre nella Lettera ai Galati troviamo questa curiosa annotazione: « Osservate con che grossi caratteri vi scrivo di mio pugno» (6,11). [...] Per le altre lettere, invece, Roller introduceva un’ipotesi piuttosto azzardata, dicendo in sostanza: esse non sono state scritte né dettate da Paolo, il quale ne abbozzava l’argomento, la struttura e le idee fondamentali, affidandone poi la stesura effettiva a un segretario, lo scriba vero e proprio, un uomo libero, preparato, spesso assunto anche come funzionario statale, archivista, contabile, eccetera. (Negli Atti si ricorda l’opera mediatrice di uno di questi scribi, durante il tumulto degli argentieri contro Paolo a Efeso). Lo scriba, dunque, sempre secondo Roller. sviluppava il testo creando una composizione completa, che poi veniva sottoposta al giudizio e alla firma di Paolo. Uno di questi segretari usati dall’Apostolo emerge dall’anonimato nella Lettera ai Romani (16,22) annotando: «Io, Terzo, che ho scritto la lettera vi saluto nel Signore». Questa tesi dello studioso tedesco, tuttavia, fu rifiutata dalla maggior parte degli altri studiosi paolini, i quali ancora oggi sostengono che le lettere venivano dettate da Paolo e munite poi del suo avallo autografo finale; forse si potrebbe ammettere l’intervento di uno scriba-segretario per il gruppo di lettere dette « pastorali », sensibilmente diverse per stile e impostazione ideologica dalle altre. (Inoltre, […] per questo gruppo di lettere si pensa anche all’opera di discepoli dell’Apostolo, di una « scuola » paolina che le avrebbe redatte, avvalorandole con il suo nome). Dettatura, dunque. E qui bisogna tener presente che a quel tempo erano già noti e praticati sistemi di scrittura veloce, di stenografia. Orazio, per esempio, ci riferisce che Lucilio riusciva a dettare in una sola ora ben duecento versi, mentre Cicerone (secondo Plutarco) in una notte ne dettava cinquecento. E la bravura, evidentemente, era di chi scriveva con quei ritmi. Il materiale sul quale normalmente si scriveva era il papiro, ricavato dall’omonima pianta, importato soprattutto dall’ Egitto. Il nome, come si sa, è restato fino ai nostri giorni per indicare la carta nell’inglese paper, nel tedesco papier e nel francese papier. Il foglio o rotolo di papiro aveva la forma standard di 11 metri di lunghezza per 3 di altezza e veniva più volte piegato, tagliato e arrotolato infine attorno a un’asta dalla quale veniva « svolto » per la scrittura e la lettura. L’asta era chiamata « capitolo » e ad essa probabilmente allude Paolo nella Lettera agli Efesini, quando parla del «disegno di Dio di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (1,10). Nell’antico Egitto, però, si usavano fogli di papiro lunghi sino a 42 metri e alti 5. La preparazione del papiro avveniva asportando la corteccia dell’albero omonimo e tagliando a strisce il midollo. Le strisce venivano disposte in file leggermente sovrapposte l’una sull’altra, così da congiungersi reciprocamente, mentre un altro strato di strisce veniva disteso sul primo, ma in file orizzontali. Il foglio risultante veniva battuto e compresso: seccato e amalgamato, era pronto per l’uso. Tra i papiri antichi giunti fino a noi celebre è quello cosiddetto « di Ryland », scoperto nell’oasi egiziana del Fayyum: contiene i versetti 31-38, dal capitolo 18 del quarto Vangelo, quello di Giovanni, ed è databile attorno al 125-150. Com’è ovvio, si tratta di un documento prezioso per la ricostruzione di quel testo evangelico. l papiro – materiale economico e perciò di largo uso – era scritto solo su una facciata, non su tutt’e due. (Nell’Apocalisse, all’inizio del capitolo 5, si parla di «un rotolo scritto sul lato interno e su quello esterno», proprio per indicare il carattere eccezionale di quel documento). I testi erano redatti in colonne rigorosamente allineate, con una scrittura che attorno al III secolo dopo Cristo si differenzierà in letteraria-maiuscola (più raffinata) e corsiva. Nel II secolo a.C. l’Egitto mise l’embargo sulle esportazioni di papiro; allora – stando almeno alle informazioni di Plinio il Vecchio – il re Eumene II di Pergamo (197-159 a.C.) inventò quella che sarebbe divenuta poi la pergamena. Questo era un materiale assai più resistente del papiro, ma anche più costoso. (La più antica pergamena è stata trovata a Dura-Europos sull’Eufrate ed è del II secolo a.C.). Materia prima della pergamena è la pelle di pecora. Essa veniva innanzitutto lavata, privata dei peli, immersa nella calce, tesa poi su un telaio, raschiata, inumidita, strofinata con calce in polvere e lisciata con pomice. Alla fine di questa complessa e lunga preparazione era pronta per l’uso. La pergamena teneva l’inchiostro e aveva un altro vantaggio: era possibile cancellarvi un testo raschiandolo via e scriverne un altro; i fogli di pergamena cancellati e riscritti si chiamarono « palinsesti », che vuoi dire appunto « raschiato di nuovo ». Nelle grotte di Qumran si sono trovati testi scritti anche su cuoio. Paolo, oltre al papiro (il cui uso però durerà fino al IV secolo d.C.), conosceva anche la pergamena, come attesta la seconda Lettera a Timoteo, a cui l’Apostolo chiede di «portargli da Troade i libri e soprattutto le pergamene» (4,13). A partire dal II secolo d.C. avvenne una grande svolta nella tecnica editoriale, con l’invenzione del codex, il libro moderno che ben presto soppiantò il rotolo. Secondo alcuni studiosi, gli inventori del codice sarebbero stati proprio i cristiani, perché ci sono giunti quasi esclusivamente codici cristiani contenenti la Bibbia in greco (pensiamo ai preziosi codici Vaticano, Sinaitico e Alessandrino del IV secolo d.C.). Il codice non era più un rotolo, ma un vero e proprio fascicolo, fatto con fogli di papiro o di pergamena scritti su entrambe le facciate, alti solitamente 35 centimetri e larghi 25, ottenuti piegando più volte i rotoli. Sul papiro e sulla pergamena si scriveva con il calamo (un termine greco che signifìca « canna ») ricordato anche dalla terza Lettera di Giovanni: «Molte cose avrei da scrivervi, ma non voglio farlo con inchiostro e penna» (v. 13). Si trattava di una cannuccia tagliata obliquamente all’estremità, così da formare una punta destinata a trattenere e a far affluire progressivamente l’inchiostro. Ogni scriba portava con sé varie penne e un temperino per aguzzarle (leggiamo in Geremia 36,23: «Ora, quando Iudi aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava col temperino da scriba e le gettava nel fuoco»). L’inchiostro (in greco melan, cioè « nero »; in latino encaustum, « bruciato ») era noto in Egitto fin dalla prima dinastia (2850 a.c.) e anticamente lo si ricavava dal combusto, sciogliendone la fuliggine in una soluzione di colla. Infatti Plinio il Vecchio, nella sua Storia naturale, ricorda che i Romani usavano un liquido per scrivere, prodotto anche in colori diversi, realizzati soprattutto con elementi vegetali; il rosso però si otteneva dal cinabro, un minerale di mercurio. E già nel III secolo a.C. Filone di Bisanzio parlava dell’inchiostro simpatico, cioè incolore, a base di un estratto di noci di Galla. Lo scrittoio spesso poteva essere una tavoletta portatile legata alla cintura. Su di esso si ponevano i calamai. Sugli scrittoi del « monastero » giudaico di Qumran – usati per copiare i manoscritti biblici salvati poi dalla distruzione romana nelle grotte circostanti – sono stati trovati calamai che contenevano ancora fondi secchi di inchiostro. Paolo, proprio partendo dal simbolo di una lettera scritta con inchiostro, stende nella 2Corinzi (3,2-3) uno splendido elogio.

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