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Gal 3,26-29: “Uno in Cristo Gesù”; note al testo

dal sito:

http://www.xaverianas.com/public/pagine_bibliche/Gal%203,26-29.doc

Gal 3,26-29: “Uno in Cristo Gesù”

26 Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù,
27 quanti infatti a Cristo foste battezzati, Cristo rivestiste.
28 Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero;
non c’è maschio e femmina:
tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù.
29 Ora, se (siete) di Cristo,
allora siete seme di Abramo,
eredi secondo la promessa.

NOTE AL TESTO

26: Paolo passa al voi: il noi era in realtà ristretto ai Giudeo-cristiani, ora vuole applicare la cosa ai Galati, agli etnico-cristiani. La situazione degli ebrei era paradigmatica: indica la situazione reale di tutti gli uomini. Grazie alla legge, gli ebrei si sono resi conto di essere peccatori (cf. esperienza dell’esilio). Questo significa la situazione dell’umanità intera che è peccatrice. Quando questo popolo ha la possibilità di essere emancipato, allora tutti possono essere emancipati.
figli di Dio: espressione che si usava già nell’AT, anzitutto per gli angeli, per dire esseri celesti, non “generati da Dio”. Poi: Israele, i giusti, il giusto (Sap). Era già un concetto usuale. La cosa decisiva qui è “in Cristo Gesù”. Cristo Gesù è il Figlio di Dio, generato. Secondo Gal 1,16, Paolo nella sua conversione ha avuto la rivelazione della filiazione divina di Cristo, così il termine ha una pienezza inaudita.
in Cristo Gesù: figli di Dio in Cristo attraverso la fede che ci stabilisce sulla pietra fondante che è Cristo Gesù.
27: a (eis) Cristo foste battezzati: Paolo per esprimere la relazione a Cristo parla del battesimo che ci fa aderire a Cristo, ci fa sue membra. Perché Paolo, che combatte il rito della circoncisione, parla qui di un rito e non della sola fede? Qui c’è tutta la differenza fra i sacramenti cristiani e i riti antichi. Il sacramento, in particolare il battesimo, è mezzo di congiunzione con cristo nel suo mistero. Senza il battesimo, la fede rimane desiderio inadempiuto.
Battezzati a cristo. Nel NT c’è distinzione fra l’elemento in cui si fa il battesimo e la persona cui si aderisce per mezzo del battesimo (eis): il battesimo fa aderire a una persona. Immersi nell’acqua, nello Spirito, per aderire, essere attaccati a Cristo.
Rivestiste: forma media = vi siete rivestiti. Trasformazione operata grazie al battesimo. Paolo si ispira all’AT, che parla di essere rivestiti di giustizia. Ma Paolo comprende la cosa in modo profondo e radicale: non è solo una metamorfosi esteriore (cf. Col: “rivestitevi di viscere di misericordia”). La relazione con Cristo è una trasformazione. Non è una esortazione, è piuttosto un dono di Dio, un fatto che avviene nel battesimo. Paolo prolunga il suo ragionamento.
Tutti sono un (solo) in Cristo: allora sono figli di Dio, liberi dall’autorità della legge. Qui “uno” è al maschile.  Non si può dire: tutti siamo Cristo stesso, perché c’è “uno”. Mussner parla di un solo uomo escatologico. Ef dirà: un solo uomo nuovo in Cristo. L’idea è che in Cristo diventiamo un’umanità unitaria, come precisa dettagliando: “non c’è giudeo né greco…”. Tre coppie di distinzioni sul piano religioso (sviluppata in Ef), civile e sessuale, antropologico. 1Cor 12,13: assomiglia, ma non c’è negazione. Paolo dice “non c’è”, non “non c’è più”. Parla della situazione in Cristo Gesù: in Lui la distinzione non c’è mai stata.
non c’è Giudeo né greco: in Cristo risorto non c’è la distinzione tra il giudeo e il pagano: cosa inaccettabile per i giudei. Ci ritornerà in Gal 5,6; 6,15; Rm 10,12 spiegherà: siamo nuova creatura, tertium genus per il quale non esiste questa distinzione.
non c’è schiavo né libero: non è distinzione sociale (allora direbbe: schiavo – padrone, come in Gal 4,1), civile (l’uomo libero ha tutti i diritti civili, lo schiavo no). Paolo non si riferisce a questa categoria. Chi è chiamato da Cristo è suo schiavo. Nessuno è più schiavo, nessuno è più libero.
non c’è maschio e femmina: Paolo prende quest’espressione da Gen 1,27 e 5,22. L’audacia di Paolo qui è grande. Dio ha creato uomo e donna e Paolo dice “non c’è”. È una creazione nuova, diversa dalla prima. Paolo è pieno della convinzione della novità di Cristo. Nel Vangelo, Gesù aveva risposto ai sadducei circa la donna che aveva sette mariti, caratterizzando la vita nuova della resurrezione come una vita in cui l’unione sessuale non esiste più. La differenza è che qui Paolo dice: adesso voi siete in Cristo Gesù. Quest’unità non vale a livello biologico, Paolo sa che i cristiani restano sessuati e capaci dir apporti sessuali e Paolo dovrà trattare di questioni sessuali in 1Cor.
A che livello vale l’affermazione di Paolo? Non ha detto uomo – donna, sarebbe stato più gentile. Ha invece messo un’espressione che riguarda il rapporto sessuale, non i rapporto personale uomo-donna. In 1Cor 11,11 c’è una frase che forse non riceve l’attenzione che merita: “La donna non va senza l’uomo, né l’uomo senza la donna, nel Signore”: rapporto personale. Il livello in cui la relazione uomo-donna va riconosciuta è nel Signore. Senza la donna l’uomo non può vivere pienamente nel Signore e viceversa: senza l’uomo la donna non può vivere pienamente nel Signore. Paolo nega che, al livello più profondo della giustificazione della fede, ci sia posto per una discriminazione sessuale, né sociale, né religiosa. Dignità perfettamente uguale.
Il che non vuol dire negare la diversità: in 1Cor 12-14 mostra l’utilità della diversità nel corpo di Cristo.

tag: Sal 137; violenza; visioni dualistiche e gerarchiche; Dio violento?

dal sito:

http://www.sufueddu.org/fueddus/biblioteca/pinna/Art_Varia/Fr_101-992.pdf

tag: Sal 137; violenza; visioni dualistiche e gerarchiche; Dio violento?

Imparare dalla pioggia: la scuola biblica della non violenza

Bibbia e violenza. Tema vasto. Troppo, per due pagine. In più, chi leggerà quest’articolo? Cento per cento, nessuno  dei  giovani  di  cui  si  è  detto  che  usano  pistole  reali  come  fossero  giocattoli  virtuali.  I  “violenti” hanno altro da fare che leggere articoli sulla violenza. Al massimo, qualche “violento” ne scrive qualcuno, magari su Internet. E allora si parla di “cattivi maestri”. E siamo già al cuore del problema: in un modo di pensare che divide il mondo in due, i “pacifisti” da una parte, i “violenti” dall’altra. La complicazione viene dal fatto che talvolta non c’è niente di più violento dei discorsi dei pacifisti, come talvolta non c’è niente di più impuro dei discorsi dei puri. E allora?

Una visione dualistica e gerarchica

E allora bisogna chiedersi da che cosa viene e a che cosa porta ogni visione dualistica e gerarchica della realtà. Di sicuro, non dalla Bibbia. Che però ne propone diversi esempi. Dualistica e gerarchica è la visione del fariseo il quale, vedendo come Gesù si lasciava baciare i piedi e profumare da una prostituta, non osa nemmeno dire ciò che pensa tra sé: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice” (Lc 7,39). Dualistica e gerarchica è la visione del fariseo che, stando in piedi, prega dicendo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo” (Lc 18,11-12).  Dualistica  e  gerarchica  è  la  visione  del  figlio  maggiore  che,  rifiutando  di  entrare  in  casa  del  padre,  oppone il suo comportamento a quello del fratello minore: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che  questo  tuo  figlio  che  ha  divorato  i  tuoi  averi  con  le  prostitute  è  tornato,  per  lui  hai  ammazzato  il vitello grasso” (Lc 15,29-30). Ma dualistica e gerarchica è anche la stessa visione del fratello minore, che pensando di rientrare in casa del padre, prepara il suo discorso: “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami  come  uno  dei  tuoi  garzoni”  (Lc  15,18-19).  Se  anche  il  padre  ragionasse  in  modo  dualistico, antitetico e gerarchico come i suoi due figli, nessuna festa sarebbe possibile. Invece la festa si fa.

Far festa con chi e per chi non se la “merita”

Perché il padre della parabola, come Gesù, non vede le cose e le persone per come devono essere, ma le comprende e le accetta per quello che sono. È vero che nel discorso della montagna il vangelo di Matteo dice: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48), ma questa frase è detta alla fine di alcune altre che hanno già chiarito in che cosa consiste la perfezione del Padre: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,43-48). Tuttavia, il vangelo di Luca sembra voler prevenire le tendenze perfezioniste dei suoi lettori di ieri e di oggi,  ancora  influenzati,  oggi  come  ieri, più  dal  giuridismo  romano  e  dall’estetica  greca  che  dalla misericordia  evangelica,  e  traduce  la  stessa  idea  di  Matteo  con  un  diverso  vocabolario,  dicendo:  “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).

Interrompere la catena della violenza

Ciò che Gesù dice e fa è di smettere di dividere il mondo in due, come deve essere e come non è, illudendoci magari, come i “puri-farisei”, di essere noi dalla parte giusta. Smettere di vedere il mondo con gli occhi della perfezione, e cominciare a guardarlo con quelli della misericordia sta alla radice del comportamento che Gesù propone di fronte alla violenza, quello di interromperne la catena: “Ma a voi che ascoltate, io dico:  Amate  i  vostri  nemici,  fate  del  bene  a  coloro  che  vi  odiano,  benedite  coloro  che  vi  maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete  gli  uomini  facciano  a  voi,  anche  voi  fatelo  a  loro.  Se  amate  quelli  che  vi  amano,  che  merito  ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici,  fate  del  bene  e  prestate  senza  sperarne  nulla,  e  il  vostro  premio  sarà  grande  e  sarete  figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi” (Lc 6,27-35) .
Il perdono di cui Gesù parla non è dimenticanza né indifferenza, ma un atto di lucida e compassionevole coscienza,  che  proprio  perché  non  dimentica  il  male  e  non  è  indifferente  di  fronte  al  male,  vede  la situazione dolorosa non solo di chi subisce violenza, ma anche di chi la compie. L’atto di perdono è un atto di amore perché interrompe la riproduzione del male, è un atto di fede perché crede in una logica divina diversa da quella umana,  è un atto di speranza perché ha fiducia in una salvezza uguale per lui e per il suo avversario. In questo senso, perdonare è un’operazione “genetica”: si interrompe una generazione per farne nascere un’altra.

Un Antico Testamento “violento”?

Se appunto leggessimo la Bibbia per quello che è, una parola di “genesi”, di “creazione”, di “poetica” nel senso etimologico del termine, saremmo in grado di capirne meglio qualche pagina difficile, come l’ultima strofa del Salmo 137. Di fronte agli “oppressori” che in esilio chiedono di ascoltare i canti degli “oppressi” , questi alla fine intonano sì un canto, ma non è il “canto di Sion”, la madre violentata, “denudata fin dalle sue  fondamenta”,  è   il  “canto  di  Babilonia”,  la  “donna  della  violenza”:  “Ricordati,  Signore,  dei  figli  di Edom, che nel giorno di Gerusalemme, dicevano: «Denudate, denudate anche le sue fondamenta». Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra” (vv. 7-9). Chi ha censurato questi versi dalla proclamazione liturgica del salmo, ha ritenuto i cristiani incapaci di capire la poesia e in fondo incapaci di capire Dio stesso. La poesia: che non usa il linguaggio della dichiarazione dei redditi, ma quello delle immagini, per dire in questo caso che anche per la generazione dei violenti c’è una fine. Dio stesso: che ha scelto di camminare con l’uomo non quando era già arrivato alle soglie delle beatitudini evangeliche, ma fin dagli inizi dei suoi desideri, ancora impastati di violenza. “Dio camminando con un popolo guerriero lo conduceva verso la propria mitezza” (Beauchamp, Leggere la Sacra Scrittura oggi [Milano: Massimo], p. 99).

In spirito e verità » : Gesù e il Sacro, Paolo di Tarso e il sacro

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=102

In spirito e verità » :

Gesù e il Sacro, Paolo di Tarso e il sacro

sintesi della relazione di Rinaldo Fabris

Verbania Pallanza, 9 dicembre 1995

La verità è il tema dominante del IV vangelo. Non è la verità come conoscenza intellettuale della realtà, ma come fedeltà, fiducia, relazione. L’esperienza biblica del sacro rimanda ad una relazione di ascolto, ad una relazione di amore: Ascolta Israele, ama il Signore con tutto il cuore, la mente, le forze. Più che ritorni di Dio oggi ci sono i ritorni degli dei: è la tendenza umana a controllare e a identificare la realtà divina in qualcosa di manipolabile e visibile. È il vitello d’oro.

Gesù e il sacro

Gesù è un laico che si colloca nella linea profetica. Invece il falegname, il terapeuta, il maestro itinerante è stato sacralizzato.
Gesù e il tempo sacro (il sabato). Gesù prende posizione nei confronti del giorno di riposo, del sabato, la cui osservanza è al centro delle dieci parole. Il sabato era la memoria della creazione e della liberazione dall’Egitto. Gesù prende posizione contro il modo di osservare il sabato, osservanza diventata scrupolosa e ossessiva in Israele (elenco minuzioso delle azioni interdette) come modo per distinguersi dagli altri popoli.
Gesù (Marco 2,23-28) afferma che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, rispondendo all’accusa dei farisei. Fa così comprendere che l’ambito del sacro non è tanto un tempo definito, quanto la relazione tra Dio e l’essere umano. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato. Tutti gli esseri umani sono signori del sabato, del sacro.
Inoltre il criterio della vera sacralità del sabato è fare il bene, salvare una vita (Marco 3,1-6), come emerge dall’episodio della guarigione di un uomo con la mano inaridita in giorno di sabato. Il sacro è nel rapporto con Dio che passa attraverso l’attenzione agli uomini.
Nell’episodio della guarigione della donna curvata in giorno di sabato (Luca,13-10-17) emerge la concezione del sabato come memoriale della liberazione. Di fronte alle critiche del capo della sinagoga Gesù sottolinea l’importanza del gesto di guarigione-liberazione in giorno di sabato. La sacralità risiede per Gesù nel gesto iniziale della creazione e nei gesti di liberazione.
Gesù e lo spazio sacro (il tempio). Gesù prende posizione nei confronti del tempio scontrandosi con i funzionari del potere sacro.
Innanzitutto Gesù entra nel tempio (Marco 11,15-19) e si mette a scacciare quelli che vendevano e comperavano, rovesciando i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi. È un intervento contro il mercato. Il tempio era un’industria di turismo e di pratica religiosa. Gesù afferma il tempio come luogo di preghiera contro la sua trasformazione in spelonca di ladri. Il tempio può consentire l’incontro con Dio, ma non perché è uno spazio sacro.
Il tema del tempio si sviluppa lungo tutto il racconto della Passione. Gesù è accusato di avere annunciato la distruzione del tempio e la costruzione di un tempio non fatto da mano d’uomo. In Luca si parla del tempio nell’episodio di Stefano che dichiara che l’altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d’uomo (Atti,7,48). Il Dio trascendente non può essere racchiuso in nessuna struttura umana. Stesse espressioni si trovano nel discorso all’Aeropago di Paolo. Il tempio di Gerusalemme viene assimilato ai templi pagani, al tentativo umano di controllare Dio attraverso un’immagine o uno spazio.
Gesù propone di superare la distinzione tra puro e impuro, con un nuovo criterio di sacro: passare dalle cose alle relazioni, dall’interno all’esterno (Marco7,1-23).
Segno della distinzione del popolo scelto è la dieta kashér. Il tema del cibo sarà presente anche nella chiesa primitiva, imponendo ai pagani convertiti alcuni divieti alimentari. Nell’antichità il mangiare e il bere erano una delle modalità per entrare in contatto con la divinità. Gesù sostiene che nonc’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo. Sono invece le cose che escono dall’uomo che possono contaminare. Il contatto con Dio non passa attraverso i cibi, ma attraverso la relazione profonda che viene dal cuore. È ciò che esce dal cuore dell’uomo che rende impuro.
La carica rivoluzionaria presente nel laico, falegname, non sacerdote, terapeuta Gesù, schiacciato dal potere religioso, è spesso non colta.

la manifestazione di Dio avviene attraverso la parola e l’azione di Gesù, azione che rende libere le persone e che si manifesta nella creazione e nell’esodo (nel Regno).
Gesù riporta il sacro alla relazione profonda del cuore. Dio è santo perché non si lascia imprigionare in nessuna struttura umana.
L’ambito privilegiato in cui si manifesta Dio il santo è la relazione giusta e positiva.

Paolo di Tarso e il sacro

Paolo affronta il problema dell’entusiasmo, dell’esperienza estatica e dei carismi nella lettera agli Corinzi ed indica tre criteri per valutare l’esperienza del sacro.
Anzitutto la fede in Gesù Cristo (1Cor 12,1-3). La fede in Gesù è un orizzonte che consente di orientare l’esperienza dello Spirito.
Un secondo criterio riguarda l’origine, la fonte e l’orientamento dei carismi (1Cor 12,4-11). Paolo sostiene che i doni vengono da Dio e sono in funzione della costruzione della comunità. Meno importanti quelli più « spettacolari ». Lo Spirito dà ad ognuno una qualità per la manifestazione e la crescita della comunità. Ognuno ha un dono dello Spirito per l’utilità comune.
Terzo criterio è il significato cristologico e ecclesiale dei carismi (1Cor12,12-27). Non c’è nessuna gerarchia in funzione dell’esperienza privilegiata di qualcuno. Anzi i carismi meno appariscenti sono quelli che vanno maggiormente curati. I carismi più importanti sono quelli della parola annunciata, condivisa e insegnata.
E il carisma per eccellenza è l’agape. Paolo chiama amore quello che Gesù formulava con altro linguaggio, l’interesse per l’essere umano, per la vita, per la libertà, per la dignità. Quale rapporto tra questa energia che dà sapore e senso alla vita e la realtà che chiamiamo Dio? Qui è il sacro.
L’amore è il supercarisma, che dà senso a tutti i doni. Perché l’amore sia forza vitale deve trovare le vie della relazione. Anche i doni più alti, senza agape, sono nulla. L’amore non è un fatto emotivo, ma una realtà che si vive nelle relazioni.
L’unica realtà che si può collegare con Dio è l’amore.
Paolo rappresenta il cuore dell’esperienza religiosa nell’amore, che è il vero sacro. Nella pienezza vedremo faccia a faccia, …come anch’io sono conosciuto. È un essere avvolti nella realtà di Dio, un essere conosciuti, non un possedere.
Per vivere l’esperienza dello Spirito nella comunità che si riunisce nella preghiera bisogna assegnare un ruolo privilegiato al carisma della parola profetica(1Cor 14,1-5). La profezia per Paolo è la capacità di comunicare partendo da un’esperienza di fede. La profezia edifica.
Inoltre è centrale la costruzione e la intensificazione dei rapporti comunitari (1Cor 14,6-25). Le esperienze carismatiche che non comunicano sono segni confusi.
Infine tutto per Paolo deve essere fatto per l’edificazione (1Cor14,26-40), cioè per far crescere la comunità, dando la possibilità a tutti di esprimersi come corpo vivo di Cristo.
Si può dire in conclusione che l’esperienza dello Spirito fa parte della dimensione originale profonda della fede cristiana. Solo attraverso il dono dello Spirito si può riconoscere che Gesù è il Signore.
Nella storia della chiesa lo Spirito è stato identificato spesso con l’istituzione, con il privilegio del carisma di governo rispetto a quello della carità. In questi anni la morale è stata proposta come norme, divieti e principi piuttosto che come relazioni da potenziare.
La via di collegamento tra lo Spirito e la comunità è la relazione.

Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo (su tutti i testi di Paolo – Inno alla carità))

dal sito:

http://www.cistercensi.info/monari/1981/mc030181.htm

Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo

3 Gennaio 1981
Fonte, volume “Credo in Cristo mia vita” – “Le virtù teologali nella vita del laico” – A cura di Ernesto Cappellini – Editrice A.V.E. Roma 1981 – “Capitolo III” (pp 72-97).

A / San Giovanni
C / Vangeli sinottici

(se li volete leggere sul sito)

B / San Paolo

Non sarebbe difficile ripercorrere uno ad uno questi punti nelle lettere di San Paolo e vedere come – con differenti accenti e prospettive – è la stessa fede che si esprime. “Con differenti accenti” perché certo a ogni autore del Nuovo Testamento bisogna riconoscere una sua originalità. Per quanto riguarda Paolo la sua dottrina sull’amore è strettamente legata a quella della giustificazione mediante la fede e, insieme a questa, è legata alla comprensione del mistero pasquale come mistero di redenzione.

– I –
«[6]Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. [7]Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. [8]Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 6-8). Al centro dunque c’è la croce, la morte di Cristo come segno di amore, e di un amore gratuito. Perché negli “empi” per cui Cristo è morto non c’è nulla di gradevole, di attraente, nulla che possa spingere “naturalmente” a sacrificarsi per loro. La morte di Cristo è quindi un gesto gratuito, creativo, nel senso più pieno perché crea la bontà e la amabilità di ciò che ama. La preziosità dell’uomo peccatore è data esattamente dal fatto che Cristo muore per lui e non viceversa. Ma la riflessione di Paolo ha un altro punto importante; leggiamo nel v. 8: «Dio dà prova del suo amore verso di noi perché (…) Cristo è morto per noi». Noi avremmo detto più facilmente: «Cristo dà prova del suo amore…», ma Paolo opera uno spostamento molto significativo: «Dio dà prova…». Ciò significa che nella visione paolina Dio e Cristo sono una cosa sola per quanto riguarda l’opera della salvezza. In Cristo Dio stesso si fa vicino agli uomini, li ama, li salva: «[19]È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2 Cor 5, 19). In questo modo-, la croce di Cristo diventa il “vanto” del cristiano (cfr. Gal 6, 14), diventa cioè il fondamento unico sul quale possiamo mettere la nostra fiducia; è da lì che viene la nostra salvezza. Non quindi nella nostra intelligenza o scienza o buona volontà, ma nell’amore di Dio che ci ha riconciliati in Cristo. Se San Paolo combatte strenuamente la sua battaglia per affermare che la giustificazione avviene mediante la fede, il motivo è che su questo si decide il valore della croce di Cristo. Ai Galati che “ammaliati” da dei Giudaizzanti sentono la tentazione forte di ritornare alle pratiche della legge come via verso la salvezza, Paolo ricorda con serietà: «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla(…) Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia(…) Noi infatti per virtù dello spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 2.4-6). “La fede che opera per mezzo della carità”; è una delle formulazioni più tipiche della teologia paolina. Non c’è giustificazione dell’uomo se non mediamente la fede, cioè mediante l’accoglimento umile e obbediente del dono di Dio. A sua volta la fede rende possibile e necessaria la carità; dove non c’è fede la carità non può nascere; ma d’altra parte una fede che non si esprima nella carità è inefficace, anzi contraddittoria, perché non produce quel frutto di libertà di cui solo l’amore è il segno.
– II –
Proprio l’essere amati gratuitamente da Dio è il fondamento della libertà cristiana di cui Paolo è un irriducibile difensore: «[35]Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) [37]Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. [38]Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, [39]né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35-37-39). Il senso è che in mezzo alle numerose paure che accompagnano la nostra vita ci rimane come punto di appoggio saldo e incrollabile l’amore che Cristo ci ha dimostrato. La vita dell’uomo è infatti collocata su un dedicato equilibrio; è una vita fragile, bisognosa di mille cose, condizionata da mille fattori. Non c’è da meravigliarsi se a volte l’uomo si lascia sedurre dalle promesse del mondo e ne diviene schiavo; il denaro, il potere, il benessere si presentano come sicurezze consolanti in mezzo al mare di incertezze che ci paralizzano. «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati». E cioè, l’amore di Cristo ci libera dalla paura. Nell’essere amati da Cristo la nostra vita acquista un senso e non siamo più costretti a cercare di darle un senso noi stessi col successo o con la bella figura o con qualunque altro surrogato; se «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20) non c’è bisogno di altro perché la mia vita abbia valore. Ecco allora che tribolazione o angoscia o persecuzione non si tramutano più in disperazione; al contrario può succedere che «sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4; cfr 2 Cor 4, 7ss).
Il cristiano è dunque libero da tutte queste cose, è signore della vita e della morte perché la vita non lo seduce e la morte non lo terrorizza; parimenti il presente non lo imprigiona e il futuro non lo sconvolge (cfr. 1 Cor 3, 21-23). È iniziato a tutto; alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Può tutto nella forza che gli viene da Cristo (cfr. Fil 4, 12s).
– III –
Ma che libertà è questa di cui il cristiano gode, anzi a cui il cristiano non può rinunciare se non vuole rinunciare nello stesso tempo alla sua condizione di “salvato”? Per Paolo la prospettiva è chiara; il cristiano ha una sola libertà, quella di amare e di servire gli altri: “13]Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13). Paradossale libertà! È libertà dalla carne, cioè dall’egoismo e da tutte le schiavitù che l’egoismo ci impone; ma e libertà che si esercita nel servizio premuroso e attento degli altri. Ma come si possono conciliare queste due cose: libertà e servizio? Non c’è una contraddizione evidente? Libero è “colui che esiste per se stesso e non per gli altri” (Aristotele); servo è esattamente il contrario: chi vive per un altro e non per se stesso. Eppure per Paolo il cristiano può esercitare la sua libertà solo mettendosi a servire, imparando a portare i pesi degli altri (cfr. Gal 6, 2). Il fatto è che per Paolo la carità, il servizio, non sono una legge esterna da osservare scrupolosa mente ma sono prima di tutto un dinamismo interiore da lasciar sviluppare e crescere. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). L’amore con cui Dio ci ama (cfr. la nota della BJ) si diffonde nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo. Siamo sommersi dall’amore di Dio che ci domina e questo amore diventa nei nostri cuori sorgente di amore e di servizio fraterno. È come un seme, lo Spirito, che genera una vita nuova, una vita che ha i suoi frutti caratteristici (anzi il suo frutto; San Paolo usa il singolare; i nove termini indicano quindi tutti la stessa realtà contemplata nella sua multiforme ricchezza): «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).
IV
Ma forse la descrizione più ricca del mondo in cui la carità diffusa nei nostri cuori opera e si manifesta si trova nell’“Inno alla carità” di 1 Cor 13. Per capirlo bisogna tenere presente anzitutto il contesto. Paolo sta parlando dei doni dello Spirito e della gerarchia di valore che esiste tra questi doni diversi. A Corinto gli è stata posta una domanda precisa a riguardo di due carismi diversi: la profezia e il parlare in lingue (una specie di parlare estatico, con suoni non articolati, incomprensibile quindi ma che faceva molta impressione perché sembrava un parlare angelico). A quale di questi due carismi bisogna riconoscere il primato? Quale dei due bisogna piuttosto ricercare? L’apostolo darà la sua risposta nel cap. 14 assegnando il primo posto alla profezia perché essa edifica tutta la comunità cristiana mentre il parlare in lingue non edifica gli altri che non lo capiscono. Ma prima, dice Paolo “vi insegnerò una via che sorpassa ogni altra”. Al di sopra del parlare in lingue, al di sopra della profezia, al disopra di ogni altro dono dello Spirito sta la carità.
É anch’essa, certamente, un dono dello Spirito (cfr. Gal 5, 22) e tuttavia non un dono accanto agli altri; piuttosto è quel dono che dà valore e consistenza a tutti gli altri. E Paolo, con un termine significativo, la chiama una “via”, un cammino sempre aperto, senza fine. La carità è esattamente questo: non una virtù che si può conquistare; non un pacifico possesso di cui godere, ma solo una via per la quale si deve camminare senza mai superarla del tutto, un “compito immenso” che non si potrà mai esaurire. L’Inno si articola chiaramente in tre parti: anzitutto Paolo fa il confronto tra la carità e tutti gli altri carismi; poi – con una serie di 15 verbi – descrive la carità in atto; infine insiste sulla permanenza eterna della carità in confronto con tutti gli altri carismi che sono destinati a scomparire. Vediamo. I vv. 1-3 prendono successivamente in esame i diversi carismi con un “crescendo” significativo: il parlare in lingue, la profezia, la scienza, la fede (cioè in questo caso il dono di fare miracoli), l’elemosina, il sacrificio della vita. Evidentemente bisogna intendere la lista come fosse completa: questi o qualunque altro carisma possa esistere, dal più umile al più elevato. E ripetutamente Paolo afferma che il valore dei singoli carismi e loro dato dalla carità. Senza la carità «sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna… non sono nulla… nulla mi giova» (1 Cor 13, 1). È impressionante questa serie di affermazioni che elimina ogni illusione di grandezza fondata sul possesso dell’uno o dell’altro dono. Paolo non dice solo che la carità è il massimo dei carismi, il primo, il più importante; dice chiaramente che qualsiasi carisma se non e vivificato dalla carità non ha nessun valore. Può anche essere, in sé, importante; può ottenere riconoscimenti elevati; può addirittura servire alla edificazione degli altri; ma non ha nessun valore per chi lo pratica. Possiamo forse accostare a questa riflessione il testo di Rm 13, 8: «Non abbiate con nessuno altro debito se non quello di un amore vicendevole», che vuol forse dire: se devi qualcosa a qualcuno, guarda di darglielo per amore; è l’unica motivazione valida. Se fai l’elemosina, falla per amore e non per farti vedere; se elogi una persona, che sia per amore e non per adulazione. Solo in questo modo ciò che doni a un altro diventerà anche motivo di edificazione per te. Ma perché alla carità è riconosciuto questo statuto speciale all’interno dei doni dello Spirito? Ci può aiutare a capirlo l’ultima parte del capitolo dove ritorna il confronto tra la carità e gli altri carismi per dire che «le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà», mentre al contrario «la carità non avrà mai fine». Paolo evidentemente contrappone “questo mondo” con il “mondo che viene”, per dire che la carità appartiene al mondo futuro mentre gli altri carismi appartengono a questo mondo. E allora, quando la scena di questo mondo sarà passata, passerà con lei anche tutto quello che è imperfetto e cioè tutti i carismi. Ma la carità no; perché la carità non è determinata dalle esigenze di questo mondo ma è la sostanza del mondo futuro. In altre parole la carità è “la forma escatologica di vita”, la forma della vita perfetta verso la quale siamo incamminati e che solo nel mondo futuro si realizzerà pienamente. Ma se la carità appartiene al mondo futuro, al mondo di Dio e non a questo mondo, come essa è entrata nell’esperienza del cristiano? Come la possiamo vivere e sperimentare? Bisogna tornare a quanto abbiamo ascoltato più sopra: «La speranza non delude perché l’amore di Dio è stato, diffuso nei nostri, cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5, 5). C’è dunque la carità nei nostri cuori; ma non c’è per un impulso naturale, nativo. C’è perché ve l’ha riversata lo Spirito Santo; c’è perché Dio ci ha amato. Ma è tempo che, guidati da Paolo, ci lasciamo istruire sull’opera della carità. «La carità è paziente», longanime. Un gesto di rifiuto non la chiude in se stessa; la mancanza dì riconoscenza non la intristisce. È generosa, munifica, signorile. È la caratteristica di chi è ricco e non tanto di beni quanto di cuore; non meschino, non avaro, non meticoloso nel misurare ciò che dona. Così è Dio «misericordioso e pietoso… ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Proprio perché è infinitamente ricco, Dio può permettersi di essere splendido, magnanimo; può donare gratuitamente e con sovrabbondanza. E la carità è “divina”; è ricca della ricchezza stessa di Dio e da lui impara a comportarsi. Si legga, come esempio, quello che Paolo scrive ai Corinzi: «Il nostro cuore si è spalancato per voi…!» (2 Cor 6, 11-13). «É benigna la carità». È detto di Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (cfr. Lc 6, 35) e cioè non restituisce male per male ma ama e benefica anche i cattivi; e proprio in questo modo Dio cerca di spingere il peccatore alla conversione (cfr. Rm 2, 4). Certamente anche Dio reagisce al peccato dell’uomo con l’ira e si mostra a volte severo; ma «l’ira di Dio dura in istante, la sua bontà per tutta la vita» (Sal 30, 6); e quando egli corregge lo fa sempre come un padre fa verso il suo figlio (cfr. Eb 12, 7), «Non è invidiosa la carità», non considera cioè gli altri come degli. avversari e non è ossessionata dal bisogno di fare valere se stessa; non trova perciò nessuna compiacenza nell’abbassare gli altri. Per questo sa «piangere con quelli che sono nel pianto» e, cosa ancor più difficile, «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12, 15). L’invidia, al contrario, gode per gli insuccessi degli altri, e si rode per le loro gioie. In questo a carità si mostra semplice: prova la gioia e il dolore per quello che sono, non li trasforma con l’ottica deformata dell’egoismo e dell’interesse. «Non si vanta»; non ha sempre sulla bocca il proprio io; sa apprezzare e stimare con gioia i doni degli altri. Non pretende che sulla scena tutti i riflettori siano puntati su di lei; lascia spazio agli altri. E anche quando ama non guarda troppo se stessa, non soffoca con spiegazioni e richiami e parole il suo comportamento. È umile, discreta, modesta. «Non si gonfia» come gli gnostici di Corinto che, consapevoli di “avere la scienza”, disprezzano i deboli o, semplicemente, non li vedono neppure (cfr. 1 Cor 8, 1-2.11). La carità si prende così come è; non ha bisogno di ingrandirsi artificialmente con parole (cfr. l Cor 4, 18s.) per nascondere la sua povertà interiore. «Non manca di rispetto»; ama la chiarezza, interiore ed esteriore; non cerca di fare colpo o di scandalizzare. È pudica, non sfacciata; educata ma non formalista. «Non cerca ciò che è» suo (Bibbia CEI: “non cerca il suo interesse” ma il senso è anche “non è attaccata ai suoi diritti”). È una esortazione che ritorna spesso nelle lettere di Paolo: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10, 24 cfr 10, 33). «Senza cercare ìl proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2, 4). Quest’ultimo testo è illuminante perché è collegato con l’inno cristologico di Fil 2, 6-11, dove Paolo mette davanti agli occhi dei Filippesi l’esempio di Cristo che non si è aggrappato gelosamente ai diritti che gli spettavano in quanto Figlio di Dio, ma si è fatto servo, umiliato, obbediente fino alla morte. La carità non è ossessivamente legata ai suoi diritti; sa anche «subire l’ingiustizia… lasciarsi privare di ciò che le appartiene» (1 Cor 6, 7). La gratuità, il disinteresse sono regola delle sue azioni (cfr. Lc 6, 27-35). Essa sa, infatti, che alla sua difesa ci pensa Dio, può affidare a lui la rivendicazione dei propri diritti (Rm 12, 19; cfr. 1 Pt 2, 23; Lc 6, 38) ed è quindi libera di amare, di donare, di essere disinteressata. «Non si adira»; è la conseguenza necessaria. L’ira esplode quando ci sembra che un nostro diritto sia stato calpestato (cfr. Lc 15, 28) e non è altro che il primo passo verso il far del male (cfr. Mt 5, 22). San Giacomo descrive il dinamismo così: «[1]Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? [2]Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!» (Gc 4, 1-2). É vero che Paolo, citando il Sal 4, 4 (LXX) scrive: «Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26) ma proprio l’ultima parte del versetto dimostra che qui si tratta di qualcosa altro. È l’“ira medicinale”, quella che reagisce salutarmente davanti al male (non al peccatore!) e lo respinge. Ma anche questa, che è pure ira salutare, deve sapersi contenere per non «dare occasione al diavolo» (Ef 4, 27) che potrebbe servirsi di questo per insinuare odio o malvagità. «Non tiene conto del male ricevuto», non lo computa meschinamente scrivendolo con inchiostro indelebile sul suo libro. Non rinfaccia il male che riceve come, parallelamente, non rinfaccia il bene che ha donato. Non aspetta l’occasione propizia per rivelarsi, «è la tomba dell’ingiustizia» (H. Schlier). Sa cancellare i debiti degli altri così come i propri crediti. Questo la rende, nello stesso tempo, riconoscente per ogni briciola di bene che riceve. «Non gode dell’ingiustizia». Degli empi dice San Paolo che «non solo continuano a fare il male, ma approvano chi lo fa» (Rm 1, 32). >È un modo anche questo di giustificare se stessi e il proprio comportamento. La carità, al contrario, non sopporta l’ingiustizia, non la approva mai, non la accarezza. Ma è un modo di godere dell’ingiustizia anche quel mormorare degli altri che nasconde solo il desiderio di sentirsi migliori; dietro a parole dure di censura c’è talvolta la gioia nascosta e ipocrita di trovare l’ingiustizia negli altri. La carità non ha mai bisogno di giustificare se stessa e non è costretta a ricorrere a sotterfugi di nessun genere (cfr. Gal 6, 3-4). Al contrario essa: «gode della verità», la ama, se ne compiace; e non perché è sua o perché è dalla sua parte ma semplicemente perché è verità, perché è un riflesso dello bellezza luminosa di Dio. È anche questo un segno di distacco e di disinteresse. Non è vero che a volte la verità ci piace solo se è detta da noi o dai nostri? E che ci fa invece dispetto sulle labbra degli “altri”? Anche qui là carità ignora ogni doppiezza; è semplice.
A questo punto Paolo conclude la descrizione della carità con quattro affermazioni che definiscono la sua “intrepidezza”, il fatto che la carità non indietreggia di fronte a nulla. Nessuna cattiveria, nessuna ingratitudine, nessun rifiuto, nessun fallimento sono capaci di farla ripiegare su se stessa, di costringerla a un rifiuto sdegnoso degli altri, del mondo, della vita. «Tutto copre», non mette il sale sulle ferite per renderle più brucianti; non amplifica le parole cattive fino a renderle assordanti; non offre al male quel rifiuto duro che lo fa riecheggiare all’infinito. Al contrario lenisce le sofferenze, attutisce i contrasti, accoglie dentro di sé il male e senza lasciarlo rimbalzare all’esterno; quando incontra una parola, un gesto dove ci sono cattiveria e odio, assorbe il veleno e in questo modo lo scioglie e libera la bontà delle cose e delle persone. «Tutto crede», non perde mai la fiducia. Può sperimentare fallimenti e insuccessi; può incontrare opposizione e ingratitudine; può giungere a conoscere le miserie di cui è capace il cuoreumano ma non perde la fiducia. È fondata in Dio, nel suo amore solido come roccia; non vacilla e non viene meno. «Spera tutto». Vede sempre davanti a sé un futuro aperto. Il presente, coi suoi limiti, non è capace di rinserrarla e imprigionarla. Crede nel futuro di Dio che si apre una strada anche in mezzo al peccato. Nelle persone sa vedere i progetti di Dio, sa apprezzare quello che ancora non si vede e in questo modo lo fa emergere attraverso la cappa di abitudini e di errori che lo nascondono. «Sopporta tutto». Conosce il peso della vita ma non tenta di sottrarvisi; non carica gli altri dei suoi pesi ma piuttosto si fa carico dei pesi degli altri così come Cristo si è fatto carico dei pesi di tutti. Alla fine di questo cammino di amore e di sopportazione c’è ancora la croce. Sopportare tutto vuol dire in una parola sopportare anche la morte come segno supremo dell’amore che si dona.

Conclusione
Cercando ora di riassumere brevemente i punti della nostra riflessione su Giovanni e Paolo potremmo enumerarli così: Cristo ci ha amato dando la sua vita per noi; in lui era Dio stesso che dimostrava il suo amore per noi. A noi viene chiesto di accogliere questo amore nella fede. Solo in questo modo la nostra vita viene “giustificata” e ci diventa possibile essere in comunione con Dio.
L’amore di Dio accolto nella fede ci fa figli di Dio e quindi ci libera dalla debolezza e impotenza della “carne” per renderci capaci di una vita nuova. La novità di questa esistenza è la forza dello Spirito e la capacità di amare. Questo “comandamento” è “nuovo” perché è la forma di esistenza che corrisponde alla “nuova creazione”. Amare i fratelli significa “dare la vita per loro”, mettere gioiosamente l’altro al centro delle proprie scelte.

Carron: avvenimento e conoscenza in San Paolo

dal sito:

http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=35838

MEETING/ Carron: avvenimento e conoscenza in San Paolo

Julián Carrón mercoledì 26 agosto 2009

Il 28 giugno scorso in occasione della chiusura dell’Anno Paolino, Benedetto XVI ha affermato. “L’Anno Paolino si conclude, ma essere in cammino insieme con Paolo, con lui e grazie a lui venir a conoscenza di Gesù e, come lui, essere illuminati e trasformati dal Vangelo – questo farà sempre parte dell’esistenza cristiana” [1]. In un Meeting per l’Amicizia fra i Popoli che mette a tema la conoscenza difficilmente avremmo potuto trovare un testimone migliore di Paolo per documentare la verità del titolo scelto: La conoscenza è sempre un avvenimento. In cammino con l’Apostolo, come ci suggerisce il Papa, è possibile capire che cosa sia per lui la conoscenza come avvenimento: nel modo con cui egli ce l’ha testimoniata nella conoscenza di Gesù.
Dal punto di vista strettamente storico, nell’esistenza di san Paolo non vi è un fatto più indiscutibilmente certo della svolta che conobbe la sua vita in un momento determinato, ossia quando si trovava in cammino verso Damasco [2]. All’inizio della lettera ai Gàlati Paolo narra il cambiamento con queste parole: “Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani”[3]… Il ribaltamento è consistito, secondo la testimonianza dello stesso Paolo, nel passaggio da persecutore ad apostolo di Colui che in precedenza aveva accanitamente perseguitato. Per capire la portata d’una tale svolta occorre soffermarsi un attimo per guardare, anche se sommariamente, la vita precedente dell’apostolo.

“La mia condotta di un tempo nel giudaismo”

Fortunatamente, Paolo ci offre sufficiente informazione per farci un’idea abbastanza chiara su questa tappa della sua vita. Nel testo citato della Lettera ai Gàlati egli ci parla della sua vita di un tempo nel giudaismo, collegando la sua persecuzione della Chiesa e il suo accanimento nel sostenere le tradizioni dei padri. Quest’ultima caratteristica ci informa dell’origine della sua passione per le tradizioni dei padri: la sua educazione farisea. Infatti, come sappiamo attraverso, tra gli altri, lo storico ebreo contemporaneo Flavio Giuseppe, i farisei avevano imposto al popolo molte leggi dalla tradizione dei padri non scritte nella legge di Mosè. Conferma di questo la troviamo anche nel Vangelo: “I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi”[4]. Ma la cosa più significativa è il suo essere, nella difesa delle tradizioni, “molto zelante” (perissotérôs zêlôtês) fino al punto di sorpassare in questo zelo “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali”.
Nella Lettera a Filippesi Paolo ci offre una breve autobiografia prima della svolta, dove esibisce le credenziali che contraddistinguevano la sua vita nel giudaismo: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”[5]. Ai primi posti di questo elenco Paolo enumera i privilegi ereditati dalla sua appartenenza al popolo d’Israele (circonciso, israelita, della tribù di Beniamino, ebreo); i tre ultimi tratti sono scelte fatte da lui: fariseo, persecutore e irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
Il motivo, però, di questo elenco non è meramente biografico, bensì apologetico. Infatti, l’apostolo sta difendendo i suoi fratelli della comunità di Filippo[6] dai cattivi operai che mettono a rischio la loro fede cristiana, cercando di rispostare la loro fiducia lì dove la ponevano come ebrei, appunto nella carne. In questo contesto, Paolo insiste che se qualcuno ha dei titoli per vantarsi nella carne è proprio lui: circonciso, ebreo, fariseo, persecutore, irreprensibile nell’osservanza della legge. 
Con ciò Paolo ci informa, tra l’altro, che lui era fariseo quanto alla legge, mettendo insieme, così, il suo fariseismo e la passione per legge. Lo scopo fondamentale del fariseismo era l’educazione alla legge. Non stupisce, quindi, che l’educazione farisea ravvivasse in Paolo la passione per la legge.
Il preciso significato che aveva per lui questa passione è quello che abbiamo scoperto: “accanito [estremamente zelante] com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[7]. Luca ci offre una autodichiarazione paolina riassuntiva di cosa significasse per un ebreo formarsi alla scuola farisea. “Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi”[8].
Questo zelo per Dio e per la sua legge è ciò che ha portato Paolo a essere persecutore: “fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge”[9]; “come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, … accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[10].
Per capire il significato che aveva per il fariseo Saulo questo zelo per Dio che lo spingeva a perseguitare i seguaci di un condannato per blasfemia dal sinedrio (il tribunale ebraico) basta leggere questo brano di un suo contemporaneo, Filone di Alessandria, in cui si parla dell’apostasia, il reato che Saulo attribuiva ai cristiani di origine ebraica: “È un bene che tutti quelli che sono animati dallo zelo per la virtù possano infliggere le pene immediatamente e con le proprie mani, senza dover condurre il colpevole dinanzi a nessun tribunale, consiglio o magistrato, e possano dar libero sfogo ai sentimenti che li animano: l’odio verso il male e l’amore per Dio, che li spingono a infliggere la pena all’empio, senza compassiona alcuna. Devono ben sapere che l’occasione li ha convertiti in consiglieri, giurati, alti magistrati, membri dell’assemblea, accusatori, testimoni, leggi, popolo; per dirlo con una sola parola: in tutto. Di modo che senza paura né impedimenti possano difendere la santità in tutta sicurezza”[11].
Questo zelo aveva i suoi modelli in personaggi veterotestamentari come Pincas, che trafigge con la sua lancia un israelita che si è unito a una donna madianita[12]; o Elia e Ieu, che uccidono quanti hanno piegato le ginocchia a Baal[13]. A partire dalla rivolta dei Maccabei questo zelo faceva parte dei gruppi radicali, che erano sempre pronti a usare la forza per difendere la legge. Anche se questo zelo non è esclusivo dei farisei (lo troviamo anche negli altri gruppi religiosi del tempo: sadducei, esseni, zeloti), non c`è dubbio che è questo un tratto d’identità dei farisei.
Che lo stesso Paolo non si astenne dall’uso della violenza, si evince dal verbo che usa per descrivere la sua azione contro la Chiesa. Per due volte Paolo usa il verbo porthein, “distruggere”[14]. Fin dove può arrivare la violenza si può vedere dall’uso che di questo verbo fa lo storico ebreo Flavio Giuseppe per descrivere l’incendio di villaggi e città di Idumea da parte di Simone bar Giora[15]. C’è chi vuole ridurre l’azione di Paolo a una forte polemica. Ma i dati offerti dallo stesso Paolo, senza nemmeno doversi appellare agli Atti degli Apostoli, parlano da sé. Più tardi Paolo stesso dirà[16], in allusione agli ebrei che non hanno riconosciuto Cristo a causa del suo zelo per Dio, che questo zelo è stolto, senza vera conoscenza (ou kat’ epignôsin)[17].
Alla fine di questa breve descrizione della prima tappa della vita di Paolo possiamo dire che essa è totalmente determinata dalla legge. La sua formazione farisea, il suo zelo per la tradizione degli antichi, la sua attività di persecutore parlano di questa sua passione per la legge data da Dio al popolo sul Sinai e che costituiva per lui il bene più prezioso. Tutto ruota intorno alla legge. In una situazione come quella sin qui descritta, con una convinzione così radicata, nulla poteva far sperare in un cambiamento significativo nell’esistenza di Paolo. Ma l’imprevisto accade.

L’avvenimento di Damasco

Infatti, nel corso di una delle sue azioni contro i cristiani di Damasco Paolo si è visto sorpreso da un avvenimento che gli ha cambiato la vita (Att 9,1-5). Anche quelli che non erano stati testimoni dell’evento non potevano evitare di trovarsi davanti al fatto di questo cambiamento che si rendeva evidente a loro nel modo con cui Paolo si muoveva e nei nuovi compagni da cui si trovava circondato. Il libro degli Atti[18] narra in modo espressivo questo cambiamento descrivendo i nuovi rapporti di Paolo a Gerusalemme: “Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo”. Dopo che Barnaba narra come Paolo si è comportato a Damasco, il timore viene fugato e l’Apostolo può andare e venire “a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore”.
Rivolgendosi ai Gàlati, Paolo non testimonia soltanto il cambiamento che ha avuto luogo nella sua vita, ma anche il fatto che lo ha causato: la rivelazione del Figlio che gli è stata concessa da Dio. Come afferma categoricamente Charles Kingsley Barrett: “L’essenza della conversione di Paolo fu la rivelazione di Gesù Cristo”[19]. Tuttavia in questo testo Paolo non ci spiega esplicitamente in che cosa sia consistita questa rivelazione. Da altri passi della Lettera sappiamo che essa si basa sull’apparizione di Cristo risorto. Nelle due occasioni in cui Paolo allude a questo fatto nella Prima Lettera ai Corinzi l’esperienza avuta sulla via di Damasco viene collocata nel contesto delle apparizioni pasquali. In 1Cor 9,1 (“Non ho veduto Gesù, Signore nostro?”), utilizza lo stesso verbo, horein, “vedere”, che ritroviamo in contesti legati alla Pasqua[20]. E in 1Cor 15,8, Paolo cita l’apparizione di Gesù risorto di cui fu personalmente oggetto, alla fine di un elenco di apparizioni: di conseguenza la cataloga come tale. Da questi testi si può dunque arguire che “Paolo ha visto Gesù” e che “considera questa visione identica e di pari valore rispetto a quelle che hanno ricevuto come grazia Pietro, Giacomo e gli altri testimoni delle apparizioni del Risorto”[21].
Se “l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo umano”[22], per Paolo in questa esperienza dell’incontro con il Risorto diventa trasparente la realtà di Cristo. In nessun altro momento della sua vita la ragione e la libertà di Paolo furono sfidate, messe in gioco, come di fronte a questo avvenimento. In modo assolutamente imprevisto, sulla strada verso Damasco, Cristo risorto incontra Paolo, la cui ragione viene dilatata dalla grazia della fede perché sia adeguata alla realtà eccezionale che ha davanti a sé. È questa presenza di Cristo risorto – che lo precede e lo provoca, cioè lo precede chiamandolo – a sostenere l’apertura della ragione affinché Paolo possa percepire adeguatamente il significato di quell’incontro, provocando in lui l’attrazione che permette alla libertà l’adesione amorosa a quella presenza[23]. Per questo l’Apostolo può appropriatamente definire l’avvenimento una rivelazione: in esso si rivela a Paolo la piena realtà di Cristo[24]. Come tanti ebrei, Paolo aveva accettato il giudizio su Gesù contenuto nella sentenza del sinedrio: un bestemmiatore, contrario alle più preziose tradizioni di Israele (il Tempio e la Legge)[25]. Credeva di sapere già chi fosse Gesù Cristo. Ora invece l’inaspettata irruzione nella sua vita di Cristo risorto gli fornisce una conoscenza su cui non poteva contare.
Se, come recita l’assioma di Jean Guitton, “‘ragionevole’ significa sottomettere la ragione all’esperienza”[26], Paolo si è dimostrato un uomo ragionevole, accettando di sottomettere la sua ragione, ossia ciò che pensava di Gesù, alla conoscenza della realtà di Cristo così come si era resa trasparente in quell’esperienza. J. Murphy-O’Connor ha descritto magistralmente questo processo: “Ora Paolo conosceva con la convinzione ineludibile dell’esperienza diretta che il Gesù che era stato crocifisso sotto Ponzio Pilato era vivo. La resurrezione che aveva ostinatamente rifiutato era un fatto, innegabile quanto la sua stessa realtà. Sapeva che Gesù ora esisteva su un altro piano. Questo riconoscimento era tutto quello di cui aveva bisogno per la sua conversione. [...] Gesù quindi deve essere precisamente ciò che Egli in modo implicito, e i suoi discepoli in modo esplicito, pretendevano che fosse: il Messia”[27]. Fu la conoscenza della vera natura di Gesù Cristo, ottenuta attraverso la grazia di una rivelazione, a motivare la sua conversione. L’avvenimento di questa rivelazione trasformò il persecutore fariseo in un apostolo. Essere così semplici da riconoscere il contenuto di quella rivelazione implicava il riconoscimento di Gesù Cristo e l’immediata cessazione della sua attività persecutoria. Le persone che egli aveva perseguitato avevano ragione, egli stesso aveva torto.
Questo aiuta a capire la natura della cosiddetta ‘conversione’ di Paolo. È indubbio che a Paolo si debba applicare il concetto di conversione con molta cautela. “Siamo lontanissimi dal cliché della conversione intesa in senso moralistico. Paolo non era un peccatore penitente che ha ritrovato il cammino del bene, dopo aver percorso quello del male. Tantomeno era un agnostico che ha finito per accettare Dio e una visione religiosa della realtà”[28]. Come ha scritto lo studioso di San Paolo, C.K. Barrett: “La conversione di Paolo non ha trasformato un uomo moralmente empio in un uomo moralmente buono; non era mai stato un uomo moralmente empio”. Egli stesso confessa che era “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6); che superava “nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali” (Gal 1,14). Si deve a questo zelo anche l’accanita persecuzione della Chiesa di Dio: lo considerava un dovere strettamente religioso, come dimostra il fatto che, dopo la rivelazione della vera natura di Cristo, abbandona la sua attività di persecutore per aderire a Lui”[29]. Per questo, insiste G. Barbaglio, “la sua, se si può parlare di conversione, è stata una conversione a Cristo, scoperto con gli occhi della fede come chiave di volta del destino umano”[30].

Nuova conoscenza

Da quanto detto si evince che la novità dell’evento accaduto sulla via di Damasco non si limita al cambiamento di vita, da persecutore a credente in Gesù Cristo. Per Paolo questo avvenimento è stato una vera conoscenza, di cui il cambiamento di vita non è altro che una conseguenza. “Il suo incontro con Cristo gli ha rivelato la verità di tutto quello che aveva ritenuto falso, costringendolo a una nuova valutazione, che si trasformò nel nucleo cristologico e soteriologico del suo vangelo”[31].
Nella Seconda Lettera ai Corinzi[32] 5,16 San Paolo ci dice esplicitamente la novità di questa conoscenza: ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne (kata sarka); e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne (kata sarka), ora non lo conosciamo più così[33].
Che cosa significa per Paolo questa conoscenza di Cristo “secondo la carne”? Si è discusso molto a che elemento della frase occorreva unire l’espressione “secondo la carne”: a Cristo o al verbo “conoscere” [34]. È chiaro che qui Paolo sta mettendo a contrasto due modi di conoscere: quello del passato (“abbiamo conosciuto”), che era una conoscenza di Cristo “secondo la carne” e quello del presente (“ora però non lo conosciamo più così”). “Quando lui [Paolo] dice ‘Noi abbiamo conosciuto in altro tempo Cristo secondo la carne’ (5,16) si riferisce ovviamente alla conoscenza che aveva di Cristo quando come fariseo perseguitò i cristiani (Gal 1,13; Fil 3,6). Egli condivideva l’opinione comune tra i suoi coetanei che Gesù fosse un maestro eretico e un agitatore turbolento le cui attività l’avevano portato giustamente al patibolo. Questa – egli lo sa – è una valutazione falsa, e l’abbandona. Adesso riconosce Gesù come Salvatore”[35]. Questo ci consente di capire il senso della conoscenza “secondo la carne”. La conoscenza di Cristo “secondo la carne” è una conoscenza di Cristo secondo la sua misura, la sua capacità umana di conoscenza, che l’aveva portato a una valutazione di Cristo che l’avvenimento di Damasco aveva mostrato falso[36]. Leggiamo infine il testo nella nuova versione italiana: “Quindi, da ora in poi, noi non conosciamo più nessuno da un punto di vista umano; e se anche abbiamo conosciuto Cristo da un punto di vista umano, ora però non lo conosciamo più così”.
Che Paolo dia alla rivelazione accaduta sulla via di Damasco il valore di conoscenza si vede nel fatto che il contenuto di questa rivelazione diventa il metro di giudizio fondamentale per valutare ogni cosa[37]. “Cristo gli aprì gli occhi e, una volta che lo ebbe conosciuto, i suoi criteri di giudizio furono semplicemente rovesciati”[38]. Nulla lo rende più evidente che il testo in cui egli ci fa vedere che novità si è introdotta nel giudicare questo evento: “circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo”[39].
Paolo è poi obbligato a rivedere tutte le categorie fondamentali del suo pensiero, le sue vecchie convinzioni, alla luce della nuova conoscenza di Cristo[40]. Il risultato di questa revisione e la nuova mentalità derivatane costituiscono ciò che chiamiamo teologia paolina[41].
“Quella rivelazione del ‘Signore della gloria’ crocifisso (1Cor 2,8) fu un avvenimento che rese Paolo, il fariseo, non soltanto un apostolo, ma anche il primo teologo cristiano”[42]. Per questo i tentativi di spiegare la teologia paolina a partire da altri punti sorgivi diversi da quell’evento sono falliti. Secondo J. Jeremias, né l’ambiente ellenistico né l’educazione giudaica costituiscono la chiave per comprendere il pensiero e la vita di Paolo: “né la religione misterica, né il culto dell’imperatore, né la filosofia stoica né il presunto gnosticismo precristiano costituiscono l’humus originario dell’apostolo. [...] Paolo è uno di quegli uomini che hanno sperimentato una violenta rottura con il passato. La sua è una teologia radicata in una conversione repentina”[43].
Per questo “la finalità dell’intera teologia dell’apostolo è in ultima istanza la spiegazione della rivelazione del Figlio di Dio, che ebbe luogo sulla via di Damasco. Questa è l’origine da cui nasce il suo pensiero e da cui egli parte per elaborare la sua teologia. È chiaro che al momento della sua vocazione non era ancora cosciente della portata della rivelazione, che doveva essere il suo vangelo. Ma in nuce tutto il resto era già presente. Concretamente, la rivelazione è proprio il fatto che Gesù è il Figlio di Dio”[44].
Questo non vuol dire che Paolo capisse tutto fin dall’inizio. Osserva J. Fitzmyer: “Affermare il carattere decisivo di questa visione per la penetrazione del mistero di Cristo non significa che Paolo abbia compreso immediatamente tutte le implicazioni della visione che gli fu concessa. Ma gli fornì il criterio valutativo di base, che avrebbe illuminato tutto quello che doveva imparare su Gesù e la sua missione tra gli uomini, non solo nella tradizione della Chiesa primitiva, ma anche nella sua esperienza apostolica personale di predicatore del ‘Cristo crocifisso’ (Gal 3,1)”[45]. Con questo nuovo criterio valutativo Paolo fu costretto a rivedere tutte le sue convinzioni fondamentali: dalla legge alla storia della salvezza, dal culto alla lettura della Scrittura. Tutto è visto alla nuova luce di quest’evento. È ovvio che non possiamo rivedere ciascuno di esse. Ci soffermeremo su due esempi, ognuno portatore di una indicazione decisiva.

Il velo di  Mosè                                                                                                                                        A nessuno risulterà a questo punto strano che il cambiamento operato in Paolo come conseguenza dell’avvenimento sulla via di Damasco abbia influenzato il suo modo di leggere la Scrittura, strumento decisivo per formulare la nuova mentalità e per spiegare il mistero di Cristo; infatti, Paolo si servì come mezzo per esprimere la novità cristiana, di cui ora partecipava, proprio le Sacre Scritture di Israele, l’Antico Testamento[46]. Ma in che cosa consisteva la novità del suo avvicinamento alla Scrittura?
Nel corso della storia, il terzo capitolo della Seconda Lettera ai Corinzi è stato il punto di riferimento fondamentale per comprendere questa novità, quella che chiameremo l’ermeneutica paolina[47]. Questo capitolo fa parte dell’apologia che Paolo fa del suo ministero di apostolo, confrontandolo con quello di Mosè, cui fanno appello i suoi avversari[48]. In esso Paolo contrappone l’effimero ministero della lettera, che è ministero di morte e di condanna, al perenne ministero dello Spirito che dà vita, un ministero di giustizia[49]. Sebbene anche il primo sia un ministero glorioso, la sua gloria non è paragonabile a quella del secondo. “Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo”[50].
Se il ministero apostolico di Paolo è così glorioso da risplendere tra tante tribolazioni per la sua capacità d’introdurre una novità nella vita, allora perché non viene accolto tra gli ebrei? Questa mancanza di una risposta, non è forse segno della sua inautenticità?[51] Per controbattere a questa obiezione al proprio ministero formulata dai suoi avversari ebrei, Paolo ricorre al racconto del velo di Mosè[52] contenuto nel libro dell’Esodo[53]. E comincia dicendo: “Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero”[54]. L’apostolo con il participio (katargoumenou) si riferisce al fatto che lo splendore di Mosè, che si identifica con quello dell’antica legge, sparirebbe al manifestarsi del mistero di Cristo in tutta la sua pienezza[55]. Questa manifestazione, che ebbe luogo durante la resurrezione di Gesù, inaugura un ministero di gloria duraturo, fonte di una speranza che permette a Paolo di procedere in tutta libertà, senza la necessità di ricorrere, come Mosè, a un velo che ne occulti la scomparsa.
Subito dopo però Paolo utilizza la parola “velo” per designare un altro fatto che avviene presso una parte del popolo ebraico, quella che continua, per zelo verso i supposti diritti del Dio di Israele, a rifiutare Gesù (e con Lui il Suo vangelo, i predicatori dello stesso e quella parte degli ebrei che lo ha accolto)[56]. “Ma le loro menti furono accecate; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”[57]. Nelle riflessioni dell’Apostolo il velo è ciò che ricopre il cuore, ossia gli occhi dell’intelligenza di questi ebrei ostili, di modo che quando ogni sabato la legge (l’Antico Testamento) viene letta nelle loro sinagoghe, essi non vedano la realtà, ossia quello che Gesù Cristo ha rappresentato con la sua predicazione, morte e resurrezione. Finché non si toglieranno (o finché Dio non toglierà) il velo dal loro cuore, non crederanno in Gesù Cristo, e quindi non comprenderanno pienamente l’Antico Testamento[58]. La relazione tra la fede in Cristo e la vera comprensione della Scrittura è fondata sul fatto che, come dice lo stesso Paolo all’inizio della lettera ai Romani, “il vangelo di Dio”, che è il vangelo “riguardo al Figlio suo … Gesù Cristo” Dio lo “aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture”[59]. Per questo possiamo dire con A. Vanhoye che “per quelli che leggono le Scritture senza riconoscere che parlano di Gesù Cristo, l’AT è un libro il cui significato rimane velato (2Cor 3,14)”[60].
Qui tuttavia Paolo non ci dice soltanto che l’Antico Testamento continua a essere velato per chi non crede in Cristo, ma anche come si può rimuovere il velo che ne impedisce la comprensione. Con un tratto stilistico di grande bellezza, che impiega con una certa frequenza per dire ai destinatari delle lettere come si toglierà il velo, Paolo utilizza le parole dell’Esodo[61] in cui l’autore sacro descrive come Mosè, rivolgendosi a Dio per parlarGli, si toglieva il velo. Allo stesso modo, questi ebrei che non vedono la verità di Gesù per il velo posato sui loro cuori possono raggiungere la ricca fonte di speranza costituita dal Vangelo attraverso un’unica via: questa via consiste nel rivolgersi a Dio, perché l’unico Dio di Israele è quello che si è manifestato nella resurrezione di Gesù.
Anche se non è così immediato seguire quella che è stata denominata la “forma midrashica di argomentazione”[62] di Paolo, perché è molto lontana dal nostro modo di ragionare, lo scopo dell’allusione al velo di Mosè in questo contesto è chiaro. Ricorrendo all’immagine del velo, Paolo vuol dire, secondo M. Thrall, che “nella vita della sinagoga rimane attivo ‘lo stesso velo’, la stessa barriera per la comprensione della finalità della Legge di Mosè, già presente come all’epoca di Mosè. [Questo velo] è ancora posto sull’AT, durante la lettura”[63]. La barriera che ostacola la percezione del significato della Scrittura sparisce definitivamente solo con l’arrivo di Cristo[64]. In tal caso, le critiche giudaiche al ministero di Paolo, o in senso più generale al cristianesimo, basate sulla comprensione ebraica dell’Antico Testamento mancano di fondamento[65]. Ma, come abbiamo visto, ciò non è sufficiente. Perché Cristo sveli il significato dell’Antico Testamento si richiede, da parte di chi lo legge, di rivolgersi al Signore, ossia al Dio che si è manifestato in Gesù Cristo[66].
L’importanza di questo testo per l’interpretazione della Scrittura è evidente. Secondo D.-A. Koch, il passo è un testo chiave, dato che è l’unico in cui Paolo affronta esplicitamente, seppure in modo indiretto, la questione dell’ermeneutica[67]. In esso, Paolo stabilisce le condizioni per la comprensione della Scrittura. Forse non risulterà inutile ricordare in questo contesto che coloro a cui Paolo rimprovera di leggere la Scrittura coperta da un velo che impedisce loro di comprenderne il vero significato sono giudei (e non possono essere altro che giudei)[68]. È ben noto il complesso sistema di regole ermeneutiche generato dal giudaismo per la comprensione dell’Antico Testamento[69]. Anche se ai tempi di Paolo questo sistema non era ancora arrivato alla complessità che più tardi sarà testimoniata dalla letteratura rabbinica, sappiamo che aveva già raggiunto un certo grado di sofisticazione[70]. Nonostante questo spreco di energie e d’ingegno, Paolo sostiene che la lettura rimane velata finché non si rivolgeranno al Signore, ossia al Dio che si è manifestato durante la morte e la resurrezione di Cristo (poiché non vi altro Dio oltre quello che si è manifestato in Cristo). In questo modo Paolo stabilisce il principio fondamentale della sua ermeneutica: l’interpretazione della Scrittura non è in ultima istanza una questione tecnica, ma teologica. Tutta l’abilità e tutta la perspicacia dei rabbini non sono in grado di attraversare il sottile velo che li separa da una reale comprensione. Qualsiasi sforzo umano non basta ad attraversarlo. Paolo lo sapeva per esperienza personale. Descrivendo la fase giudaica della sua vita, non può far altro – l’abbiamo visto – che riconoscere come nel giudaismo superasse “la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri”[71]. Questo zelo lo aveva portato a studiare presso uno dei rabbini più prestigiosi del suo tempo, Gamaliele. Munito di questo bagaglio, era convinto di comprendere le tradizioni meglio dei seguaci di Colui che a suo parere le metteva in pericolo, e così secondo lui era legittimo perseguitarLo. Soltanto la grazia della rivelazione del Figlio, concessagli da Dio, ha permesso la rimozione del velo e con questo il reale raggiungimento del vero significato delle tradizioni ricevute.
In tal senso – per limitarci a citare un altro esempio del rinnovato interesse che negli ultimi trent’anni ha suscitato questo capitolo come testo chiave dell’ermeneutica paolina dell’Antico Testamento – P. Stuhlmacher ha richiamato l’attenzione sul vincolo tra l’esperienza di Paolo sulla via di Damasco e 2Cor 3,14, testo in cui Paolo rende esplicito il fondamento della sua ermeneutica. 2Cor 3,14 mostra – secondo il professore di Tubinga – che l’esperienza di Paolo lo ha costretto a concludere che sulla lettura e l’interpretazione della legge era posto un ‘velo’ che occultava al giudeo il suo vero significato e, di conseguenza, gli impediva di giungere a una vera comprensione di Cristo. In Cristo questo velo scompare, rendendo così possibile una vera comprensione della Legge. Secondo Stuhlmacher, l’esperienza cristologica di Paolo è il punto di appoggio sia della sua visione della Legge, sia della sua ermeneutica dell’Antico Testamento[72]. Il principio ermeneutico cristologico tuttavia non impedisce a Paolo l’utilizzo delle tecniche esegetiche del suo tempo, come dimostra anche il testo che stiamo commentando. Lo studio dell’uso dell’Antico Testamento nelle lettere rende manifesto il fatto che Paolo abbia messo al servizio di questo principio ermeneutico, ancorato alla sua esperienza, tutte le sue conoscenze di esperto rabbino. Molte citazioni dell’Antico Testamento che troviamo nelle sue lettere sono così complesse che si possono spiegare solo col fatto che Paolo aveva acquisito una totale padronanza dei metodi esegetici del suo tempo. Principio cristologico e principio razionale, ossia l’impiego di determinate tecniche di interpretazione, non sembrano dunque assolutamente contrapposti nell’uso che ne fa Paolo. Lo dimostra il fatto che l’utilizzo dei testi dell’Antico Testamento da lui citati non è assolutamente arbitrario, ma particolarmente accurato nel rendere il loro significato originale nei rispettivi contesti[73]. Le regole ermeneutiche tuttavia non sono usate in modo neutro, ma alla luce dell’avvenimento che ha determinato la sua vita. Sottolinea M. Hooker: “La differenza fondamentale tra Paolo e i suoi contemporanei non è, dunque, una questione di metodo, dato che egli usa tecniche che ad essi erano familiari, anche quando a noi risultano estranee. [La differenza] consiste piuttosto nell’accettazione del fatto che Cristo stesso è la chiave del significato della Scrittura”[74]. E la ragione di questa differenza si basa, secondo la studiosa, sul fatto che, avvicinandosi alla Scrittura, “Paolo parte dall’esperienza cristiana e spiega la Scrittura alla luce di questa esperienza”[75]. In questo modo Paolo ci insegna una volta per tutte che la contemporaneità di Cristo è l’unica in grado di svelare il senso della Scrittura. Ieri come oggi.

La stoltezza dei Gàlati

Ma come può conoscere Cristo uno che non abbia la grazia che ha avuto Paolo di una apparizione di Cristo risorto? Come può partecipare all’avvenimento che gli consenta di fare esperienza di Cristo per poter conoscerlo? Quanto accadde nelle chiese della Galazia è altamente significativo e funge da esempio spettacolare.
I galati hanno avuto notizie di Cristo attraverso l’annuncio del vangelo grazie all’attività missionaria dell’Apostolo. L’accoglienza di questo annuncio da parte dei Galati ha consentito loro di fare l’esperienza che Paolo sintetizza meravigliosamente in queste parole: “Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”[76]. E continua, poco oltre: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”[77]. L’incorporazione in un gruppo ben preciso, la comunità cristiana, attraverso un gesto determinato, il battesimo, dopo aver accolto il Vangelo, il cui contenuto è condiviso da Paolo con gli altri apostoli, da allora ha permesso ai Gàlati di avere esperienza della novità che Cristo ha introdotto nella storia. Questa esperienza è talmente reale che Paolo si appellerà ad essa per aiutare i Galati ad affrontare una situazione in qui si sono venuti a trovare.
Infatti, poco dopo essi vengono importunati da alcuni intrusi i quali annunciano “un altro vangelo”, che per la loro salvezza insieme con la fede in Cristo richiede la circoncisione e le opere della legge[78]. I Gàlati così si trovano davanti due versioni del ‘vangelo’, e devono prendere una decisione. Sorpreso dalla rapidità con cui essi stanno passando a un ‘vangelo’ diverso da quello che ha predicato[79], Paolo scrive la lettera per dimostrare che “non ce n’è un altro”, ma solo quello che ha annunciato loro e ciò che li sta ammaliando non è altro che una deformazione dell’unico Vangelo di Cristo[80]. Per questo, nella prima parte racconta la sua storia personale: come ha conosciuto il Vangelo per rivelazione e come questo Vangelo che predica è l’unico Vangelo, corrispondente a quello degli altri apostoli, come dimostra il fatto che quando lui aveva esposto il vangelo che predicava tra i gentili direttamente alle colonne della Chiesa di Gerusalemme (cioè Pietro, Giovanni e Giacomo), non solo non gli imposero né aggiunsero nulla di nuovo[81], ma gli tesero la mano in segno di comunione, come riconoscimento della “grazia a me conferita”[82] sulla via di Damasco.
Ma Paolo non si limita a questo, e nella seconda parte della lettera fornisce ai travagliati Gàlati gli argomenti con cui potersi difendere dagli attacchi che stanno ricevendo. Paolo sa per esperienza personale che fu portato a convincersi della verità di Cristo dall’esperienza del suo incontro con Lui. Tenendo conto di questo fatto, non risulta strano che l’apostolo in questa seconda parte cominci appellandosi all’esperienza dei Gàlati. Ecco il testo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti per virtù dello Spirito, attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo”[83].
In questo passo Paolo mette in primo luogo davanti agli occhi dei Gàlati il fatto che abbiano ricevuto lo Spirito, e i prodigi che questo Spirito ha operato tra loro. Come osserva acutamente Vanhoye, “nel contesto si tratta necessariamente di un fatto osservabile, constatabile. Altrimenti non potrebbe servire come argomentazione”[84]. Proprio perché è un fatto verificabile, i Gàlati hanno potuto fare l’esperienza dello Spirito, e ciò permette a Paolo di appellarsi a questa esperienza come criterio decisivo per chiarire il dilemma che ora devono affrontare. Per questo, – ha sottolineato J. Dunn – “appellarsi all’esperienza da parte di Paolo non è un fatto periferico o casuale. È al centro della sua intenzione di trattenere i Galati all’interno del suo vangelo”[85].
Prima di continuare è necessario soffermarsi brevemente sul valore del verbo pascheinperché sul suo significato è nata una vivace discussione. La ragione di questa discussione si basa sul fatto che il verbo è sempre usato con il significato di ‘soffrire’ [86]. Per questo motivo commentaristi antichi e moderni hanno interpretato l’epathete di 3,4 come un’allusione ai patimenti sofferti dai Gàlati in conseguenza della loro adesione alla fede[87]. Se ora la abbandonassero, passando a un altro ‘vangelo’, tutte queste sofferenze sarebbero state vane. Tuttavia la letteratura greca documenta anche casi in cui paschein viene usato rispetto a esperienze favorevoli, positive, prive di sofferenza[88]. Per questo recentemente alcuni studiosi hanno interpretato il verbo in questione nel nostro testo nel senso di ‘sperimentare, fare l’esperienza di qualcosa di positivo’. A loro parere, questo è l’unico significato adeguato al contesto in cui compare il verbo nel nostro testo, in cui Paolo si sta appellando all’esperienza positiva vissuta dai Gàlati quando hanno ricevuto lo Spirito e, in seguito, ai miracoli che lo Spirito ha realizzato fra di loro[89]. Secondo F. Mussner, “tosauta può designare unicamente i doni dello Spirito e i ‘prodigi’ che discendono da lui (cfr. 5,5). Il verbo paschein ha anche un significato positivo: ‘sperimentare’ (qualcosa di buono)”[90]. Il fatto che Paolo non alluda in nessun altro passo della lettera a sofferenze vissute dai Gàlati – diversamente da quello che dice, per esempio, dei Tessalonicesi, che ricevettero e mantennero la loro fede fra gravi tribolazioni[91] –, è per questi studiosi una conferma dell’uso positivo del verbo in tale contesto. Dato che il verbo paschein può avere il significato più neutro di ‘sperimentare’, e che la scelta del significato è determinata dal contesto, orientato interamente verso un tenore positivo, possiamo concludere che con esso Paolo si sta riferendo alle esperienze positive vissute dai Gàlati dal momento in cui decisero di ricevere il vangelo di Paolo. Scrive R. Longenecker “Per questo tosauta epathete deve essere interpretato con ogni probabilità come riferito all’insieme di esperienze spirituali positive”[92].
Ma che cosa significa ‘ricevere lo Spirito’[93]? È ben noto che a partire da H. Gunkel le opinioni sono concordi e si possono sintetizzare con queste parole: “La teologia del grande apostolo è un’espressione della sua esperienza, non delle sue letture… Paolo crede nello Spirito divino, perché lo ha sperimentato”[94]. Uno degli ultimi studi sulla questione non ha fatto altro che confermare questo convincimento: per Paolo lo Spirito era una realtà sperimentata[95]. Ma Paolo, nella sua concisione, non ci ha facilitato: non ci fornisce una descrizione esplicita dei fatti cui si riferisce, che certamente erano noti ai Gàlati (ma non a noi). Possiamo però essere certi che non furono troppo diversi da quelli enumerati in Gal 5,22, quando Paolo fa un elenco dei frutti che lo Spirito produce in coloro che lo ricevono: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”. In altre parole: il cambiamento dell’io. Inoltre, nel nostro passo troviamo l’altra espressione energôn dynameis, “colui che opera miracoli”. Si tratta di un’azione presente, lo dimostra il participio presente energôn. Come leggiamo in 1Cor, dove “il dono di far guarigioni” e “il potere dei miracoli” (energêmata dynameôn) sono attribuiti allo Spirito. Questi fatti accertabili costituiscono l’esperienza dei Gàlati. “Qui l’obiettivo è ricordare ai Gàlati un genere di esperienze sufficienti a dimostrare che essi hanno ricevuto lo Spirito escatologico”[96].
Dopo aver messo loro di fronte le grandi cose (tosauta epathete) di cui hanno fatto esperienza, può porre la questione decisiva: “Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge [perché siete fedeli alla legge ebraica] o perché avete creduto alla predicazione [all’annunzio cristiano]?”[97]. Se saranno onesti e leali rispetto all’esperienza vissuta, potranno riconoscere attraverso di essa che le grandi cose successe a loro non hanno origine dall’osservanza della legge, dato che il Vangelo predicato da Paolo non la includeva come fattore determinante, ma soltanto dall’ascolto della fede. Soltanto la fede è l’origine dei frutti che vedono con i loro occhi! Questo è il motivo per cui conviene che continuino ad abbracciare il Vangelo che ha prodotto tra loro tanti frutti preziosi.
Appellandosi dunque alla loro esperienza, Paolo offre al contempo il metodo per uscire dallo stato di perplessità in cui si trovano: tutte queste esperienze positive non significano nulla per voi, quando vi trovate di fronte al dilemma se continuare con lo Spirito o tornare alla legge giudaica?[98]. Saranno state vane? Come l’esperienza sulla via di Damasco, cui l’Apostolo ha fatto allusione all’inizio della lettera, ha permesso a Paolo di riconoscere la verità su Cristo (e quindi di scegliere ragionevolmente tra le due interpretazioni della persona di Gesù, quella degli ebrei seguaci del sinedrio e quella cristiana), così l’esperienza dei Gàlati è ciò che permette loro di decidere in modo ragionevole tra le due interpretazioni del Vangelo. Certamente Paolo è cosciente del fatto che sono esperienze di natura molto diversa. Ma questa differenza non sminuisce la loro validità. Nel caso di Paolo l’esperienza dell’incontro con Cristo risorto gli fa conoscere in modo diretto, immediato, la vera realtà di Cristo. Nel caso dei Gàlati il modo per arrivare a conoscere la realtà profonda di Cristo ha seguito un altro corso, non per questo meno adatto a giungere a una certezza. I Gàlati hanno davanti segni palpabili della Sua presenza in mezzo a loro grazie all’azione condotta dallo Spirito attraverso la predicazione, il battesimo, eccetera. Sanno bene che questi segni sono iniziati a partire dal momento in cui hanno deciso di ricevere il Vangelo di Gesù. Sono dunque segni che non possono essere spiegati ragionevolmente se non con la presenza di Cristo risorto in mezzo a loro a opera dello Spirito. Per strade diverse, tanto Paolo quanto i Gàlati ne possono essere certi. Questo dovrebbe convincerli della verità del vangelo di Paolo. La loro esperienza permette che giudichino da soli, senza dipendere né da Paolo né dagli intrusi. Qui risiede il valore dell’appellarsi di Paolo all’esperienza: è in essa che si rende trasparente la verità del Vangelo che Paolo ha predicato loro.
Tutto ciò permette di comprendere la reale portata dell’accusa di ‘stoltezza’ mossa da Paolo ai Gàlati. “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati”[99]. Con essa – commenta Vanhoye – “quello che [Paolo] cerca è di provocare la presa di coscienza da parte dei Galati della loro ‘stoltezza’”[100]. In che cosa consiste la loro stoltezza? Nonostante quanto si è reso evidente grazie alla loro esperienza – ossia che la loro adesione al Vangelo ricevuto da Paolo ha procurato straordinari benefici, come documenta ciò che è loro successo –, i Gàlati sono sul punto di lasciare tutto per seguire un altro ‘vangelo’. La stoltezza dei Gàlati, la loro posizione irragionevole, si basa sul non voler sottomettere la ragione all’esperienza vissuta. Se non si lasciassero ammaestrare da questa esperienza, essa risulterebbe realmente vana. Come ha acutamente notato J. Bligh, “se l’esperienza non ha insegnato loro nulla, allora è stata vana”[101]. Invece di fornire ulteriori motivi a favore della loro adesione a ciò che hanno ricevuto, tutto quello che hanno vissuto fino a ora sarebbe paradossalmente stato inutile. “L’esperienza cristiana dimostra l’efficacia salvifica della fede senza alcun riferimento alle opere della legge. Questo fatto iniziale è fondamentale. Il seguito deve corrispondere all’inizio, deve mantenersi sullo stesso piano. I Gàlati però stanno cambiando livello. Dal livello spirituale, dove li ha posti la fede, scendono al livello carnale. È assurdo. Non sono coerenti con la loro propria esperienza. Dio, invece, è coerente, non inizia in un modo per continuare in un altro. Come ha iniziato, così continua, ossia comunica lo Spirito non attraverso le opere della legge, ma attraverso l’ascoltare/ricevere la fede”[102].
Ancora una volta dunque ciò che permette di discernere tra le diverse interpretazioni non è una questione tecnica, ma teologica, o meglio cristologica. È l’avvenimento di Cristo morto e risorto – che per opera dello Spirito si rende presente nella Chiesa e attraverso la Chiesa, comunicandosi alla ragione e alla libertà dell’uomo – a rendere possibile un’esperienza che permette di decidere in ogni momento rispetto alle diverse interpretazioni che possono comparire nel corso della storia umana.

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L’esperienza di Paolo e dei Gàlati ci ha mostrato qual è la condizione per conoscere Cristo: la partecipazione all’avvenimento in cui Lui si rende presente all’esperienza umana. In questo senso possiamo dire che Paolo e i Gàlati sono una documentazione che la conoscenza è sempre un avvenimento. Nessun altro metodo può darci una vera e propria conoscenza. Perché? Vediamolo nel caso di Paolo coi Gàlati.
Tanto l’uno quanto gli altri sono nati in un popolo che li ha introdotti alla realtà attraverso una cultura. A entrambi, così situati storicamente, quindi dotati della tipica precomprensione, va incontro Cristo (direttamente come nel caso di Paolo, oppure attraverso la Chiesa, come per i Gàlati) provocando in loro il dilatarsi della ragione, chiamata a riconoscere la novità che hanno davanti, come succedeva ai discepoli, la cui “capacità di credere”, dice H.U. v. Balthasar, era “completamente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù”[103]. Avvenimento cristiano e ragione non si contrappongono nella conoscenza. Al contrario, come si vede dalla questione del velo mosaico, l’avvenimento cristiano libera la ragione dai limiti cui normalmente si conforma seguendo le usanze della propria cultura e tradizione, la restituisce al suo dinamismo più specifico, ossia all’aprirsi liberamente alla comprensione della totalità della realtà, e nella sua novità radicale, come presenza di Dio tra gli uomini, la porta gratuitamente più in là di dove arriverebbe con le sue proprie forze[104].
Quando la libertà di coloro che incontrano l’avvenimento cristiano non si sottrae all’attrazione che la Sua presenza provoca in essi, inevitabilmente si impegnerà a verificarne la corrispondenza con tutti gli aspetti della realtà, giungendo così alla certezza che permette la loro ragionevole adesione. Il caso dei Gàlati dimostra chiaramente che l’annuncio cristiano non viene accettato in modo acritico. Se Paolo si appella all’esperienza dei Gàlati, è precisamente perché non pretende una resa incondizionata al Vangelo – che sarebbe assolutamente indegna della loro natura razionale di uomini –, ma li invita semplicemente a sottomettere la loro ragione all’esperienza vissuta, di modo che quella non si erga a criterio di giudizio avulso da questa, rendendo così vana, inutile, la storia che hanno vissuto, e diventando così irrimediabilmente stolti. L’onestà e la lealtà verso l’esperienza vissuta permette invece di aderire in modo pienamente ragionevole e insieme pienamente libero.
Il caso di Paolo e dei Gàlati è paradigmatico in ogni momento della storia poiché, come per loro, l’avvenimento di Cristo diventa contemporaneo nella vita della Chiesa per ogni uomo, nelle sue circostanze storiche e culturali, permettendogli di vivere la stessa esperienza che consente di raggiungere la certezza sulla verità di ciò che essa annuncia. Questo è così perché, come dice H. Schlier, “il significato ultimo e peculiare di un avvenimento, e pertanto dell’avvenimento stesso nella sua verità, si apre sempre solo a un’esperienza che gli si abbandoni e in questo abbandono cerchi di interpretarlo, a un’esperienza che è vera, se è adeguata all’avvenimento in questione”[105].
Che questo è il metodo non soltanto dell’inizio, ma anche della continuazione della conoscenza ce lo testimonia Paolo nella Lettera ai Filippesi. Infatti l’unico modo di progredire nella conoscenza di Cristo è accettare di partecipare all’avvenimento di Cristo ora, nella potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti. Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù”[106]
Consapevole che progredire in questa conoscenza è un dono, come è stato un dono l’inizio, Paolo invita i cristiani di Efeso a implorare Dio Padre “affinché egli vi dia, secondo le ricchezze della sua gloria, di essere potentemente fortificati, mediante lo Spirito suo, nell’uomo interiore, e faccia sì che Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, perché, radicati e fondati nell’amore, siate resi capaci di abbracciare con tutti i santi quale sia la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo e di conoscere questo amore che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”[107].

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[1] Benedetto XVI, Omelia ai Primi Vespri della chiusura dell’Anno Paolino, 28 giugno 2009.
[2] Il fatto che anche coloro che rifiutano l’interpretazione di questo cambiamento fornita da Paolo credano nella necessità di offrire una spiegazione alternativa, mostra chiaramente che anch’essi lo riconoscono. Sulla storia dell’interpretazione si possono vedere: E. Moske, Die Bekehrung des hl. Paulus in der exegetisch-kritische Untersuchung, Roma 1907; E. Pfaff, Die Bekehrung des hl. Paulus in der Exegese des 20. Jahrhunderts, Roma 1942; B. Rigaux, Saint Paul et ses lettres. État de la question, Paris-Bruges 1961, 65-82. Si veda anche il classico: G. Lohfink, La conversione di san Paolo, Brescia 1969. Un resoconto più recente delle diverse interpretazioni dell’avvenimento sulla via di Damasco si trova in A.M. Buscemi, San Paolo. Vita opera messaggio, Jerusalem 1996, 40-44.
[3] Gal 1,13-16.
[4] Mc 7,3.
[5] Fil 3, 4-6.
[6] Fil 3,1.
[7] Gal 1,14.
[8] At 22,3.
[9] Fil 3,4-6.
[10] Gal 1,13.16.
[11] De specialibus legibus II, 55.
[12] Cfr. Nm 25, 6-13.
[13] Cfr. 1Re 19,9-14.
[14] Cfr. Gal 1,13.23.
[15] Cfr. BJ 4,534.
[16] Cfr. Rm 10,2-3.
[17] Cfr. Rm 12,2-3.
[18] At 9,26-29.
[19] C.K. Barrett, Paul. An Introduction to His Thought, Louisville 1994, 10 [La teologia di san Paolo. Introduzione al pensiero dell’apostolo, trad. it. di M.E. Maffeis, Cinisello Balsamo 1996].
[20] Gv 20,14.18.20.25.27.29; Mt 28,10.17; Lc 24,37.39.
[21] S. Légasse, Paul Apôtre, Paris 1991, 62 [Paolo apostolo. Saggio di biografia critica, Roma 1994].
[22] L. Giussani, Il miracolo del cambiamento, Esercizi della Fraternità di Cl 1998, supplemento a “Tracce”, n. 7 luglio-agosto 1998, 13. Sull’esperienza si vedano: J. Mouroux, L’esperienza cristiana, Brescia 1956; H.U. von Balthasar, Gloria. 1. La percezione della forma, Milano 1975, 201-392; J. Ratzinger, Elementi di teologia fondamentale: saggi sulla fede e sul ministero, Brescia 1986; A. Bertuletti, Il concetto di esperienza, in AA.VV., L’evidenza e la fede, Milano 1988, 112-181; A. Scola, Esperienza cristiana e teologia. Note introduttive, in Questioni di antropologia teologica, Roma 1997, 199-213.
[23] Cfr. A. Scola, Prometeo o il Risorto? Spiritualismo, tentazioni moderne e cristianesimo, Rimini 1998, 3. Afferma H.U. v. Balthasar, Gloria: “la capacità di credere dei discepoli è totalmente sostenuta ed operata dalla persona rivelatrice di Gesù” (162). E poco oltre: “La ragione non può inserire la chiave di volta senza che questa le venga consegnata nell’atto di fede” (174). Già P. Rousselot aveva richiamato l’attenzione sul fatto che la grazia amplifica la capacità di vedere, affinché la ragione non rimanga prigioniera dei suoi stessi criteri (cfr. P. Rousselot, Gli occhi della fede, Milano 1976). Prima di lui, nel 1870, aveva già troncato con un concetto razionalista di ragione H. Newman, Grammatica dell’assenso, Milano 2005.
[24] C. Geffré, Esquisse d’une théologie de la Révélation, in P. Ricoeur et al., La Révélation, Bruxelles 1984, 83: “Non esiste una vera rivelazione fintanto che non vi sia un’interiorizzazione di questa rivelazione in una coscienza umana. Non si può separare l’aspetto oggettivo della rivelazione di Dio nella storia, dal suo compimento nella fede del Popolo di Dio”.
[25] Per la conoscenza che un fariseo poteva avere di Gesù si veda J. Murphy-O’Connor, Paul. A Critical Life, Oxford 1996, 73-77 [Vita di Paolo, Paideia, Brescia 2003].
[26] J. Guitton, Arte nuova di pensare, Cinisello Balsamo 1991, 71.
[27] Paul, cit., 78-79.
[28] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995
[29] C.K. Barret, Paul, cit. 11.
[30] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995.
[31] J. Murphy-O’Connor, Paul, cit., 79.
[32] Cfr. 2Cor 5,16.
[33] Per un approccio al testo, cfr. il classico J. Cambier, Connaissance charnelle et spirituelle du Christ dans 2 Co 5, 16, en Littérature et Théologie Pauliniennes (Recherches Bibliques V), Bruges 1960, pp. 72-92. Più recente: C. Wolff, True apostolic Knowledge of Christ: Exegetical Reflections on 2 Corinthians 5.14ff, en A. J. M. Wedderburn, Paul and Jesus. Collecte Essays ( JSNT.SS 37), Sheffield 1989, 81-98.
[34] A favore della tesi che kata sarka modifichi il verbo, cfr. F. C. Baur, Vorlessungen über neutestamentliche Theologie, Leipzig 1864, 131; A. Sand, Der Begriff ‘Fleisch’ in den paulinischen Hauptbriefen (Biblischen Untersuchungen 2), Regensburg 1967, 177; C. F. D. Moule, Jesus in New Testament Kerygma, en O. Bocker-K. Haacker (ed.), Verborum Veritas (Fst. G. Stählin), Wuppertal 1970, 17-18; J. W. Fraser, Paul’s Knowledge of Jesus: II Cor v. 16 Once More: NTS 17 (1970-1) 293-313, esp. 298; J.-F. Collange, Énigmes de la deuxième Épître de Paul aux Corinthiens (SNTSMS 18), Cambridge 1972, 260-261.
[35] J. Murphy-O’Connor, The Theology of the Second Letter to the Corinthians, 58.
[36] C. Wolff, True apostolic Knowledge of Christ: Exegetical Reflections on 2 Corinthians 5,14ff, in A.J.M. Wederburn, Paul and Jesus. Collecte Essays (JSNT.SS 37), Sheffield 1989, 88.
[37] Opportunamente J.D.G. Dunn, The Theology of Paul the Apostle, Edinburgh 1998, 723 [La teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1999], insiste sul fatto che Cristo ha continuato a essere il criterio valutativo fondamentale.
[38] G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Cittadella, Assisi 1995.
[39] Fil 3,5-8.
[40] Una presentazione sintetica dei punti che Paolo è obbligato a rivedere si trova in J.D.G. Dunn, The Theology of Paul, 723-726.
[41] Cfr. J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?, Paris 1994, 23-72 [Gesù Cristo. Unità del Nuovo Testamento?, Roma 1995].
[42] J. Fitzmyer, Teología de San Pablo. Síntesis y perspectivas, Madrid 1975, 62. Cfr. inoltre K. Stendhal, Paul Among Jews and Gentiles, 71.
[43] J. Jeremias, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Morcelliana 1973, 33. Cfr. anche S. Kim, The Origin of Paul’s Gospel, Tübingen 1984, 269-329 e 355-358; C. Dietzfelbinger, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie, Neukirchen-Vluyn 1985, 90-147.
[44] J. Gnilka, Paulus von Tarsus. Zeuge und Apostel, Freiburg-Basel-Wien 1996, 185 [Paolo di Tarso. Apostolo e testimone, trad. it. di V. Gatti, Paideia, 1998].
[45] J. Fitzmyer, Teología de San Pablo, cit., 64-65.
[46] In questo Paolo non si differenzia da altri esponenti della Chiesa antica, come ha segnalato B.S. Childs, Teologia biblica. Antico e Nuovo Testamento, Casale Monferrato 1998: “È chiaro che la testimonianza della Chiesa primitiva sul piano neoetico parte dalla consapevolezza di Cristo resuscitato e soltanto in un secondo momento torna all’AT, che utilizza come strumento della sua predicazione” (510).
[47] Questo testo è stato utilizzato in vari modi come principio ermeneutico: nella Chiesa antica e medievale come punto di appoggio per distinguere tra senso letterale e senso spirituale, nella Riforma come base per la contrapposizione fra Legge e Vangelo, eccetera. Un resoconto sulla questione del dibattito su questo capitolo si trova in S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel. The Letter/Spirit Contrast and the Argument from Scripture in 2 Corinthians 3, Tübingen 1995, 1-35.
[48] Generalmente si considera 2Cor 2,14-7,4 la più chiara apologia del ministero di Paolo. Afferma J. Lambrecht, Structure and Line of Thought in 2 Cor 2,14-4,6, Biblica 64 (1983): “2Cor 2,14-7,4, situato fra le sezioni autobiografiche 1,8-2,13 e 7,5-16, è generalmente considerato una parte indipendente di questa lettera paolina e spesso è chiamato più specificamente Apologia di Paolo, una difesa del suo ministero” (344-345); vi si può trovare anche la bibliografia corrispondente.
[49] Seppure in questi versi (3, 8-11) si possa riconoscere un’allusione a Es 34, è necessario tener conto dell’acuta osservazione di A. Vanhoye, L’interprétation d’Ex 34 en 2 Cor 3,7-14, in L. de Lorenzi (ed.), Paolo Ministro del Nuovo Testamento (2 Co 2,14-4,6), Roma 1987: “Dobbiamo evitare di deformare la prospettiva del testo, imponendogli la nostra. Nel testo, questa annotazione ha esclusivamente una funzione subordinata. La gloria del volto di Mosè non è menzionata di per sé, ma come indizio destinato a comprovare la gloria del ministero” (162). Riteniamo che questa osservazione valga anche per le altre allusioni, che si trovano nel resto del capitolo, a Es 34 e al suo contesto.
[50] 2Cor 3,11.
[51] C.A. Hickling, The Sequence of Thought in II Corinthians, Chapter Three: NTS 21 (1975): “Non è necessario aggiungere che il fallimento di Paolo nella conversione di un numero significativo di giudei possa essere stato un argomento particolarmente pungente dell’attacco sferratogli dai suoi avversari come oratore pubblico… e come missionario” (393). J. Lambrecht, Structure and Line of Thought in 2 Cor 2,14-4,6: “Paolo qui pensa in primo luogo ai giudei che non credono in Cristo, cui contrappone i cristiani” (378). M.E. Thrall, Conversion to the Lord. The Interpretation of Exodus 34 in II Cor. 3:14-18, in L. de Lorenzi (ed.), Paolo Ministro, cit.: in questo capitolo “Paolo sta rispondendo a una critica. L’origine più immediata di questa critica è la chiesa di Corinto, ma l’origine più remota sono i giudei non credenti della città, i cui commenti increduli e sprezzanti sul vangelo e il ministero dell’Apostolo hanno cominciato a preoccupare, per lo meno, alcuni membri della chiesa” (197). È noto che, mentre il tema della sezione precedente (3,7-13) è il ministero apostolico, a partire dal versetto 14 inizia una nuova sezione, che verte sull’incredulità dei giudei. Nella discussione seguita alla presentazione del lavoro di M.E. Thrall, il gruppo francofono teorizzò che all’inizio del capitolo seguente (4,2-3) si offre una spiegazione del vincolo che unisce i due temi: “L’incredulità di alcuni è una possibile obiezione contro la gloria del ministero evangelico” (241). Cfr. inoltre S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 367-368; L.L. Belleville, Reflections of Glory. Paul’s Polemical Use of the Moses-Doxa Tradition in 2 Corinthians 3,1-18 (JSNTSS 52), Sheffield 1991, 215.
[52] Questo passo ha dato origine a una vasta produzione letteraria. Oltre ai titoli che citeremo più avanti, si possono vedere: J. Goettsberger, Die Hülle des Moses nach Ex 34 und 2 Kor 3: BZ 16 (1922-24), 1-17; K. Prümm, Der Absnitt über die Doxa des Apostolats 2 Kor 3,1-4,6 in der Deutung des hl. Chrysostomus: Eine Untersuchung zur Auslegungsgeschichte des paulinischen Pneumas: Bib 30 (1949), 161-196 e 377-400; J. Dupont, Le chrétien, miroir de la gloire divine, d’après II Cor., III, 18: RB 56 (1949), 392-411; S. Schulz, Die Decke des Moses. Untersuchungen zu einer vorpaulischen Überlieferung in II Cor 3:7-18: ZNW 49 (1958), 1-30; W.C. Van Unnik, ‘With Unveiled Face’: An Exegesis of 2 Corinthians III 12-18: NT 6 (1963-64), 153-169; H. Ulonska, Die Doxa des Mose: EvT 26 (1966), 378-388; I.I. Friesen, The Glory of the Ministry of Jesus Christ. Illustrated by a Study of 2 Cor 2,14-3,18 (ThDiss VII), Basel 1971; E. Richard, Polemics, Old Testament, and Theology. A Study of II Cor III, 1-IV, 6: RB 88 (1981) 340-367; T.E. Provence, “Who is Sufficient for these Things?” An Exegesis of 2 Corinthians II 15-III 18: NT 24 (1982), 54-81; C.K. Stockhausen, Moses’ Veil and the Glory of the New Coventant (AnBib 116), Rome 1989.
[53] Cfr. 34,29-35.
[54] 2Cor 3,12-13.
[55] Rispetto all’apparente contraddizione tra questa affermazione sulla fine dell’antica legge e il costante ricorrere di Paolo a essa per fondare il suo vangelo, si tenga conto dell’osservazione di A. Vanhoye, Salut universel par le Christ et validité de l’Ancienne Alliance: NRT 16 (1994): “Gli scritti paolini distinguono nettamente due aspetti dell’AT: quello profetico e quello istituzionale. Essi attestano il valore permanente del primo, ma contestano radicalmente il secondo. A parere di Paolo e secondo la lettera agli Ebrei, l’AT come profezia annuncia la propria fine come istituzione; l’AT come rivelazione manifesta il carattere provvisorio della sua legislazione” (819) – per esempio in Rm 3,19; 3,21-22 –. Cfr. anche J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?, cit., 70. Sull’articolato rapporto di continuità e discontinuità fra Antico e Nuovo Testamento, cfr. P. Beauchamp, L’un et l’autre Testament. Essai de lecture, Paris 1976 [Saggio di lettura, Brescia 1985]; ID., L’un et l’autre Testament. 2. Accomplir les Écritures, Paris 1992 [Compiere le scritture, Milano 2001].
[56] C.J. Hickling, The Sequence of Thought, segnala che l’irrigidimento di Israele, citato nel passo dell’Esodo, può essere stato un “fattore che ha fatto passare Paolo dalla scena ai piedi del Sinai all’irrigidimento di molti giudei suoi contemporanei. Obiettivo della discesa dal Sinai era stata infatti la seconda consegna della legge, resasi necessaria per l’apostasia di cui Paolo fa un uso allegorico nella precedente lettera ai Corinzi (10,7-10): come la nuova alleanza di Ger 31,31, questa diakonia di Mosè fu un risultato della disobbedienza del popolo a un’alleanza divina precedente. Il pensiero che il peccato di Israele, alla fine del periodo del Sinai, avesse reso necessaria una nuova azione da parte di Dio ha potuto suggerire la riflessione sul fatto che il peccato persisteva, anche prima della dichiarazione di questa nuova alleanza” (392). Anche S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 191-231, ha richiamato l’attenzione sul ruolo rilevante della durezza di cuore degli israeliti dei tempi di Mosè nel contesto in cui è situato il passo del velo (Es 32-34).
[57] 2Cor 3,14-16.
[58] S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, in uno degli ultimi studi pubblicati su 2Cor 3, insiste sul fatto che il velo non è collocato sopra la Scrittura, ma sui cuori dei giudei quando leggono la Scrittura, e pertanto non ci troviamo di fronte a “un rimando a un occultamento divino della chiave ermeneutica delle Scritture, affinché Israele sia incapace di vedere che il vero significato della Legge è rappresentato da Cristo”. Secondo l’autore, “non è la lettura dell’AT a essere velata, ma Israele quando la legge”. E aggiunge: “Il problema posto dal velo non è dunque un’incapacità conoscitiva dovuta alla mancanza di uno speciale dono spirituale, ma l’incapacità volitiva come risultato di una durezza di cuore che non si lascia toccare dal potere di trasformazione dello Spirito”. L’incapacità non è quindi intellettuale, ma morale. Tuttavia lo stesso studioso riconosce che i due aspetti non si contrappongono, come dimostra questa annotazione: “Koch e coloro che condividono il suo punto di vista hanno ragione sul fatto che 3,14-16 induce a concludere che la possibilità di comprensione della Scrittura è data soltanto a chi si converte al Signore. Ma si ingannano sul motivo” (373-374). Questi due aspetti non devono essere contrapposti perché, come ha dimostrato R. Jewett, Paul’s Anthropological Terms. A study of their use in conflict Settings (AGJU 10), Leiden 1971, per Paolo “il cuore come centro dell’uomo è considerato la fonte dell’amore, dell’emozione, dei pensieri e degli affetti” (448). Ricorda M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians (CIC), Edinburgh 1994: “L’attuale situazione è parallela a quella dell’epoca degli eventi del Sinai, sia rispetto al ‘velo’ sul reale significato dell’AT (v. 14b), sia rispetto alla mancanza di comprensione da parte dei giudei” (266).
[59] Rm 1,2-4. Questo non è l’unico caso: si vedano Rm 1,16-17; Gal 3,8; 1Cor 15,3-4.
[60] A. Vanhoye, Salut universel par le Christ et validité de l’Ancienne Alliance, 818-819. D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangeliums, interpreta la metafora di 3,14 nello stesso senso: “l’occultamento della Scrittura, che nasconde la sua comprensione, è fugato soltanto in Cristo” (337).
[61] Cfr. 34,34.
[62] J.A. Fitzmyer, Glory reflected on the face of Christ (2 Cor 3:7-4,6) and a Palestinian Jewish Motiv, TS 42 (1981), 631. Da quando H. Windish, Der zweite Korintherbrief, Göttingen 1924, ha catalogato questo passo come “midrash cristiano” (112), altri studiosi lo hanno seguito: C.J.A. Hickling, The Sequence of Thought, 380-395; A.T. Hanson, The Midrash in II Corinthians 3: A Reconsideration, JSNT 9 (1980) 2-28. L’uso dell’AT fatto da Paolo in questo testo è stato oggetto di un acceso dibattito tra gli studiosi. Alcuni sostengono che qui Paolo usa il testo di Es 43,29-35 in modo del tutto libero, addirittura contraddittorio rispetto al significato originale del testo. Un resoconto sullo stato della discussione si trova in S.J. Hafemann, Paul, Moses and the History of Israel, 255-263. Fra i sostenitori della reinterpretazione si può annoverare M. Hooker, Beyond the things that are written? St. Paul’s use of the Scripture, NTS 27 (1980) 295-309. Tra i difensori della fedeltà di Paolo al contesto originale: W.J. Dumbrell, Paul’s use of Exodus 34 in 2 Corinthians 3, in P.T. O’Brien & D.G. Peterson (ed.), God Who is Rich in Mercy, Fst. D.B. Knox, Homebush West NSW 1986, 179-194: “Paolo non solo fa un uso aderente al contesto di Esodo 34, ma fonda totalmente su di esso i suoi argomenti con gli interlocutori. Naturalmente sarebbe stato interpretato e applicato in modo diverso da Paolo e dai giudei. Tuttavia, qui per noi la chiave del processo interpretativo è rappresentata dal compimento cristologico su cui Paolo si concentra” (190).
[63] M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians, 263 [Seconda lettera ai Corinti, Brescia 2007].
[64] Cfr. M.E. Thrall, The Second Epistle to the Corinthians: “Paolo vuol suggerire che, con l’avvento di Cristo, l’ostacolo alla percezione viene rimosso definitivamente” (266).
[65] M.E. Thrall, Conversion to the Lord, 202.
[66] M.E. Thrall, Conversion to the Lord: “Per Paolo è solo attraverso la conversione al Signore che può aver luogo la corretta comprensione del Pentateuco” (236).
[67] Cfr. D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangelium, 331. Lo stesso sostiene J.-N. Aletti, Jésus-Christ fait-il l’unité du Nouveau Testament?: “È il principio stesso della lettura delle Scritture a partire da Cristo ciò che Paolo afferma esplicitamente in 2 Cor 3,14. In effetti, dice, i giudei che leggono l’AT (palaia diatheke) senza alcun vincolo con Gesù di Nazaret, il Messia, lo leggono con un velo che non può essere tolto; solo la fede in Gesù Cristo rimuove il velo, ‘perché è in Cristo che esso viene eliminato’. In altri termini, la fede in Cristo Gesù permette l’intelligenza delle scritture” (70).
[68] M.E. Thrall, Conversion to the Lord: “Il riferimento più ovvio è ai giudei non credenti che non si sono ancora convertiti al cristianesimo” (204).
[69] Una presentazione sintetica dell’ermeneutica rabbinica si può vedere in H.L. Strack & G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, Roma 1995, che contiene anche la relativa bibliografia.
[70] Per una comparazione tra l’esegesi rabbinica e quella paolina, cfr. J. Bonsirven, Éxègese rabbinique et éxègese paulinienne, Paris 1938; W.D. Davies, Paul and Rabbinic Judaism: Some Rabbinic Element in Pauline Theology, Philadelphia 1980. Per una comparazione con Qumran, cfr. J.A. Fitzmyer, The Use of Explicit Old Testament Quotations in Qumran Literature and in the New Testament, NTS 7 (1960-61), 297-333.
[71] Gal 1,14.
[72] Cfr. P. Stuhlmacher, Vom Verstehen des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik. Grundrisse zum Neuen Testament (NTD Ergänzungsreihe 6), Göttingen 1986, 68. Anche J.C. Beker, Paul the Apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Edinburgh 1980, ha ripreso questo nuovo punto di partenza per un’autentica ermeneutica della Scrittura: “Nonostante il fatto che la Scrittura in tutte le sue parti è il documento autorizzato, ispirato, della rivelazione di Dio a Israele, Paolo subordina la sua autorità a Cristo come chiave ermeneutica della Scrittura (cfr. 2 Cor 3,15-17). Cristo è il canone all’interno del canone, così Paolo in certi contesti distingue tra lettera e Spirito (2 Cor 3,6; Rm 2,29), tra la legge e la Scrittura (Gal 3,21.22), e tra la promessa e la legge (Gal 3,15-21). Arriva perfino a citare la Scrittura contro la Scrittura quando oppone alle opere della legge la giustificazione per fede (Rm 10,5-9; Gal 3,11-12)” (251-252). Afferma C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, 171: “In 2Cor 3,14 e 15, il velo di Mosè permane, non sul suo volto, ma sulla lettura (14) o sulla comprensione della (15) testimonianza scritta di Mosè. Ciò indica che proprio in questo momento è la lettura della Scrittura a essere velata… Di conseguenza, ciò che Paolo propone è un’esegesi cristologica dei libri dell’antica alleanza” (171). Si veda inoltre D.-A. Koch, Die Schrift als Zeuge des Evangelium, 331-341.
[73] Afferma M. Silva, Old Testament in Paul: “Molti suoi utilizzi della Scrittura sono riconosciuti da tutti come compatibili con il loro significato storico. In altri termini, sono numerosissime le testimonianze sul fatto che Paolo inseriva i suoi testi dell’AT nei loro contesti con tutte le precauzioni e nella loro integrità. Anche nei casi in cui le citazioni sembrano vagamente arbitrarie, un accurato esame del contesto più ampio può essere illuminante” (639). Anche C.K. Stockhausen, Moses’ Veil, insiste sul fatto che Paolo dimostra l’“attenzione confacente al contesto dei passi citati” (145).
[74] M.D. Hooker, Beyond the things that are written?, 306. Ugualmente, fra gli altri, J.C. Beker, Paul the Apostle: “Il giudaismo e Paolo condividono le stesse tecniche ermeneutiche, ma il loro principio ermeneutico è profondamente diverso” (252). Per i giudei il cuore della Scrittura è la Torah, per Paolo la chiave della Scrittura è Cristo. Vedasi anche C.D. Stanley, Paul and the Language of Scripture: Citation Techniques in the Pauline Epistles and Contemporary Literature (SNTSMS 74), Cambridge 1992.
[75] M.D. Hooker, Beyond the things that are written?, 305.
[76] 3,26-28.
[77] 4,6. Sul battesimo in Paolo, con un ampio apparato bibliografico, cfr. G.R. Beasley-Murray, Baptism, in Dictionary of Paul and his Letters, cit. 60-66 [Battesimo, in trad. it. cit., 153-163], che descrive il rapporto tra battesimo e Cristo, battesimo e Spirito, battesimo e Chiesa.
[78] Cfr. 4,21; 5,4; 5,2; 6,12.
[79] Cfr. 1,6.9.
[80] Cfr. 1,7.
[81] Cfr. 2,6.
[82] 2,9.
[83] 3,1-5. C.H. Cosgrove, The Cross and the Spirit: A Study in the Argument and Theology of Galatians, Macon 1988, considera Gal 3,1-5 “la chiave decisiva della comprensione paolina del ‘problema della Galazia’” (2). Per uno studio dell’aspetto teologico e retorico del passo, si veda A. Vanhoye, Pensée théologique et qualité rhetorique en Galates 3,1-14, in J. Lambrecht (ed.), The Truth of the Gospel (Galatians 1:1-4:11), Roma 1993, 91-103.
[84] A. Vanhoye, La lettera ai Galati, Roma 1997, 74. Cfr. inoltre H. Betz, In Defense of the Spirit: Paul’s Letter to the Galatians as a Document of Christian Apologetics, in E. Fiorenza (ed.), Aspects of Religious Propaganda in Judaism and Early Christianity, Notre Dame 1976, 99-114.
[85] J.D.G. Dunn, The Epistle to the Galatians, Peabody 1993, 156. Cfr. anche Z.I. Herman, La presenza e l’esperienza dello Spirito nella lettera ai Galati, Ant 59 (1984) 3-51; H.R. Lemmer, Mnemonic Reference to the Spirit as a persuasive Tool (Galatians 3,1-6 within the argument 3:1-4:11), Neotestamentica 26 (1992) 359-388; J.F. Johnson, Paul’s Argument from Experience: A closer Look at Galatians 3,1-5, ConcJourn 19 (1993) 234-237; J.M. Díaz Rodelas, Experiencia cristiana y verdad del Evangelio: Ga 1,11-3,5, RevCatInt Communio 18 (1996) 258-269; H.F. Neumann, Paul’s Appeal to the Experience of the Spirit in Galatians 3,1-5: Christian Existence as defined by the Cross and effeted by the Spirit, JournPentTheol 9 (1996) 53-69.
[86] Cfr. Lc 22,15; 24,46; At 1,3; 3,18; 17,3; 1Cor 12,26.
[87] Cfr. J.B. Lightfoot, The Epistle of St. Paul to the Galatians, London 1865, 135; J.-M. Lagrange, Épître aux Galates, Paris 1926, 60; F.F. Bruce, The Epistle of Paul to the Galatians, Exeter 1982, 150.
[88] Cfr. H.G. Lidell & R. Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford 1973, 1346-1347; W. Bauer & W.F. Arnadt & F.W. Gingrich, A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, Chicago-London 1979, 633-634.
[89] Cfr. 3,3.5.
[90] F. Mussner, Galaterbrief, Freiburg-Basel-Wien 1974, 209 [La lettera ai Galati, Brescia 1987].
[91] 1Tes 1,6; 2,14.
[92] R.N. Longenecker, Galatians (WBC 41), Dallas 1990, 104. Anche E.W. Burton, The Epistle to the Galatians (CIC), Edinburgh 1921, 149: “Un riferimento alle grandi esperienze che i Galati hanno già attraversato durante la loro vita di cristiani, e un richiamo a non lasciare che queste esperienze siano trascorse invano” (149). H.D. Betz, Galatians. A Commentary on Paul’s Letter to the Churches in Galatia, Philadelphia 1979, crede che “l’esperienza cui Paolo allude è l’esperienza dello Spirito (cfr. 3,3)” (134). Cfr. anche J. Bligh, Galatians. A Discussion of St Paul’s Epistle, London 1970, 232; R.Y.K. Fung, The Epistle to the Galatians, Grand Rapids, 1988, 133.
[93] Sullo Spirito in Gal si vedano: H.D. Betz, Spirit, Freedom and Law: SEA 39 (1974) 145-160; G.E. Ladd, The Holy Spirit in Galatians, in G.F. Hawthorne (ed.), Current Issues in Biblical and Patristic Interpretation, Grand Rapids 1975, 211-216; D.J. Lull, The Spirit in Galatia: Paul’s Interpretation of Pneuma as Divine Power (SBLDS 49), Chico 1980. Sullo Spirito nella letteratura paolina si veda anche O. Knoch, Der Geist Gottes und der neue Mensch. Der Heilige Geist als Grundkraft und Norm des christlichen Lebens in Kirche und Welt nach dem Zeugnis des Apostels Paulus, Stuttgart 1975; E. Schweitzer, The Holy Spirit, Philadelphia 1980; J.M. Scott, Adoption as Sons of God: An Exegetical Investigation into the Background of huiothesia in the Pauline Corpus (WUNT 2.48), Tübingen 1992; F.W. Horn, Das Angeld des Geistes: Studien zur paulinischen Pneumatologie (FRLNAT 154), Göttingen 1992; G.D. Fee, God’s empowering Presense: The Holy Spirit in the Letters of Paul, Peabody 1994.
[94] H. Gunkel, Die Wirkungen des Heiligen Geistes nach der populären Anschauung der apostolischen Zeit und der Lehre des Apostels Paulus, Göttingen 1888, 86. La stessa direzione fu seguita dai successivi studi di E.F. Scott, The Spirit in the New Testament, London 1923; H.W. Robinson, The Christian Experience of the Holy Spirit, London 1928.
[95] Cfr. G.D. Fee, God’s empowering Presense, XXI, 1 (“Per Paolo lo Spirito, come realtà sperimentata e viva, rappresentava la questione assolutamente cruciale della vita cristiana, dall’inizio alla fine”).
[96] J.D.G. Dunn, Galatians, 156-157.
[97] Gal 3,5
[98] Cfr. R.N. Longenecker, Galatians, 104.
[99] 3,1.
[100] A. Vanhoye, Pensée théologique et qualité rhetorique en Galates 3,1-14, 94.
[101] J. Bligh, Galatians, 232.
[102] A. Vanhoye, Galati, 76. In questo senso, afferma J.M. Díaz Rodelas, Experiencia cristiana y verdad del Evangelio: “L’incoerenza di cui Paolo li accusa implicitamente consisterebbe precisamente nel fatto che il passo che sono disposti a fare adesso nega il valore dell’esperienza vissuta al momento della loro conversione e anche quelle che stanno continuando a vivere attualmente: è innegabile che allora ricevettero lo Spirito (3,2); e parimenti lo dimostra la sua permanente efficacia nelle opere straordinarie che si continuano a realizzare nel seno della comunità (3,5)” (268).
[103] H.U. von Balthasar, Gloria, 163.
[104] Cfr. J. Ratzinger, La fede e la teologia ai giorni nostri, “L’Osservatore Romano”, ottobre 1996, 7: “Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a se stessa. Lo strumento storico della fede può liberare nuovamente la ragione come tale, in modo che quest’ultima – messa sulla buona strada dalla fede – possa vedere da sé”.
[105] H. Schlier, Grundzüge einer paulinischen Theologie, Freiburg-Basel-Wien 1978, 140. J. Ratzinger, Il Catechismo romano e la catechesi per l’oggi, citato in H. De Lubac, La révelation divine, Paris 1983, 188: “Se … la Bibbia è il condensato di un processo di Rivelazione molto più grande e inesauribile, e il suo contenuto è percettibile al lettore solamente quando costui è stato aperto a questa dimensione più alta, allora il senso della Bibbia non ne risulta diminuito” (188).
[106] Fil 3,7-14.
[107] Ef 3,16-19.

Il mistero della «discesa agli inferi

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/teologia/discesa_inferi.htm

Gesù Cristo discese agli inferi

Il mistero della «discesa agli inferi

A.   «DESCENDIT IN INFERNA» (CCC 632-637)

L’apocrifo Vangelo di Nicodemo (II secolo), di origine giudeo-cristiana, contiene una pittore­sca narrazione dell’ingresso vittorioso di Gesù nel regno dei morti, della disintegrazione di questo regno e della liberazione dei morti:

«E subito, a quella parola, le porte bronzee si frantumarono e le sbarre di ferro fu­rono infrante. Tutti i morti legati furono sciolti dalle catene [...]. Il re della gloria entrò come un uomo. I luoghi bui tutti dell’ade s’illuminarono»2.

Particolarmente suggestiva la liberazione di Adamo:

«II re della gloria, porgendo la sua destra, prese e sollevò il progenitore Adamo. Quindi, volgendosi agli altri, disse: « Orsù, venite con me voi tutti che subiste la morte per il legno che costui ha toccato. Ecco io vi faccio risorgere tutti per mezzo del legno della croce”»3.

Questa tradizione apocrifa è largamente attestata nei padri, sia orientali che occidentali, che attribuiscono alla discesa di Gesù nel regno dei morti una precisa intenzionalità salvifica. Anche se assente nel simbolo niceno-costantinopolitano, il descensus è testimoniato nei simboli di fede già a partire dal quarto secolo. Rufino di Aquileia (vissuto nella se­conda metà del secolo IV e all’inizio del secolo V), nella Expositio Sym­boli commenta più volte l’articolo che recita: «Crucifixus sub Pontio Pi­lato et sepultus descendit in inferna». La di­scesa viene da lui interpretata come vittoria sul regno della morte e an­nuncio di salvezza per i defunti.

Il descensus viene documentato sempre più frequentemente in sim­boli, formule di fede, precisazioni dottrinali, pronunciamenti conciliari. Anche nel Credo Apostolico, che dopo il simbolo niceno-costantinopolitano è il più importante sommario di fede della cristianità, si professa: «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese agli inferi ». Si può, pertanto, affermare che «la dottrina che Cristo abbia tra­scorso negli inferi il tempo tra la morte di croce e la sua risurrezione era comunemente insegnata ai cristiani fin dai primi tempi».

B.    IL DATO BIBLICO

1.    I passi di 1Pt 3,19-20; 4,6

L’apostolo, dopo aver parlato di Cristo «messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (1Pt 3,18), così prosegue: «E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione…» (1Pt 3,19-20). E più oltre afferma: «infatti è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo su­bito, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano se­condo Dio nello spirito» (1Pt 4,6).

A questi testi, che venivano presi come fondamento del descensus di Gesù Cristo nel regno dei morti, si pone  la domanda: chi sono gli spiriti che attendono in prigione? Non è affatto chiaro: le anime dei giusti dell’AT convertitisi in occasione del diluvio? o gli uomini della generazione del diluvio? o gli angeli, figli di Dio, di cui parla Gen 6,1-6?

Inoltre la 1Pt non parla affatto di una «discesa», quanto piuttosto di una «ascesa». Infatti le espres­sioni «reso vivo nello spirito» e «in spirito andò ad annunziare» (1Pt 3,18.19) indicano inequivocabilmente il Cristo risorto (e non solo l’anima umana di Cristo, separata dal corpo dopo la morte). Il testo, quindi, in­tende parlare dell’ascesa di Cristo nella gloria, evento che significa sal­vezza per coloro che hanno creduto in lui, a partire dai giusti dell’AT, e condanna per gli increduli di ogni epoca, soprattutto per quegli spiriti malvagi che provocarono la devastazione del diluvio. 

2.   Il fondamento biblico

Il fondamento biblico al «descensus» viene allora ritrovato in altre allusioni neotestamentarie, che facevano parte dell’esegesi patristica e che poi furono trascurate a vantaggio dei supposti testi probanti di 1Pt. In Mt 12,40, ad esempio, si accenna al segno di Giona: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra». Il segno di Giona è un segno della passione e del descensus del Figlio dell’uomo. Allo stesso modo viene interpretata l’affermazione paolina di Rm 10,7:

«Così come Giona era stato dentro il buio ventre del pesce nelle profondità dell’a­bisso, così Cristo è stato nell’abisso del regno dei morti».

Questa permanenza di Cristo nel regno dei morti non è inerzia sal­vifica, ma è già l’inizio dell’era messianica. L’evento della morte di Cristo è già reviviscenza di ossa inaridite (cf. Ez 37) e irruzione di vita e di salvezza. Gli straordinari eventi accaduti alla morte di Gesù lo testimo­niano:

«Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscita­rono» (Mt 27,51-52).

Altre allusioni del «descensus» agli inferi si trovano in At 2,27-31; Ef 4,8-10; Fil 2,5-10; Col 1,18; Eb 13,20; Ap 1,18. Quest’ultimo testo af­ferma:

«Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli in­feri».

In realtà nel NT il descensus è solo un’implicanza collaterale del mistero della morte e risurrezione di Gesù. Ha però un suo preciso e au­tonomo significato salvifico. Il Gesù, che si è immerso nella kénosi assoluta della morte, è lo stesso Cristo, che, proprio attraverso questo suo es­sere nella morte e presso i morti, conduce i morti alla vita. Di qui la rap­presentazione figurativa giudeo-cristiana del descensus messianico.

C.   SIGNIFICATO TEOLOGICO

A proposito del descensus di Gesù nel regno dello sheol, si è affer­mato che «il sabato santo sta, come mistero tra croce e risurrezione, non alla periferia ma al centro di tutta quanta la teologia». La morte di Cristo significa la sua piena e solidale entrata nello sheol, che insieme con il cielo e la terra (cf. Es 20,4), costituiva una delle tre parti della cosmologia biblica (Is 14,9; Sal 63,107). Lo sheol è il regno dei morti (Gen 37,35; 1Sam 2,6; Sal 89,49), da cui l’uomo non può mai uscire (Gb 7,9). In esso sono ospitati buoni e cattivi (1Sam 28,19). È un carcere senza ritorno, la terra delle tenebre eterne (Gb 10,21), del silen­zio, dell’abbandono (Pr 15,11; Gb 12,22; 26,6; 34,22), della solitudine, del­l’incapacità di lodare Dio (Is 38,18; Sal 6,6). È il regno assoluto della ne­gatività, del caos, della mancanza di bene.

Mediante la morte, Gesù viene immerso in questa situazione di estrema derelizione. Sperimentò l’abbandono, la solitudine, l’inerzia to­tale. Il dato biblico, però, ci dice che non ne rimase sopraffatto: «non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione» (At 2,31). Il Santo fu sciolto «dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24). È lui, infatti, ad avere «potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,18; cf. 1Cor 15,26). Per questo la morte è obbligata a restituire i suoi prigionieri: «la morte e gli inferi re­sero i morti da loro custoditi» (Ap 20,13; cf. Mt 27,52).

La solidarietà di Gesù nella morte e l’esperienza dello sheol costi­tuiscono un’offerta di salvezza per l’uomo, doppiamente mortale per la sua condizione umana e per i suoi peccati. Del resto, durante la sua vita, Gesù aveva affermato:

«In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5,25).

Se prima lo sheol era un carcere di morte, in Gesù diventa via di re­denzione. La presa di possesso dello sheol da parte sua significa che le porte degli inferi sono state scardinate («la morte e gli inferi furono get ati nello stagno di fuoco»: Ap 20,14) e l’uomo è stato liberato dal caos e dalla condanna al nulla.

Anche il Figlio dell’uomo è disceso nell’abisso dell’estremo abbandono, ma per sconfiggerlo mediante il legame indistruttibile della sua comu­nione di carità trinitaria. Il descensus diventa allora una possibilità di esodo e di risalita. Rappresenta la mano tesa del Figlio di Dio ai figli del­l’uomo «morti», ma non per questo abbandonati al loro destino di an­nientamento e di insignificanza esistenziale. Nel luogo della perenne soli­tudine dell’io, Gesù porta l’offerta della comunione del «noi». Infatti, pur trovandosi nella morte e cioè nella situazione della lontananza estrema da Dio, Gesù non era privato della comunione di carità col Padre nello Spirito. Il luogo più «apneumatico» si trasforma cosi in una situazione di carità e di salvezza trinitaria.

Oltre a questo aspetto «verso il basso», il «descensus» è anche un momento di liberazione «all’indietro», «verso il passato». Gesù morto si trova solidale con gli uomini vissuti prima di lui. Per cui la sua liberazione si estende anche ad essi. La storia della salvezza non ha ripercussioni solo nel presente e nel futuro, ma anche nel passato. Non ci sono barriere temporali e spaziali alla salvezza inagurata dalla morte redentrice del Cristo.
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1 A. Amato, Gesù è il Signore, cit., pp. 530-536.
2 M. Ebretta (a cura di), Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1981, I/2,  p. 268.
3 Ibid.,  p. 269.
  

28 marzo 2010 / 6a Dom., Le Palme – commento esegetico alle letture:

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/09-10/03-Quaresima-C_10/Omelie/06-Dom-Palme-FM.html

28 marzo 2010 / 6a Dom.: Le Palme

COMMENTO ESEGETICO DELLE LETTURE BIBLICHE

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Introduzione:

La domenica delle Palme è la porta della Settimana santa. È chiamata anche domenica della Passione perché al Vangelo si legge integralmente il racconto della Passione di Gesù. Si hanno perciò due letture evangeliche: la prima per la commemorazione dell’ingresso in Gerusalemme; la seconda – lettura del Passio – è il vero e proprio Vangelo di questa domenica. Il testo di Isaia (prima lettura), il salmo 91 e l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi gettano luce sul racconto della Passione del Signore.
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1a LETTURA:  Non ho sottratto la faccia agli insulti… (Is 50,4-7)
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Salmo Responsoriale : Sal 21 – Rit. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato
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2a LETTURA: Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò (Fil 2,6-11)

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Canto al Vangelo:  Lode e onore a te, Signore Gesù
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VANGELO: La passione del Signore (Lc 22,14-23,56)
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Commento esegetico
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Vangelo (alla commemorazione):

Benedetto colui che viene nel nome del Signore (Lc 19,28-40)
L’entrata trionfale del Messia re nella città santa segna l’inizio della fase conclusiva della sua vicenda: saranno i giorni del suo « esodo » (9,31) e della sua « assunzione » (9,51). Salendo verso Gerusalemme, egli cammina decisamente e coraggiosamente « davanti » alla folla che lo accompagna. Giunto alla sommità della salita, Gesù prende l’iniziativa. L’ordine di requisire un asinello lascia trasparire il compiersi di una Scrittura profetica (Zc 9,9; cf. Mt 21,4s). L’autorità regale di Gesù (« il Signore… ») è sottolineata dal gesto dei discepoli, che stendono i loro mantelli (cf. 2 Re 9,13).
La folla di pellegrini accorsi a Gerusalemme per la Pasqua lo accoglie con entusiasmo, lodando Dio per i miracoli che lo hanno accreditato come profeta. L’acclamazione « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » è tratta dal Salmo 118: colui che viene è il « re » Messia. Il breve inno – che richiama quello degli angeli alla nascita (cf. 2,14) – è rivolto a Dio autore della salvezza: la « pace » che Cristo reca agli uomini. Rispondendo al rimprovero di alcuni farisei, forse preoccupati che la scena possa irritare la forza romana di occupazione, Gesù approva quanto la gente sta facendo: sarebbe assurdo impedirle di accogliere il Messia.

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Prima lettura: Non ho sottratto la faccia agli insulti… (Is 50,4-7)
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Il terzo dei canti del « Servo del Signore » prelude al celebre quarto canto (Is 52,13-53,12) che verrà letto nella liturgia del Venerdì santo. Egli è l’ »eletto » di cui Dio si compiace (42,1: primo canto; cf. battesimo e trasfigurazione di Gesù); la « luce delle nazioni » che porterà la salvezza fino ai confini della terra (49,6: secondo canto; cf. Lc 2,32; At 13,47). Dopo una terribile sofferenza, con la quale espierà i peccati del popolo, sarà esaltato dal Signore (quarto canto). Anche se in origine questi testi si riferivano al profeta (il cosiddetto Secondo Isaia), Gesù e il Nuovo Testamento vi hanno ravvisato la prefigurazione di Gesù stesso e un preannuncio della sua passione (cf. Mt 3,16 parr.; 12,17-21; Mc 10,45; Lc 22,19s.37).
Nel terzo dei canti il « servo » è descritto come un discepolo attento alla voce di Dio, un profeta coraggioso e perseguitato, che però confida nell’aiuto divino.

Salmo: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (Sal 21)
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Un uomo innocente e perseguitato si lamenta con Dio. La descrizione delle sue sofferenze fisiche e morali ha ispirato il racconto evangelico della passione (cf. Mt 27,29.35.39.43: Gv 19,24). Sulla croce Gesù ha pregato con queste parole (cf. Mt 27,46 e Mc 14,34).

Seconda lettura: Cristo umiliò se stesso, per questo Dio lo esaltò (Fil 2,6-11)
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Il contesto dell’inno è significativo. L’apostolo esorta i cristiani all’amore fraterno e a un « medesimo sentire », che deve tradursi, positivamente, nell’umiltà e nel generoso altruismo; negativamente, nel contrastare la ricerca egoistica del proprio interesse, come pure ogni rivalità e vanagloria. La sua esortazione fa leva sull’esempio di Cristo: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ». Il « sentire » di Cristo è illustrato con un brano dal carattere innico, che rievoca la sua esistenza tutta racchiusa in un duplice movimento: umiliazione ed esaltazione. Paolo cita probabilmente un inno delle prime comunità cristiane noto ai suoi destinatari.
Cristo Gesù è il soggetto di una serie di verbi (« non ritenne un privilegio », « svuotò se stesso », « umiliò se stesso »), alla quale corrisponde una seconda serie, che ha Dio per soggetto (« lo esaltò », « gli donò il nome… »). Punto di partenza del primo movimento è la condizione (letter. « forma ») divina di Cristo: non necessariamente in riferimento alla sua pre-esistenza; benché nascosta, la condizione divina appartiene al Figlio di Dio anche nell’incarnazione (cf. Gal 4,4; Rm 1,3). Colui che era « nella condizione di Dio » ha si è come spogliato della sua nativa ricchezza (cf. 2 Cor 8,9): « non ritenne un privilegio » l’essere uguale a Dio. Risultato della sua volontaria spogliazione (o kénosis) e del suo abbassamento è la condizione di « servo », che suggerisce la condizione umana, con chiara allusione alla figura del « servo del Signore » (cf. Is 52,13-53,12). Atteggiamento caratteristico del « servo » è l’obbedienza: Cristo ha obbedito, ovviamente a Dio (cf. Is 50,4ss; Rm 5,19; vedi anche Eb 10,5-10), fino alla morte, « e alla morte di croce ». È la traiettoria dell’incarnazione redentrice.
Ribaltando il primo movimento, l’intervento di Dio ha « sovraesaltato » il Cristo crocifisso, donandogli « il nome che è al di sopra di ogni nome »: colui che, pur essendo Dio, si è umiliato fino alla morte di croce, è stato glorificato da Dio Padre e costituito Kýrios (nella Bibbia greca traduce il nome divino JHWH). Di conseguenza, « nel suo nome si piega ogni ginocchio… »: termine ultimo dell’intervento divino è l’adorazione di tutte le creature (le potenze celesti, gli esseri umani sulla terra, gli abitanti dell’Ade) e la confessione da parte di tutti i popoli che « Gesù Cristo è Kýrios ». Tutto ciò « a gloria di Dio Padre »: la dossologia conclusiva riconosce che nell’evento Cristo si sono manifestati l’amore e la potenza di Dio (cf. Rm 16,25-27).

Il racconto della Passione di Gesù (Lc 22,14-23,56)
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Preparato da una serie di minacce (6,11; 11,53s; 19,47; 20,19) e di preannunci (2,34s; 9,22 ecc.), il racconto lucano della passione si snoda tra il complotto degli avversari e la sepoltura. Il terzo evangelista riprende in sostanza il testo di Marco, con piccole omissioni (per es., non si parla di flagellazione) e diverse aggiunte (per es., il dialogo dell’ultima cena; l’incontro tra Gesù e le donne lungo la via della croce; il buon ladrone), oltre a numerosi ritocchi.
La versione lucana presenta varie caratteristiche: Gesù soffre con grande dignità; egli è l’innocente che muore come « servo del Signore » per la salvezza dei peccatori; nella sua passione si realizza il misterioso disegno di Dio. Il tema del compimento delle Scritture era anticipato nei preannunci, comprese le ultime parabole (i vignaiuoli e il pretendente al trono regale), e verrà ripreso ben tre volte nel cap. 24°.

Articolazione del racconto:

L’ultima cena (22,14-20)
Dialogo con i discepoli (22,21-38)
Sul monte degli Ulivi (2,39-46)
L’arresto (2,47-53)
Nella casa del sommo sacerdote (2,54-65)
Davanti al sinedrio (2,66-71)
Davanti a Pilato (23,1-5)
Davanti a Erode (23,6-12)
Gesù viene condannato (23,13-25)
Il cammino della croce (23,26-32)
Gesù muore (23,33-49)
Gesù viene sepolto (23,50-56)
Commento: vedi file « Passione nel Vangelo di Luca ».

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SUSSIDIO PER LA DOMENICA DELLE PALME
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Il racconto della Passione di Gesù nel Vangelo secondo Luca (Lc 22,14-23,56)
Preparato da una serie di minacce (6,11; 11,53s; 19,47; 20,19) e di preannunci (2,34s; 9,22 ecc.), il racconto lucano della passione si snoda tra il complotto degli avversari e la sepoltura. Il terzo evangelista riprende in sostanza il testo di Marco, con alcune omissioni (per es., …) e aggiunte (per es., il dialogo dell’ultima cena; l’incontro tra Gesù e le donne lungo la via della croce), oltre a numerosi ritocchi. Caratteristiche della versione lucana sono la grande dignità di Gesù, il rilievo dato al suo dramma interiore, il tema del compimento delle Scritture. Questo era anticipato in diversi preannunci, comprese le ultime parabole (i vignaiuoli e il pretendente al trono regale), e viene ripreso ben tre volte nel cap. 24°.
Il favore popolare ha finora fatto da freno ai progetti di coloro che vorrebbero eliminare Gesù. A superare l’ostacolo concorrono un attore invisibile, Satana (cf. 4,13; 22,53) e il suo strumento, Giuda. Dopo che Satana « entrò » in lui, il traditore si reca spontaneamente dai capi dei sacerdoti e si offre di consegnare loro il Maestro. Accordatosi sul compenso, spia l’occasione propizia per metterlo nelle loro mani.
L’ultima cena (22,14-20)
Dopo i preparativi (vv. 7-13), il racconto lucano dell’ultima cena si articola in due momenti: la cena vera e propria (vv. 14-20) e un dialogo con i discepoli (vv. 21-38). Come aveva dato incarico a due discepoli di preparare il suo arrivo a Gerusalemme (19,29-35), così ora Gesù manda Pietro e Giovanni a preparare la cena pasquale. La Pasqua ebraica è il memoriale della liberazione di Israele dall’Egitto (cf. Es 12; vedi anche Nm 9 e Dt 16). Nel pomeriggio di quel giorno (14 del mese di Nisan), il primo degli otto giorni della festa degli Azzimi, nei recinti del tempio vengono immolati gli agnelli e dopo il tramonto in ogni casa si consuma la cena pasquale. Andando in piena libertà incontro agli avvenimenti e come vedendo lucidamente a distanza, Gesù istruisce con esattezza i due discepoli. Essi trovano tutto secondo le sue indicazioni e le eseguono.
Il rito della cena pasquale ebraica comporta più benedizioni rivolte a Dio, a partire da quella iniziale, il racconto dell’esodo, il canto della prima parte del Hallel (salmi 113-114), la benedizione per il pane, la consumazione dell’agnello e delle erbe, la benedizione per l’ultimo calice e il canto della seconda parte del Hallel (salmi 115-118). In questa cornice dobbiamo collocare i gesti e le parole di Gesù, riportati dalla tradizione evangelica. Egli manifesta fin dall’inizio il suo desiderio vivissimo di mangiare « questa pasqua » con i Dodici, « prima della mia passione », e ne indica la ragione: « …non la mangerò più finché essa si compia nel regno di Dio » (parallelamente: « finché non venga il regno di Dio »). Gesù è certo di partecipare al banchetto della Pasqua eterna del regno di Dio al di là della morte, che sa essere imminente.
La tradizione evangelica (vedi anche Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; 1 Cor 11,23-25) ha tramandato il preciso ricordo di due gesti specifici compiuti da Gesù nell’ultima cena e delle parole che ne esprimono il significato. Dopo aver pronunciato la benedizione per il pane, nel distribuirlo ai commensali Gesù dichiara: « Questo è il mio corpo, che è dato per voi ». Verso il termine, nel benedire Dio per il calice che sarà condiviso da tutti i presenti, soggiunge: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi ». I due gesti, con le relative dichiarazioni, sono complementari: pane e vino diventano simbolo del corpo e del sangue di Gesù, profezia del suo sacrificio (« corpo dato per… », « sangue versato per… »), il quale a sua volta è messo in relazione con la « nuova alleanza ». I participi « dato » e « versato » si riferiscono chiaramente alla morte, allusione sottolineata dalla separazione tra « corpo » e « sangue ». Consapevole di avvicinarsi a una morte violenta, Gesù ne indica il valore salvifico, come sacrificio « per », ossia a vantaggio di, per la salvezza di… (cf. Is 52,13-53,12: il « servo » del Signore); grazie ad esso si realizza la nuova alleanza preannunciata dalle Scritture (cf. Ger 31,31-34; Ez 36,22ss). Aggiungendo il comando: « Fate questo in memoria di me », egli consegna ai discepoli il rito della cena pasquale, rinnovato e attualizzato come « memoriale » vivo della sua passione salvifica, che – in forza delle sue parole – è anche sacramento del « corpo e sangue del Signore » (cf. 1 Cor 11,11,27).
Dialogo con i discepoli (22,21-38)
Svelando infine il tradimento, Gesù iscrive nel misterioso disegno di Dio (« secondo quanto è stabilito ») il fallimento umanamente incomprensibile della sua vicenda. Le sue parole, che riecheggiano il salmo 41 (« l’amico in cui confidavo, colui che mangiava il pane con me, alza contro di me il suo calcagno »), gettano lo sgomento tra i discepoli.
Analogamente ai discorsi dei cc. 14-17 del Quarto Vangelo, il dialogo tra Gesù e i Dodici al termine dell’ultima cena può considerarsi come il suo testamento. Esso prende l’avvio da una meschina discussione, che rivela ancora una volta la loro immaturità: chi di essi può dirsi il più grande. Gesù interviene contrapponendo al modo « pagano » di intendere ed esercitare l’autorità quello che invece deve esserne lo stile all’interno della sua comunità: non da padrone, bensì diventando « il più piccolo », « come chi serve ». Egli stesso ne offre l’esempio: « io sto in mezzo a voi come colui che serve » (cf. Mc 10,45 e Is 52,13-53,12 citato in At 8,30-35).
Alla lezione segue una promessa: ai Dodici, che hanno condiviso la sua missione e hanno perseverato con lui nelle « prove », Gesù promette lo stesso regno che il Padre ha conferito a lui: saranno suoi commensali nel banchetto celeste e avranno parte alla sua autorità messianica. « Giudicare le dodici tribù di Israele » equivale infatti a reggere e guidare il popolo di Dio. I Dodici saranno i capi della comunità cristiana, ma con lo stile di Gesù.
Rivolto poi a Pietro, Gesù aggiunge un avvertimento. Le « prove » sono tutt’altro che terminate: è imminente l’ora più drammatica, quando Satana assalirà non solamente il Maestro (cf. 22,3.53), ma anche i discepoli. Nell’ora della tentazione Gesù non li abbandona; egli ha pregato in particolare per Simone affinché la sua fedeltà « non venga meno », non nel senso che non vacilli – ciò di fatto accadrà! – bensì superando la crisi. « Una volta ravveduto », egli dovrà rendere saldi nella fede gli altri discepoli (« conferma i tuoi fratelli »). Pietro ancora si illude di essere così forte e coraggioso da morire, se necessario, insieme a Gesù. Il quale però prevede il suo fallimento e glielo preannuncia con assoluta precisione: nella stessa notte, prima del canto del gallo, per tre volte Pietro negherà di conoscerlo.
Nelle ultime battute il dialogo raggiunge un vertice drammatico. Nei giorni in cui hanno condiviso la missione di Gesù, agli apostoli non mancò nulla. Ma ora ha inizio un tempo diverso: non si potrà più contare sulla buona accoglienza della gente; anzi, chi è senza bisaccia (per le provviste) « venda il suo mantello e compri una spada ». Gesù avrebbe incitato i discepoli a una resistenza armata? Ciò sarebbe in contrasto con tutto il suo comportamento precedente e con l’episodio dell’arresto. L’immagine della spada allude piuttosto a un tempo di lotta e sofferenze (cf. 12,51 par. Mt 10,34). Infatti Gesù soggiunge un’ultima solenne profezia: « …deve compiersi in me questa Scrittura: « E fu annoverato tra gli empi » (Is 53,12) ». Servo del Signore, innocente, dovrà morire tra due malfattori.
Sul monte degli Ulivi (2,39-46)
Lasciata la città, dove ha celebrato la Pasqua, come ogni sera Gesù attraversa la valletta del Cedron (21,37) e pernotta all’aperto sulle pendici del monte degli Ulivi. Con la preghiera nel Getsemani (il nome si legge in Mc 14,32) inizia la passione vera e propria. All’inizio e al termine dell’episodio Gesù esorta anche i discepoli a pregare « per non entrare in tentazione », ossia per avere da Dio la forza di non soccombere nella prova. Appartandosi un poco (« quanto un tiro di sasso »), egli supplica il Padre: « …se vuoi, allontana da me questo calice »: il calice è il destino che lo attende (cf. Sal 75,9 ecc.). La morte, le sofferenze atroci che l’accompagneranno, gli incute paura. Ma lui è pronto a compiere fino in fondo quanto il Padre gli chiede: « …sia fatta non la mia, ma la tua volontà ». Gesù si consegna totalmente al suo disegno di amore per la salvezza degli uomini (cf. 22,19s). Il Padre gli risponde dandogli forza per mezzo di un messaggero celeste, un « angelo ». Gesù infatti è in preda all’angoscia, che si manifesta fisicamente con un’intensa essudazione (« come gocce di sangue »: un paragone, che non significa « sudare sangue »). I discepoli intanto si sono addormentati « per la tristezza ». Gesù si avvicina loro e li rimprovera dolcemente, rinnovando l’esortazione a pregare.
L’arresto(2,47-53)
Consegnando Gesù ai suoi nemici, Giuda mette in atto il tradimento (22,3-6). Quando gli si avvicina per salutarlo con un bacio, Gesù lo previene e lo smaschera. Non resiste alla violenza e si oppone a quelli dei suoi che vorrebbero resistere con le armi: « Basta, lasciate così! »; anzi, guarisce il servo del sacerodote, che uno dei suoi ha ferito con la spada. È la logica dell’amore, che vince il male con il bene. A quelli che sono venuti per catturarlo – guardie e servi del sommo sacerdote – rinfaccia la loro viltà: non hanno avuto il coraggio di stendere le mani su di lui quando era circondato dal popolo nei cortili del tempio; ora vengono a prenderlo « con spade e bastoni, come un bandito ». Ma nel disegno di Dio questa è la loro « ora », l’ora di Satana del quale sono alleati e strumenti (cf. 22,3.53). Gesù viene arrestato, come un malfattore (cf. 22,37).
Nella casa del sommo sacerdote (2,54-65)
Trascinato nella casa del sommo sacerdote, Gesù vi trascorre la notte in attesa del processo che si terrà al mattino. Inizialmente Pietro lo segue, come ha promesso con grande sicurezza (22,33); ma, come Gesù gli ha preannunciato, giunge la prova! Prima una serva, poi due uomini, uno dopo l’altro, lo riconoscono. Il discepolo si schermisce, negando di appartenere alla sua cerchia. Satana lo ha « vagliato » ed egli è caduto miseramente rinnegando il Maestro. Si ode il canto del gallo. Custodito dalle guardie in un angolo del palazzo, Gesù si volta e guarda Pietro. Quello sguardo gli ricorda le sue parole e suscita l’amaro rimorso. Il pianto è segno del suo pentimento.
Nella medesima notte Gesù viene oltraggiato e percosso dalle guardie che lo hanno in custodia. Al vile rinnegamento del discepolo questo fatto aggiunge un’atra nota triste: Gesù « profeta » è oggetto di scherno. Ma la sua dignità rimane intatta.
Davanti al sinedrio (2,66-71)
Di buon mattino il senato giudaico – sommi sacerdoti, anziani del popolo e scribi – si raduna nel sinedrio (secondo Marco e Matteo si sarebbero invece riuniti nella notte). Alla domanda: « Sei il Cristo? », inizialmente Gesù risponde in modo evasivo, denunciando la loro malafede. Poi però continua annunciando la sua prossima intronizzazione regale come Figlio dell’uomo « alla destra della potenza di Dio » (cf. salmo 110). I membri del sinedrio capiscono bene che Gesù si considera il Messia e incalzano con una seconda domanda: « Tu sei dunque il figlio di Dio? », titolo che dal loro punto di vista potrebbe equivalere semplicemente a Messia (cf. 2 Sam 7,14); ma nel contesto del terzo Vangelo è indubbio che va inteso in senso stretto (cf. 1,35; 2,49; 3,22 ecc.). Gesù risponde affermativamente, sebbene con qualche riserva (« Lo dite voi stessi… »). Giudici e imputato si muovono su piani diversi; ma per i primi le risposte di Gesù sono state più che sufficienti per avere di che accusarlo di fronte a Pilato.
Davanti a Pilato (23,1-5)
Il processo vero e proprio si svolge davanti al magistrato romano, al quale i capi del popolo giudaico consegnano Gesù, accusandolo di essere un pericoloso ribelle. L’episodio di Erode s’inserisce nel processo come un intermezzo.
Il sinedrio sfrutta le risposte strappate a Gesù nell’interrogatorio per formulare l’accusa contro di lui davanti al governatore romano, il giudice che può pronunciare la condanna a morte. L’accusa si articola in tre punti: Gesù è un agitatore politico; opponendosi al pagamento delle tasse, rifiuta l’autorità di Cesare (cioè dell’imperatore romano); infine, e soprattutto, poiché afferma di essere « Messia re » è un suo pericoloso antagonista. Quanto tali accuse siano fondate, chi ha seguito fin qui il racconto dell’evangelista lo sa bene.
Volendo rendersi conto della fondatezza dell’accusa, Pilato formula una domanda precisa: « Sei tu il re dei Giudei? ». La risposta (« Tu lo dici ») appare reticente, ma si deve considerare positiva, sebbene con riserva. Come davanti al sinedrio ha riconosciuto di essere il Messia, ma in un senso diverso da quello inteso dai suoi avversari, così ora Gesù accetta sì il titolo di re, ma non in senso politico (cf. Gv 18,33-38). Difatti, Pilato conclude l’inchiesta dichiarando: « Non trovo in quest’uomo nessun motivo di condanna ». Altre due volte riconoscerà che Gesù è innocente; eppure finirà per cedere alla pressione dei capi. Questi insistono nell’accusarlo: Gesù è un pericolo pubblico, perché « sobilla il popolo da un capo all’altro della Giudea, cominciando dalla Galilea ». L’accenno alla Galilea suggerisce al governatore romano una via d’uscita. Se Gesù appartiene alla giurisdizione del tetrarca Erode Antipa (cf. 3,1), sia lui a giudicarlo, dal momento che si trova in Gerusalemme per le feste pasquali.
Davanti a Erode (23,6-12)
Erode Antipa ha ereditato una parte del regno di Erode il grande. Personaggio cinico e ambiguo, ha fatto decapitare Giovanni il Battista (3,19-20). Ora potrà soddisfare la sua curiosità nei confronti del nuovo profeta, Gesù di Nazaret (cf. 9,7-9), al quale da tempo ha volto l’attenzione (cf. 13,31). La proposta di Pilato perciò gli piace, anche perché spera che Gesù faccia qualche miracolo in sua presenza. Quando gli viene portato, lo assedia di domande. Ma Gesù tace. Da parte loro, i membri del sinedrio entrati nel palazzo continuano ad accusarlo. Deluso, Erode decide di divertirsi alle spese del povero prigioniero. Insieme con le guardie, si fa beffe di lui e lo insulta; infine, gli getta addosso una veste sgargiante e lo rimanda a Pilato. I due, prima ostili tra di loro, diventano amici. Si avverano le parole del salmo 2: « i re della terra e i principi si radunano insieme contro il Signore e contro il suo Cristo » (cf. At 4,27).
Gesù viene condannato (23,13-25)
La manovra di Pilato è andata a vuoto. Perciò convoca nel pretorio i capi dei Giudei e comunica la sua sentenza: Gesù è innocente, nemmeno Erode ha trovato un motivo di condanna; perciò lo rimanderà libero. Tuttavia, per dare loro qualche soddisfazione, lo farà « castigare », ossia flagellare (senza dirlo direttamente, l’evangelista lo fa capire). Ma questo compromesso non soddisfa gli accusatori. Aizzata dai notabili del sinedrio, la folla comincia a gridare: « Toglilo di mezzo! ». Piuttosto, Pilato liberi un certo Barabba, che si trova in carcere in seguito a una sommossa ed è colpevole di omicidio; e questo, secondo l’usanza di liberare un prigioniero in occasione della Pasqua (cf. Mc 15,6). Il governatore cerca di resistere, ma quelli insistono: « Crocifiggilo! ». Ancora una volta Pilato ripete che Gesù è innocente e dice che si limiterà a « castigarlo ». Ma le urla della piazza finiscono per piegare il giudice pauroso, che abbandona Gesù alla volontà omicida dei suoi nemici. Quello invece che era colpevole di rivolta e omicidio è rimandato libero.
Carico della croce, Gesù si avvia al luogo del supplizio. Accanto a lui due malfattori e i soldati responsabili dell’esecuzione. Tutt’intorno la folla, nella quale si distinguono i capi e alcune donne che fanno il lamento. Il cammino è costellato di incontri e di dialoghi, che gettano luce sull’evento.
Il cammino della croce (23,26-32)
I soldati angariano un uomo che ritorna dal lavoro nei campi, un certo Simone di Cirene, perché porti il pesante legno della croce (probabilmente il solo tronco orizzontale) dietro Gesù. Il cireneo è la figura del vero discepolo (cf. 9,23; 14,27). Le « figlie di Gerusalemme » che piangono su Gesù rappresentano la città, alla quale ha rivolto i suoi appelli, ma che non ha voluto riconoscere la visita di Dio (cf. 13,34s). Gesù dice loro: « …piangete piuttosto su di voi e sui vostri figli ». La sventura che incombe su di esse e sull’intero popolo sarà peggiore della sua.
Il triste corteo giunge a un rialzo di roccia appena fuori delle mura, detto Golgota (Luca traduce in greco il nome aramaico, che significa: « cranio »). I corpi vengono inchiodati sulle croci. Su quella di Gesù è posta una scritta, che riporta il capo di accusa per cui è messo a morte: « il re dei Giudei ». I soldati si spartiscono le sue vesti e insieme con i capi lo deridono, sfidandolo a salvare se stesso. Ma Gesù prega, perdona, salva. Intercede per i suoi uccisori, chiedendo al Padre di perdonarli « perché non sanno quello che fanno ». Uno dei compagni di supplizio lo insulta; l’altro prende le sue difese e gli rivolge una commovente preghiera: « Ricordati di me quandoentrerai nel tuo regno ». Gesù gli assicura: « Oggi stesso sarai con me nel paradiso », al di là della sofferenza, nella felicità celeste.
Gesù muore (23,33-49)
Gesù agonizza sulla croce. A mezzogiorno il cielo diventa buio: un segno della presenza di Dio e del suo giudizio (cf. Es 10,21ss: Am 8,9s; Is 13,10). Un altro prodigio (lo squarciarsi del velo del tempio) suggerisce che il culto della prima alleanza è finito; tutta l’umanità può accedere là dove Dio è presente. Gesù prega con le parole del salmo: « Nelle tue mani consegno il mio spirito » (Sal 31,6). Nonostante le più atroci sofferenze, si abbandona con fiducia nelle mani amorose del Padre. Alle tre del pomeriggio muore.
Lo spettacolo terribile e sublime della morte di Gesù provoca diverse reazioni. Un pagano, il centurione che ha guidato il drappello dei soldati, si rende conto che in questa morte c’è la misteriosa presenza di Dio, e riconosce: In realtà, quest’uomo era innocente (« giusto »). La folla, che ha seguito il dramma con vari sentimenti – dalla curiosità alla compassione – è presa da un senso di rimorso per il delitto commesso e si allontana pentita, « battendosi il petto ». Non mancano alcuni amici di Gesù: le donne che lo hanno seguito dalla Galilea e « i suoi conoscenti », forse gli Undici; ma non possono fare altro che guardare da lontano.
Gesù viene sepolto (23,50-56)
È un membro del sinedrio a prendere l’iniziativa della sepoltura: Giuseppe di Arimatea, « uomo giusto », che « non aveva aderito alla loro decisione e al loro operato ». Il suo atteggiamento religioso è lo stesso dei personaggi del vangelo dell’infanzia (cf. 2,25.38): « aspettava il regno di Dio ». Secondo il Quarto Vangelo, era anche « discepolo di Gesù, ma di nascosto… » (Gv 19,38). Per evitare che il corpo di Gesù sia gettato nella fossa comune dei giustiziati, Giuseppe si presenta a Pilato e ottiene di dargli una sepoltura onorevole. Lo cala dalla croce, lo avvolge in un lenzuolo (in greco sindòn), lo depone in una tomba scavata nella roccia, la cui apertura è protetta da una grande pietra circolare. È il giorno che precede il sabato (greco: paraskeué, Parasceve, il nostro venerdì). Già cominciano a « splendere le luci del sabato » (probabilmente le lampade a olio), quando si deve cessare ogni lavoro. Le donne che sono stata vicine a Gesù fino alla croce, osservano con attenzione « come » il suo corpo viene deposto nel sepolcro. Siccome è iniziato il riposo del sabato, non possono ora avere cura del cadavere, cospargendolo di ungenti profumati; perciò ritornano nelle loro case e preparano gli olii e gli aromi.

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