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LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO (Romano Penna)

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LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO

di Romano Penna

Premetto che il mio è un discorso non speculativo ma di carattere storico-letterario, nel senso che è limitato alle origini cristiane e ai suoi scritti, nella misura in cui là troviamo il DNA della nostra identità, in quella storia e in quei testi che ci documentano la prima presa di coscienza di cosa significa essere cristiani.
Ho parlato di una prima presa di coscienza, al singolare, ma in realtà si dovrebbe usare il plurale, perché lo studio degli inizi conduce inevitabilmente a prendere atto di una dimensione pluralistica, cioè di una varietà di ermeneutiche, che è tipica delle origini e che perciò dovrebbe auspicabilmente essere propria anche del corso storico del cristianesimo1.

1. Grecità e giudaismo.
Il punto di partenza per il mio discorso non può essere altro che il concetto giudaico di legge di Dio, da cui dipende poi il discorso cristiano. Lo stesso sintagma “Legge di Dio”, infatti, si comprende bene solo all’interno del giudaismo e non della grecità, per il semplice motivo che differisce il rispettivo concetto di Dio. In effetti, come scrive un noto studioso dello stoicismo, «l’etica greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell’uomo … e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori … Uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»2. L’uomo greco, infatti, fonda la moralità nient’altro che nella legge di natura e nel logos/ragione inerente all’uomo.
In Israele abbiamo invece un concetto personalistico di Dio, e di un Dio unico. E, come si sa bene, il monoteismo ebraico nell’antichità, benché soggetto a un certo sviluppo nella sua affermazione, costituì un’eccezione nelle culture del tempo per il modo di rapportarsi a Dio3. Il Sommo Bene di Platone o il Motore Immobile di Aristotele si disinteressano delle vicende storiche dell’uomo, mentre d’altra parte gli storici greci nelle loro opere storiografiche non tirano in ballo gli dèi (a meno che siano poeti come Omero, ma è un’altra cosa). Il Dio d’Israele invece è un Dio che conduce la storia, non tanto dell’umanità (in prima battuta) quanto piuttosto di un popolo specifico, che Egli ritiene suo, e che ha coscienza di appartenere a lui.
A questo popolo il Signore Dio dona una sua legge, da intendersi come livello elevato sui cui camminare per essere alla sua altezza. Certo avete presente il capitolo 20 dell’Esodo, dove si trova redatto il decalogo. Esso comincia così: “Io sono il Signore Dio tuo, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altro Dio al di fuori di me….. ”. Come si vede, prima della elencazione degli imperativi c’è un indicativo che ricorda l’intervento gratuito e immotivato di Dio in favore del popolo liberato dalla schiavitù.
Appare di qui manifesto che nella coscienza di Israele c’è l’idea, secondo cui all’origine della sua esistenza e della sua identità c’è un atto di grazia di Dio e che la legge perciò, in qualche modo, è ‘seconda’ rispetto alla grazia iniziale, la quale sola è primaria, fondamentale e fondante, concretamente dimostrata da Dio nei confronti del suo popolo. In ogni caso, la legge donata da questo Dio costituisce la griglia, la piattaforma, la cornice e anche il quadro di ciò che questo Dio di Alleanza richiede al suo partner che è Israele.
Ebbene, un’idea del genere non è greca. È vero che un filosofo pagano del I secolo, pressoché contemporaneo di Paolo, lo stoico Epitteto, impiega lo stesso sintagma nómos theoû, “legge di dio”. Ma in Epitteto questa legge non è altro che la legge di natura (cfr. Diatribe 1,29,19): essa consiste nella possibilità e anzi nel dovere dell’uomo di costruire sé stesso sapendo di non dipendere da niente e da nessuno e di mettersi così al servizio degli dèi a prescindere da ogni presunzione ed emozione, da ogni condizionamento esterno che lo potrebbe disturbare. La legge divina, per Epitteto, è questo: “Se vuoi qualcosa di buono, tiralo fuori da te stesso” (ib.1,29,4); è quindi paradossalmente una legge in potere dell’uomo in quanto tale. In un certo senso potremmo dire che l’uomo è legge a sé stesso. Si tratta di un atteggiamento del tutto umanistico, che potremmo qualificare come sapienziale, quello cioè di sapersi rapportare al mondo con totale distacco. Substine et abstine, “sopporta e rinuncia”, è il celebre principio stoico: il mondo non deve disturbarmi, intralciare la mia interiorità personale o semplicemente la mia serenità. Quindi, costruire sé stessi: questa è la legge di dio. Ma il dio di cui parla Epitteto non è certo il Dio del Sinai; è il dio della natura. La legge di cui si parla qui, in sostanza, coincide almeno con una certa interpretazione della legge naturale. E poiché, come scrive Seneca, “non c’è natura senza dio né c’è dio senza natura, ma entrambi sono la stessa cosa” (Sui benefici 4,8,2), va considerata “una innocenza meschina quella di essere virtuosi secondo la legge … infatti le obbligazioni che impongono la pietà, l’umanità, la giustizia, la generosità, la lealtà non stanno scritte sulle tavole ufficiali” (Sull’ira 28,2)!
Quando però il Nuovo Testamento parla della “legge”, in greco nómos, la intende in un senso molto variegato e comunque intende il termine secondo almeno tre accezioni. Già si discute sulla traduzione di questo vocabolo, almeno in rapporto all’originale ebraico, Torà, che di per sé vuol dire “insegnamento, istruzione”. Il fatto è che il vocabolo ebraico è stato reso in greco appunto con nomos, che propriamente vuol dire “delimitazione”, richiamando l’idea del pascolo perimetrato (poiché deriva dal verbo némo, “distribuire, assegnare; pascolare”). Ebbene, ci sono tre concetti di nomos che sono salvaguardati dal Nuovo Testamento in generale e da Paolo in particolare.
Il primo, tipico, consiste nel già accennato significato mosaico del termine: la legge è quella data da Dio a Mosè sul Sinai ed eventualmente specificata poi nella tradizione orale del giudaismo farisaico (questa reca il nome di halakà, dal verbo halak, “camminare”). È a questa legge che di fatto si riferisce sempre Gesù. Essa è ristretta dalla tradizione al Decalogo, ma i suoi comandamenti nel Talmud sono ampliati a un totale di ben 613 precetti (intesi come somma dei giorni dell’anno più il numero delle membra del corpo umano), che riguardano gli aspetti più vari dell’agire umano secondo il pio giudeo.
C’è poi un concetto di conio greco già accennato, inteso non come legge di un Dio personale, ma formulato senza il genitivo come “legge ágrafos”, cioè legge “non scritta”, la quale è equivalente a ciò che un giudeo-ellenista qual è Filone Alessandrino definisce esplicitamene come nómos fýseos, “legge di natura” (Su Giuseppe 29). È quel tipo di norma che già faceva dire ad Antigone che è meglio disobbedire alla legge positiva del re di Tebe, lo zio Creonte, e seppellire invece comunque il fratello, poiché “vi sono delle leggi non scritte” (Sofocle, Antigone 454-455). Questa legge non scritta è, non dico esaltata, ma ammessa da Paolo chiaramente nel capitolo 2 della Lettera ai Romani (versetti 14-15) ed è messa in parallelo con la legge scritta dei Giudei. Cioè: i Giudei saranno giudicati sulla base della legge scritta, mentre i Greci, i gentili, lo saranno sulla base della legge che è scritta nei loro cuori. Quindi anche il cristianesimo ha un concetto positivo di questa legge, e già questo è molto interessante perché si vede che, almeno Paolo, ha lo sguardo aperto anche fuori degli steccati religioso-culturali di provenienza.
C’è però ancora un altro concetto positivo di legge in Paolo, là dove il termine nómos si riferisce semplicemente ad una parte del canone biblico, e precisamente a quello che noi chiamiamo Pentateuco, i Cinque Rotoli, e che sono identificati semplicemente come grafé, cioè “Scrittura”. E la legge come scrittura è assolutamente un punto di riferimento inevitabile e fondamentale. Nella Lettera ai Romani 3,21, in uno stesso versetto, ci sono i due significati di legge, cioè uno positivo ed uno negativo, quando dice che “ora invece indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio testimoniata dalla legge e dai profeti”. Qui con il binomio legge-profeti Paolo rimanda al canone delle Sacre Scritture, mentre con la prima ricorrenza scarta il significato di cui ora parleremo, cioè la legge (mosaica ma anche naturale) come criterio di giustificazione.
Ma dicevo del concetto giudaico di “legge di Dio”. ebbene, noi dipendiamo da quel concetto (sia detto per inciso: mi sarebbe piaciuto che il papa Benedetto XVI nella visita alla sinagoga di Roma il 17 gennaio 2010 avesse riconosciuto che il cristianesimo è solo una variante del giudaismo, poiché tra i due non c’è una distinzione simmetrica ma assolutamente asimmetrica: noi siamo figli di Israele più che fratelli minori). All’interno del giudaismo odierno c’è una varietà di significati e di importanza attribuita alla legge: per esempio, il giudaismo riformato americano ammette le donne Rabbino, cosa che il giudaismo ortodosso non fa, poiché, secondo la lettera dell’Antico Testamento e alcuni antichi autori (penso a Giuseppe Flavio e agli antichi rabbini), le donne non sarebbero deputate a svolgere un servizio del genere; eppure c’è un settore del giudaismo contemporaneo che ammette questo fatto.
In ogni caso nel giudaismo ciò che è fondamentale, anche se abbiamo parlato della grazia di Dio che conduce Israele fuori dall’Egitto, ciò che denota Israele è il Fare. Questo lo ha scritto in termini chiarissimi il celebre psicanalista Eric Fromm, ebreo tedesco, nella sua tesi di laurea discussa nel 1922 e che era proprio intitolata La Legge degli ebrei, dove si dichiara apertis verbis: “La legge chiede l’azione e non la fede”4! È dunque il fare che conta, più del credere. In effetti, se voi togliete al giudaismo la legge, gli togliete l’anima, il midollo della spina dorsale. Ecco perché ai nostri fratelli ebrei l’Apostolo Paolo è assolutamente indigesto. Ed è altamente significativo che il rabbino americano, professore universitario, Jacob Neusner (citato per altre cose anche da Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth), in una sua pubblicazione intitolata A Rabby talks with Jesus dice testualmente che se lui fosse stato tra gli uditori del discorso della montagna, se ne sarebbe tornato deluso a casa sua, al suo villaggio, alla sua famiglia, al suo contesto sociale, perché nelle parole di Gesù c’è una carenza di legge5! Questo è interessantissimo, e io come cristiano paolino sono molto contento che Gesù, a differenza di Mosé, non sia stato un legislatore, perché proprio non lo è!
Certamente il cosiddetto Medio giudaismo o giudaismo del Secondo Tempio, ovvero quello che va grossomodo dal III secolo a.C. fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito nell’anno 70, e quindi quello contemporaneo di Gesù e di Paolo, con corrisponde esattamente a quello successivo, di impostazione rabbinica, ma è un fenomeno molto sfaccettato. Là ci sono delle correnti in cui la legge è ritenuta una cosa secondaria, come nell’essenismo, e altre correnti come la comunità di Qumran, dove la legge è fondamentale: tuttavia, la comunità di Qumran che, come si legge nel Rotolo della Regola (1QS), si costruisce proprio per studiare e attuare la legge, sorprendentemente precisa che se tu osservi la legge ma non appartieni a questa comunità, non ti serve: come dire che c’è ormai una “comunità della nuova alleanza” (così si autodesignano quelli di Qumran) e se non appartieni a questa comunità, se non fai parte di questo gruppo, di questi’impostazione della vita, la semplice osservanza materiale della legge non serve, non basteranno tutte le acque dei fiumi per purificarti (così in 1QS 2,25-3,7: “Chiunque rifiuti di entrare nel patto di Dio [= nella comunità] … non sarà santificato dai mari o dai fiumi né sarà purificato da tutta l’acqua delle abluzioni”)! Quindi l’appartenenza alla comunità stessa è posta addirittura al di sopra della mera osservanza prassistica della legge.

2. Gesù.
All’interno del complesso fenomeno del giudaismo del secondo Tempio c’è anche un movimento particolare messo in piedi da un certo Gesù di Nazareth, all’inizio un illustre ignoto, uno che quando ritorna al suo paese dopo 30 anni non viene praticamente riconosciuto e i compaesani si stupiscono del suo parlare perché prima non si era mai fatto notare (cfr. Mc 6,1-6). Il fatto resta qualcosa di straordinario! Egli si farà notare solo negli ultimi 3 anni della sua vita, ma nei lunghi decenni precedenti vissuti nel villaggio di Nazareth non aveva mai attirato l’attenzione: questo è sorprendente… Però quando poi si allontanò da casa e iniziò il suo movimento, chiamiamolo così, prese degli atteggiamenti davvero originali, che suscitarono l’interesse di molti.
In ogni caso, arrivare al piano del Gesù storico non è cosa facile. Voi sapete che i testi evangelici sono posteriori di decenni alla vita terrena di Gesù, e quindi si pone sempre il problema di sapere se quella parola o quel gesto che leggiamo in quel dato vangelo come attribuiti a lui, davvero ci riferiscano il pensiero e il volto del Gesù terreno o se invece non siano qualcosa che di aggiunto dalla comunità posteriore. Questo è un problema fondamentale per lo studio delle origini cristiane e della figura di Gesù, per arrivare eventualmente a scindere, a precisare quale sia stata davvero la figura storica di questo Nazareno ricostruibile a monte delle varie interpretazioni che ce ne vengono date nei testi che parlano di lui. Questi testi appunto sono tanti, anche a prescindere da quelli apocrifi. Per il fatto stesso che ne siano stati canonizzati 4 la chiesa si è resa la vita difficile. Per me è stato un atto di estrema onestà intellettuale canonizzarne più di uno, anche se ciò avrebbe semplificato di molto le cose, visto che essi sono spesso in discordia tra di loro (Sant’Agostino, usando un ossimoro, parlava di concordia discors).
A proposito del nostro tema, leggiamo in Matteo che “non passerà uno iota o un solo trattino della legge, senza che tutto sia avvenuto; chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti … sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (5,18-19). Può Gesù aver detto una cosa del genere? A parte che queste parole sono scritte nel testo evangelico e quindi ‘fanno testo’, diciamo così, è legittimo chiedersi: ma Gesù può aver detto davvero queste parole? Un motivo di dubbio può consistere nel fatto che le troviamo solo in Matteo, poiché sono assenti tanto in Marco quanto in Luca come in Giovanni. Sicché viene a cadere uno dei criteri usati oggi dalla critica biblica per ricostruire le parole del Gesù storico, ovvero il criterio della molteplice attestazione. In questo caso non c’è la molteplice attestazione, poiché si tratta di parole presenti solo in Matteo. E il vangelo di Matteo, nel cristianesimo antico, è considerato di fatto uno scritto giudeo-cristiano. Matteo e Paolo sono due poli diversi, e non per nulla Ireneo (seconda metà del II secolo) ci dà la notizia che il gruppo giudeo-cristiano degli Ebioniti, quindi di provenienza giudaica o comunque caratterizzati da una ermeneutica giudaizzante dell’evangelo, ritenevano come unico vangelo Matteo, considerando invece Paolo come apostata dalla legge (cfr. Contro le eresie 1,26,2). Questo dato esemplificativo serve, se non altro, per prendere coscienza di quanto sia complesso il cristianesimo delle origini, plurale e sfaccettato. Comunque, per dirla subito tutta, io ritengo che queste parole non siano gesuane, cioè non siano state pronunciate dal Gesù storico, ma esprimano il punto di vista della comunità matteana, che è giudeo-cristiana e che sta a monte di questo scritto ma anche a valle del Gesù storico6. D’altronde, ogni vangelo ha una sua comunità alle proprie spalle, di cui esso è espressione e che diverge in qualche cosa da quella degli altri scritti; la stessa cristologia non è uguale per tutti i vangeli.
Ebbene, da uno sguardo d’insieme sulla figura di Gesù e dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo dedurre che Gesù non critica la legge in linea di principio, come farà almeno in parte Paolo. Egli certo non la critica come grafé, quindi come “Scrittura” (e così neanche Paolo), ma esplicitamente non la critica neppure come principio di prassi, di vita morale o istituzionale (a diversità di Paolo); al lebbroso infatti dice: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti” perché così dice la Legge (Mc 1,44). Quindi è certamente vero che Gesù non critica la legge in linea di principio. Tuttavia nella sua pratica di vita si dimostra molto libero nei suoi confronti. Si trova libero nella prassi del sabato, nell’osservanza del sabato, dove preferisce la situazione dell’uomo all’osservanza della norma; abbiamo in Mc 3,1-6 la guarigione in giorno di sabato dell’uomo con la cosiddetta mano secca o rattrappita, ed egli giustifica il proprio intervento col dire che è meglio guarire un uomo che osservare la legge. Questo principio lo si vede ancora di più per quanto riguarda le leggi di purità, che Gesù bellamente sorvola: infatti tocca il lebbroso, tocca il cadavere del figlio della vedova di Nain o della figlia di Giairo, si lascia toccare da una mestruata, che sarebbe fonte di impurità, sta a contatto con un centurione pagano, addirittura vieta a chi decide di seguirlo di seppellire il padre contravvenendo proprio a una norma esplicita. Si vede bene dunque che Gesù è un uomo libero, è libero dalla legge o comunque dalle prescrizioni della legge soprattutto quando questa va ad umiliare l’uomo: questo è il suo criterio7.
Quanto alle specifiche norme di purità è eloquente il principio enunciato in Marco 7,14-23, secondo cui non ciò che entra nell’uomo contamina l’uomo (si vedano tutte le norme alimentari, che vigono tuttora per i nostri fratelli ebrei, per non dire dei musulmani), bensì ciò che esce dall’uomo. E un po’ a commento di questa prassi di Gesù si potrebbe citare Romani 14,14, dove Paolo scrive: “Non c’è nulla di impuro per sé stesso se non solo per chi lo ritiene tale”. Questo è un principio paolino straordinario, che Gesù stesso avrebbe sottoscritto! Quindi il concetto di purità o impurità è soggettivo, ma non ci può essere e non c’è una norma per il cristiano che delimiti da un punto di vista religioso il menù che devi seguire. Ecco, dunque: il Gesù storico doveva essere un uomo libero. Non sviluppo qui la pur necessaria precisazione, secondo cui la sua sottovalutazione della legge era tutta funzionale alla centralità della persona stessa di Gesù, visto che i suoi discepoli erano chiamati non a studiare la Torà insieme a lui (come nelle scuole dei Rabbi) ma semplicemente a condividere la sua vita.

4. Paolo.
Veniamo ora alla posizione di Paolo, che all’interno delle origini cristiane è comunque originale. Infatti, sorprendentemente, il comportamento di Gesù, a ben vedere, non sembra che abbia fatto testo e questo è uno delle questioni più interessanti sul passaggio dalla fase gesuana, cioè del Gesù storico, alla fase della chiesa o delle chiese post pasquali. Quando Pietro in Atti 10 non vuole entrare nella casa del pagano perché si sarebbe contaminato, riceve una visione dal cielo di quadrupedi e animali di ogni sorta che lui non vuole mangiare perché alcuni sono impuri, e allora una voce dal cielo invece gli dice: “Mangia e non chiamare impuro ciò che io ho creato puro” (At 10,28). Insomma, c’è da chiedersi se Pietro c’era o non c’era quando Gesù si è pronunciato in quei termini così liberanti? Come mai ha bisogno di una visione dal cielo? Non bastavano le parole di Gesù? Quindi o Gesù non si è espresso nei termini che noi leggiamo oppure i suoi discepoli più vicini non lo hanno capito.
In effetti, all’interno del cristianesimo delle origini prese corpo quel filone ermeneutico ed ecclesiale che noi oggi chiamiamo “giudeo-cristianesimo”, di cui è esponente massimo Giacomo, fratello del Signore (non uno dei due Giacomo della lista dei Dodici). Questo Giacomo è ampiamente lodato in alcuni testi di stampo giudeo-cristiano (le cosiddette Pseudo-Clementine), in cui è considerato addirittura al di sopra di Pietro e soprattutto contrapposto a Paolo che è identificato con il “nemico” della parabola della zizzania che va a seminare l’erbaccia nel campo del buon grano. Del resto, accennavo poco sopra alla qualifica di Paolo come “apostata” da parte dei giudeo cristiani ebioniti. Avete presente ciò che si legge in Gal 2,11-15 e che successe ad Antiochia di Siria, la città delle prime volte (dove per la prima volta l’annuncio evangelico fu fatto ai pagani, dove per la prima volta i seguaci di Gesù furono detti cristiani, e di dove per la prima volta partì una missione esplicitamente voluta). Proprio lì Paolo aveva speso sé stesso per superare le barriere delle leggi di purità e impurità, che dividevano i cristiani di origine giudaica dai cristiani di origine pagana; nella prassi del mangiare a tavola Pietro in un primo tempo aderisce al principio della commensalità e adotta un comportamento di libertà, ma poi al sopraggiungere di quelli di Giacomo da Gerusalemme (come se fossero del Sant’Uffizio) Pietro fa un voltafaccia e non mangia più con i pagani, sia pure cristiani; egli sovverte in qualche modo quel principio di comunione privo di pregiudizi, che già aveva guidato l’esistenza di Gesù, il quale mangiava liberamente con pubblicani e prostitute. Ecco, Pietro dal punto di vista giudaico appare persino più ‘ortodosso’ di Gesù! Allora è lì che si attiva il rimprovero pubblico di Paolo, e viene fuori almeno questa dualità di atteggiamenti verso la matrice giudaica del cristianesimo. D’altronde, c’è chi ha paragonato le origini cristiane all’arco parlamentare che va da un’estrema destra ad un’estrema sinistra: l’estrema destra sarebbe quella di Giacomo, poi c’è un centro-destra che sarebbe quello di Pietro, poi un centro-sinistra che sarebbe quello di Paolo, ed una sinistra che sarebbe quella del vangelo di Giovanni e della lettera agli Ebrei8. Questo schema potrebbe essere discusso; comunque è certo che alle origini esisteva un ventaglio di ermeneutiche dell’evangelo accompagnato da diverse attuazioni pratiche dell’evangelo stesso.
Ora, diciamo, Paolo è un innovatore, se non altro perché è anteriore al vangelo di Giovanni e anche, penso io, alla lettera agli Ebrei: anche se questi forse fanno ancora un passo avanti, è Paolo che ha innovato per primo nelle origini cristiane. Ed egli è innovatore rispetto non tanto a Gesù quanto ai giudeo-cristiani, come dicevo poco fa. Quando di ritorno dal terzo viaggio missionario Paolo si trova a Gerusalemme e incontra Giacomo, questi lo rimprovera perché “si sente dire che tu vai in giro a predicare contro la legge di Mosè, ma fai vedere che non è vero” e gli consiglia quell’escamotage di pagare lo scioglimento di un voto nel Tempio di Gerusalemme ad alcuni giudeo-ellenisti; questi vengono poi scambiati per dei Gentili introdotti dove essi non potevano entrare, allora vengono aggrediti e poi si tenta una lapidazione contro lo stesso Paolo, ma subentra l’autorità romana occupante che lo sequestra e lo salva (cfr. At 21,17ss).
Quindi la posizione di Paolo si capisce bene se rapportata a quest’altro filone, che noi oggi denominiamo appunto con l’etichetta di giudeo-cristianesimo e che individuiamo come fenomeno a parte solo perché è sorto Paolo che gli si è contrapposto9. Proprio lui fu l’imprevisto nel quadro delle origini cristiane; senza di lui il cristianesimo sarebbe certamente andato avanti su di una linea giudaizzante. Ma, senza voler fare il filosofo della storia, possiamo ben ritenere che poi, come spesso succede, ciò che si butta fuori dalla porta rientra poi dalla finestra…
Per quanto riguarda il rapporto specifico con la legge, sapendo che per Paolo il nómos in prima battuta è essenzialmente la legge mosaica, quella data da Dio stesso (ma in Gal 3,19-20 non è nemmeno chiaro che il datore sia stato proprio Dio!), egli da una parte ammette senz’altro la santità della legge. Come leggiamo in Rom 7, “la legge è buona e santa”, ma egli dice queste parole come mera concessione retorica. Infatti, per conoscere un testo bisogna anche conoscere i suoi destinatari, che ne relativizzano in parte il contenuto; ebbene, i destinatari della Lettera ai Romani sono giudeo-cristiani, poiché la chiesa di Roma era stata fondata prima di Paolo da alcuni cristiani di origine giudaica. Quindi a questi destinatari Paolo concede di ritenere che la legge sia santa, buona, giusta; ma nel contempo egli argomenta chiaramente col dire che essa è tuttavia impotente a giustificare il peccatore davanti a Dio10.
È importante precisare che il concetto paolino di legge è strettamente connesso con un originale concetto di Peccato (con la P maiuscola)11. In Paolo infatti bisogna distinguere due diversi concetti di peccato. L’uno, minoritario, è quello di impronta farisaica e consiste nel considerare il peccato come trasgressione fattuale della legge, come atto trasgressivo di una prescrizione, di un comandamento. Da questo punto di vista si può e si deve parlare al plurale di “peccati”, come leggiamo in 1 Cor 15,3: “Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”. Ma non per nulla questo testo non è paolino, essendo invece un testo di tradizione che viene citato. Di suo, invece, quando Paolo parla di peccato/hamartía, ne parla al singolare (51 volte su 58 ricorrenze) e gli riconosce tre caratteristiche: l’universalità, in quanto tutti peccano (ma questo lo diceva anche Seneca, quindi non è la cosa più originale: tutti trasgrediscono almeno una legge), la personificazione, perché è fatto soggetto di vari verbi (entra nel mondo, regna, signoreggia, abita addirittura in me, in casa mia [cfr. Rom 7,17: “Non sono io che faccio il male, ma il peccato che abita in me”]), e infine la sua precedenza rispetto alla legge stessa e quindi anche a tutte le sue trasgressioni possibili. Quindi nell’ottica di Paolo c’è una situazione, uno status di peccato in cui gli uomini sono immersi, senza una loro personale responsabilità.
Per uscire da questo invischiamento non basta che un altro muoia per me. Sono piuttosto io che devo morire ad esso. Ebbene, questo Peccato si supera solo con la mia partecipazione alla morte di Cristo: non soltanto ritenendo che la sua morte è valida per me, ma per il fatto che io sono addirittura personalmente morto con lui. A questo proposito il testo paolino fondamentale è Rom 6,1-11. Certo è che una morte subìta da altri per me può valere per i miei peccati, ma qui si tratta di un Peccato che non è mio, poiché mi ci trovo dentro prima di ogni mio peccato. Quindi vengono sovvertite anche tutte le liturgie sacrificali (del giudaismo o altro). Si tratta invece di una concezione originalissima, che porta in primo piano una concezione “mistica” dell’identità cristiana: mistica nel senso di “partecipativa”, poiché comporta un transfer da una signorìa a un’altra12. Si vede bene dunque che il punto di partenza della critica che Paolo fa alla legge non è una riflessione sulla legge stessa o, come si dice con un termine tecnico, non è una toralogia, cioè non è una riflessione sul fatto che la legge possa giustificare o meno e che la natura umana sia debole cosicché nessuno mai riuscirebbe a mettere in pratica tutti i comandamenti. Paolo non parte da una considerazione negativa della legge, anzi lui stesso dice in un testo autobiografico di essere stato “irreprensibile per quanto riguarda l’osservanza della legge” (Fil 3,6). Il punto di partenza della critica paolina alla legge non è nient’altro che la considerazione della decisività di Cristo, è la figura stessa di Gesù Cristo e della sua portata soteriologica: “Tutti hanno peccato, ma sono giustificati gratuitamente per grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù” (Rom 3,24).
All’inizio quindi della svalutazione della legge non c’è una toralogia, ma c’è la cristologia, c’è una attenta valutazione di ciò che Cristo significa per me e, diciamo pure, per tutti gli uomini. È lui che mette in scacco il valore della legge: “Fine della legge è Cristo” (Rom 10,4)! Di qui si comprende anche l’assioma di Rom 3,28: “Riteniamo quindi che venga giustificato per fede un uomo senza opere di legge”. Nell’originale greco di questa frase, a differenza delle traduzioni, non ci sono articoli così che viene messo in rilievo il valore assoluto dei termini. La mancanza dell’articolo invita a considerare la natura delle cose, più che questo uomo qui o quella legge là. E se Lutero nella sua traduzione tedesca aggiunge l’avverbio “allein”/soltanto, fa un errore di traduzione perché nel testo greco non c’è, ma interpreta esattamente il pensiero del’Apostolo. D’altronde, l’avverbio “soltanto” è tradizionale, essendo già presente nella traduzione del primo commento alla lettera ai Romani di Origene (III secolo) fino almeno a Tommaso d’Aquino, che parla di fides scilicet sola … ac si totum fecisset (= colui che crede in Cristo, per il solo fatto di credere, è !come se avesse fatto tutto” [!], evidenziando ancora di più con il suo costrutto latino il valore insostituibile e persino sufficiente della fede). Infatti, chi regge la comparazione con la figura di Gesù non è certamente Mosè, che anzi in Galati 3 è presentato solo come una parentesi tra la promessa fatta ad Abramo (che risponde alla promessa soltanto mediante la fede) e la venuta di Gesù Cristo a cui ci si rapporta solo mediante la fede (cfr la versione CEI di Gal 2,16: “L’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo”, dove il soltanto nel testo greco non c’è!). Addirittura in Gal 3,23 si paragona la situazione dell’uomo sotto la legge a quella di un carcerato, e in Gal 4,1-2 a quella di un minorenne…!
Dunque il punto di riferimento per Paolo non è Mosè, ma è Abramo, perché questi si rapportò a Dio prima di ogni legge e solo mediante la fede, come si legge in Gen 15,6 che Paolo cita ben due volte (in Gal 3,6 e in Rom 4,3): “Abramo credette e gli fu computato a giustizia”, cioè fu ritenuto giusto da Dio, e giusto vuol dire santo! Abramo aderì alla parola di Dio e la accolse prima di fare qualunque opera (infatti di circoncisone si parla solo in Gen 17 e il sacrificio di Isacco è narrato solo in Gen 22). La legge invece propriamente non va creduta, ma va solo osservata, cioè va messa in pratica, come suggerisce anche il sintagma paolino “le opere della legge”, riferito alle opere che la legge prescrive di fare.
Si potrebbe anche dire che Paolo va oltre Abramo e propone come antonimo di Gesù uno che non è neanche ebreo, ma è semplicemente uomo, il primo uomo: “Adamo”. A lui corrisponde un ultimo Adamo che è Gesù (1Cor 15,45), come dire che Gesù è l’uomo nuovo; non per nulla chi aderisce a Gesù secondo Paolo è una creatura nuova (2Cor 5,17; Gal 6,15). Infatti, se dall’uno è provenuto il Peccato con la condanna, dall’altro proviene soltanto il dono della grazia giustificante (Rom 5,15-16).
In Gal 5,1 c’è poi una frase famosa: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”, e nel contesto dell’argomentazione della lettera la libertà di cui si parla qui non è propriamente la libertà dal peccato, ma è piuttosto la libertà dalla legge. In Gal 5,4 Paolo scrive arditamente: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge, siete decaduti dalla grazia”! Io mi chiedo quante volte questo concetto venga davvero annunciato, presentato, sottolineato nella predicazione e nella catechesi. Vi confesso che, se l’anno paolino appena celebrato non avesse portato ad appropriarsi di questa tematica, non sarebbe servito a niente; anzi, la stessa indizione di un anno sacerdotale immediatamente successivo lascia supporre che l’anno paolino è servito a ben poco (visto che nelle lettere e nelle chiese paoline non c’è nessun ministero di tipo sacerdotale). Queste constatazioni, se non altro, servono per riconoscere che Paolo è sempre avanti a noi e che in lui c’è sempre qualcosa da esplorare.
A questo punto viene il discorso sull’etica. E a questo proposito, per andare subito al nocciolo delle cose, trovo illuminante una frase di Lutero nel suo commento alla Lettera ai Romani (su 3,20): “Non è facendo le cose giuste che diventiamo giusti, ma se siamo giusti facciamo le cose giuste” (Non enim iusta operando iusti efficimur, sed iusti essendo iusta operamur); egli del resto lo ripete nella sua Lettera sulla libertà cristiana indirizzata a Leone X (§ 36: “Buone, pie opere non fanno mai un uomo buono e pio; ma un buono, pio uomo fa buone, pie opere”)13. Questo è autenticamente Paolo! L’accento fondamentale e primario è posto non sull’agire ma sull’essere (vedi al contrario Eric Fromm citato al’inizio, che peraltro è nientemeno che sulla linea di Aristotele, Etica Nicomachea 1103ab: “Compiendo atti giusti si diventa giusti”, ma non a caso il filosofo sta parlando delle virtù, che è un concetto non paolino!). Quando Paolo definisce i suoi destinatari “santi” (1Cor 1,2; 2Cor 1,1) è perché sono “santificati” in Cristo Gesù.
C’è dunque un ‘essere’ che precede l’‘agire’! E’ quindi assolutamente fondamentale rendersi conto che l’originalità del cristianesimo (se volete diciamo pure del cristianesimo paolino) sta in un atto del tutto pre-morale, quello della fede e quindi della grazia, che è anteriore a ogni nostro impegno etico o comportamentale. Se riduciamo il cristianesimo a moralità, non abbiamo nulla di originale da dire sul mercato delle religioni! Persino il perdono delle offese si trova in Musonio Rufo, che è uno stoico romano contemporaneo di Paolo. Persino la condanna dell’adulterio, della contraccezione e della pederastia, che non si trova esplicita nel Nuovo Testamento, la troviamo invece in un’iscrizione di un culto privato pagano del 100 a.C. rinvenuta in una casa a Philadelphia in Licia (a sud di Efeso)14. Ciò che di originale ha da dire il cristiano è che già prima della morale si gioca la nostra identità. Prima! Com’è il caso del buon ladrone (riportato dal commento di Origene) o il caso di uno che è stato battezzato ma muore subito dopo (riportato dal commento di Tommaso d’Aquino). La grazia di Dio in Gesù Cristo, che io peccatore accolgo in un atto di fede: questo è pre-morale. La morte di Gesù è pre-morale. La mia adesione/partecipazione a/in Lui è assolutamente pre-morale.
Dire pre-morale non vuol dire certo scaricare le responsabilità morali del cristiano. Iusti essendo, iusta operamur, dice Lutero: se siamo giusti noi facciamo le cose giuste. È il principio dell’albero, insomma, che dà i frutti conformi alla propria natura. È quindi sull’albero e sulle sue radici che semmai bisogna agire, non sui frutti che vengono dopo! Certo è per quanto riguarda l’uomo non conta il paragone necessitante della natura, di ciò che avviene nella botanica, perché nell’uomo c’è la libertà. Però a proposito di chi aderisce a Gesù Cristo, Paolo dice addirittura che è “connaturato” (Rom 6,5: sýmfytos) a lui, sicché dovrebbe scaturirne un ethos confacente a questa radice. Ecco perché Paolo dedica ben 11 capitoli della sua Lettera ai Romani per presentare e dettagliare i costitutivi fondanti dell’identità cristiana, e solo tre capitoli (12,1-15,13) alle sue conseguenze etiche. Mi chiedo se per caso non abbiamo invertito i termini nelle nostre prediche, nelle nostre omelie o trattati… Se non altro, ci resta molto lavoro da fare.

1 Cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone tempi luoghi forme credenze, Carocci, Roma 2010.
2 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, pag. 272.
3 Cf. A. Lemaire, Naissance du monothéisme. Point de vue d’un historien, Bayard, Paris 2003; J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, il Mulino, Bologna 2009.
4 Ed. Rusconi, Milano 1993, pag. 27.
5 Traduzione italiana: “Un rabbino parla con Gesù”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pagg. 182-193.
6 Cfr. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria –I. Gli inizi, Nuova edizione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pag. 74, nota 136.
7 Cfr. R. Penna, Op.cit., pagg. 74-86.
8 Così lo studioso americano R.E. Brown con J.P, Meier, Antioch and Rome, New Testament cradles of catholic christianity, Paulist Press, New York 1983, pagg. 2-8 (trad. ital.: Cittadella, Assisi 1987).
9 Cfr. in breve C. Gianotto, Giacomo e il giudeocristianesimo antico, in: G. Filoramo – C. Gianotto (a cura), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, pagg. 108-119.
10 Cfr. S. Romanello, Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto, Supplementi alla Rivista Biblica 35, EDB, Bologna 1999.
11 Cfr. R. Penna, “Origine e dimensione del peccato secondo Paolo: echi della tradizione enochica”, in: Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Studi sulla Bibbia e il suo ambiente 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pagg. 391-418.
12 Si veda in materia il classico studio di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Biblioteca teologica 21, Paideia, Brescia 1986, specialmente le pagg- 634-647.
13 Cfr. rispettivamente: Lezioni sulla lettera ai Romani (1516-1517), a cura di G. Pani, vol. I, Marietti, Genova 1991, pag. 185; La libertà del cristiano (1520), a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 2005, pag. 169.
14 Cfr. R. Penna, “Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto”, in: Id., Vangelo e inculturazione, cit., pagg. 746-770.

Pontificia Commissione Biblica : C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo

dal sito:

http://www.nostreradici.it/scritture_cap3.htm

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

IL POPOLO EBRAICO E LE SUE SACRE SCRITTURE
NELLA BIBBIA CRISTIANA

III. GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO

C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo (e in altri scritti del Nuovo Testamento)

79. La testimonianza delle lettere paroline sarà considerata secondo i raggruppamenti comunemente accettati: prima le sette lettere la cui autenticità è generalmente riconosciuta (Rm, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 Ts, Flm), poi Efesini e Colossesi, infine le Pastorali (1-2 Tm, Tt). Saranno poi esaminate la lettera agli Ebrei, le lettere di Pietro, Giacomo e Giuda, e l’Apocalisse. 

1. Gli ebrei nelle lettere di Paolo di non contestata autenticità
Personalmente Paolo continua a essere fiero della sua origine ebraica (Rm 11,1). Del tempo anteriore alla sua conversione egli afferma: « Facevo progressi nel giudaismo superando la maggior parte dei miei connazionali e dei miei coetanei per il mio accanito zelo per le tradizioni dei padri » (Gal 1,14). Diventato apostolo di Cristo, dice ancora, a proposito dei suoi rivali: « Sono ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! ». Sono stirpe di Abramo? Anch’io! (2 Cor 11,22). È anche capace però di relativizzare tutti questi vantaggi e di dire: « Tutte queste cose che erano per me un guadagno, le ho considerate una perdita a causa di Cristo » (Fil 3,7).
Egli continua tuttavia a pensare e a ragionare come un ebreo. Il suo pensiero resta chiaramente impregnato di idee ebraiche. Nei suoi scritti si trovano non soltanto, come abbiamo visto sopra, continui riferimenti all’Antico Testamento ma anche molte tracce di tradizioni giudaiche. Inoltre, Paolo utilizza spesso tecniche rabbiniche di esegesi e di argomentazione (cf I. D. 3, n. 14).
I legami di Paolo con il giudaismo si manifestano anche nel suo insegnamento morale. Nonostante la sua opposizione contro le pretese dei fautori della Legge, si serve egli stesso di un precetto della Legge, Lv 19,18 (« Amerai il prossimo tuo come te stesso »), per riassumere tutta la morale. 332 Questo modo di riassumere la Legge in un solo precetto è del resto tipicamente giudaico, come mostra un ben noto aneddoto, che mette in scena Rabbi Hillel e Rabbi Shammai, contemporanei di Gesù. 333
Qual era l’atteggiamento dell’apostolo nei riguardi degli ebrei? In linea di massima era un atteggiamento positivo. Li chiama: « miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne » (Rm 9,13). Convinto che il vangelo di Cristo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima » (Rm 1,16), egli desiderava trasmettere loro la fede, non trascurando nulla a questo scopo; poteva affermare: « mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei » (1 Cor 9,20) ed anche: « con coloro che sono sotto la Legge sono diventato come uno che è sotto la Legge — pur non essendo personalmente sotto la Legge — allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge » (1 Cor 9,20). Anche nel suo apostolato presso i Gentili cercava di essere indirettamente utile ai fratelli della sua stirpe, « nella speranza di salvare alcuni di essi » (Rm 11,14), contando in questo su un riflesso di emulazione (11,11.14): la vista della meravigliosa fecondità spirituale che la fede in Cristo Gesù dava ai pagani convertiti avrebbe suscitato negli ebrei il desiderio di non lasciarsi superare e li avrebbe spinti ad aprirsi a questa fede.
La resistenza opposta dalla maggior parte degli ebrei alla predicazione cristiana metteva nel cuore di Paolo « un grande dolore e una sofferenza continua » (Rm 9,2), il che manifesta chiaramente quale fosse la profondità del suo affetto per loro. Si dichiara disposto ad accettare per loro il più grande e il più impossibile dei sacrifici, quello di essere egli stesso « anatema », separato da Cristo (9,3). Il suo affetto e la sua sofferenza lo spingono a cercare una soluzione: in tre lunghi capitoli (Rm 9–11), approfondisce il problema, o piuttosto il mistero, della posizione d’Israele nel disegno di Dio, alla luce di Cristo e della Scrittura, e termina la sua riflessione soltanto quando può concludere: « allora tutto Israele sarà salvato » (Rm 11,26). Questi tre capitoli della lettera ai Romani costituiscono la riflessione più approfondita, in tutto il Nuovo Testamento, sulla situazione degli ebrei che non credono in Gesù. In essi Paolo esprime il suo pensiero nel modo più maturo.
La soluzione che propone è basata sulla Scrittura, che, in certi momenti, promette la salvezza solo a un « resto » d’Israele. 334 In questa tappa della storia della salvezza, c’è quindi solo un « resto » di Israeliti che credono in Cristo Gesù, ma questa situazione non è definitiva. Paolo osserva che, fin d’ora, la presenza del « resto » è una prova che Dio non ha « ripudiato il suo popolo » (11,1). Questo continua a essere « santo », cioè in stretta relazione con Dio. È santo perché proviene da una radice santa, i suoi antenati, e perché le sue « primizie » sono state santificate (11,16). Paolo non precisa se per « primizie » intenda gli antenati d’Israele o il « resto », santificato dalla fede e dal battesimo. Egli sfrutta poi la metafora agricola della pianta, parlando di alcuni rami tagliati e di innesto (11,17-24). Si comprende che quei rami tagliati sono gli Israeliti che hanno rifiutato Cristo Gesù e che le marze sono i Gentili diventati cristiani. A costoro — l’abbiamo già notato — Paolo predica la modestia: « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18). Ai rami tagliati apre una prospettiva positiva: « Dio ha il potere di innestarli di nuovo » (11,23), e questo sarà anche più facile che nel caso dei Gentili, perché si tratta del « proprio olivo » (11,24). In fin dei conti, il disegno di Dio riguardo a Israele è interamente positivo: « il loro passo falso è stata la ricchezza del mondo », « che cosa non sarà la loro partecipazione totale alla salvezza? » (11,12). Un’alleanza di misericordia è assicurata loro da Dio (11,27.31).
80. Negli anni precedenti la composizione della lettera ai Romani, dovendo fronteggiare un’opposizione accanita da parte di molti suoi « consanguinei secondo la carne », Paolo aveva talvolta espresso vigorose reazioni di difesa. Sull’opposizione dei Giudei, egli scrive: « Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno » (cf Dt 25,3); subito dopo egli nota di aver dovuto far fronte a pericoli provenienti sia da parte dei fratelli della sua stirpe che da parte dei Gentili (2 Cor 11,24.26). Rievocando questi fatti dolorosi, Paolo non aggiunge alcun commento. Era pronto a « partecipare alle sofferenze di Cristo » (Fil 3,10). Ma ciò che provocava da parte sua un’accesa reazione erano gli ostacoli posti dai Giudei al suo apostolato presso i Gentili. Lo si vede in un passo della prima lettera ai Tessalonicesi (2,14-16). Questi versetti sono talmente contrari all’atteggiamento abituale di Paolo verso i Giudei che si è cercato di dimostrare che non erano suoi o di attenuarne il vigore. Ma l’unanimità dei manoscritti rende impossibile la loro esclusione e il tenore dell’insieme della frase non permette di restringere l’accusa ai soli abitanti della Giudea, com’è stato suggerito. Il versetto finale è perentorio: « L’ira è giunta su di loro, al colmo » (1 Ts 2,16). Questo versetto fa pensare alle predizioni di Geremia, 335 e alla frase di 2 Cr 26,16: « L’ira del Signore contro il suo popolo fu tale che non ci fu più rimedio ». Queste predizioni e questa frase annunciavano la catastrofe nazionale del 587 a.C.: assedio e presa di Gerusalemme, incendio del Tempio, deportazione. Paolo sembra prevedere una catastrofe nazionale di simili proporzioni. È opportuno osservare, a tale proposito, che gli eventi del 587 non erano stati un punto finale, perché il Signore aveva poi avuto pietà del suo popolo. Ne consegue che la terribile previsione di Paolo — previsione purtroppo avveratasi — non escludeva una riconciliazione posteriore.
In 1 Ts 2,14-16, a proposito delle sofferenze inflitte ai cristiani di Tessalonica da parte dei loro compatrioti, Paolo ricorda che le chiese della Giudea avevano subito la stessa sorte da parte dei Giudei e accusa allora costoro di una serie di misfatti: « hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi »; la frase passa poi dal passato al presente: « essi non piacciono a Dio e sono ostili a tutti gli uomini, ci impediscono di predicare ai Gentili perché possano essere salvati ». È evidente che agli occhi di Paolo quest’ultimo rimprovero è quello più importante e che è alla base dei due giudizi negativi che lo precedono. Siccome i Giudei ostacolano la predicazione cristiana rivolta ai Gentili, sono « ostili a tutti gli uomini », 336 e « non piacciono a Dio ». Opponendosi con ogni mezzo alla predicazione cristiana, i Giudei del tempo di Paolo si mostrano perciò solidali con i loro padri che hanno ucciso i profeti e con i loro fratelli che hanno chiesto la condanna a morte di Gesù. Le formule di Paolo hanno l’apparenza di essere globalizzanti e di attribuire la colpa della morte di Gesù a tutti gli ebrei senza distinzione; l’antigiudaismo le prende in questo senso. Ma, collocate nel loro contesto, esse riguardano esclusivamente coloro che si oppongono alla predicazione ai pagani e quindi alla salvezza di questi ultimi. Venendo meno questa opposizione, cessa anche l’accusa.
Un altro passo polemico si legge in Fil 3,2-3: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla mutilazione (katatom); perché noi siamo la circoncisione (peritom) ». A chi si riferisce qui l’apostolo? Sono ingiunzioni troppo poco esplicite per poter essere interpretate con certezza, ma si può almeno escludere che riguardassero gli ebrei. Secondo un’opinione corrente, Paolo avrebbe di mira dei cristiani giudaizzanti, che volevano imporre l’obbligo della circoncisione ai cristiani provenienti dalle « nazioni ». Paolo applicherebbe ad essi, in modo aggressivo, un termine di disprezzo, « cani », metafora per l’impurità rituale che gli ebrei applicavano talvolta ai Gentili (Mt 15,26) e disprezzerebbe la circoncisione della carne, chiamandola ironicamente « mutilazione » (cf Gal 5,12) e opponendo ad essa una circoncisione spirituale, come faceva già il Deuteronomio, che parlava di circoncisione del cuore. 337 Il contesto sarebbe, in questo caso, quello della controversia relativa alle osservanze ebraiche all’interno delle chiese cristiane, come nella lettera ai Galati. Ma è forse meglio far riferimento, come per Ap 22,15, al contesto pagano in cui vivevano i Filippesi e pensare che Paolo attacchi qui delle usanze pagane: perversioni sessuali, azioni immorali, mutilazioni cultuali di culti orgiastici. 338
81. Riguardo alla discendenza di Abramo, Paolo fa una distinzione — l’abbiamo già visto — tra i « figli della promessa alla maniera di Isacco », che sono anche figli « secondo lo Spirito », e i figli « secondo la carne ». 339 Non basta essere « figli della carne » per essere « figli di Dio » (Rm 9,8). Perché la condizione essenziale è la propria adesione a colui che « Dio ha inviato [...] perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,4-5).
In un altro contesto, l’apostolo non fa questa distinzione, ma parla degli ebrei globalmente. Egli dichiara allora che essi hanno il privilegio di essere depositari della rivelazione divina (Rm 3,1-2). Questo privilegio, tuttavia, non li ha esentati dal dominio del peccato (3,9-19) e quindi dalla necessità di ottenere la giustificazione per la fede in Cristo e non per l’osservanza della Legge (3,20-22).
Quando considera la situazione degli ebrei che non hanno aderito a Cristo, Paolo ci tiene ad esprimere la profonda stima che ha per loro, enumerando i doni meravigliosi che hanno ricevuto da Dio: « Essi che sono Israeliti, che [hanno] l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, — che [hanno] i padri e dai quali [proviene], secondo la carne, Cristo, che è sopra ogni cosa, Dio benedetto in eterno, amen » (Rm 9,4-5). 340 Nonostante l’assenza di verbi, è difficile dubitare che Paolo voglia parlare di un possesso attuale (cf 11,29), anche se, nel suo pensiero, questo possesso non è sufficiente, perché rifiutano il dono di Dio più importante, il suo Figlio, che pure è nato da essi secondo la carne. Paolo attesta a loro riguardo che « hanno zelo per Dio », ma aggiunge: « non con piena conoscenza; ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (10,2-3). Ciò nonostante, Dio non li abbandona. Il suo disegno è di usare loro misericordia. « L’indurimento » che colpisce « una parte » d’Israele è solo una tappa provvisoria, che ha una sua utilità temporanea (11,25); essa sarà seguita dalla salvezza (11,26). Paolo riassume la situazione in una frase antitetica, seguita da un’affermazione positiva:

« Quanto al vangelo, [sono] nemici a causa vostra,
quanto alla elezione, [sono] amati a causa dei padri,
perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! »
(11,28-29).

Paolo vede la situazione con realismo. Tra i discepoli di Cristo e i Giudei che non credono in lui c’è una relazione di opposizione. Questi Giudei contestano la fede cristiana; non accettano che Gesù sia il loro messia (Cristo) e il Figlio di Dio. I cristiani non possono non contestare la posizione di questi Giudei. Ma a un livello più profondo di questa relazione di opposizione esiste fin d’ora una relazione d’amore, e questa è definitiva, mentre l’altra è solo provvisoria. 

2. Gli ebrei nelle altre lettere
82. La lettera ai Colossesi contiene solo una volta il termine « giudeo », in una frase che afferma che, nell’uomo nuovo, « non c’è giudeo e greco » e che aggiunge subito un’espressione parallela: « circoncisione e prepuzio »; c’è soltanto « Cristo, tutto in tutti » (Col 3,11). Questa frase, che riprende l’insegnamento di Gal 3,28 e Rm 10,12, rifiuta ogni importanza al particolarismo ebraico a livello fondamentale della relazione con Cristo. Non vuole esprimere alcun giudizio sugli ebrei, non più che sui greci.
Il valore della circoncisione prima della venuta di Cristo viene affermato indirettamente, quando l’autore ricorda ai Colossesi che un tempo erano « morti a causa dei [loro] peccati e l’incirconcisione della [loro] carne » (2,13). Ma questo valore della circoncisione ebraica è stato eclissato dalla « circoncisione di Cristo », « circoncisione non fatta da mano d’uomo, che spoglia del corpo di carne » (2,11); si riconosce qui un’allusione alla partecipazione dei cristiani alla morte di Cristo mediante il battesimo (cf Rm 6,3-6). Ne consegue che gli ebrei che non credono in Cristo si trovano in una situazione religiosa insufficiente, ma questa conseguenza non è espressa.
Nella lettera agli Efesini, invece, non compare il termine « giudeo ». Vi si menziona solo una volta il « prepuzio » e la « circoncisione », in una frase che fa allusione al disprezzo che gli ebrei avevano per i pagani. Questi ultimi erano « chiamati “prepuzio” dalla sedicente “circoncisione” » (2,11). D’altra parte, conformemente all’insegnamento delle lettere ai Galati e ai Romani, l’autore, parlando a nome dei giudeo-cristiani, descrive la loro situazione di giudei prima della conversione in termini negativi: erano nel numero dei « figli della ribellione », in compagnia dei pagani (2,2-3), e avevano una condotta asservita « ai desideri della [loro] carne »; erano quindi « per natura figli d’ira, proprio come gli altri » (2,3). Tuttavia, un altro passo della lettera dà indirettamente un’immagine diversa della situazione degli ebrei, un’immagine questa volta positiva, quando descrive la triste sorte dei non ebrei, che erano « senza Cristo, privati del diritto di cittadinanza in Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo » (2,12). I privilegi degli ebrei vengono così evocati ed enormemente apprezzati.
Il tema principale della lettera è proprio l’affermazione entusiasta che questi privilegi, portati al loro vertice con la venuta di Cristo, sono ora accessibili ai Gentili, « ammessi alla stessa eredità, membri dello stesso corpo, associati alla stessa promessa, in Cristo Gesù » (3,6). La crocifissione di Gesù è compresa come un evento che ha distrutto il muro di separazione stabilito dalla Legge tra Giudei e Gentili e che ha così abolito l’inimicizia (2,14). La prospettiva è quella di rapporti in perfetta armonia. Cristo è la pace tra gli uni e gli altri, in modo da creare a partire dai due un unico uomo nuovo e riconciliarli entrambi con Dio in un solo corpo (2,15-16). Il rifiuto opposto dalla maggior parte degli ebrei alla fede cristiana non viene evocato; si resta in un’atmosfera irenica.
Le Lettere pastorali, preoccupate dell’organizzazione interna delle comunità cristiane, non parlano mai degli ebrei. Vi si trova una sola allusione a « quelli della circoncisione » (Tt 1,10), ma si tratta di giudeo-cristiani appartenenti alla comunità. Essi sono criticati per essere, più degli altri membri della comunità, « insubordinati, chiacchieroni e seminatori di errori ». D’altra parte si suppone che la messa in guardia contro « genealogie senza fine », che si trova in 1 Tm 1,4 e Tt 3,9, faccia riferimento a speculazioni ebraiche sui personaggi dell’Antico Testamento, « miti ebraici » (Tt 1,14).
Anche la lettera agli Ebrei non nomina mai i « Giudei », né del resto gli « Ebrei »! Menziona una volta « i figli d’Israele », ma a proposito dell’Esodo (Eb 11,22), e due volte « il popolo di Dio ». 341 Parla dei sacerdoti ebrei chiamandoli « quelli che officiano il culto della Tenda » (13,10) e indica la distanza che li separa dal culto cristiano. Positivamente, ricorda i legami di Gesù con la « discendenza di Abramo » (2,16) e la tribù di Giuda (7,14). L’autore dimostra l’insufficienza delle istituzioni dell’Antico Testamento, soprattutto del culto sacrificale, ma sempre basandosi sullo stesso Antico Testamento, di cui riconosce pienamente il valore di rivelazione divina. A proposito degli Israeliti dei secoli precedenti, i giudizi dell’autore non sono unilaterali, ma corrispondono fedelmente a quelli dello stesso Antico Testamento; da una parte, citando e commentando Sal 95,7-11, ricorda la mancanza di fede della generazione dell’Esodo, 342 ma, dall’altra, abbozza un affresco stupendo degli esempi di fede dati, attraverso i secoli, da Abramo e dalla sua discendenza (11,8-38). Parlando della passione di Cristo, la lettera agli Ebrei non fa alcuna menzione della responsabilità delle autorità ebraiche, ma dice semplicemente che Gesù ha patito una forte opposizione « da parte dei peccatori ». 343
La stessa osservazione vale per la Prima lettera di Pietro, che evoca la passione di Cristo dicendo che « il Signore » è stato « rigettato dagli uomini » (1 Pt 1,4), senza altra precisazione. Questa lettera attribuisce ai cristiani i titoli gloriosi del popolo israelita, 344 ma senza alcun accento polemico. Non nomina mai gli ebrei. Lo stesso è per la lettera di Giacomo, la seconda lettera di Pietro e la lettera di Giuda. Queste lettere, pur essendo impregnate di tradizioni ebraiche, non trattano della questione dei rapporti tra la Chiesa cristiana e gli ebrei contemporanei.  

Quello che lo Spirito dice alle Chiese (Frédéric Manns – O.R.)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2010/236q01b1.html

L’OSSERVATORE ROMANO (2010)

I padri sinodali in ascolto

Quello che lo Spirito dice alle Chiese

di Frédéric Manns

Studium Biblicum Franciscanum (Gerusalemme)

« Chi è costei che sale dal deserto profumata d’incenso? »:  durante il sinodo forse molti si faranno la domanda che si legge nel Cantico dei cantici (3, 6), quando vedranno i patriarchi e i vescovi d’Oriente rivestiti di tiare e di copricapi strani. Nel ii secolo Erma paragonava volentieri la Chiesa a una donna anziana, perché era stata creata agli inizi dei tempi. Questa donna anziana accompagnata da vergini numerose viene quest’anno dal deserto di Giuda e di Arabia.
È vero che la Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, ma deve respirare con due polmoni. I grandi concili ecumenici hanno inculturato il messaggio evangelico nel mondo ellenistico e romano. Ma la Chiesa non può dimenticare la patristica orientale, specialmente quella siriaca, che ha cercato di tradurre questo messaggio per il mondo semitico. E anche il mondo arabo ha una sua patrologia e le sue lettres de noblesse.
Dall’Oriente viene la luce (ex oriente lux) dicevano gli antichi. Ed è questo messaggio di luce che le Chiese orientali hanno mantenuto e che vogliono condividere con la Chiesa di Roma. Luce che è Cristo nel suo mistero di trasfigurazione. Luce che è lo Spirito diffuso nella liturgia divina. La Chiesa è la sposa di luce che vuole vincere le tenebre di un mondo dove l’intolleranza e il dubbio hanno seminato la violenza. Maria vergine e madre di tutti i popoli è l’icona di questa Chiesa.
« Chi ha orecchi, ascolti quello che lo Spirito dice alle Chiese ». Il ritornello del veggente di Patmos alle Chiese dell’Apocalisse ha il merito di ricordare che esse sono opera dello Spirito Santo. Gli uomini non riusciranno a distruggerla. Rimarrà un piccolo resto, ma sarà sempre un segno della vittoria di Dio sul mondo. I discepoli sono nel mondo ma non sono del mondo. In Oriente, più che in Occidente, è il carisma dell’apostolo Giovanni che viene meditato.
L’Oriente è vitalmente propenso alla meditazione e alla contemplazione. La sua liturgia ha mantenuto la dimensione del mistero. Il messaggio dell’apostolo Giovanni, che si riassume nel comandamento dell’amore, potrà portare la comunione tra le Chiese e dare loro la forza di rendere testimonianza in mezzo ai musulmani e agli ebrei. Il mondo violento nel quale vivono i cristiani orientali potrà sdrammatizzarsi con il comandamento dell’amore.
Il Deuteronomio ricorda che l’unico comandamento fondamentale è di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. La tradizione ebraica ha interpretato questo comandamento come esigenza di amare Dio con le due tendenze che sono nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è il teatro di una lotta interiore tra il bene e il male.
Amare Dio con l’anima significa essere pronto ad amare Dio con il sangue, sede della nephesh, in caso di persecuzione. E in Oriente non mancano i martiri. Molti furono e sono i cristiani che hanno amato Dio con tutta l’anima.
San Luca nella sua descrizione della Chiesa primitiva ricordava che la moltitudine dei credenti aveva un cuore solo, una anima sola e metteva in comune i beni materiali. In altre parole la Chiesa di Gerusalemme continuava a vivere l’ideale dello shema Israel, perché Gesù stesso aveva risposto alla domanda su quale fosse il primo comandamento citando lo shema Israel (Marco, 12, 29).
La preparazione del grande giubileo del 2000 aveva permesso di radunare a Gerusalemme molti capi delle Chiese orientali nella riflessione sul Padre, sullo Spirito e sul Figlio. Durante l’anno dello Spirito una serie impressionante di conferenze ripeteva costantemente la stessa teologia orientale dello Spirito. Nella tavola rotonda che seguì, uno dei partecipanti pose la domanda:  « Abbiamo tutti la stessa teologia dello Spirito, perché siamo divisi? ». E un silenzio cadde sull’assemblea.
Durante le celebrazioni eucaristiche i padri sinodali si daranno il segno della pace. Questo gesto ricorderà a tutti il detto (lògion) di Gesù:  « Quando presenti la tua offerta sull’altare va prima a riconciliarti con il tuo fratello ». Il gesto di riconciliazione – che si riallaccia all’usanza ebraica nel giorno precedente il Kippur – dovrà essere ripreso da tutti i fedeli delle Chiese orientali in spirito e verità.
Anche in Oriente si parla di nuova evangelizzazione. Questo nuovo annuncio di Cristo – al quale si aprono anche le strade nuove di internet – non si potrà fare se i cristiani dimostrano nei fatti il contrario di quello che proclamano nelle Scritture. I cristiani sono destinati a unirsi o a scomparire dall’Oriente.

(L’Osservatore Romano 13 ottobre 2010)

20) ROMANI 8,28-30 (ancora qualcosa su Rm 8, le letture di domani)

dal sito:

http://www.donromeo.it/html/vieni/vieni19.htm

20) ROMANI 8,28-30

San Paolo si sentiva molto stupito e fortunato di essere stato fatto annunciatore del “mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria” (Ef 1,26-27). Si tratta di un progetto sull’uomo, su ogni uomo, che Dio ha pensato da lontano e che attua – attraverso Cristo – in diverse fasi lungo l’arco completo della nostra vita. Completo nel senso che va oltre il nostro breve segmento sperimentabile di vita terrena, per cogliere quanto precede la nostra nascita e quanto ci attende oltre la morte.
In una pagina, tra le più sintetiche, della Lettera ai Romani, San Paolo stesso fissa questo disegno in cinque momenti, marcati da cinque verbi speciali. Ecco il testo: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che da sempre ha conosciuto li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,28-30). Analizziamo il testo. Anzitutto l’introduzione: Dio ha un disegno di bene, di vita, di riuscita e felicità piena per ogni uomo: tutto concorre al loro bene, cioè Dio fa di tutto “perché tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). Naturalmente il risultato dipende dalla libertà d’ognuno, chiamato a corrispondervi: cioè ad amarlo. Dio può far di tutto, ma se uno dice di no, anche la sua onnipotenza e il suo amore rimangono inefficaci.
Su questo sfondo di una iniziativa di Dio così positiva e promettente, si svolge in cinque punti l’esistenza dell’uomo, che nasce nella profondità del cuore di Dio e termina nella eternità della comunione piena con Lui.

Conosciuti
Il tratto di vita che precede la nostra apparizione nel mondo sta nel cuore e nella mente di Dio: è propriamente la fase di progettazione. Due verbi la qualificano: conosciuti e predestinati.
Conosciuti significa che ogni uomo è voluto, amato, sognato come risultato di una premura e di un progetto personalizzato. L’immagine primordiale biblica è quella del vasaio, che non fa mai vasi in serie, ma ognuno è un capolavoro nuovo e originale. Oggi diciamo che Dio ha chiamato ciascuno per nome. “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (Ger 1,5); “fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49,1). Significa che abbiamo a disposizione – indipendentemente da ogni nostro merito, per pura gratuità – una risorsa potente ed esplosiva, capace dell’impossibile, quale è il cuore stesso di Dio.
E’ la prima certezza della nostra fede: “ci ha amati fin da prima della creazione del mondo e ci ha scelti” (Ef 1,4). C’è quindi un motivo e un perché del nostro apparire sulla terra, non siamo venuti al mondo per caso, nel caos delle violenze umane, perché le precede e le domina un disegno preciso.
Dice la razionalità della nostra vicenda di uomini, che ci appare a volte tanto irrazionale e deludente. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo” (Ef 1,3-10).

Predestinati
Questa è la verità primordiale e più profonda: che Dio nell’istante in cui pensa all’uomo, lo pensa subito come suo figlio. “Vedete come ci ha voluto bene il Padre? Egli ci ha chiamati ad essere suoi figli. E noi lo siamo davvero” (1Gv 3,1).
Ma figli non in qualche modo; siamo chiamati ad essere “figli nel Figlio”, cioè figli propri. Un giorno Dio decise di allargare famiglia, e di avere un UOMO come suo figlio proprio. Il suo Figlio unigenito assunse la natura umana, divenne anche uomo. Fu il primo uomo progettato da Dio, un Dio che è anche uomo, un uomo-Dio! E’ Gesù Cristo. “Egli è prima di tutte le cose” (Col 1,17).
Su quello ‘stampo’, come prolungamento di Lui, sono stati creati tutti gli uomini: da Unigenito il Figlio proprio di Dio divenne “primogenito di molti fratelli”. “Ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8,29). L’uomo è così creato, ‘stampato’, strutturato, “predestinato” figlio proprio di Dio come il Primogenito. Cioè uomo-Dio come lui. Quello che Gesù è per natura, noi lo diventiamo per grazia, cioè per dono gratuito. “A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
Dio ci ha così fatti “a sua immagine e somiglianza”, cioè ci ha impresso qualcosa di Sé, ha impastato l’uomo con qualcosa di divino. Qualcosa di divino che non possiamo più rinnegare, perché è strutturato in noi.

Chiamati
Quando uno viene al mondo, Dio gli propone il suo Dono, gli fa conoscere la sua proposta, lo chiama a realizzare quel progetto. E poiché si tratta di un rapporto libero e d’amore, nasce qui una lunga storia d’amore tra Dio e ogni sua creatura, che la pungola in forme infinite ad aprirglisi in piena libertà; storia d’amore rappresentata come in sintesi paradigmatica nella singolare avventura d’amore intercorsa tra Dio e il suo popolo nella Bibbia.
La prima chiamata è per Abramo, padre e modello della nostra fede, nel quale sono benedette tutte le famiglie della terra. Prosegue questa scelta con Israele, “il primogenito”, chiamato a stringere con Dio una alleanza sacra al Sinai. E’ una vicenda difficile, d’amore e tradimenti, come, con icona commovente, viene descritta dai Profeti a partire dal dramma personale di Osea.
Sarà a partire dalla esperienza dell’esilio che Israele capirà che la chiamata è per ogni popolo, che l’eredità di Abramo dovrà passare a tutte le nazioni per la sola fede in Cristo, come spiegherà bene San Paolo. Per questo Gesù invierà i suoi apostoli “ad ammaestrare tutte le nazioni….. fino agli estremi confini della terra” (Mt 28,20). E’ missione propria della Chiesa ora giungere a tutti gli uomini.
Ma è chiamata che stranamente riceve un rifiuto. Gesù ne parlò con amarezza, svelando la meschinità delle nostre scuse, delle nostre pretese, anzi delle nostre prepotenze, a partire dalla parabola del figlio prodigo, a quella degli invitati al banchetto di nozze del figlio del re (cfr. Mt 22,1-14), a quella dei vignaiuoli omicidi (cfr. Mt 21,33-44). L’uomo dice di no a Dio e tenta di realizzare di sé un progetto alternativo.
Questo è il peccato di Adamo e nostro. Quell’essere stati fatti a immagine somigliante a Dio, anzi a Cristo, finisce per diventare immagine sfocata, non più somigliante, e l’uomo perde i tratti più specifici della sua identità, divenendo uomo destinato alla morte e nemico di Dio.

Giustificati
Ecco allora l’ulteriore scelta di Dio: essendo l’uomo impossibilitato da sé solo a dire di sì a Dio, a corrispondere al suo amore, e alla fine a chiedergli perdono, Dio stesso decide Lui di divenire uomo, per essere il primo uomo capace di dire di sì a Dio e aiutare tutti gli uomini a dire il loro sì, riconciliando così tutta l’umanità al suo Creatore e Padre.
La vicenda umana di Gesù la si può riassumere in una duplice azione: mostrare con tutto se stesso la bontà e la misericordia del Padre perché gli uomini ne abbiano più fiducia e amore; e poi vivere tutta una vita come un sì pieno e totale al Padre, fino all’atto supremo del sì della croce, per essere d’esempio e in un certo modo per rappresentarci nell’atto di riconciliazione con Dio.
Dio ha come voluto caricare su di lui il peccato di tutti noi; per le sue piaghe noi siamo stati guariti; il castigo che meritavamo noi è caduto su di lui: è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità (cfr. Is 53). Ha così espiato a nome nostro e per noi, riconciliandoci con Dio, rendendoci giusti davanti a Lui. Ci ha giustificati col sangue della sua croce, riaprendoci ad un nuovo e più intimo rapporto con Dio.
Toccherà ora a noi “lasciarci riconciliare con Dio” attraverso Gesù; imparare da lui e dal vangelo una fiducia più grande in Dio e lasciarci toccare dai suoi gesti di riconciliazione e perdono che sono i sacramenti. La vita cristiana, dal battesimo in poi, è crescere in una progressiva connessione e identificazione con Gesù – operata più dallo Spirito santo che da noi – per divenire sempre più come lui figli sinceri e fedeli di Dio Padre.

Glorificati
“E se figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Questo è il nostro grande destino, a tanto siamo chiamati, cioè a divenire niente di meno che come Dio, “simili a Lui perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Per questo Gesù ripeteva: “Nella casa del Padre mio ci sono molti posti. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3).
E vi saremo con la pienezza della nostra realtà di uomini, in anima e corpo, sul modello di quello che è già avvenuto per Gesù, risuscitato col suo corpo, e per Maria, assunta in cielo col suo corpo, a dire la pienezza di vita eterna che ci attende oltre la morte. “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore vivrà, e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (Gv 11,25). Il sogno dell’uomo era l’immortalità; il dono di Dio è la risurrezione della carne per una vita perenne “da dio”.

FEDELTÀ NEL TEMPO (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/bianchi_lessicointeriore2.htm

FEDELTÀ NEL TEMPO

ENZO BIANCHI

«Ascoltate oggi la sua voce» (Salmo 95,7): nella Bibbia è l’alleanza con il Signore che definisce il tempo di Israele, del popolo di Dio: un tempo esistenziale misurato sul davar, la parola-evento del Signore, e sull’ obbedienza del popolo di Dio a questa parola. TI tempo nella Scrittura è sempre legato alla storicità radicale dell’uomo, alla sua struttura di creatura che nell’ oggi decide il proprio destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. Per questo la storia è orientata a un télos – fine e meta – svelato dagli interventi di Dio che si manifesta nei progressi e nelle regressioni dell’umanità, ed è storia di salvezza perché Dio chiama continuamente l’uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli fornisce i mezzi per farlo nell’attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini.
È questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la «pienezza del tempo» (Galati 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la sua passione-morte-resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell’ attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero. Con la prima venuta di Gesù nella carne ha inizio un kairos, un tempo propizio che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che il tempo è compiuto (Marco I, I 5), che l’ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi e credere all’Evangelo (Marco 1,15; Matteo 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo di grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente sicché l’oggi concreto è immerso nella luce della salvezza. Questo è il tempo favorevole, questo il giorno della salvezza (cfr. 2 Corinti 6,2)!
Il primo atteggiamento del cristiano di fronte al tempo è allora quello di cogliere l’oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. Il nostro rapporto con il tempo, con Chronos tiranno che divora i suoi figli, viene così trasformato per assumere dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo (cfr. Luca 12,56), di «discernere i segni dei tempi» (Matteo 16,3) per giungere a cogliere «il tempo della visita di Dio» (Luca 19,44). Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio: «Ho detto: Tu il mio Dio; i miei tempi nella tua mano» (Salmo 3I,I5B-I6A). È l’atteggiamento fondamentale: i nostri giorni infatti non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei Salmi l’ orante chiede a Dio: «Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni» (Salmo 39,5) e invoca: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza» (Salmo 90,12). La sapienza del credente consiste in questo saper contare i propri giorni, saperli leggere come tempo favorevole, come oggi di Dio che irrompe nel proprio oggi.
Il cristiano deve «vegliare e pregare in ogni tempo» (Luca 21,36), impegnato in una lotta antidolatrica in cui il tempo alienato è l’idolo, il tiranno che cerca di dominare e rendere schiavo l’uomo. Per Paolo il cristiano deve cercare di usare il tempo a disposizione per operare il bene (cfr. Galati 6,10), deve approfittare del tempo e, soprattutto, quale uomo sapiente, deve salvare, redimere, liberare, riscattare il tempo (cfr. Efesini 5,16; Colossesi 4,5).
Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza. Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle energie del Risorto al cristiano, resta ancora operante l’influsso del «dio di questo mondo» (2 Corinti 4,4), sicché il tempo del cristiano permane tempo di esilio, di pellegrinaggio (cfr. I Pietro 1,17), in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr. I Corinti 15,28). Il cristiano infatti sa – e non ci si stancherà mai di ripeterlo in un’ epoca che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità, in un’ epoca appiattita sull’immediato e l’attualità – il cristiano sa che il tempo è aperto all’ eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Ebrei 13,8; cfr. Apocalisse 1,17). TI télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.
Se questa è la dimensione autentica del tempo del cristiano, allora capiamo in profondità la portata di queste affermazioni di Dietrich Bonhoeffer: «La perdita della memoria morale non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’ amore, del matrimonio, dell’ amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza e in generale tutte le grandi realizzazioni richiedono tempo, stabilità, « memoria », altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro, costui è uno « smemorato », e io non so come si possa colpire, affrontare, far riflettere una persona simile».
Scritte più di cinquant’anni fa, queste parole sono ancora molto attuali e pongono il problema della fedeltà e della perseveranza: realtà oggi rare, parole che non sappiamo più declinare, dimensioni a volte sentite perfino come sospette o sorpassate e di cui – si pensa – solo qualche nostalgico dei «valori di una volta» potrebbe auspicare un ritorno. Ma se la fedeltà è virtù essenziale a ogni relazione interpersonale, la perseveranza è la virtù specifica del tempo: esse pertanto ci interpellano sulla relazione con l’altro. Non solo, i valori che tutti proclamiamo grandi e assoluti esistono e prendono forma solo grazie ad esse: che cos’è la giustizia senza la fedeltà di uomini giusti? Che cos’è la libertà senza la perseveranza di uomini liberi? Non esiste valore né virtù senza perseveranza e fedeltà! Così come, senza fedeltà, non esiste storia comune, fatta insieme. Oggi, nel tempo frantumato e senza vincoli, queste realtà si configurano come una sfida per l’uomo e, in particolare, per il cristiano. Quest’ultimo, infatti, sa bene che il suo Dio è il Dio fedele, che ha manifestato la sua fedeltà nel Figlio Gesù Cristo, «l’Amen, il Testimone fedele e verace» (Apocalisse 3,14) in cui «tutte le promesse di Dio sono diventate sì» (cfr. 2 Corinti 1,20).
Queste dimensioni sono dunque attinenti al carattere storico, temporale, relazionale, incarnato della fede cristiana, e la delineano come responsabilità storica. La fede esce dall’ astrattezza quando non si limita a informare una stagione o un’ora della vita dell’uomo, ma plasma l’arco della sua intera esistenza, fino alla morte. In questa impresa il cristiano sa che la sua fedeltà è sostenuta dalla fedeltà di Dio all’alleanza, che nella storia di salvezza si è configurata come fedeltà all’infedele, come perdono, come assunzione della situazione di peccato, di miseria e di morte dell’uomo nell’incarnazione e nell’evento pasquale. La fedeltà di Dio verso l’uomo è cioè diventata responsabilità illimitata nei confronti dell’uomo stesso. E questo indica che le dimensioni della fedeltà e della perseveranza pongono all’uomo la questione ancor più radicale della responsabilità. L’irresponsabile, così come il narcisista, non sarà mai fedele. Anche perché la fedeltà è sempre fedeltà a un «tu», a una persona amata o a una causa amata come un «tu»: non ogni fedeltà è pertanto autentica! Anche il rancore, a suo modo, è una forma di fedeltà, ma nello spazio dell’ odio. La fedeltà di cui parliamo avviene nell’amore, si accompagna alla gratitudine, comporta la capacità di resistere nelle contraddizioni.
Jankélévitch definisce la fedeltà come «la volontà di non cedere all’inclinazione apostatica». Essa è pertanto un’ attiva lotta la cui arena è il cuore umano. È nel cuore che si gioca la fedeltà! Questo significa che essa è vivibile solo a misura della propria libertà interiore, della propria maturità umana e del proprio amore! Le infedeltà, gli abbandoni, le rotture di impegni assunti e di relazioni a cui ci si era impegnati, situazioni tutte che spesso incontriamo nel nostro quotidiano, rientrano frequentemente in questa griglia. E dicono come sia limitante, all’interno della chiesa, ridurre il problema della fedeltà e della perseveranza, e quindi del loro contrario, alla sola dimensione giuridica, di una legge da osservare. In gioco vi è sempre il mistero di una persona, non semplicemente un gesto di rottura da sanzionare. Il gesto di rottura va assunto come rivelatore della situazione del cuore, cioè della persona. Anzi, in profondità, la dimensione dell’infedeltà non è estranea alla nostra stessa fedeltà, così come l’incredulità traversa il cuore del credente stesso. Che altro è la Bibbia se non la testimonianza della tenacissima e ostinata fedeltà di Israele a voler narrare la storia della propria infedeltà di fronte alla fedeltà di Dio? Ma come riconoscere la propria fedeltà se non a partire dalla fede in Colui che è fedele? In questo senso il cristiano «fedele» è colui che è capace di memoria Dei, che ricorda l’agire del Signore: la memoria sempre rinnovata della fedeltà divina è ciò che può suscitare e sostenere la fedeltà del credente nel momento stesso in cui gli rivela la propria infedeltà. E questo è esattamente ciò che, al cuore della vita della chiesa, avviene nell’ anamnesi eucaristica.

LA LIBERTÀ CRISTIANA (tradotto liberamente da uno scritto di John MacArthur)

dal sito:

http://camcris.altervista.org/liber.html

LA LIBERTÀ CRISTIANA

tradotto liberamente da uno scritto di John MacArthur

(Pastore della Chiesa Evangelica)

« Fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri » (Gal. 5:13).
Una delle mie gioie come pastore è quella di insegnare alle persone la Parola di Dio e spiegare le sue implicazioni nelle loro vite.
Tra i dubbi che la gente esprime, non figurano domande su se sia sbagliato mentire, truffare, rubare, uccidere, comemttere adulterio, o concupire. Né mi viene chiesto se i Cristiani dovrebbero leggere la Bibbia, pregare, o parlare agli altri della salvezza in Gesù Cristo. La Bibbia infatti è molto chiara su tutti questi punti.
C’è, però, una serie di domande che si trova in un’area che potremmo definire « grigia ». Sono domande che riguardano la libertà cristiana dei credenti. Quali svaghi sono accettevoli? Quale tipo di musica possiamo ascoltare? Come dobbiamo vestirci, cosa mangiare o bere, come impiegare il tempo libero? La Bibbia dà una risposta a queste domande?
Alcuni potrebbero dire « no, la Bibbia non ne parla; puoi fare tutto quello che ti pare, sei libero! ». Sebbene la Bibbia non elenchi specificamente ogni possibile decisione che ti troverai a fronteggiare nella vita, essa spiega i princìpi che regolano la libertà cristiana.
Essi consentono di discernere ciò che è buono e camminare nella libertà secondo la volontà di Dio, e alla Sua gloria.

MI PORTERA’ BENEFICIO SPIRITUALE?
« Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa edifica. » (1 Cor. 10:23)
Una cosa « utile » è qualcosa che porta vantaggio; ed « edificare » vuol dire fortificare spiritualmente. Basandoti su questo verso, domandati: « È una cosa che migliorerà la mia vita spirituale? Mi indurrà al bene? Mi edificherà spiritualmente? » Se no, dovresti seriamente riflettere sull’utilità della cosa che vuoi fare.

MI CONDURRA’ AD UNA SCHIAVITU’?
« Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da cosa alcuna. » (1 Cor. 6:12)
In questo verso, l’apostolo Paolo dice: « non mi lascerò dominare da cosa alcuna ». Se dunque si tratta di qualcosa che può diventare un’abitudine, guardati dal cadere sotto il suo controllo. Se sei servo del Signore Gesù Cristo, non puoi esserlo di altri.

CONTAMINERA’ IL TEMPIO DI DIO?
« Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, il quale voi avete da Dio, e che voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo, glorificate dunque Dio nel vostro corpo e nel vostro spirito, che appartengono a Dio. » (1 Cor. 6:19-20)
Non fare nulla che possa causare danno al tuo corpo, o esporlo alla vergogna – esso è l’unico mezzo che hai per glorificare Dio. Il passo di Romani 6:13 dice: « Non prestate le vostre membra al peccato come strumenti d’iniquità, ma presentate voi stessi a Dio, come dei morti fatti viventi, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia ».
Il modo in cui scegli di usare il tuo corpo dovrebbe sempre riflettere la tua volontà di onorare Gesù Cristo.

SARA’ CAUSA DI INCIAMPO PER QUALCUNO?
« Ora un cibo non ci rende graditi a Dio; se mangiamo, non abbiamo nulla di più, e se non mangiamo, non abbiamo nulla di meno. Badate però che questa vostra libertà non divenga un intoppo per i deboli. » (1 Cor. 8:8-9)

Questo è un principio dell’amore. Infatti Romani 13:10 dice: « L’amore non fa alcun male al prossimo; l’adempimento dunque della legge è l’amore ». Se sai che la tua scelta – ciò che tu consideri « nei limiti » e accettevole – può far inciampare e peccare un altro Cristiano, allora ama quel fratello o quella sorella abbastanza da non esercitare quella tua libertà. Non è un comportamento visto di buon occhio dalla nostra società egoista, ma è biblico. Continuare a indulgere in una libertà legittima causando problemi ad un altro Cristiano, è peccato.
Infatti, « peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la loro coscienza che è debole, voi peccate contro Cristo. Perciò », prosegue Paolo con un esempio, « se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello » (1 Cor. 8:12-13).

CONTRIBUIRA’ ALLA CAUSA DELL’EVANGELO?
« Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati. » (1 Cor. 10:32-33)

Che tu ne sia cosciente o meno, ciò che tu permetti o freni nel tuo comportamento influenza la tua testimonianza per Cristo – e il mondo ti osserva. È una questione di testimonianza – ciò che la tua vita riflette su Dio e sulla tua esperienza con Lui. La tua testimonianza può solo dire la verità su Dio, o dire una menzogna. Le scelte che tu compi nelle aree « grigie » devono riflettere la tua volontà di non causare offesa al nome di Dio, ma anzi portarGli lode.

VIOLERA’ LA MIA COSCIENZA?
« Ma chi ha dei dubbi riguardo a ciò che mangia è condannato, perché la sua condotta non è dettata dalla fede; e tutto quello che non viene da fede è peccato. » (Rom. 14:23)

Prima, Corinzi 10:25-29 contiene tre riferimenti all’astenersi da una pratica per motivi di coscienza. Infatti, se la tua coscienza è in dubbio o è turbata da ciò che stai considerando di fare, non farlo. È importante avere una coscienza pura davanti a Dio, affinché la tua comunione con Lui non sia impedita. Solo perseverando nella preghiera e studiando la Parola di Dio, potrai comportarti « come figli di luce… esaminando che cosa sia gradito al Signore » (Efes. 5:8-10).

PORTERA’ GLORIA A DIO?
« Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. » (1 Cor. 10:31)

Questo verso riassume chiaramente l’obiettivo di tutti i princìpi elencati. Il grido del nostro cuore non è di glorificare il nostro Signore e Salvatore con le nostre vite? Pensa un momento al risultato della tua decisione – Dio sarà glorificato, onorato e lodato mediante essa? Oh che possiamo dire con Gesù: « Io ti ho glorificato sulla terra » (Giov. 17:4).

la seconda lettura di domenica 25 luglio 2010 – la lettera ai Colossesi (2,6-159

stralcio, il commento è un po’ più ampio del testo scelto per la domenica 25 luglio, dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/colossesi.html

LA LETTERA AI COLOSSESI
(Pedron Lino)

Cristo Gesù Signore
 
(2,6-15)

Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, 7ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie. 8Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

Una comunità che è consapevole di essere legata al Vangelo apostolico è in grado di distinguere la retta tradizione dalla dottrina falsa. Perciò, prima di mettere in guardia contro la falsa filosofia, Paolo esorta nuovamente i colossesi alla perseveranza nella dottrina ricevuta e nella fede incrollabile (2,6-7). Ma poi viene esposta alla comunità l’alternativa che esige da essa una chiara e univoca decisione: o l’inganno della filosofia secondo gli elementi cosmici che sono le forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15) o Cristo. Con un richiamo all’inno (1,15-20) Cristo è annunciato come Signore al di sopra di tutte le dominazioni e le potestà (2,9-10). La comunità di Colossi è da lungo tempo congiunta a Cristo e perciò la decisione è già avvenuta: la loro appartenenza a Cristo è fondata nel battesimo (2,11-12). Col v.13 si cambia soggetto. Ora si parla dell’azione di Dio che fa partecipi i battezzati alla vittoria di Cristo (2,13-15).

v. 6. La comunità deve attenersi fermamente al Vangelo, così come l’ha ricevuto. Il contenuto di ciò che è stato comunicato alla comunità nella tradizione apostolica è qui espresso con le parole « Gesù Cristo il Signore ». Gesù Cristo è il Signore significa che egli non è un signore tra altri signori, ma il Signore (1Cor 8,5-6).

v. 7. La condotta della comunità viene precisata in quattro participi: radicati in lui, costruiti su di lui, rafforzati nella fede, abbondanti in rendimento di grazie. Solido fondamento è solo Gesù Cristo, il Signore. Chi è radicato in lui non crollerà. La comunità troverà saldezza nella retta fede in cui è stata istruita. Con ciò è fortemente sottolineata l’importanza dell’istruzione religiosa. Solo la fede che corrisponde all’insegnamento apostolico dona quella saldezza che può sfidare tutti gli attacchi (1,28).

v. 8. È necessario che la comunità stia attenta a non lasciarsi accalappiare da coloro che vogliono sostituire il Vangelo di Cristo con la filosofia umana. Con il termine « filosofia », in questa lettera, si intende la conoscenza del fondamento dell’essenza divina del mondo, ottenuta per mezzo di una rivelazione arcana. Ad essi Paolo obietta che la loro cosiddetta filosofia è vuota e senza contenuto, in realtà non è altro che « vuoto inganno ». La comunità è chiamata a scegliere tra la tradizione apostolica e la tradizione filosofica. Il contenuto delle due tradizioni è sintetizzato nell’espressione: « secondo gli elementi del mondo » e « secondo Cristo ».

Stoichèia tou kosmou (= elementi del cosmo), nella lettera ai colossesi, sono entità personali, forze demoniache che vogliono esercitare il loro potere coercitivo sugli uomini (2,10.15). A questa dottrina, secondo cui gli « elementi del cosmo » determinano la vita degli uomini, e quindi bisogna riconoscere la loro pretesa potenza (2,16-23), viene contrapposta la chiara antitesi: solo Cristo è il Signore su tutto e quindi l’unico Signore sulla vita e sul comportamento della comunità. La comunità perciò non deve lasciarsi indurre a riconoscere altre autorità accanto a lui.

v. 9. L’invito a seguire Cristo senza tentennamenti è ora motivato con la ripresa dell’espressione « in lui » che nei versetti seguenti viene ripetuta come motivo dominante: in lui dimora corporalmente la pienezza della divinità (v.9); in lui siete ricolmi (v.10); in lui siete stati circoncisi (v.11); con lui siete stati sepolti, in lui siete anche tutti risuscitati (v. 12); Dio vi ha reso viventi con lui (v.13); egli ha condotto schiavi in lui, in corteo trionfale, i principati e le potestà (v.15).

All’inizio di questo ragionamento viene stabilito: « Poiché in lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità ». Alle domande che ogni uomo si pone: Dove trovo la pienezza e come poter essere pervaso di forza divina, la lettera risponde con un’affermazione polemica: tutta la pienezza della divinità dimora in Cristo. Perciò può divenirne pieno solo colui che appartiene a questo Signore, che è in lui, con il quale è morto e risuscitato a nuova vita. Somatikòs (= corporalmente) precisa la realtà dell’inabitazione divina. « Somatikòs designa dunque qui la corporeità, in cui Dio incontra l’uomo nel mondo in cui vive. Designa quindi propriamente la piena umanità di Gesù, non invece una umanità che sia semplice involucro della divinità » (E. Schweizer). Poiché in Cristo tutta la pienezza della divinità dimora corporalmente, egli è « il capo di ogni principato e potestà » (v. 10), il capo del corpo che è la chiesa » (1,18). Dunque chi è trasferito nel suo regno, è liberato dalle potenze che dominano il mondo e vogliono piegare l’uomo al loro giogo di schiavitù.

v. 10. Segue perciò un’immediata conclusione: « È solo in lui che voi avrete parte della pienezza ». I cristiani sono ricolmi dei doni divini solo vivendo in Cristo.

v. 11. Si prosegue dicendo: « Voi siete uniti con Cristo, da tempo, mediante il battesimo ». Il battesimo è qui chiamato « circoncisione non fatta da mano d’uomo », la circoncisione di Cristo. L’attributo « non fatta da mano di uomo », col quale si qualifica la circoncisione compiuta sui battezzati, avverte che quel che avviene nel battesimo è opera di Dio. « Deporre l’uomo carnale » non significa in alcun modo disprezzare la vita terrena, ma vivere nell’obbedienza al Signore: « Spogliatevi dell’uomo vecchio con le sue opere, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che viene rinnovato per la conoscenza, ad immagine di colui che l’ha creato, dove non c’è più né greco né giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero; ma tutto e in tutti è Cristo » (3,9-10). Questa retta circoncisione, che si distingue radicalmente sia dalle pratiche dei « filosofi » sia dal rito giudaico, è la « circoncisione di Cristo ». Per l’uso traslato del termine « circoncisione » bisogna confrontare le espressioni profetiche sulla circoncisione del cuore (Ger 4,4; 6,10; 9,25).

v. 12. La circoncisione in Cristo che ogni cristiano ha sperimentato su se stesso, non è altro che l’essere battezzato nella morte e nella risurrezione di Cristo. Nel battesimo siamo morti e sepolti con Cristo, per cui la vecchia vita è cessata. In Rm 6 Paolo dimostra che, conseguentemente, per noi è diventato impossibile vivere ancora in potere del peccato. Il vecchio uomo è stato ormai crocifisso con Cristo (Rm 6,6). Come nel Kerigma l’accenno al sepolcro sottolinea la realtà della morte di Gesù Cristo (1Cor 15,4), così qui è ribadito che nel battesimo è avvenuta una morte reale: « Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme con lui nella morte » (Rm 6,4). Come in Rm 6, così anche nella lettera ai colossesi, si dice che siamo morti con Cristo nel battesimo. Ma a differenza di Rm 6, e in apparente contrasto con Rm 6,4-5, si dice che la risurrezione è effettivamente già avvenuta nel battesimo: « Voi siete risorti con lui ». Ciò che avverrà in futuro, in questa lettera, non è quindi chiamato la risurrezione dei morti, ma la manifestazione della vita, partecipata nel battesimo e ancora avvolta nel mistero: « La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (3,3). L’intima appartenenza a Cristo è già realtà; essa ha già avuto il suo fondamento nel battesimo, nel quale il cristiano è stato inserito nella morte e risurrezione di Cristo.

Tuttavia la lettera ai colossesi è ben lontana nel cadere in un entusiasmo fanatico per lo slogan: « La risurrezione è già avvenuta » (2Tm 2,18). Perché risorgere con Cristo non significa altro che ricevere il perdono dei peccati (1,13-14; 2,13).

La nuova vita con Cristo è in realtà soltanto « mediante la fede nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dai morti ». Se la morte-risurrezione con Cristo del battezzato sono già realizzate – « sepolti con lui » (v.12) « vi ha fatto rivivere con lui » (v.13), « se siete risorti con Cristo » (3,3) -, la pienezza della vita in Cristo è futura: « Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria » (3,4).

In sintesi: La nostra partecipazione alla risurrezione di Cristo passa attraverso tre tappe: inizia nel battesimo, compie un grande passo al momento della morte, si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi: « Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » (Gv 5,28-29).

v. 13. Il cambiamento del soggetto ci fa capire che c’è una ripresa del discorso: Dio ha reso viventi con lui voi che eravate morti. La ribellione compiuta nella permanente disubbidienza connota la vita di coloro che sono senza Cristo. Essi vivono nella incirconcisione della loro carne, cioè sono pagani e atei.

Dove la « carne » dirige la vita, non ci può essere altro che peccati e morte. Ma ciò che era una volta, ora non ha più valore. L’incirconcisione, di cui Paolo fa ricordo agli etnico-cristiani, è stata eliminata dalla « circoncisione non fatta da mano d’uomo » (2,11). Nel battesimo è stato effettuato il passaggio dalla morte alla vita: Dio vi ha reso viventi con lui (2,12). I peccati, che, prima di Cristo e senza Cristo, facevano della vita una morte, sono perdonati senza eccezione. Dio ha annullato il debito e distrutto il documento su cui era registrato.

v. 14. Il chirografo, il documento scritto a mano che attesta i nostri debiti nei confronti di Dio, è la condizione di debitore in cui l’uomo si trova di fronte a Dio. Paolo afferma che Dio ha perdonato tutti i peccati e ha annullato il documento di obbligazione che era a nostro sfavore, così che non può più essere addotto a nostro carico. Dio non solo ha cancellato il debito, ma ha anche annullato il documento di obbligazione. La piena estinzione di questo documento debitorio è avvenuta quando Dio lo ha appeso alla croce. Poiché Cristo, che ha preso su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29), fu appeso alla croce al nostro posto, il debito è definitivamente condonato. E in questo modo si chiarisce il precedente enunciato: grazie a Cristo, Dio ci ha perdonato tutti i peccati (v.13).

v. 15. Nella croce di Cristo, Dio non soltanto ha distrutto l’attestazione scritta della nostra colpa, ma ha anche trionfato sui principati e potestà. Dio ha mandato in rovina, nella croce di Cristo, le potestà e le dominazioni. Queste potenze sono vinte e quindi non possono nuocere a coloro che appartengono al vincitore. Nel corteo trionfale Dio conduce prigioniere queste potenze sconfitte, per rendere manifesta la grandezza della sua vittoria. Sono ormai potestà fiaccate, che non possono né aiutare l’uomo né esigere da lui culto e venerazione. Nel battesimo i cristiani sono trasferiti nel dominio del diletto Figlio di Dio. Perciò a loro non interessano più le potestà e le dominazioni; per essi vale soltanto Cristo, e nessuno e niente accanto a lui e fuori di lui.

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