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I NOMI DI DIO NELLA BIBBIA

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I NOMI DI DIO NELLA BIBBIA

Il mio desiderio è di scoprire insieme a voi i diversi nomi con i quali Dio si rivela nelle Scritture. Il suo nome non ci fornisce delle informazioni concernente la sua identità, ma una rivelazione alla sua persona!
Durante la lode e l’adorazione a volte pronunciamo i diversi nomi attribuiti a Dio « El-Shaddaï, El-Olam,.. » ma non sappiamo cosa vogliono significare. Il nostro scopo è quello di poter approfondire questi termini partendo dal nome originale in Ebraico.
Qui di seguito una lista dei nomi trattati:
Dio – Elohim 
Dio onnipotente – El-Shaddaï Il Signore e Maestro – Adonaï
L’Altissimo – El-Elyon Dio Padre – Abba 
Il Dio che vede – El-Roï Il nome: YHVH 
Il Dio d’Israele – El-Elohé-Israël Io sono – Ehyeh 
Il Dio geloso – El-Kanna L’Eterno è uno – YHVH Ehad 
Il Dio vivente – El-Haï Dio mio rifugio – YHVH Misgav 
Il Dio eterno – El-Olam L’Amen – Amen
Dio – Elohim

Se consideriamo la creazione del mondo, possiamo concludere che l’Eterno ha fatto quello che l’uomo ancora oggi è incapace di fare. Dio ha creato qualcosa a partire da « niente »!
E’ con il nome di Elohim che Dio si rivela per la prima volta nella Bibbia. Nel primo capitolo della Genesi lo ritroviamo per ben 32 volte nel ruolo del Creatore.
La radice del nome Elohim arriva dalla parola « el », che significa forte o onnipotente ed è utilizzato 250 volte nella Bibbia per nominare Dio.
Un altro aspetto importante del termine Elohim è la sua forma al plurale, che indica la presenza e l’azione della Trinità già dalla prima pagina della Bibbia. Dio dice in Genesi 1:26 « Facciamo l’uomo a nostra immagine e a nostra somiglianza… » Questo punto lo ritroviamo ancora in Genesi 1:2, quando ci viene descritto che lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque, e in Colossesi 1:16 che proclama che in Gesù tutto è stato creato. Il Figlio e lo Spirito Santo erano con il Padre già dal principio e assistevano durante la creazione di ogni cosa.
La potenza e la diversità di Dio nella creazione sono sorprendenti. Se prendiamo per esempio tutta l’umanità: siamo circa in 6 miliardi che popoliamo la terra, eppure ognuno di noi è unico! Così anche ogni persona è unica per Elohim (Padre, Figlio e Spirito Santo). Nel Salmo 139:13 leggiamo « Si, tu hai formato le mie interiora, tu mi hai intessuto nel grembo di mia madre. » Questo passaggio ci dimostra che Elohim ci conosce personalmente e che per ciascuno di noi ha un piano ben stabilito. Ognuno di noi porta l’impronta digitale della mano di Dio!
Dio onnipotente – El-shaddaï

El-Shaddaï lo ritroviamo spesso nei nostri cantici. « El » rappresenta il Dio della potenza e della forza illimitata. E’ il Dio incomparabile e inesauribile, come lo descrive il profeta Isaia 40: non ha solo creato questo vasto universo, ma sostiene e fortifica tutta la sua creazione.
Questo stesso nome è stato utilizzato da Dio quando ha promesso ad Abrahamo, all’età di 99 anni, che lui e sua moglie, avrebbero avuto un figlio. Di una maniera miracolosa, Dio ha oltrepassato le leggi della natura e la sua promessa fu compiuta.
Alcuni commentari biblici sostengono che la radice della parola Shaddaï si collega a « Shad », tradotto da seno, descrivendo così Dio come Colui che nutre e soddisfa. Quando mettiamo insieme El e Shaddaï, diventa così: Colui che è potente per nutrire, soddisfare e provvedere… il Dio che riversa di abbondanti benedizioni e che è una fonte inesauribile di pienezza e di fertilità.
E’ interessante di notare che in questo nome, gli attributi divini di potenza e di tenerezza sono riuniti. Traduce l’immagine di un padre e di una madre, esercitando l’autorità e allo stesso tempo tenerezza in un equilibrio perfetto.
Nelle nostre riunioni parliamo spesso di Dio come padre, ma in Isaia troviamo un passaggio dove viene raffigurato un Dio come madre: (Isaia 66:12-13)
Poiché così parla il SIGNORE: « Ecco, io dirigerò la pace verso di lei come un fiume, la ricchezza delle nazioni come un torrente che straripa, e voi sarete allattati, sarete portati in braccio, accarezzati sulle ginocchia. Come un uomo consolato da sua madre così io consolerò voi. »
El-Shaddaï possiamo riassumerlo in queste quattro parole: NUTRE, SAZIA, PIENO DI AUTORITÀ E DI BONTÀ.
l’Altissimo – El-Elyon

L’espressione l’Altissimo lo troviamo per la prima volta in Genesi 14:19. In questo passaggio Abramo incontra Melchisedek, il quale ci è presentato come sacrificatore del Dio « altissimo ». Melchisedek ha benedetto Abramo invocando precisamente questo nome:
« Egli (Melchisedek)  benedisse Abramo, dicendo: «Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra! »
Più in là, anche Zaccaria profetizza in merito alla nascita di Giovanni Battista, suo figlio, e sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, dice che sarà il profeta dell’Altissimo (Luca 1:76).
Durante l’annuncio a Maria, il figlio che dovrà portare in grembo è presentato come il Figlio dell’Altissimo (Luca 1:32).
Il nome di El-Elyon che noi traduciamo correntemente come l’Altissimo, in ebraico voleva dire « Il più alto ». Il Dio che si rivela nella Bibbia è situato al più alto. Dio e il diavolo sono spesso presentati come delle forze antagoniste, pertanto il nemico delle nostre anime non è che una creatura celeste. E in nessun caso lui è allo stesso livello che l’Eterno (Isaia 40:13-14).
A volte la nozione di « Altissimo » ci fa sembrare che siamo così distanti, così separati dall’Eterno. Visto che si trova così in alto come possono le nostre preghiere arrivare fino a lui, come può ascoltarci? Eppure il Dio Altissimo si rivela ai più umili, ai più semplici e ai più piccoli.
Un altro esempio del carattere del Dio Altissimo si trova nel Salmo 91:1-4:
« Chi abita al riparo dell’Altissimo riposa all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al SIGNORE: «Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio
Dio, in cui confido!» Certo egli ti libererà dal laccio del cacciatore
e dalla peste micidiale. Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le
sue ali troverai rifugio. La sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. »
E’ al riparo delle ali di colui che è posto al più alto nei cieli e che in qualche modo visiona tutto che noi possiamo trovare rifugio. Prima di tutto è la sicurezza che l’Eterno ci propone.
Le nostre lodi devono essere esclusivamente rivolte a Dio l’Altissimo.
Il Dio che vede – El-roï

Nella Genesi, al capitolo 16, troviamo una storia di una persona abusata, sola nella miseria. La sua situazione era triste, complicata, come lo sono tante altre persone al giorno d’oggi. Agar, la giovane serva di Sarai, moglie di Abramo, scappava lontano dalla crudeltà della sua padrona. Tutto questo era arrivato perché Abramo et Sarai avevano disobbedito a Dio, cercando di avere il figlio promesso sostituendo Agar alla sua padrona. La situazione si è aggravata quando, scoprendo di essere incinta, Agar guardò Sarai con disprezzo et così si è attirata su di lei dei trattamenti duri.
Nonostante ciò, l’Eterno vide tutto quello che stava accadendo e manifestò la sua compassione verso Agar e il bambino che stava crescendo in lei. Nel suo amore inviò un angelo per prendersi cura di le nel deserto dov’era fuggita. L’angelo ha ordinato Agar di ritornare da Sarai e di servirla. Ha continuato dicendo che Dio era cosciente delle sue sofferenze, ma le ha promesso che attraverso di suo figlio, Ismaele, avrà una discendenza numerosa. A questo punto Agar ha reso lode a Dio che si era preso cura di lei. « Tu sei El-Roi », perché disse, « Ho veramente io veduto colui che mi vede? » (Genesi 16:13)
L’Eterno non si è limitato di vedere quello che stava accadendo, ma aveva anche inviato un servitore celeste per consigliare colei che era nella sofferenza.
Dobbiamo anche noi ricordarci di lodare e di onorare l’Eterno che vede i nostri combattimenti quotidiani. Anche quando ci troviamo nel deserto, possiamo avere la certezza che non ci dimenticherà mai, né ci lascerà senza un avvenire. Se rimaniamo fedeli a Lui, allora Lui ci benedirà grandemente. Perché se Dio si è preso cura di una serva, la quale non apparteneva neanche a una tribù del   popolo eletto, e di suo figlio che non era il figlio della promessa, non pensate che farà molto di più per noi?
Il Dio d’Israele – El-Elohé-israël

Normalmente quando amiamo un popolo o una nazione cerchiamo di imparare la loro lingua. Per quel che concerne il popolo d’Israele, popolo scelto da Dio, sappiamo che la loro lingua, l’ebraico, rappresenta una ricchezza incredibile. Lui, il Dio tre volte santo (Isaia 6:3) e dei sette spiriti che si tengono davanti al trono (Apocalisse 1:4), ha dunque dato nascita a una lingua di cui la radice delle parole è di tre lettere e la grammatica contiene sette forme verbali.
L’Eterno ha volontariamente legato il suo nome con un popolo, con la sua lingua ma ugualmente con la sua terra.
L’Eterno è apparso ad Abrahamo quando arrivò nella terra promessa (Genesi 12:6-9). La stessa cosa fu per Giacobbe durante i suoi pellegrinaggi: L’Eterno si rivelò a lui quando era sulla stessa terra; Giacobbe ha chiamato uno di questi luoghi El-Elohé-Israël, che vuol dire: Dio è il Dio d’Israele (Genesi 33:20). Durante l’uscita dall’Egitto, avvenimento storico fondatore del popolo d’Israele, l’Eterno si rivelò a Mosé sul monte Sinai, mentre il popolo era in cammino verso la terra promessa. Il popolo d’Israele rivenne ugualmente da Babilonia dove era in cattività, affinché possa nascere il Messia.
Ugualmente sulla terra d’Israele, sul monte degli Ulivi in faccia a Gerusalemme, che Gesù poserà i suoi piedi durante il suo glorioso ritorno. Ed infine affinché il suo santo nome sia riconosciuto, l’Eterno ricondurrà il popolo d’Israele sulla stessa terra (Ezechiele 36:22-30).
2 Samuele 7:26: « L’Eterno degli eserciti è il Dio d’Israele »
Il Dio geloso – El-kanna

« Non ti prostrerai ad altro dio, poiché l’Eterno, il cui nome è « il Geloso », è un Dio geloso » (Esodo 34:14)
Come un marito si attende di avere la priorità nell’affezione e l’attenzione di sua moglie, anche Dio spera di noi una fedeltà totale, perché è lui che ci ha creati e chiamati a Lui.
In ebraico, la parola « geloso », kanna, è legato ad una parola che significa essere zelante. Lo zelo è definito come una passione seria o ardente per qualcosa o per qualcuno. E’ questo zelo divorante che spinse Gesù a cacciare i mercanti fuori dal tempio di suo Padre, un tempio in cui avevano fatto un luogo di mercato. Questo tipo di gelosia appare quando un amore o una preoccupazione reale per qualcuno è messo in gioco. Sapendo che i motivi di Dio non sono egocentrici, possiamo essere sicuri che lui desidera per noi il meglio quando ci comanda di non servire o adorare un essere o un oggetto qualunque che noi consideriamo come un dio. Agire così avrà solo degli effetti negativi, disastrosi per la nostra vita. Solo l’Eterno può mantenere tutte le promesse e lui solo è degno di ricevere tutto il nostro amore.
L’Eterno ci dice: « … perché io sono Dio e non c’è alcun altro; sono Dio e nessuno è simile a me. » (Isaia 46:9)
La gelosia può arrivare quando l’ingaggiamento in una relazione è rotto. Dobbiamo capire che il grande amore del Signore per noi, il suo amore geloso, è basato sulla nostra relazione personale con lui, relazione nella quale ci promette di restare sempre fedele con noi.
Il Dio vivente – El-HAï

Cos’è la vita? Probabilmente è più facile di spiegare le manifestazioni della vita (es. respirare) che di dare un significato alla vita in sé. In Genesi 2:7 leggiamo che Dio soffiò la vita nelle creature che aveva formato e queste sono diventate degli essere viventi.
La vita è un dono di Dio, una trasmissione della sua propria esistenza. Lui è il Dio vivente, El-Haï. Non dobbiamo pensare a un Dio statico ed immobile, ma di una persona piena di vita, che parla, ride, ascolta, ama e si mette in collera.
Non possiamo programmare Dio, né manipolarlo per farlo agire in nostro favore. Prende da sé le proprie decisioni ed interviene nelle circostanze come lui desidera, sempre fedele alla sua giustizia. E’ vero che Dio è molto attivo, ma a volte vuole semplicemente essere in comunione con noi, per comunicarci la vita con la sua presenza tangibile.
Un altro aspetto della vita che possiamo prendere in considerazione e quello della riproduzione. La vita dà la vita. L’espressione la più straordinaria della vita data all’uomo è un bambino appena nato. Ogni bambino è unico e pertanto riflette l’immagine dei suoi genitori.
Dio vuole riprodurre la sua vita in noi e a traverso di noi. Le nostra capacità naturali e le nostre occupazioni quotidiane devono essere delle dimostrazioni della vita di Dio.
COME IL PADRE VIVENTE MI HA MANDATO
ED IO VIVO A MOTIVO DEL PADRE,
COSÌ CHI SI CIBA DI ME VIVRÀ ANCH’EGLI A MOTIVO DI ME. (Giovanni 6:57)
Il Dio eterno – El-olam

E’ difficile per noi di pensare a qualcuno che è sempre presente, che lo è sempre stato e che lo sarà sempre. Ad esempio un grande calciatore non lo potrà essere per sempre, arriverà il momento che non avrà più le forze o la capacità attuale. Niente di quello che è umanamente creato o compiuto potrà durare in eterno.
Dio, per contro, non è stato creato. In Isaia 43:12-13 troviamo scritto: « …. io sono Dio. Prima dell’inizio del tempo io sono sempre lo stesso… ». Lui è, semplicemente! Uno dei nomi di Dio, El-Olam, significa: eterno, o che dura per sempre. La parola « olam » è vicina alla radice del verbo « néelam » che vuol dire scomparire, e per noi evoca un oggetto che scompare nel vuoto. Tutto questo non possiamo concepirlo veramente, siamo superati da questa concezione di eternità.
Quando un qualcosa si allontana, arriva un momento dove questo scompare completamente. Esiste sempre solo che a noi è nascosta.
La presenza di Dio attraverso la sua creazione è stata, è, e sarà sempre. Anche se tutto questo può essere astratto e superare la nostra intelligenza umana, abbiamo la promessa che un giorno lo conosceremo pienamente (1 Cor. 13:12).
La lezione che possiamo trarne da tutto questo è che dobbiamo essere certi che Colui che ci ama sarà sempre con noi, anche nei momenti difficili e di sofferenza! La promessa di Dio è che non ci lascerà e non ci abbandonerà mai (Ebrei 13:5). Solo Colui che è eterno può fare delle tali promesse a ogni generazione dell’umanità.
Signore e maestro – Adonaï

 La parola Signore é forse una delle più utilizzate nel nostro linguaggio cristiano, però tutto ciò porta a non capirne più il significato iniziale.
Se vogliamo che la nostra vita cambi radicalmente dobbiamo lasciare che Gesù diventi il nostro Signore ed il nostro Maestro, abbandonarci completamente alla Sua volontà e lasciare che sia lui a dirigere le nostre vite.
Possiamo difficilmente avvicinarci al Signore dell’universo senza riconoscere la sua grandezza, la sua potenza ed il suo amore.
Se Gesù Cristo è realmente il Signore, la testa della sua Chiesta, conosceremo una crescita e una maturità che lui solo può dare ai differenti membri del suo Corpo.
Perché Adonaï ha innalzato Gesù e l’ha fatto sedere alla destra di lui dandogli tutta l’autorità, noi proclamiamo Gesù Cristo è Signor! (Ap. 4:11)
Chiediamo al nostro Maestro una nuova rivelazione di tutto questo, affinché che i nostri cuori e la nostra intelligenza siano trasformati.
Dio padre – Abba

Noi abbiamo un Padre nei cieli! Lui è eterno, celeste, santo, giusto. Il nostro padre così perfetto ci ha desiderato e sta gioendo della nostra esistenza!
Troppo spesso crediamo di conoscere Dio come un Padre solo perché ci ha benedetti, perché abbiamo letto la Sua Parola; ma in definitiva noi conosciamo così poco il suo cuore e la sua natura. L’immagine che abbiamo di Dio riflette molto spesso dalla relazione che abbimo avuto con i nostri genitori, e tutto ciò ci porta ad avere una falsa immagine di Dio nostro Padre.
A volte la nostra conoscenza del Padre è solamente teorica, ma tutto ciò può durare solo fino a quando il suo amore ci circonda! E’ Gesù che vuole farci conoscere il Padre per avere una relazione più intima con Lui.
Attraverso della Parola, Gesù rivela la natura della relazione con il Suo Padre. Nella sua umanità, Gesù ebbe il bisogno di vedere il Padre, di ascoltarlo, di parlargli, di essere circondato dal suo amore. Il Padre era costantemente con lui (Gv. 8:16,29). Gesù ha potuto dire « non sono solo » (Gv. 16:32). Se Gesù ne ha avuto bisogno, a forte ragione noi dobbiamo desiderare una relazione più profonda con il nostro Padre Celeste.
E’ la chiave della vera adorazione, in quanto è il Padre stesso che cerca gli adoratori. Si aspetta da noi una profonda relazione in spirito e verità con ognuno dei suoi figliuoli. Se noi non lo conosciamo, non ci sarà neppure una vera adorazione, in quanto possiamo adorare solo ciò che conosciamo (Gv. 4:22-24)
Ma la grande notizia per te oggi è questa: il Figlio è venuto per farlo conoscere! (Gv. 17:26)
Il nome – YHVH

YHVH (Lui è) è il nome ebraico il più utilizzato nell’Antico Testamento per Dio, ed é considerato come il nome di Dio il più sacro di tutti. In italiano, nella maggior parte delle Bibbie, la traduzione di YHVH è Eterno, Signore o Yahvé.
Secondo la storia del popolo giudeo,  questo nome era talmente sacro che le persone non osavano neanche dirlo ad alta voce. Queste quattro lettere si chiamato tetragramma ed alcuni lo esprimono come Jéhovah o Yahvé. Nonostante ciò il popolo giudeo non pronunciano più questo nome da almeno 2’000 anni, ma lo leggono: « ADONAÏ ».
Come vedremo le volte successive troveremo il nome ADONAÏ sotto forma di nome composto (ADONAÏ Yireh, ADONAÏ Tsidkenou,…) i quali si riferiscono sempre al nome YHVH.
Io sono – EHYEH

« Io sono » è la risposta che Dio diede a Mosé quando quest’ultimo resistette all’appello che gli era stato confidato: liberare i figli d’Israele schiavi in Egitto. Mosé dubitava delle proprie capacità e domandò a Dio in virtù di quale autorità doveva agire. Dio gli rispose rivelando l’autorità del suo Essere: « … Io sono colui che sono. E aggiunse: è in questo modo che tu risponderai agli Israeliti: Colui che si chiama « IO SONO » mi ha mandato verso di voi (Esodo 3:14). Assicurò Mosé che non era importante quello che lui era oppure no, ma l’essenziale era che l’eterno IO SONO era con lui. Non cesserà mai di essere Colui che è.
Ehyeh, Io Sono, è la prima persona del verbo « haya » che vuole dire: essere. Il tetragramma YHVH riprende la terza persona di questo stesso verbo. « Haya » assomiglia a « chayah » che vuol dire: vivere. Perché lui è, Dio ha la vita in lui stesso. Dio esiste in maniera totalmente autonoma; la sua vita dipende da niente né da nessuno. E’ un essere indipendente, intero nella sua perfezione.
Il nome YHVH (ADONAÏ) appare per la prima volta in Genesi 2, quando Dio entra in relazione con Adamo ed Eva, fino a questo punto era chiamato con il nome di Elohim, il Dio della creazione. Ma dopo aver modellato l’essere umano dotato di ragione nel comprendere ed apprezzare qui lui è, il nome IO SONO (Ehyeh) o LUI E’ (YHVH) è utilizzato. Tutto ciò accentua il fatto che Dio vuole rivelarsi personalmente alla sua creazione.
Ci vorranno dei secoli per capire tutto il significato di questo nome. Esodo 6:2-3 ci mostra che Abrahamo, Isacco e Giacobbe stessi, i discendenti d’Israele, conoscevano Dio solo come El-Shaddaï, il Dio onnipotente e dell’abbondanza. Non si era ancora rivelato come il grande IO SONO. Ma con Mosé, Dio comincia a svelarsi come un essere personale che desidera la relazione.
E’ molto importante di sapere che se vogliamo trovare la nostra vera identità dobbiamo capire che la nostra esistenza non è basata sul fare, ma sull’ESSERE. Dio ci ama così come siamo, agli occhi di Dio siamo preziosi senza di essere obbligati a fare cose eccezionali.
L’Eterno, IO SONO, in questo momento ti invita ad avere una relazione sincera con lui; quello che ti chiede è di mettere l’IO SONO al centro della tua vita.
L’Eterno è uno – YHVH Ehad

Una chiave per la preghiera efficace è l’UNITA’. E’ ciò che leggiamo in Matteo 18:19 « In verità in verità vi dico che se due di voi si accordano sulla terra per domandare qualunque cosa, questa sarà loro concessa dal Padre mi che è nei cieli. »
Mentre inauguravano il tempio, la casa fu riempita da una nuvola nel momento preciso in cui quelli che suonavano la tromba e quelli che cantavano si univano in un solo accordo per lodare e celebrare l’Eterno (2 Cronache 5:11-14). E’ esattamente quello che succede nel giorno della Pentecoste, frutto di un comune ingaggiamento nella preghiera perseverante (Atti 1:14).
La preghiera di Gesù riprende le stesse parole: « …affinché siano tutti uno, come tu, o Padre, sei in me e io in te; siano anch’essi uno in noi, … » (Giovanni 17:21). Durante questa preghiera Gesù impiega uno dei nomi portati per il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: ADONAÏ Ehad.
Questo nome annunciato già da Mosé est contenuto nella confessione quotidiana dei nostri fratelli giudei:
« Ascolta, Israele: l’Eterno, il nostro Dio, l’Eterno è uno »(Deut. 6:4)
Zaccaria (14:9) profetizzerà che il giorno arriverà dove questa caratteristica sarà ancora più fragrante: « in quel giorno ci sarà soltanto l’Eterno (Ehad) e soltanto il suo nome unico (Ehad) »
E’ incoraggiante notare che lo stesso appello di ADONAÏ Ehad deve essere anche manifestato nelle coppie, quando un uomo ed una donna s’ingaggiano a diventare una sola carne. Già dall’inizio del nostro matrimonio, ci siamo subito accorti, che se vogliamo vivere come coppia, dovevamo essere UNO: non due persone che vivono a fianco a fianco, ma diventando uno nella complementarietà voluta da Dio. L’unità in una coppia non viene tutta sola, ma la si costruisce.
Nel momento in cui ci raduniamo insieme per pregare, accordiamoci su quello che vogliamo domandare al Padre e in seguito avremo la certezza che Gesù risponderà!
Dio mio rifugio – YHVH misgav

« Ma io celebrerò la tua potenza e al mattino loderò ad alta voce la tua benignità, perché tu sei stato per me una fortezza e un rifugio nel giorno dell’avversità. » Salmo 59:16
Penso che ciascuno abbia esperimentato dei momenti dove non sapevamo più a chi rivolgerci o ci sentivamo insicuri; e a quel punto magari correvamo a destra e a sinistra in cerca di un rifugio, di una protezione. In questo salmo il Re Davide ci ricorda che Colui verso chi correremo ci procurerà una più grande sicurezza. E Davide era uno che aveva esperimentato il rifugio di Dio, in quanto ha dovuto far fronte a violenza, tristezza e oppressione.
In diverse parti della Bibbia, Dio è chiamato rifugio o fortezza. In ebraico questi termini sono definiti con le parole « scogliera, o luogo elevato e inaccessibile; difesa, muraglia » e anche per « ritiro, liberazione, mezzo d’evasione, fuga ».
Nei momenti difficili della nostra vita possiamo correre nella braccia di nostro Padre Celeste in tutta libertà, dove troviamo un luogo di protezione e di ristoro dove più niente può accaderci. In Lui troviamo sicurezza, pace e riconforto.
« perché tu sei stato una fortezza per il povero, una fortezza per il misero nella sua avversità, un rifugio contro la tempesta, un’ombra contro il caldo, poiché il soffio dei tiranni è come una tempesta contro il muro. » Isaia 25:4)
Lasciamo che sia il Signore la nostra fortezza. Penso che sia buono in questi momenti di lodare e ringraziare Dio per tutte le volte che ci ha protetto e ci ha accolto a braccia aperte. Il vostro Rifugio si trova in voi e tutt’intorno a voi!
L’amen – amen

Quante volte siamo stati esortati a fissare gli occhi su Gesù ed a credere che Lui risponde alle promesse fatte! Lodare, in un certo modo, è di mettere in azione la nostra fede e ringraziare per ciò che non è ancora visibile, ma che ci è stato promesso. Ad esempio Abramo: credette nell’Eterno che lo mise in conto di giustizia (Genesi 15:6).
La radice ebraica del verbo credere, in questo passaggio, è « AMAN » che significa essere saldi, essere solidi. Credere in tutta la Parola, è dunque essere certi su quello che l’Eterno ha detto e non semplicemente di credere nella sua semplice esistenza.
E’ ugualmente con questa radice che noi abbiamo ereditato il nostro AMEN, così spesso utilizzato nei nostri canti e alla fine delle preghiere, per ingaggiarci ad essere convinti della preghiera.
« Aman », è anche la radice di FEDELTA’ attribuita all’Eterno, e di VERITA’ attribuita alla sua Parola e dunque rivelata pienamente dal suo Unto. E’ ancora uno dei nomi dell’Eterno, il Dio Amen che sarà invocato nei tempi futuri.
Apocalisse 3:14 « queste cose dice l’Amen, il Testimone fedele e verace, » L’auspicio è che la nostra attesa del suo ritorno sia ferma, salda, solida nei nostri cuori come lo proclama la Scrittura:
… Amen! Vieni Signore Gesù! Apocalisse 22:20

ebenezer
Dio vi benedica

evkklhsi,a [ekklesìa] (molto di Paolo)

http://www.elamit.net/bibbia/ekklesia.pdf

(è un PDF un po’ lungo e ho dovuto scrivere tutto in linea continua; ci sono molte appendici e concordanze, appesantirebbero questo testo, se volete andate al sito per consultarle, grazie)

evkklhsi,a [ekklesìa] 

« breve » percorso « filologico »  [19/XII/1998]

In greco significa  assemblea, adunanza, riunione  e con questo senso compare in autori come Erodoto e  Tucidide. Deriva dal verbo  ek -  kalew  [ek-kaléo], composto dal verbo  kalew [kaléo] ( chiamare e quindi  anche  invitare, convocare ; altro vocabolo derivato da questo verbo è  para-clito ) e dal prefisso  ek [ek]  ( da, fuori con senso di moto da luogo): quindi  chiamar fuori qualcuno da qualche luogo . Questa  assemblea non è quindi una riunione casuale ma l’incontrarsi di persone chiamate appositamente a farne  parte. Nel nuovo testamento ha ancora il significato di assemblea come convocazione civile e politica, ad  esempio in Atti 19,30.32: La città fu tutta in subbuglio. Si precipitarono in massa verso il teatro trascinando con sé Gaio e  Aristarco, macedoni, compagni di viaggio di Paolo. Paolo voleva introdursi anch’egli in mezzo all’ assemblea popolare, ma i discepoli non glielo permisero. Intanto chi gridava una cosa, chi un’altra, e l’ assemblea era tanto confusa che i più non sapevano per  che cosa si erano radunati . In Atti 7,38 indica il popolo ebreo durante l’esodo, cioè un gruppo di persone ben identificato, solo nel  deserto e isolato dagli altri popoli in quanto chiamato fuori dall’Egitto da parte di Dio: Egli è colui che nell’ assemblea del deserto fu intermediario fra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e  i nostri padri. Egli ricevette le parole di vita per darle a noi. Come vedremo, questo uso prosegue la tradizione dell’antico testamento greco (LXX). Assume però anche il significato proprio di  chiesa  cioè assemblea o comunione dei fedeli cristiani. Così  ad esempio in 1Corinzi 12,28, con senso di chiesa universale: Alcuni sono stati posti da Dio nella  Chiesa al primo grado come apostoli, al secondo come profeti, al  terzo come dottori; A volte è accompagnata anche dalla specificazione « di Dio » o « di Cristo » con senso di appartenenza e  origine, ad esempio in 1Corinzi 10,32: Non date motivo di inciampo né ai Giudei né ai Greci né alla  Chiesa di Dio; o Romani 16,16: Vi salutano tutte le  chiese di Cristo. Infine ha valore anche di chiesa particolare, con significato quindi di comunità locale. Così, ad esempio,  in Romani 16,4: essi, per salvare la mia vita, hanno rischiato la testa; non li ringrazio io soltanto, ma tutte le  chiese dei  gentili  [cioè le comunità nate al di fuori di Israele] o Atti 8,1: E Saulo approvava l’uccisione di Stefano contro la  chiesa che era in Gerusalemme o ppure nell’Apocalisse (che significa « rivelazione ») dove quest’uso è molto frequente. Ad esempio  Apocalisse 1,4: «Ciò che vedrai scrivilo in un libro e invialo alle sette  chiese : a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a  Sardi, a Filadelfia e a Laodicea» e 3,1: All’angelo della  chiesa di Sardi scrivi… In 1Corinzi 11,18 indica l’assemblea eucaristica: Sento innanzi tutto che, quando vi radunate in  assemblea , vi sono divisioni tra voi; e in parte lo credo. Nei vangeli compare solo in Matteo 16,18: Io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia  chiesa e le porte degli inferi non  prevarranno contro di essa. e Matteo 18,17: Se non ascolterà neppure loro, deferiscilo alla  chiesa e se neppure alla  chiesa darà ascolto, sia egli per  te come il pagano e il pubblicano.  [a proposito della correzione fraterna] Nel secondo brano di Matteo è ancora forte il senso di « assemblea » mentre nel primo emerge, secondo  me, il significato di « gruppo compatto, popolo » che è alla base del termine aramaico-ebraico usato forse  da Gesù. Per risalire a questo termine ho cercato nella Peshitta (versione aramaica del nuovo testamento) dove  troviamo  tD;[e [edat] (pag. 22 della mia edizione), che però non sono riuscito ad approfondire. Allora  ho cercato nella versione greca dell’antico testamento (LXX) dove compare il termine  ekklhsia . Qui è  usato spesso per indicare il popolo ebreo riunito in assemblea, specie nei momenti più difficili (e di  1maggior coesione): ad esempio durante l’esodo (quando Mosè proclama la legge al popolo) o al rientro  dall’esilio (Esdra 2,64: la prima proclamazione pubblica della legge dopo l’esilio). A volte si parla di  « assemblea del Signore » (ad esempio Deuteronomio 23,2-4). In Michea 2,5 indica con tono profetico il  popolo ebreo nel momento della ri-unione definitiva nello stato restaurato ( tirare la corda = misurare,  cioè la terra non sarà spartita con gli iniqui). Quindi si tratta per lo più di un riunirsi sacro o liturgico: In quell’occasione Salomone celebrò la festa; a lui si unì davanti al Signore, nostro Dio, per sette giorni,  tutto Israele, un’ assemblea grandiosa proveniente dall’ingresso di Camat  [cioè Hamat, fortezza siriana  al confine settentrionale di Israele] fino al torrente d’Egitto  [forse il Nilo, oppure più probabilmente lo  uadi Sihor, un piccolo torrente che, gettandosi nel mar Mediterraneo, segna il confine meridionale di  Israele contro l'Egitto] (1Re 8,65). In un caso è riferito all’assemblea dei santi (Salmo 89,6) cioè dei giusti. E arriviamo finalmente all’ebraico: nella bibbia ebraica al termine  ekklhsia corrisponde generalmente il  sostantivo  lh’q’ [qahal] « assemblea » nel senso di « riunirsi assieme ». Mi sembra tuttavia che il termine  ebraico sia più ampio dell’equivalente greco, cioè indica il riunirsi di tutto un popolo (peraltro sempre  quello ebreo) per motivi sacri mentre la mentalità « democratica » greca vede l’assemblea come una scelta  dei « migliori » del popolo chiamati a rappresentarlo per motivi politici. Nella Chiesa di oggi si riunisce insieme il popolo della nuova alleanza ( lh’q’ ) formato da persone  chiamate individualmente a farne parte ( ekklhsia ). Approfondimento postumo [22/XII/98] Del termine usato nella Peshitta non ero riuscito a capirci gran ché, anche perché i dizionari di aramaico  che ho a casa sono ridotti. Stimolato dal « Vanzo » e dopo aver visitato la biblioteca di Glottologia di  Milano [21/XII] che ha il corposo dizionario del Brockelmann, credo di esser riuscito a ricostruire il  percorso di don Nicolini attraverso le parole della sacra Scrittura. L’aggancio è proprio il termine aramaico usato nella Peshitta  etD;[e , corrispondente all’ebraico  hd’[e [edàh] che significa  company assembled together by an appointment, or acting concertedly (dal dizionario Gesenius, pag. 417): come al solito, per esprimere tutto il significato di un termine ebraico  siamo costretti ad usare una lunga frase! Nei dizionari ebraici (e aramaici) le varie voci sono  raggruppate sotto il verbo da cui derivano. Dal medesimo verbo di  hd’[e deriva anche   d[eAm [mo-èd], un termine importante perché con questo nome Mosè chiama (Esodo 33,7) la tenda che, posta a fianco  dell’arca dell’alleanza, serve per incontrare il Signore. E’ la tenda del convegno , in ebraico  d[eAm lh,ao [òhel mo-ed], e qui per  convegno  si intende il luogo in cui incontrare il Signore: Chiunque ricercava il Signore usciva verso la tenda del convegno, che era fuori dell’accampamento (Esodo 33,7). E’ la tenda in cui viene posta l’arca dell’alleanza (Esodo 25,22) da cui parla il Signore. L’arca ( !roa] [aron]) è detta a volte dell’ alleanza ( tyrIB.h; !Ara] [aron hab-berit], con senso di patto scambievole,  unione fra due parti), altre volte della  testimonianza ( tdu[eh' !roa] [aron ha-edut], testimonianza=il  decalogo contenuto in essa [Esodo 25,21]; vedere anche nota a Esodo 25,16 di Bibbia di  Gerusalemme): così, spesso nell’antico testamento e alcune volte nel nuovo (Atti 7,44 e Apocalisse  15,5), la « tenda del convegno con l’arca della testimonianza » diventa semplicemente la « tenda della  testimonianza ». Ancha quando parliamo di « antico e nuovo testamento » intendiamo la prima alleanza di  Israele con Dio basata sulla legge contro la nuova testimonianza dell’amore (=Gesù) fra Dio e tutta  l’umanità. Davanti alla tenda si fanno sacrifici, si offre l’incenso (Numeri 16,18), si piange (Numeri 25,6), si espiano  i peccati (Levitico 16,33)… Riporto Esodo 40,33-38, dove la conclusione dei lavori coincide con la fine del libro: Innalzò il recinto intorno alla dimora e all’altare e mise la cortina alla porta del recinto. Così Mosè  terminò il lavoro.La nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la dimora. Mosè non  poté entrare nella tenda del convegno perché la nube vi dimorava sopra e la gloria del Signore  riempiva la dimora. Quando la nube si alzava al di sopra della dimora, i figli d’Israele si spostavano in  tutte le loro tappe; e se la nube non si alzava, non si spostavano finché non si fosse alzata. Perché di  giorno la nube del Signore era sopra la dimora e di notte vi era sopra un fuoco, agli occhi di tutta la  casa d’Israele in tutte le sue tappe. Ritroviamo la tenda sull’altura di Gàbaon, dove si recherà poi Salomone (2Cronache 1,3)… ma questa è  2un’altra storia, visto che Salomone costruirà una tenda di pietra (il tempio) per il Signore. Come era finita lì? Anche questa storia è bello leggerla sulla Bibbia (1Cronache cap. 13 e 15-16, parallelamente in  1Samuele cap. 4-7 e 2Samuele cap. 6 [dove Baalà è una località di Kiriat-Iearim secondo 1Cronache  13,6]): Davide l’aveva trovata nei campi di Iaar (Salmo 132,6;  Iaar significa « legno » ed è il singolare di  Iearim : « nei campi di legno » è un modo allusivo-poetico per dire a Kiriat-Iearim, come risulta da  1Samuele 7,1s e 1Cronache 13; Kiriat significa « città »), aveva cantato con gioia il salmo 132 (che  leggiamo il giovedì della III settimana ai vespri in Collegiata) mentre entrava con essa in Gerusalemme  danzando (episodio di Davide disprezzato da Mikal) e l’aveva lasciata sull’altura di Gàbaon (1Cronache  16,39). Segue l’episodio narrato nella prima lettura (2Samuele 7) del 24 dicembre (la vigilia di Natale,  cosa che rende evidente il collegamento con la nascita di Gesù, come vedremo): Davide vuole costruire  il tempio… ma, come dicevamo, questa è un’altra storia, tant’è che Dio stesso tramite il profeta Natan  dice a Davide di abbandonare il proposito. Davide voleva costruire una casa a Dio, ma quale tempio  poteva contenerlo? Allora è Dio che promette una « casa » a Davide (2Samuele 7,11: il brano gioca sul  termine « casa » che in ebraico significa anche « discendenza, stirpe ») ovvero il messia salvatore. E dov’è Gabaon, Iaar e Efrata? Efrata è la regione di Betlemme (Michea 5,1: Ma tu  Betlemme di  Efrata, la più piccola tra i clan di Giuda, da te uscirà per me colui che dovrà regnare sopra Israele! ), la città di  origine di Davide (Luca 2,4:  Anche Giuseppe dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì nella Giudea, alla  città di Davide, che si chiamava Betlemme, perché egli era della casa e della famiglia di Davide ) e dove  è nato Gesù! Allora tutto il salmo 132 acquista un nuovo senso: questa arca della nuova alleanza fra Dio  e gli uomini, questa tenda di convegno con Dio è Gesù. Del resto è tutto il salmo si può leggere in  chiave messianica (ad esempio il versetto 17 o 11: Il frutto del tuo seno porrò sul tuo trono ).  Troviamo la tenda anche in Ebrei 9,11. Curioso per noi l’uso di 2Corinzi 5,1s e 2Pietro 1,13: attenzione,  nella Bibbia CEI è resa con  corpo ! Ho scoperto che in ebraico ci sono 4 termini per indicare una tenda ( mishkan, kubbah, sukkah ), ognuno  con una sfumatura diversa: erano nomadi, la tenda era il centro della loro vita. Sarà un caso, ma  secondo Atti 18,3 il mestiere di Paolo era fabbricare tende! Allora la chiesa come edificio non è tanto un luogo di riunione o assemblea dei fedeli ( ekklhsia ), ma il  luogo di riunione (convegno) con Dio ( hd’[e ), il luogo più adatto in cui incontrarlo. Mi fermo qui, con il proposito di riordinare e approfondire quello che ho esposto alla rinfusa.

[Aggiunte e correzioni in data 26/XII/98]

COMMENTO DI PELAGIO ALLA LETTERA AI ROMANI

http://www.zenit.org/article-29693?l=italian

COMMENTO DI PELAGIO ALLA LETTERA AI ROMANI

Un contatto diretto con il celebre avversario di sant’Agostino

di Robert Cheaib

ROMA, sabato 25 febbraio 2012 (ZENIT.org). – La lettera ai romani di san Paolo è una delle opere più importanti per il pensiero teologico cristiano. Se considerata dal punto di vista della storia degli effetti (Wirkungsgeschichte), essa rivela una stupefacente influenza su diversi aspetti – spesso scottanti e contrastanti – del Mistero cristiano. Numerose nozioni e dottrine teologiche di insigni maestri e dottori trovano in questa lettera scaturigine, giustificazione e conferma.
Nell’epistola ai romani, ad esempio, sant’Agostino d’Ippona trovò l’ossatura biblica della dottrina del peccato originale (cap. 5). Da essa, Lutero evinse la sua teoria della giustificazione per la sola fide (cap. 3-4). Un’altro riformatore, Giovanni Calvino, vi scorse l’humus per la sua dottrina della doppia predestinazione (cap. 9-11). Non a caso la lettera è stata sempre oggetto di commentari e studi da parte dei più importanti pensatori cristiani cominciando da Origene, passando per Agostino, l’Ambrosiaster, Lutero, Karl Barth… per elencare soltanto alcuni nomi. L’editrice Città Nuova arricchisce il panorama dei commentari sull’epistola ai romani con una traduzione del Commento di Pelagio, il celebre avversario di Agostino. Il recente volume della «Collana di testi patristici» (vol. 221) raggruppa, infatti, due opere importanti del monaco bretone: «Commento all’epistola ai romani» e «Commento alle epistole ai corinzi».
I Commenti di Pelagio rivestono un significato particolare perché ci permettono di considerare alcuni aspetti del pensiero dell’autore prima della polemica con Agostino. Il volume è una preziosa risorsa per chi vuole conoscere la visione di Pelagio attraverso un contatto diretto, e non tramite il filtro delle opere di Agostino e il setaccio non imparziale della polemica.
I due commenti riportati in questa traduzione fanno parte dell’opera più estesa di Pelagio, le «Expositiones XIII epistularum Pauli», composte nel periodo tra il 406 e il 409, e in cui l’autore commenta tutto il corpo paolino, ad esclusione della lettera agli ebrei considerata da lui come autentica di san Paolo.
Il pregio di questi commenti pre-polemici è duplice: essi mostrano un pensiero ancora caratterizzato da grande fluidità, non incastonato nelle rigidi distinzioni e posizioni della polemica. D’altro canto, i commenti ci conducono alle origini stesse del pensiero di Pelagio.
Il testo edito da Città Nuova è corredato da una preziosa introduzione di Sara Matteoli in cui si inquadrano sia la figura di Pelagio sia i commenti alle tre lettere. La Matteoli evidenzia anche i punti salienti dei Commenti di Pelagio sviluppandone in particolare quattro:
1. La distinzione tra lex naturae attraverso la quale l’uomo può conoscere per analogia che esiste Dio e che Dio è giusto, la lex litterae,ovvero la legge divina data a Mosè, e la lex fidei, che sola è capace di salvare l’uomo e di liberarlo dalla morte.
2. Le conseguenze del peccato di Adamo e il problema della grazia divina, dove l’autore sembra rifiutare il «traducianesimo», ovvero la trasmissione della colpa ai discendenti, e assume un’interpretazione solo esemplare della colpa di Adamo, in quanto Adamo si erge come modello negativo ai suoi discendenti. A differenza di Adamo, – per Pelagio – Cristo ha offerto un exemplum oboedientiae che indica agli uomini la via della salvezza.
3. Prescienza divina e libero arbitrio. L’autore dedica un’attenzione particolare alle questioni sollevate da Rm 9, dove sembra che Dio predestini alcuni alla salvezza e altri alla dannazione a prescindere dal libero arbitrio dell’uomo singolo. Pelagio supera tale difficoltà mostrando la coincidenza in Dio tra predestinazione e prescienza; così, ad esempio, «Dio ha preferito Giacobbe ad Esaù perché nella sua prescienza ha potuto vedere in suoi meriti futuri; in questo modo la scelta di Dio non è arbitraria, ma si basa sulla fede dei singoli, che egli nella sua onniscienza, è in grado di prevedere».
4. Essendo i commenti rivolti all’aristocrazia romana in cerca di approfondire la scienza e la prassi della fede, i commenti di Pelagio sono ricchi di esortazioni parenetiche. Il testo è attraversato da varie riflessioni sui problemi morali e sulla condotta che i cristiani devono conservare nel mondo.
In conclusione, questi commenti, scritti tra l’altro in un linguaggio accessibile e conciso, sono di doppio interesse: il primo è quello del cultore della letteratura cristiana antica che può confrontare le tematiche pelagiane prima ancora del loro irrigidimento polemico; il secondo è quello di un confronto con un pensatore cristiano zelante intento a mostrare la bellezza dell’essere seguaci e imitatori di Cristo; un uomo attraversato dall’ansia di annunciare Cristo giacché – come scrive il nostro autore – «tu rubi agli uomini Cristo, tenendolo loro nascosto».
robert@zenitteam.org
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PRIMA LETTERA DI PIETRO – COMMENTO BIBLICO

http://www.ilcristiano.it/2010/ott10/libri_bibbia.htm

PRIMA LETTERA DI PIETRO

La conoscenza della sofferenze affrontate da Cristo per compiere l’opera di salvezza per l’umanità e, soprattutto, la conoscenza del suo trionfo sulla morte dovevano costituire un forte motivo di incoraggiamento per i cristiani del primo secolo, nel loro tormentato pellegrinaggio terreno, quotidianamente esposto a persecuzione e prove. Ma incoraggiano anche noi, “pellegrini” del ventunesimo secolo. 

Introduzione
Il nostro brano (1P 3:18-22) si apre con una frase incredibilmente ricca di significato. Partendo dal fatto che molti dei suoi lettori erano chiamati a soffrire per il nome di Cristo, l’apostolo li incoraggia con l’esempio della sofferenza del loro Signore. Ma, nel parlarne, riassume, in termini indimenticabili, sia il motivo della morte di Cristo sia ciò che essa ha prodotto. Ecco la frase:
“Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio” (v. 18a).
Il brano si chiude con un riferimento all’ascensione di Cristo e alla sua posizione attuale:
“Gesù Cristo… asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti”.
Fra queste due dichiarazioni Pietro mette in relazione con la risurrezione trionfale di Cristo le seguenti cose: gli angeli che si ribellarono al tempo di Noè, il diluvio e il battesimo (vv. 18b-21). Per la sua brevità questo brano risulta di difficile interpretazione. Allo stesso tempo il fatto che l’apostolo considera il diluvio una pietra miliare nell’amministrazione divina della storia (si veda 2P 3:5-6; cfr. 2:4-5), aiuta a comprendere la sua scelta di servirsi di alcuni fatti inerenti a quest’evento come analogici dell’esperienza dei suoi lettori.

Il valore della sofferenza di Cristo (v. 18a)
Nel secondo discorso di Pietro riportato nel libro degli Atti, Pietro parla di Gesù come il Messia Servo venuto per soffrire (At 3:18, 26; cfr. 4:27). Nel nostro brano egli spiega il perché di tale sofferenza, ponendo l’enfasi innanzitutto sulla sua unicità:
“Cristo una volta…”.
Ne seguono delle parole che ne descrivono lo scopo: “per i peccati ha sofferto”.
 Il valore unico e permanente della sua sofferenza trovò eco in un evento concomitante con la sua morte sulla croce.
Ecco come l’apostolo Matteo lo descrive:
“Ed ecco, la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo…” (Mt 27:51).
Quest’evento indicò in modo figurativo l’obiettivo che era stato raggiunto con la morte di Cristo. Per usare una frase di Paolo, il Messia Servo “ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” (Cl 2:14).
A rendere necessario il sacrificio unico di Cristo erano sia la giustizia di Dio sia il suo amore che l’ha indotto a provvedere a soddisfare la propria giustizia per mezzo dell’incarnazione del Figlio che si è sostituto all’umanità peccatrice, “lui giusto per gli ingiusti”, come aveva predetto il profeta Isaia (53:11).
Alla luce del valore unico, sufficiente e permanente del sacrificio del Figlio di Dio incarnato, ogni pretesa di offrire a Dio ulteriori sacrifici per espiare i peccati evidenzia una mancanza di comprensione del valore di questo suo sacrificio. Dal momento che Cristo è morto al nostro posto, noi non dobbiamo più morire per i nostri peccati!
L’unica cosa che dobbiamo fare, per “fare le opere di Dio” (Gv 6:28-29), è di credere in Gesù, che ha compiuto l’opera che il Padre gli aveva affidato (Gv 17:4).
La frase termina con le parole: “…per condurci a Dio”, facendo comprendere che il sacrificio di Cristo rende Dio propizio nei nostri confronti. Quando noi ci presentiamo al Padre nel nome di Cristo, Dio Padre ci riceve come persone ubbidienti in quanto rivestiti della giustizia di colui che ha ubbidito al Padre per conto nostro (Ro 5:19). In altre parole, la morte di Cristo ha effettuato la riconciliazione fra Dio tre volte santo e l’uomo peccatore.
Chi si affida al Salvatore non è più distante da Dio e non ha bisogno di altri mediatori umani per avvicinarsi a Dio quando prega o adora il Dio vivente e vero.

Il trionfo di Cristo (vv. 18b, 22)
Sempre come esempio del valore che la sofferenza ingiusta possa rappresentare nella vita dei pellegrini cristiani, Pietro descrive l’esito della sofferenza di Cristo. Ecco le sue parole:
“Messo a morte nella carne ma vivificato nello spirito… essendo passato attraverso il cielo, Egli è alla destra di Dio, essendogli sottoposti angeli, principati e potenze” (vv. 18b, 22).
Come, nella sua morte Gesù ha trionfato sul peccato che aveva separato l’umanità da Dio, così nella sua risurrezione ha trionfato sulla morte stessa per poi ascendere in cielo e prendere il posto che gli spetta alla destra del Padre da dove regna supremo sopra ogni altra autorità. Ricordarsene può essere di grande incoraggiamento per i cristiani pellegrini che affrontano vari tipi di persecuzione e ingiustizia, in quanto partecipano nel trionfo di Cristo, loro sostituto.
Prima di considerare il resto del brano è importante notare il parallelismo e il contrasto fra “carne” e “spirito” nella seconda parte del v. 18. Gesù fu “messo a morte quanto alla carne” e fu “vivificato quanto allo spirito”, quale premessa della sua posizione attuale di supremazia nell’universo (si veda anche Mt 28:18). Il soggetto indicato dal verbo “vivificare” (zoopoietheis) non può essere altro che la sua risurrezione, in quanto il verbo presuppone che ciò che viene vivificato sia passato per lo stato di morte. In altre parole non può riferirsi all’esistenza spirituale di Gesù durante il periodo che va dalla sua morte alla sua risurrezione.
Come previsto per il corpo di risurrezione di “quelli che sono di Cristo” (1Co 15:22-23, 42-46), il verbo zoopoieo è usato da Pietro per descrivere la risurrezione in un nuovo tipo di corpo, compatibile con la sfera “spirituale” (gr. en pneumati), esattamente come il corpo di “carne” aveva reso il Figlio di Dio partecipe della vita sulla terra, per poter morire come nostro sostituto.

La proclamazione trionfale di Cristo (vv. 19-20)
La parte centrale di questo brano inizia con la locuzione “in esso” (gr. en ho). Tale pronome relativo corrisponde, quanto a numero e genere, alle parole “in spirito” (gr. en pneumati, v. 18b), quindi fa riferimento allo stato di risurrezione di Cristo.
Prendendo sul serio questo dettaglio grammaticale, il ventaglio di possibili interpretazioni di questi versetti si riduce notevolmente. Infatti gli interpreti che, basandosi sull’uso del pronome relativo altrove nella lettera (si veda 1:6; 2:12; 3.16; 4:4) attribuiscono a questa locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, trascurano il fatto che qui, a differenza degli altri casi citati, esiste una precisa corrispondenza grammaticale.
In pratica l’interpretazione che attribuisce alla locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, si ispira più al testo del Credo Apostolico, nella versione del 390 d. C., secondo cui Gesù “fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risorse dai morti…”, che non al testo della 1Pietro.
Questa serie di eventi fa comprendere che Gesù avrebbe fatto il suo annuncio agli “spiriti trattenuti in carcere” dopo la sua morte e prima della sua risurrezione e, per farlo, avrebbe dovuto visitare l’inferno. Ma il testo di un Credo dovrebbe basarsi sul testo biblico e non vice versa. L’idea che Cristo sia sceso nell’inferno dopo la sua morte è una deduzione da brani quali Romani 10:7, Efesini 4:8-9 e dal riferimento a “morti” in 1Pietro 4:6, però nessuno di questi brani richiede una simile interpretazione. D’altra parte la dichiarazione di Gesù al ladrone sulla croce: “oggi sarai con me in paradiso” (Lu 23:43) nonché le sue parole: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio” (Lu 23:46), sembrano escludere tale ipotesi.
Secondo Grudem i versetti 19-20 insegnerebbero che Cristo aveva predicato agli spiriti ora tenuti in carcere tramite Noè mentre questi costruiva l’arca. Anche quest’interpretazione ignora sostanzialmente la corrispondenza grammaticale fra il pronome relativo “in esso” (v. 19) e l’ultima frase del v. 18, secondo cui a predicare fosse il Cristo risorto.
Inoltre, quest’interpretazione presuppone che gli “spiriti” a cui si fa riferimento nel v. 19 siano quelli degli uomini che erano ribelli al tempo di Noè. Ma in questo caso sarebbe stato più naturale scrivere “gli spiriti trattenuti in carcere di coloro che una volta furono ribelli” e non già “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli”. Prese alla lettera le parole di Pietro sembrano indicare esseri spirituali.
Secondo una terza interpretazione, “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli” nel periodo in cui Noè stava preparando l’arca, sono da identificare con degli angeli ribelli che tentarono di far scomparire la discendenza che faceva capo a Set, che temeva Dio (Ge 4:26). Avrebbero corrotto queste persone o simulandosi esseri umani e avendo rapporti sessuali con i discendenti di Set, per compromettere spiritualmente la loro prole, oppure inducendo le persone che discendevano da Set e che temevano Dio a sposare i discendenti profani di Caino (cfr. Ge 6:1-3; 2 P 2:4-5).
Pietro stesso conferma che angeli ribelli furono coinvolti nel peccato che provocò il giudizio del diluvio (2P 2:4-5). Se, come credo, questa è l’interpretazione giusta, le parole “in esso andò anche a predicare” si riferirebbero a un annuncio fatto da Cristo, della sua definitiva vittoria, a questi angeli.
Tali angeli sarebbero da identificare con “i principati e potenze” su cui Cristo aveva trionfato “per mezzo della croce” (Cl 2:15). Il Cristo risorto avrebbe fatto quest’annuncio mentre attraversava i cieli nella sua ascesa alla destra di Dio, da dove esercita un potere assoluto sopra di loro (1P 3:22; Eb 2:14-15; 4:14; 1 Co 2:6-8).

Battesimo e risurrezione di Gesù Cristo (vv. 20-21)
Dopo la menzione dell’annuncio fatto da Cristo ai “spiriti trattenuti in carcere”, Pietro inserisce una parentesi in cui parla delle persone che scamparono al giudizio divino che cadde sull’umanità indotta a peccare al tempo di Noè.
Il soggetto in questi versetti è la salvezza di alcune persone dal diluvio, una circostanza che Pietro considera analogica con la salvezza di cui sono eredi i suoi lettori.
Un dettaglio del v. 20 suggerisce che il motivo di questo accostamento sia il contesto di persecuzione in cui queste persone erano chiamate a vivere. Mi riferisco alla precisazione che nell’arca “poche anime, cioè otto, furono salvate…”. In modo simile i lettori della prima lettera erano una minoranza nel mondo pagano e quindi costretti a vivere “come forestieri dispersi” spesso incompresi e trattati ingiustamente (1:1). Le otto anime salvate dal diluvio e i primi lettori della 1Pietro avevano in comune anche l’esperienza di essere in qualche modo “salvate attraverso l’acqua”.
Nel caso dei lettori della 1Pietro, l’immersione (gr. baptisma) in acqua corrispondeva al momento in cui avevano confessato la loro fede in Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore (cfr. Mr 16:15-16; At 2:38; 10:43-48). Pertanto, come non era stata l’acqua in sé a salvare Noè e la sua famiglia, bensì l’arca costruita in obbedienza alla Parola di Dio, così il battesimo, comandato da Cristo, non era stato la causa efficace della salvezza dei pellegrini cristiani a cui Pietro scriveva; lo era stato il trionfo di Cristo sul peccato e sulla morte.
Infatti Pietro precisa:
“… battesimo (che non è l’eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo”.
Infatti “se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Ro 10:9).
In definitiva la nostra giustificazione e la nostra salvezza eterna sono rese possibili dalla risurrezione del Salvatore, ovvero l’esito trionfale della sua morte vicaria (si veda Ro 4:25; 1 Co 15:12-23).
Pietro invita i suoi lettori a riflettere sul fatto che il loro battesimo faceva riferimento al trionfo di Cristo, che dopo aver sofferto una volta sola per i peccati, era stato totale. La sua risurrezione aveva dato inizio alla nuova creazione. Quindi non dovevano scoraggiarsi quando si trovavano a soffrire per la giustizia o come cristiani; anzi dovevano “glorificare Cristo come Signore” nei loro cuori (v. 15), sapendo che i nemici di Dio sono stati informati della sua vittoria e ora Cristo “sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti” (v. 22).

Per la riflessione personale e lo studio di gruppo

1. Quante verità apprendiamo da 1Pietro 3:18?
2. L’interpretazione di 1Pietro 3:19-21 proposta sopra tiene presenti i diversi contesti del brano, in particolare quello grammaticale, quello del contesto storico in cui vivevano i primi lettori e quello rievocato di Genesi 6-9. A proposito di questo ultimo, c’è da notare che Pietro attribuisce valore storico al diluvio. In quali altri brani delle lettere di Pietro l’apostolo prende le distanze dalla categoria di miti, quando tratta eventi di carattere soprannaturale?

Rinaldo Diprose
(Assemblea di Roma, Borgata Finocchio)

SECONDA PARTE: 3. il modello di Giovanni

SECONDA PARTE

3. il modello di Giovanni

Il modello giovanneo è caratterizzato dalla centralità data alla conoscenza. E’ un modello gnostico, anche se poi la gnosi è diventata un movimento ereticale a partire dal II secolo.
un modello conoscitivo-esperienziale
E’ un modello conoscitivo-esperienziale perché la conoscenza, nel solco della tradizione veterotestamentaria, non è puramente intellettuale o tanto meno cerebrale, ma è uno sperimentare, è un vivere.
I gruppi giovannei, anche se non si può attribuire l’intero filone all’apostolo Giovanni, nell’ambito del cristianesimo delle origini, erano abbastanza chiusi. Di origine giudaica, questi gruppi avevano rotto con il giudaismo. Con molta probabilità sono nati in Transgiordania a contatto con i gruppi battisti, ed hanno preso le distanze anche dagli altri cristiani. Inoltre hanno vissuto in contesti sociali ostili.
Dal punto di vista sociologico la configurazione tipologica di questi gruppi è quella della setta: sono chiusi in se stessi, con grande senso della propria identità e con rapporti molto intensi all’interno per poter sostenere l’ostilità esterna. Sono caratterizzati dalla contrapposizione: noi arroccati e tutti gli altri… Ciò che li divide dagli altri è la conoscenza. Il senso di identità dei gruppi giovannei è dato dalla convinzione di conoscere la verità su Dio, sul Figlio di Dio. Questi gruppi fanno equivalere la fede alla conoscenza. Nel Vangelo di Giovanni tante volte c’è questa coordinata: noi abbiamo creduto, noi abbiamo conosciuto. Il verbo « pisteuo » è inteso in senso equivalente al verbo « ghignosco ».
-credere è conoscere
Nel Vangelo di Giovanni, nel prologo, (1,9-10) si dice: « la luce vera, che illumina ogni uomo venendo nel mondo, era nel mondo ed il mondo mediante essa (la luce Gesù) fu fatto e il mondo però non la conobbe ». Conoscere ha un senso molto pregnante, molto forte, vuol dire « non lo accoglie ». « Dio ha tanto amato l’umanità da mandare suo Figlio perché il mondo abbia la vita » (3, 16).
In Giovanni ci sono tre concetti di mondo: 1° il mondo in senso cosmologico, in quanto creato da Dio; 2° il mondo come universalità degli uomini che sono i destinatari dell’amore di Dio; 3° il mondo come l’insieme degli uomini che non hanno accolto, non hanno conosciuto.
Giovanni, a differenza degli gnostici, non ritiene che gli increduli siano destinati alla perdizione eterna, siano irrecuperabili. Il « noi » vuole esercitare una funzione positiva nei confronti del mondo che non crede, di testimonianza della verità. Noi conosciamo la verità, gli altri non la conoscono e costruiscono il mondo in termini negativi.
Dopo il discorso di Gesù sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue, il popolo reagisce con incredulità e molti suoi discepoli lo abbandonano. Gesù si rivolge al gruppo dei dodici e chiede: « anche voi ve ne volete andare? » e Pietro risponde « da chi dobbiamo andare? Tu solo hai parole di vita eterna », « noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6, 67-69), cioè noi abbiamo conosciuto la tua identità, la tua vera, nascosta identità.
In 8,31 Gesù dice: « se rimanete nella mia parola ». « Parola » è messa in correlazione a conoscenza perché il momento della conoscenza è la risposta positiva al momento fondamentale della rivelazione. Mentre in Paolo tutta l’interpretazione della fede è sotto il segno della creazione, delle forze della vita prodotte dallo Spirito, nei gruppi di Giovanni la fede ruota intorno al concetto della rivelazione, al venire alla luce di ciò che è nascosto. E’ una prospettiva di pensiero di tipo apocalittico (apocalupsis = disvelamento), a differenza del pensiero di Paolo che è creazionistico. Già il domenicano Pierre Benoit aveva notato questa differenza fra il giovannismo ed il paolinismo, uno incentrato sul motivo della rivelazione e l’altro della creazione.
-conoscere attraverso la parola e gesti simbolici
Gesù è la parola, « o logos », il Verbo, perciò dice: « se rimanete nella mia parola voi sarete veramente miei discepoli » (Gv 8,31): conoscere è rimanere nella parola, nella parola comunicativa dei segreti della realtà. Continua al v. 32 « conoscerete la verità e la verità vi farà liberi ». La verità in Giovanni è l’oggetto della rivelazione: non è come nel mondo greco il togliere il velo che sta sopra le cose, ma è rivelazione del segreto, ed il velo lo toglie un altro, cioè Gesù.
In 8,55, Gesù si rivolge ai giudei, suoi avversari, riguardo a Dio: « e voi non l’avete conosciuto (« egnòcate »: è un perfetto), e non lo conoscete; io invece l’ho conosciuto e lo conosco e se io dicessi che non lo conosco sarei simile a voi, un menzognero, ma lo conosco e osservo la sua parola ». E’ una conoscenza esoterica, propria gruppi elitari, e non dei giudei che pure sono monoteisti, tanto meno dei pagani politeisti. L’identità nascosta del Dio della tradizione giudaica viene rivelata da Gesù; è lo stesso Dio, ma i giudei non lo conoscono perché non conoscono quell’aspetto caratterizzante che è l’aver mandato il suo Figlio. In Giovanni Gesù definisce Dio: colui che mi ha mandato.
Nel cap. 10, 38 Gesù rivela l’identità nascosta di Dio attraverso la parola, ma compiendo anche gesti simbolici. Nel Vangelo di Giovanni vi sono solo cinque o sei miracoli, non chiamati però miracoli « terata », come li chiamano i sinottici, cioè opere potenti e straordinarie, ma « semeia », cioè segni che rivelano realtà nascoste. Dice in 10, 38: « credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me ed io nel Padre » cioè l’identità nascosta di Dio è il suo rapporto con Gesù.
In 14, 7: « se conoscete me – dice Gesù – conoscerete anche il Padre, fin da ora lo conoscete e lo avete visto », e più tardi a Filippo: « chi ha visto me ha visto il Padre ».
In 14, 17: « lo spirito di verità che il mondo non può ricevere poiché né lo vede né lo conosce, voi invece lo conoscete », e 14, 20: « in quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me ».
-verso la verità piena
Questo spirito è donato al gruppo e diventa il principio di una vita di conoscenza progressiva che condurrà alla verità piena. Il gruppo giovanneo è consapevole del limite della conoscenza però dice: « in noi c’è lo spirito di verità e questo ci condurrà alla verità intera ».
Nel cap. 17, 3 si scopre chiaramente il mondo di Giovanni, si dice « questa è la vita eterna » « aiònios » (eterno che deriva da aion, cioè il secolo, il mondo dal punto di vista del tempo). Secondo la corrente apocalittica Dio ha fatto due aiones perciò aionios è la vita del mondo nuovo. Per Giovanni la vita del nuovo mondo c’è già adesso. Giovanni restringe enormemente il futuro. Per Giovanni la vita eterna è che gli uomini conoscano Dio e colui che ha mandato, Gesù Cristo, quindi la vita eterna equivale alla conoscenza. La conoscenza fa sì che l’uomo sia un cittadino del nuovo mondo.
Cap. 17, 7: « ora hanno conosciuto (i discepoli) che tutto quanto mi hai dato, viene da te » cioè l’identità di Gesù è una correlazione essenziale a Dio. Cap. 17, 8: « le parole che mi hai dato, o Dio, io le ho date a loro ed essi le hanno accolte e hanno conosciuto veramente che sono uscito da te e hanno creduto che mi hai mandato ». L’elemento nuovo che troviamo qui è la missione; ciò che unisce Gesù a Dio è che Dio è colui che manda e Gesù è colui che è mandato. Dio ha mandato il Figlio suo nel mondo: il mondo è il destinatario e la finalità è la vita eterna che consiste nella conoscenza.
Il passo successivo di Giovanni sta nel mettere in luce che la dinamica profonda di questa missione è l’amore; « Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo » (3, 16). Ciò che definisce l’identità nascosta di Dio, di Gesù e del mondo anche come destinatario, è un evento storico « Dio ha mandato ». Giovanni usa l’aoristo che è il tempo greco che indica un evento del passato puntuale, circoscritto in uno spazio di tempo. Ciò che definisce Dio non è la sua essenza eterna, ma è un gesto. La conoscenza è riconoscere questo gesto di amore, accettare. La teologia di Giovanni è meditativa, è una meditazione progressiva, non come quella di Paolo che è costituita da squarci improvvisi, contrastanti.
-Dio è amore
In 17, 23 c’è la preghiera ultima, detta sacerdotale, di Gesù: « io prego affinché tutti gli uomini conoscano che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me ». Cap. 17, 25-26: « Padre santo, il mondo non ti ha conosciuto, ed essi i miei discepoli hanno conosciuto che mi hai mandato, e ho fatto conoscere ad essi il tuo nome e lo farò conoscere sempre di più affinché l’amore con cui mi hai amato sia in essi ed io in essi »; il tema della conoscenza sfocia spontaneamente nel tema dell’amore.
Prima lettera di Giovanni 2, 13-14: « scrivo a voi, o padri, perché avete conosciuto colui che è fin dal principio… ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre ».
In 1Gv 2, 20 e 2, 27, appare un elemento nuovo, il tema della unzione, del crisma. La conoscenza proviene dalla parola di Gesù, ma ciò che la fa progredire è lo spirito di verità; da una parte c’è la parola, dall’altra lo spirito che è in funzione della rivelazione. I teologi medioevali dicevano « auditus externus » ed « auditus internus ». Gesù è il maestro esterno, lo Spirito il maestro interno. Mentre in Matteo Gesù era maestro in quanto insegnava le cose da fare, in Giovanni è un maestro esoterico, di sapienza. Il forte senso di identità che caratterizzava i gruppi giovannei derivava dalla conoscenza, dall’avere « lo spirito di verità » e « l’unzione. L’ unzione sarebbe l’influsso che il maestro interno esercita su di loro per condurli alla verità. 1 Gv 2, 20: « e voi avete Cristo dal Santo e tutti avete la conoscenza » e 2, 27: « l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno sia vostro maestro » ». Mentre Matteo diceva: « insegnate », per i gruppi giovannei non c’è magistero. Questi gruppi sono un po’ al margine dell’ortodossia cristiana: il principio interno è vero, ma senza verifiche esterne ci si può illudere. Il gruppo settario ha una certezza monolitica.
1 Gv 3, 1: « la ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui »; 1Gv 3, 16: « in questo abbiamo conosciuto l’amore ». Il passaggio è forte perché un conto è conoscere un gesto d’amore e un conto è conoscere l’amore. La giustificazione di Giovanni è che in questo gesto di amore Dio ha espresso tutto se stesso. Giovanni dice: nel gesto con cui Dio ha donato suo figlio li c’è tutto Dio, ed essendo un gesto di amore oblativo per il mondo, Dio è l’amore. C’è correlazione tra il gesto di Dio e Gesù, che non è strumento inanimato, perché a sua volta ha dato per il mondo la sua vita. Dio ha dato il Figlio e il Figlio ha dato se stesso. Sono due gesti d’amore che esprimono l’uno l’essere di Dio e l’altro l’essere di Gesù. Il gesto d’amore è cosi impegnativo e totalizzante che fa equivalere la persona che lo compie al gesto, in Dio e in Gesù. Prosegue « poiché egli ha posto la sua vita per noi », ma la meditazione procede ancora « e noi dobbiamo porre la nostra vita per i fratelli ».
In 1 Gv 4, 7-16: « amiamoci a vicenda perché l’amore viene da Dio e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio poiché Dio è amore ». Questa definizione esiste solo in questa lettera; non solo nel mondo biblico, ma in tutto il mondo di allora nessuno ha mai detto: Dio è amore, espressione che Giovanni ripete due volte (4, 8 e 4, 16). Giovanni ha capito che il gesto di Dio e anche di Gesù, è il gesto ultimo, definitivo, finale, escatologico. Altri, soprattutto Paolo hanno detto che il gesto di Dio è di amore, ma Giovanni fa un passo avanti e conclude: se questo è il gesto ultimo di Dio ed è un gesto di amore, Dio è amore perché in questo gesto c’è tutto Dio.
-conoscere Dio è amare i fratelli
1 Gv 4, 16: « Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi ». 1 Gv 5, 20: « il Figlio di Dio ci ha dato l’intelligenza perché possiamo conoscere il verace ». 2 Gv 1: « tutti quelli che hanno conosciuto la verità ». Conoscere la verità, conoscere l’identità profonda di Dio e di Gesù: il modello di Giovanni è il modello della conoscenza dell’amore, conoscere e credere nell’amore. Conoscere l’amore vuoi dire lasciarsi coinvolgere nel dinamismo dell’amore, per cui conoscere Dio vuol dire amare i fratelli. La conseguenza del concetto: Dio ha amato noi, sembrerebbe: dunque noi dobbiamo amare Dio, ed invece la conseguenza di Giovanni è dobbiamo amare i fratelli, perché c’è sotto un altro pensiero. Noi che crediamo a questo Dio dal gesto di amore supremo crediamo all’amore e ci lasciamo coinvolgere, sperimentiamo questo amore nella nostra vita. Questo amore diventa il dinamismo della nostra vita e ci porta ad amare il prossimo. E’ un enorme cammino di riflessione che ha fatto il gruppo giovanneo per vivere un altro senso della propria identità e diversità nei confronti di quelli che sono fuori.
In tutti e tre questi modelli troviamo la centralità di Gesù: Gesù come maestro delle direttive di Dio, Gesù come il risorto campo magnetico delle forze della vita del nuovo mondo e Gesù rivelatore della verità suprema. Conoscere la verità è conoscere l’amore rivelato da Dio e da Gesù. Gesù è allo stesso tempo il rivelatore ed il rivelato. Anche la realtà dell’uomo è segreta per cui il gruppo di Giovanni è lanciato alla scoperta del segreto profondo che sta sotto le apparenze. E’ un modello apocalittico, del disvelamento dei segreti, che si attaglia a gruppi elitari, esoterici; gli altri vedono la superficie, ma ci sono gruppi interessati alla scoperta del senso profondo della realtà di Dio, di Cristo e dell’uomo.
-discussione
-un grande senso di accettazione dei diversi
Per Matteo l’ambito dell’amore per il fratello è il gruppo, mentre Paolo aveva un grande slancio missionario e diceva: amatevi tra di voi ed amate anche gli altri. Giovanni non ha comunicazione con il mondo ostile che li odia, ma dà testimonianza. Anche Paolo era stato emarginato dalla chiesa di Gerusalemme ed il suo grande avversario fu Giacomo. Quando Paolo torna a Gerusalemme portando una somma rilevante ottenuta con la colletta per sostenere i poveri, come segno di comunione delle sue nuove chiese con la chiesa madre di Gerusalemme, con molta probabilità non viene accolto da Giacomo. Paolo è morto non accettato. In un certo senso è stato il primo scomunicato. Gli avevano chiesto una dimostrazione di fedeltà giudaica pro bono pacis, ma Paolo è morto senza aver avuto la consolazione che tutto il suo sforzo di integrare il mondo pagano nella chiesa di Cristo fosse andato in porto. E’ morto rifiutato. La cosa strepitosa è che però i suoi scritti sono stati accettati; soltanto l’ala più oltranzista dei giudeo-cristiani, gli ebioniti, ha definito Paolo « inimicus homo », il nemico che ha seminato la zizzania nel campo dove Pietro ha seminato il buon grano. I suoi scritti sono stati accettati; ciò è avvenuto nel II secolo. Dopo che le diverse chiese hanno raccolto i vari scritti, quando si è trattato di fare la cernita, gli scritti di Paolo sono entrati nel canone ed hanno esercitato in alcuni momenti una grande influenza. In alcuni periodi la voce di Paolo è stata assolutamente muta, ma in altri momenti, con Agostino, Lutero, è suonata forte, come anche la voce giovannea. Non conosciamo bene i risvolti, però nella raccolta che è stata fatta c’è un grande senso di accettazione dei diversi. A favore di Paolo ci sono state due cose: il suo martirio ed il fatto che la scuola di Paolo ha prodotto anche le lettere pastorali, che sono nello schema del pater familias, e soprattutto gli Atti degli Apostoli. Anche le sue lettere più nuove, Galati, Romani, Corinzi sono passate. Lo spirito quindi era di grande accettazione, la discriminante era la visione gnostica. Hanno scartato tutti gli scritti gnostici, come per esempio il Vangelo di Tommaso di poco posteriore a quello di Giovanni e peraltro molto vicino, tenendo come discriminante l’incarnazione. Tutti gli scritti gnostici che negavano l’incarnazione vera sono stati esclusi. Il grande merito di aver salvato Paolo va ad Ireneo che ha scritto un’opera « Adversus haereses » in cui ha messo gli eretici da una parte ed ha rivendicato Paolo alla grande chiesa, perché Paolo rischiava, come dirà poi Tertulliano, di essere l’apostolo degli eretici.
a proposito dei diversi modelli: le intuizioni fondamentali
Modelli. Matteo, Paolo, Giovanni sono forti personalità letterarie e di pensiero. Il problema è se la loro opera è un affastellamento di elementi vari accostati l’uno all’altro, o se ha una intuizione fondamentale di base; questo è l’interrogativo a cui bisogna rispondere. Vi è la soluzione secondo cui è stato messo insieme molto materiale con un lavoro di tipo enciclopedico e c’è invece la soluzione secondo cui gli autori hanno costruito una sintesi unitaria su un’idea centrale. Chi ha scritto un Vangelo ha scritto un’opera unitaria mentre Paolo scriveva a seconda delle circostanze e l’elemento della farraginosità può essere presente. La maggior parte degli studiosi della catechesi paolina dicono che Paolo non è un teologo sistematico, ma è un teologo unitario e omogeneo, cioè Paolo ha alcune linee fondamentali attorno a cui costruisce il tutto, oltre ad elementi puramente marginali e contingenti.
Il modello è da intendersi in termini fluttuanti: 1° questi tre autori hanno un modo unitario di vedere la fede; 2° questo modo unitario di vedere la fede e di viverla si esprime in un quadro di affinità elettive; ad esempio il pensiero di Paolo gira attorno al punto focale della creazione, Giovanni attorno al rivelare la verità nascosta e Matteo intorno alla necessità dell’uomo di essere pedagogicamente istradato. Certamente cercando di definire l’intuizione base ed il quadro in cui viene espressa, si fa un’opera soggettiva di percezione e di interpretazione, ben sapendo che in questi autori ci sono tanti altri elementi periferici ed anche contraddittori. Ad esempio in Paolo compare anche una precettistica, ma non si tratta di comandamenti, bensì di esortazioni; è sintomatico che quando Paolo lascia una comunità non la affidi a qualcuno da lui scelto, proprio perché credeva molto alla capacità dello Spirito di suscitare un successore. Non metteva nessun capo, ma quando i leaders emergevano, li riconosceva; ai Corinti diceva: ciascuno ha qualcosa, chi l’esortazione, chi la preghiera.
Bisogna comunque avere coscienza della flessibilità dei modelli, ci sono altri elementi. Anche sui criteri di definizione sociologica della setta occorre distinguere: il gruppo giovanneo era una setta, ma diverso dalla setta qumramita che diceva di amare i figli della luce ed odiare i figli delle tenebre che erano non solo i goim, ma anche i giudei che non appartenevano alla loro setta. Il modello applicato a Matteo è sociologico, della famiglia. Questi modelli sociologici già sono stati applicati teologicamente in tutta la tradizione ebraica, infatti quando si chiama Dio padre nel senso dell’autorità si usa il concetto del pater familias e quando si dice re, il concetto del sovrano assoluto.
I modelli da noi usati sono poveri di articolazioni e vogliono solo cogliere l’anima, sono intuizioni fondamentali.

La lotta spirituale: elementi biblici (anche Paolo)

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La lotta spirituale: elementi biblici

Enzo Bianchi, Priore di Bose

Bose, 9 settembre 2009

XVII Convegno Ecumenico Internazionale Enzo Bianchi, Priore di Bose

RELAZIONE

Introduzione
Occorre ripetere quali sono le guerre e le lotte che ci attendono dopo il battesimo? … Si tratta di cercare fuori di sé un campo di battaglia? Forse le mie parole ti stupiranno, eppure sono vere: limita la tua ricerca a te stesso! Tu devi lottare in te stesso … perché il tuo nemico procede dal tuo cuore. Non sono io a dirlo, ma Cristo. Ascoltalo: «Dal cuore provengono i pensieri malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie» (Mt 15,19). (Origene, Omelie su Giosuè 5,2)
Queste parole di Origene sintetizzano mirabilmente quell’esercizio così essenziale della vita spirituale che la tradizione cristiana ci ha consegnato sotto il nome di lotta spirituale. Si tratta di una lotta interiore, invisibile, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro «il peccato che ci assedia» (Eb 12,1), contro «le passioni cattive che fanno guerra nelle nostre membra» (cf. Gc 4,1), contro le suggestioni che sonnecchiano nel profondo del nostro cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva, fino ad assumere il volto di tentazioni seducenti. Conosciamo bene come il tema della lotta spirituale sia stato sviluppato in numerosi testi della tradizione patristica e della letteratura ascetica, sia in oriente sia in occidente.
Le radici della riflessione su questo tema si trovano però nelle Sante Scritture. Già l’Antico Testamento, fin dalle prime pagine del libro della Genesi, conosce il comando a dominare l’istinto malvagio che abita il cuore umano: «l’istinto (jezer) del cuore umano è incline al male fin dall’infanzia» (Gen 8,21); «il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua brama, ma tu dominalo» (Gen 4,7). E nella letteratura sapienziale si legge una massima molto eloquente: «Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città» (Pr 16,32).
Il Nuovo Testamento poi – e al suo interno, in particolare, il corpus paolino – presenta la lotta spirituale come un’esigenza insita nel battesimo, come un elemento fondamentale per definire l’identità di fede del cristiano. Ciò emerge con chiarezza, per esempio, dall’esortazione rivolta da Paolo a Timoteo: «Combatti la buona battaglia della fede (ho kalòs agòn tês písteos), cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede» (1Tm 6,12). Ed è lo stesso Apostolo che, ormai vicino alla morte, volgendo uno sguardo riassuntivo alla propria vita afferma di sé quasi con stupore: «È giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia (tòn kalòn agôna hegónismai), ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).
Nella seconda parte della mia riflessione tornerò più specificamente sulla presentazione della vita cristiana come lotta, come battaglia incessante, quale è attestata soprattutto negli scritti neotestamentari. Prima però vorrei compiere un percorso biblico meno consueto, ma a mio avviso essenziale per fondare una trattazione della lotta spirituale alla luce delle Scritture.

La lotta spirituale: elementi biblici
1. Alle radici della lotta spirituale
Vi sono tre brani biblici che, letti in parallelo, costituiscono il paradigma delle seduzioni messe in atto dal demonio nei confronti dell’uomo: il racconto della tentazione alla quale soccombono il primo uomo e la prima donna (Gen 3,1-6); la narrazione delle tentazioni affrontate vittoriosamente da Gesù (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13); la descrizione della lotta contro la mondanità cui il cristiano è chiamato (1Gv 2,15-16). Il passo genesiaco, in particolare, può essere collocato nel suo contesto più ampio, in modo da consentire qualche considerazione sulla motivazione profonda che spinge l’essere umano a peccare.
a) La paura della morte e la philautía
La tentazione e il peccato sono certamente da porre in relazione con l’ambiente storico, con l’atmosfera culturale e sociale in cui l’uomo è immerso, con quegli elementi che, prendendo a prestito il linguaggio paolino, si potrebbero definire «potenze dell’aria» (Ef 2,2), «principati e potenze» (Ef 6,12). Vi è però qualcosa di ancor più profondo, che attiene all’interiorità dell’essere umano. Esiste infatti in ogni uomo una tendenza egoistica, un’inclinazione peccaminosa: è quella disposizione interiore che oppone resistenza al dono di Dio, definita dal Nuovo Testamento col termine «carne» (sárx: cf. Gv 3,6; 6,63; 8,15; Rm 6,19; 7,5; ecc.), dalla quale hanno origine «i desideri della carne che fanno guerra alla vita» (1Pt 2,11). La tradizione cristiana ha efficacemente parlato in proposito di philautía, cioè di «amore egoistico di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche senza gli altri e addirittura contro gli altri; una preoccupazione esclusiva per il proprio interesse che induce a considerare il proprio io come misura della realtà; in una parola, tutto ciò che si oppone al desiderio di Dio, quello della comunione tra sé e gli uomini e degli uomini tra di loro.
Ma qual è il movente ultimo della philautía? Un brano della Lettera agli Ebrei lo esprime con grande lucidità:Cristo è divenuto partecipe del nostro sangue della nostra carne, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte (fóbo thanátou), erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (cf. Eb 2,14-15).
Si tratta di una constatazione estremamente vera: noi uomini durante tutta la vita patiamo la paura della morte, e tale esperienza ci domina, ci aliena. La morte è «il re delle paure» (melek ballahot: Gb 18,14), perché è la radice di tutte le altre paure. Essa non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana, che si manifesta come sofferenza, malattia, fine di ciò che per noi è vitale, al punto da causare vere e proprie situazioni di non-vita in chi biologicamente è ancora vivo.
La morte, dunque, non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato: è infatti proprio la paura della morte che ci spinge a cercare vita nel peccato; è la schiavitù in cui ci avvince tale paura ad essere causa del male e del peccato che commettiamo, come ci ricordano anche le parole che, con finezza psicologica, il libro della Sapienza mette in bocca agli empi (cf. Sap 1,16-2,24). In breve: mosso dalla paura della morte, l’uomo vuole preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, vuole possedere per sé i beni della terra, vuole dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante e giunge a considerare giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte…
b) Tre passi scritturistici fondamentali
Il racconto delle origini presente nella Genesi testimonia l’importanza che proprio la paura della morte riveste nel processo di tentazione e caduta dell’uomo e della donna. Dopo averlo creato a sua immagine e a sua somiglianza (cf. Gen 1,26-27), Dio aveva detto all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui ne mangerai, certamente morirai» (Gen 2,16-17). Questo comando, volto a insegnare alla creatura che la sua libertà è tale all’interno di un limite, innesta invece in lei il meccanismo della frustrazione: l’essere privati di una sola possibilità equivale ad essere privati di tutto. È infatti proprio su questo limite, garanzia e alveo della libertà umana, che fa leva la tentazione del «serpente antico» (Ap 12,9; 20,2), di Satana: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5). E così dalla paura che la prospettiva della morte ha immesso nella donna (cf. Gen 3,3: «altrimenti morirete»), passando attraverso il dialogo interiore con la suggestione, si giunge all’elaborazione di una contro-verità, che si accompagna a una nuova visione della realtà: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, appetitoso agli occhi e desiderabile per acquistare sapienza / potere» (Gen 3,6). L’ansia di immortalità, onnipotenza e onniscienza, accresciuta dalla frustrazione per l’incapacità di accettare il proprio limite creaturale, spinge a considerare il mondo esterno come una preda di cui impossessarsi; a questo punto il peccato è già consumato, e il gesto della mano che carpisce il frutto non è che l’inevitabile manifestazione esterna di una realtà che abita il cuore. E così l’uomo e la donna acconsentono alla tentazione di contraddire la comunione voluta da Dio e cadono nella disobbedienza al loro Creatore…
Ad Adamo si contrappone il nuovo Adamo (cf. Rm 5,14), Gesù di Nazaret, nato da donna e da Spirito santo, anche lui tentato come ogni uomo che viene nel mondo, ma «senza commettere peccato» (cf. Eb 4,15): Gesù è l’antitipo dell’Adamo genesiaco, perché là dove Adamo è caduto, Gesù ha lottato e ha vinto. Ora, se Marco ci presenta Gesù che all’inizio del suo ministero pubblico è tentato da Satana per quaranta giorni nel deserto (cf. Mc 1,12-13), Matteo e Luca, meditando su questo evento, sono giunti a esemplificare in numero di tre le tentazioni subite da Gesù (cf. Lc 4,1-13; Mt 4,1-11): mutare le pietre in pane, possedere i regni della terra, gettarsi dall’alto del tempio per essere miracolosamente salvato. Siamo di fronte a una parafrasi della narrazione genesiaca, che presenta tre modalità di attuazione della vocazione nella via della philautía. A tale proposito, è significativo che nell’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11) Paolo rilegga la vicenda di Gesù proprio come rigetto della logica auto-centrata di Adamo: a colui che ha voluto farsi «come Dio» (Gen 3,5) risponde il comportamento di Cristo che, «essendo in forma di Dio, non stimò un possesso geloso l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo e diventando partecipe dell’umanità» (Fil 2,6-7). All’innalzamento di sé risponde l’abbassamento, la kénosis, che giunge fino all’umiliazione e alla vergogna della croce (cf. Fil 2,8). Se Adamo ha considerato l’essere come Dio una preda da conquistare e ha cercato di soddisfare la sua brama stendendo la mano verso l’albero per cogliere la qualità divina e renderla suo patrimonio esclusivo, Gesù Cristo ha invece percorso il cammino opposto: ha steso le sue mani sul legno della croce per offrire la sua vita fino alla morte, nella libertà e per amore di Dio e degli uomini. Posto di fronte alle lusinghe di Satana, Gesù reagisce con un atteggiamento di radicale obbedienza a Dio e alla propria creaturalità: egli custodisce austeramente e con vigore la propria umanità, salvaguardando in tal modo anche l’immagine di Dio rivelata dalle Scritture, senza sostituirvi un’immagine «manufatta». Inoltre, l’arma con cui Gesù combatte la sua lotta e perviene alla vittoria è la piena sottomissione alla Parola di Dio, come mostra il fatto che egli risponde all’Avversario solo con parole della Scrittura (cf. Mt 4,4.7.10; Lc 4,4.8.12): «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3); «Solo al Signore tuo Dio ti prostrerai, lui solo adorerai» (Dt 6,13); «Non tenterai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16). Una Parola che Gesù assume e vive nel suo significato profondo, non nella sua semplice lettera, come invece fa Satana (cf. Mt 4,6; Lc 4,10-11). E la lotta di Cristo non può che essere la lotta dei suoi discepoli, i cristiani. Lo mostra bene l’apostolo Giovanni, quando rivolge alla sua comunità un’esortazione costruita mediante un’ulteriore parafrasi della tentazione genesiaca: «Non amate il mondo – ossia la mondanità –, né ciò che è mondano. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui. Perché tutto ciò che è mondano, la voracità della carne, la pretesa degli occhi, e l’arroganza della vita non viene dal Padre, ma dal mondo» (1Gv 2,15-16).
Con queste parole egli fornisce un icastico ritratto della mondanità, così da spronare i cristiani a verificare la qualità della loro lotta anti-idolatrica. E lo fa riferendosi, ancora una volta, a tre ambiti.
La «voracità della carne» (epithymía tês sarkós) indica la concupiscenza quale appare nei comportamenti di chi è teso unicamente a soddisfare il proprio egoismo, e così trasforma ogni desiderio in bisogno impellente; essa riassume le tendenze malvagie che spingono l’uomo ad appartenere a quel mondo di tenebra che si oppone al piano di Dio (cf. 1Gv 1,5-6; 2,8-9.11). La «pretesa degli occhi» (epithymía tôn ophthalmôn) si riferisce alla «suggestione seducente» (Sal 36,2) che cattura gli occhi dell’uomo e lo spinge a orientare tutto ciò che vede alla sua brama di possesso. L’accumulo di beni diventa un fine in sé, in vista del quale tutto è giustificato, e la logica che presiede a tale insaziabile mania è quella mortifera del «tutto e subito». L’«arroganza della vita» (alazoneía toû bíou), infine, è l’atteggiamento di chi si considera l’unico metro della realtà, e pretende che il proprio «io» sia affermato sopra gli altri; è la ricerca del potere, della propria gloria ad ogni costo. In sintesi, è l’esatto contrario della sottomissione reciproca richiesta da Gesù ai suoi discepoli: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35).
Ma il cristiano può affrontare queste tre tentazioni fondamentali nella certezza che la propria lotta si innesta in quella di Cristo, secondo le penetranti parole di Agostino: «Ti preoccupi perché Cristo sia stato tentato, e non consideri che egli ha vinto? In lui fosti tu ad essere tentato, in lui tu riporti la vittoria» (Esposizione sui Salmi 60,3).

2. Grammatica della lotta spirituale
Dopo questo lungo percorso archetipico, che ci ha consentito di scoprire le radici di ogni tentazione e di ogni peccato, veniamo ora a esaminare alcune delle indicazioni consegnateci dalle Sante Scritture su come affrontare il combattimento invisibile. Il mio intento sarà quello di tracciare brevemente una sorta di «grammatica della lotta spirituale». Tra le numerose piste che si potrebbero seguire, mi soffermerò solo su due elementi che mi paiono particolarmente rilevanti.
a) Il cuore, luogo della lotta spirituale
Come è già emerso nella prima parte, c’è un luogo preciso in cui si svolge la lotta spirituale. Più in generale, tutta la vita spirituale procede da un organo centrale dell’uomo che la Bibbia chiama «cuore» (lev, kardía). Si tratta di un concetto che va ben oltre il valore quasi esclusivamente affettivo attribuitogli dalla nostra cultura; nell’antropologia biblica, infatti, il cuore è il luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: «sede della vita sensibile, della vita affettiva e della vita intellettuale, il cuore contiene gli elementi costitutivi di ciò che noi chiamiamo “persona”» (Antoine Guillaumont).
Non è facile parlare di questo «luogo impenetrabile» (cf. Sal 64,7), che Dio solo conosce, scruta e discerne in verità, come attestano a più riprese le Scritture:
Signore Dio di Israele, … tu solo conosci il cuore di tutti i figli degli uomini (1Re 8,26.39).
Tu scruti il cuore e il profondo, tu, tu solo Dio giusto (Sal 7,10).
Chi può conoscere il cuore? Io, il Signore, scruto il cuore ed esamino il profondo (Ger 17,9-10).
È nel cuore, la parte più segreta di ogni essere umano, che è impressa l’immagine di Dio in noi. In questo spazio che sfugge al rigore dei concetti, ma che è penetrabile attraverso il linguaggio simbolico, Dio parla all’uomo e lo invita a rispondere, ad aprire con lui un dialogo (cf. Os 2,16-17). Ed è esattamente a questo livello che si situa quotidianamente la scelta tra un «cuore che ascolta» (lev shomea‘: 1Re 3,9), che lotta per accogliere e far fruttificare la Parola di Dio seminata in esso (cf. Mc 4,1-20 e par.), e un cuore insensibile alla Parola, che finisce per cadere in quell’incredulità che il Nuovo Testamento definisce «durezza di cuore» (sklerokardía: Mt 19,8; Mc 10,5; 16,14).
È evidente che è proprio questo il terreno su cui si radica la lotta spirituale. Se infatti il cuore è il luogo dell’incontro intimo e dell’alleanza tra Dio e l’uomo, esso è però anche sede di cupidigie e passioni fomentate dalla potenza del male: «dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini» – ha detto con chiarezza Gesù – «escono le intenzioni (dialoghismoí) cattive» (Mc 7,21). Il cuore diviene così il luogo in cui si scontrano le astuzie di Satana e l’azione della grazia di Dio. È un’esperienza comune, che la Bibbia si limita a registrare: il cuore può essere senza intelligenza, incapace di comprendere e discernere (cf. Mc 6,52; 8,17-21); può chiudersi alla compassione (cf. Mc 3,5), nutrendo rancore e odio (cf. Lv 19,17), gelosia e invidia (cf. Gc 3,14); può essere menzognero e «doppio» (dípsychos: Gc 1,8; 4,8), aggettivo che traspone in greco un’espressione ebraica che suona letteralmente «un cuore e un cuore» (lev va-lev: Sal 12,3). Di più, è possibile estendere a ogni peccato la penetrante sintesi operata da Gesù a proposito dell’adulterio: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore» (Mt 5,28). Sì, prima di essere realizzato esternamente e di condurci sui sentieri mortiferi della dissimiglianza da Dio, ogni peccato è già stato consumato nel nostro cuore…
Il cuore è dunque il luogo della lotta invisibile. È lì che può avere inizio il ritorno a Dio, la conversione (cf. Ger 3,10; 29,13), oppure si può soccombere alla seduzione del peccato e alla schiavitù dell’idolatria. È una lotta durissima quella per tendere ad avere un «cuore unificato» (Sal 86,11), capace di collaborare alla vita nuova operata in noi dal Padre, attraverso la fede in Cristo morto e risorto, nella potenza dello Spirito santo: ma è proprio questa la battaglia fondamentale a cui il cristiano è chiamato.
b) Le armi della lotta spirituale
Ma come il cristiano può affrontare la lotta spirituale? La tradizione cristiana ha individuato alcuni strumenti, alcune «armi» particolarmente indicate per condurre questo combattimento. Le radici di questa riflessione si trovano nel Nuovo Testamento. In particolare, un brano tratto dall’esortazione finale della Lettera agli Efesini, Ef 6,10-18, costituisce un vero e proprio classico riguardo a questo tema. A partire da esso si può ricostruire una costellazione di passi scritturistici che presentano le armi di cui munirsi per fare fronte alle insidie di Satana, nella consapevolezza che «chi combatte nella lotta non riceve la corona se non ha lottato secondo le regole» (2Tm 2,5).
Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza (Ef 6,10).
La parenesi paolina si apre con un imperativo, endunamoûsthe, che può significare sia: «attingete forza, rafforzatevi», sia: «siate fortificati». Nella lotta spirituale avviene cioè una sinergia inestricabile tra l’azione dell’uomo e quella preveniente di Dio. In altre parole, l’uomo è chiamato a predisporre tutto affinché la grazia del Signore Gesù Cristo agisca in lui, a cedere alla grazia che lo attira. L’Apostolo lo ripete altrove con parole inequivocabili: «Sii fortificato (endunamoû) nella grazia che è in Cristo Gesù» (1Tm 2,1); «Mi affatico e lotto con la forza che viene da Cristo e che agisce in me con potenza» (Col 1,29).
Questa forza, questa potenza – si legge all’inizio della Lettera gli Efesini – si è manifestata in modo eminente nella resurrezione di Cristo (cf. Ef 1,19-20). Ovvero, la lotta invisibile del cristiano si fonda sulla fede nella resurrezione di Gesù Cristo, avvenuta nella potenza dello Spirito santo, evento che ha segnato la vittoria definitiva sulla morte e su «colui che della morte ha il potere, il diavolo» (Eb 2,14). Se infatti ogni peccato è in definitiva un tentativo maldestro di affrontare la paura della morte, l’arma più efficace della lotta è proprio la fede nella resurrezione.
Chiarito questo primum imprescindibile, l’Apostolo può dunque proseguire:
Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove (Ef 6,11-13).
Paolo si serve del linguaggio bellico, ammonendo i cristiani a indossare l’armatura (panoplía) di Dio, ossia quella che Dio prepara e mette a disposizione di quanti aderiscono a lui. In questa immagine si possono riconoscere gli influssi di quei passi dell’Antico Testamento in cui viene descritta, con valenza metaforica, l’armatura di cui Dio stesso si cinge per lottare contro i malvagi e far trionfare sulla terra il suo disegno di salvezza (cf. Is 59,17; Sap 5,17-20), oppure l’armatura da lui riservata al suo Messia, il Germoglio di Iesse (cf. Is 11,4-5).
Ancor più interessante per la nostra riflessione è notare che vi è un unico altro passo neotestamentario in cui è attestato il termine panoplía. Nel vangelo secondo Luca, di fronte alle ingiurie degli avversari che lo accusano di «scacciare i demoni in nome di Beelzebul, il capo dei demoni» (cf. Lc 11,15), Gesù replica: «Quando il Forte, bene armato, custodisce la sua dimora, i suoi averi sono al sicuro; ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli toglie l’intera armatura in cui confidava e distribuisce le sue spoglie» (Lc 11,21-22). Sì, Gesù è il più forte rispetto al demonio, che pure con la sua forza cerca di sedurre gli uomini: è solo in lui e attraverso di lui, dunque, che è possibile lottare contro il Nemico e disarmarlo.
L’Apostolo qui ricorre a questa stessa immagine, variando solo i termini per definire l’Avversario: lo definisce «diavolo», cioè «divisore»; poco oltre ne parlerà come del Maligno (Ef 6,16). Al v. 12, dopo aver specificato che la lotta del cristiano non è rivolta contro altri uomini («la carne e il sangue»), fornisce una colorita descrizione al plurale delle dominanti del male e del peccato: i termini impiegati «designano cumulativamente le forze malefiche che tendono a ricondurre il cristiano alla sua situazione pre-battesimale» (Romano Penna).
Di fronte a queste dominanti subdole, che giungono a saturare l’aria (cf. Ef 2,2), il primo atteggiamento richiesto con insistenza al credente è quello dello «stare» (hístemi: Ef 6,11.13.14), del «resistere» (anthístemi: Ef 6,13). Tale saldezza consiste innanzitutto nell’affrontare gli attacchi del Nemico, senza fuggire davanti a lui: in questo senso è nuovamente esemplare la condotta di Cristo, che accettò di dimorare quaranta giorni nel deserto, guardando in faccia senza timore le seduzioni di Satana. Quanti si dispongono a questa dura fatica preliminare, a questa attiva passività senza la quale la lotta è persa in partenza, possono ascoltare l’ultima parte dell’esortazione paolina. In essa l’Apostolo elenca una per una quelle che altrove definisce nel loro insieme «armi di giustizia» (Rm 6,13; 2Cor 6,7), «armi della luce» (Rm 13,12), «armi che ricevono da Dio la loro potenza» (cf. 2Cor 10,4).
State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità (cf. Is 11,5); indosso, la corazza della giustizia (cf. Is 59,17); i piedi, calzati e pronti per il Vangelo della pace (cf,. Is 52,7). Afferrate sempre lo scudo della fede (cf. Sap 5,19), con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; prendete anche l’elmo della salvezza (cf. Is 59,17) e la spada dello Spirito, che è la Parola di Dio.
Le varie armi elencate sono tratte puntualmente dai passi dell’Antico Testamento citati poco sopra. La novità rilevante apportata da Paolo consiste nel descrivere l’armatura del credente attraverso quegli elementi che solitamente compongono l’armatura di Dio. Ciò però non deve stupire il cristiano che ha gli occhi del cuore illuminati dalla fede: egli infatti sa che lui e Dio sono ormai accomunati da una stessa vita, la vita dell’uomo Gesù Cristo. Cristo infatti, narrazione del Dio invisibile (cf. Gv 1,18), è la verità (cf. Gv 14,6; Ef 4,21); è la giustizia di Dio (cf. Rm 3,21-22.26; 1Cor 1,30; Fil 3,9), che giustifica chi crede in lui; è il Vangelo (Mc 8,35; Rm 15,19; 2Cor 2,12; Gal 1,7), la buona notizia che porta shalom, pienezza di vita a tutti gli uomini; è «l’origine e il compimento della nostra fede» (cf. Eb 12,2), colui nella cui fede salda siamo chiamati a deporre la nostra fede sempre vacillante (cf. Gal 2,20; Ef 3,12); è la nostra salvezza (cf. 1Ts 5,9; 2Tm 2,10) e la nostra speranza (cf. 1Tm 1,1), ossia colui nel quale speriamo al fine di partecipare alla salvezza da lui ottenuta (cf. 1Ts 5,8) è la Parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,1.14); Parola che «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, capace di scrutare i sentimenti e i pensieri del cuore» (cf. Eb 4,12); Parola che sempre si accompagna al dono dello Spirito. Il cristiano dunque è chiamato a «rivestirsi del Signore Gesù Cristo» (cf. Rm 13,14): questa è l’arma di gran lunga più efficace nella lotta spirituale. E il terreno in cui può germogliare l’esercizio mai finito di assunzione del sentire e del’agire di Cristo, è quello della preghiera, su cui significativamente Paolo termina la sua esortazione: Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi (Ef 6,18).
La preghiera, che è lei stessa una vera e propria lotta (cf. Rm 15,30; Col 4,12), viene qui definita mediante alcune caratteristiche ben precise. Essa deve essere incessante (cf. anche 1Ts 5,17), avvenire «in ogni momento» (en pantì kairô). Ciò non significa impegnarsi nel ripetere continuamente formule, ma vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i Padri chiamavano memoria Dei, il ricordo costante di Dio, ossia lottare per essere sempre consapevoli della sua presenza in noi. L’Apostolo parla inoltre di preghiera «nello Spirito» (en pneúmati). Di nuovo, nessun protagonismo da parte del cristiano: egli è chiamato ad essere sempre in epiclesi, a consentire che lo Spirito preghi in lui e trasformi la sua vita in preghiera. E tutto questo al fine di giungere a una comunione sempre più piena con Dio e con i fratelli, i «santi» a favore dei quali sempre egli innalza a Dio le sue suppliche. E infine la preghiera è preparata dalla grande virtù della vigilanza (verbo agrypnéin, connesso alla preghiera anche in Lc 21,36). La vigilanza, atteggiamento globale di tensione interiore per discernere la presenza del Signore e di apertura per far spazio in sé alla sua venuta, immette il credente in uno stato di lucidità spirituale. Essa è in radice la matrice di tutte le virtù cristiane, perché tempra il credente facendone una persona capace di resistere, di combattere, di trasformare l’energia vitale sviata o bloccata nelle passioni idolatriche in energia per conseguire l’unico vero scopo della lotta spirituale: l’agápe, l’amore verso Dio, verso tutti i fratelli e tutte le creature.

Conclusione
Gesù ha detto: «Lottate per entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24), ed egli stesso ce ne ha dato l’esempio quando nell’orto degli Ulivi ha affrontato nella preghiera la lotta, l’agonía decisiva (Lc 22,44). Posto di fronte all’alternativa tra restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte ignominiosa, oppure percorrere le vie suggerite dal demonio, egli è rimasto pienamente obbediente alla volontà di Dio, fino ad accogliere l’arresto senza mutare lo stile di mitezza e di amore che aveva contrassegnato l’intera sua vita. Lo stesso ha fatto sulla croce, dove, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, ha sentito riecheggiare da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto». «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (Lc 23.35.37.39). Gesù però non ha voluto salvare se stesso; al contrario, ha scelto di compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a lui, ossia amando e servendo Dio e gli uomini: ciò è stato causa di morte per Gesù, ma causa di vita per gli uomini tutti! Ed è proprio in risposta a quella vita in cui egli ha lottato per resistere alle seduzioni di Satana e per rimanere sempre capace di amore, che il Padre lo ha richiamato dai morti.
Tutto questo ha per noi una conseguenza determinante: solo Gesù Cristo, che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. Ogni nostra vittoria è nient’altro che un riflesso della vittoria pasquale di Cristo, lui che sa com-patire le nostre debolezze, essendo stato tentato in ogni cosa, come noi, ma senza commettere peccato (cf. Eb 4,15), e ora «è sempre vivente per intercedere a nostro favore» (Eb 7,25).
È dunque Cristo che possiamo invocare con le parole del salmista: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Sal 43,1; 119,154); è con lui e in lui che ogni giorno, pur nella fatica della lotta, possiamo rendere grazie a Dio cantando: «Benedetto il Signore, mia roccia! Egli addestra le mie mani alla battaglia, le mie dita all’arte della lotta» (Sal 144,1).

ENZO BIANCHI

SBF Letture bibliche: La Famiglia-modello di Nazaret

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SBF Letture bibliche: La Famiglia-modello di Nazaret

Oggi tutti più o meno si parla di famiglia, di questo valore primario in via di felice recupero dopo anni di quasi abbandono. Non sempre però se ne parla a proposito, nel debito modo, con senso di realismo. Spesso il discorso resta nozionistico, astratto, senza aggancio alla vita. E questo perché manca la forza di un esempio concreto, vivo, trainante. Manca, in particolare, la presentazione di quella “Famiglia-modello” che è l’ideale domestico divenuto palpitante realtà: la Santa Famiglia di Nazaret.
Sappiamo che niente è più convincente e stimolante di un ideale incarnato, divenuto realtà vissuta attraverso un esempio concreto. Se vogliamo dunque che la nostra gente capisca e viva il messaggio cristiano sulla famiglia, dobbiamo presentarglielo “con eventi e parole” come fa appunto il libro di Dio, la Bibbia (DV 2), e in dipendenza da essa la Chiesa più vera, quella dei Santi di ogni tempo e luogo.
L’esemplarità della S. Famiglia è un motivo ricorrente negli scritti dei nostri Santi. Per essi la parola salvifica e normativa di Dio sulla famiglia è precisamente la Famiglia di Nazaret (Lc 1-2; Mt 1-2), così come la parola decisiva di Dio sulla società è la Chiesa del Cenacolo (At 1-4).
L’insegnamento dei Santi sul nostro tema lo cogliamo sia nei loro testi che parlano della S. Famiglia nel suo insieme, sia nei loro testi che presentano i singoli membri di essa: Gesù come modello filiale e fraterno, Maria come modello sponsale e materno, Giuseppe come modello maritale e paterno. E per noi accogliere questo insegnamento è insieme dovere e interesse. Altrimenti continueremo a meritare il rimprovero di un profeta del nostro tempo:
“La mia protesta contro la corrente ostile alla vita domestica è che essa manca di intelligenza. La gente non sa quello che fa, perché non conosce la cosa che sta disfacendo” (G.K. Chesterton, La Chiesa viva, Ed. Paoline 1957, p. 53). Il vero cristiano, invece, “edifica” sempre in virtù di quella “carità” che viene da Dio e che è Dio stesso (1Cor 8,1; 14,26; 1Gv 4,7s). Ecco in sintesi i dati principali della testimonianza dei Santi o cristiani migliori sulla S. Famiglia, una testimonianza sempre valida e stimolante.
– Famiglia ideale e reale insieme. La S. Famiglia di Nazaret è l’ideale domestico divenuto palpitante realtà, come risulta dai Vangeli, specialmente da S. Luca (1-2; 3,23; 4,16). I Santi della Chiesa accettano questo dato rivelato senza svuotarlo o minimizzarlo, come fa non di rado la teologia di mestiere. Sanno che la Scrittura narra e attualizza le “meraviglie” di Dio (Lc 5,26), le quali sono fatti concreti e palpabili, ideali e reali insieme, non già concetti vaghi e astratti, campati in aria. La “Famiglia-modello” esiste perché Dio stesso l’ha voluta e realizzata. Lui, come ha rigenerato l’uomo in Gesù di Nazaret e la donna in Maria di Nazaret, così ha rigenerato la famiglia nel Focolare di Nazaret. Tramite questo, poi, ha rigenerato – in linea di principio – il genere umano devastato dal peccato. La Chiesa, ossia l’umanità nuova e definitiva, non è in fondo che la crescita nel tempo e nello spazio della S. Famiglia.
La Famiglia di Nazaret proclama al mondo che la famiglia umana è opera stupenda di Dio, voluta e regolata da lui stesso; che la religiosità o comunione con Dio è il segreto della sua riuscita (Sal 128; Lc 2,22ss); che dev’essere una, indissolubile, feconda, educatrice, aperta agli altri, socialmente benefica. Condanna, d’altra parte, i disordini che la distruggono (come la poligamia, il divorzio, la contraccezione, l’aborto) e le sfasature che la rendono infelice (come il maschilismo o strapotere dell’uomo, il femminismo o insubordinazione della donna, il discolismo o ribellione dei figli, il cainismo o lotta tra fratelli).
– Famiglia formativa. Da quanto si è detto scaturisce da sé l’esemplarità della S. Famiglia. Bisogna dunque educare ed educarsi alla sua luce, guardando e imitando loro tre, in modo che ogni padre sia un altro Giuseppe, ogni madre un’altra Maria, ogni figlio e fratello un altro Gesù. È così – non altrimenti – che si sana la famiglia e, con essa, la società umana. Il focolare, lo sappiamo, è il destino dell’umanità (GS 47-52). Tutto dipende da esso: il benessere individuale e collettivo, la salvezza temporale ed eterna. Ma a una precisa condizione: che ogni focolare sia una riproduzione fedele del Focolare di Nazaret.
Ma c’è di più. La S. Famiglia è la nostra famiglia più vera, perché tutti vi siamo nati in Gesù nuovo Adamo e capo dell’umanità redenta, cioè sanata e promossa al divino (Is 9,5; Gal 3,26ss; 4,4s). Effettivamente in essa c’è posto per tutti e tutti si è attesi quando si è ancora fuori. È qui che si è pienamente accettati e amati. È qui che si cresce bene, alla perfezione, in tutte le dimensioni e i rapporti costitutivi della vita umana: cioè “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52), e non solo “in età” come tutti gli animali “privi d’intelligenza” (Sal 32,9) e destinati a “perire” (Sal 49,13). A noi viverci dentro con la docilità filiale del “Primogenito”! (Lc 2,7.51; 4,16). E basta con la scelta masochista del figlio prodigo, che lascia il papà per il padrone, la casa per la stalla, il benessere per la fame… (Lc 15,12ss).
– Famiglia imitabile. È la logica conseguenza del nostro discorso, ed è il senso pedagogico dei dati evangelici relativi, come hanno ben capito tutti i Santi. La “Famiglia-modello” è un dono divino che interpella e impegna tutte le coppie e le famiglie: è offerta e accessibile a tutti, naturalmente secondo il “carisma” di ciascuno (1Cor 7,7). Sarà quindi parziale l’imitazione delle coppie comuni, più larga quella delle coppie continenti, piena quella delle coppie verginali e delle famiglie religiose in genere.
Il Focolare di Nazaret, ha ricordato Giovanni Paolo II, “è modello di vita per ogni uomo, per ogni cristiano, per ogni comunità familiare” (Angelus 28 dic. 1980, n. 2). Il modello va imitato, riprodotto. E Maria stessa, “la padrona di casa” (Paolo VI), ci sollecita all’imitazione: “Nei momenti difficili guardate alla Famiglia di Nazaret, che è vissuta in grande povertà. Dio è più potente di tutto il male del mondo. Non dimenticatelo!” (la Madonna a una figlia fedele dell’Africa).
– La Madre-modello. La donna – lo sappiamo – fa o disfà la casa (Pr 14,1; 31,10ss; Rt 4,11) e Maria, la nuova Eva, segna il riscatto e la sublimazione della donna e quindi del focolare domestico (Lc 1,39ss; Gv 2,1ss). Senza donna e famiglia buone, mariane, “l’uomo geme randagio”, ci dice lo Spirito Santo (Sir 36,27).
Una Maria per ogni uomo e per ogni focolare: ecco dunque la soluzione dei problemi umani. A voi, figlie di Maria, il diritto-dovere di non farla mancare a nessuno. “Quale la madre, tale la figlia”, vi dice lo Spirito Santo (Ez 16,44). Siate Maria, dateci Maria! Esistete per questo. Che stupenda ed esaltante vocazione! Per riuscire bene nell’impresa, stringetevi a lei e ditele: “Mamma, mi dono tutta: fammi donna come te, cioè donna sposa e madre, donna di neve e di fuoco: di neve per il candore, di fuoco per l’ardore”. “Maria madre mia, chi mi guarda ti veda!” (mistica spagnola).
Oggi molti, specialmente tra i giovani, contestano la famiglia. Ma quale famiglia? Quella laicista o atea, dove han sofferto o stan soffrendo l’inferno. Logica conseguenza: non vogliono sposarsi. Di chi la colpa? Del costume rifatto pagano, che ha corrotto e affossato i sublimi valori della famiglia cristiana. Solo il recupero di questi valori può ridare alla nostra gente verità e amore, fiducia nel matrimonio e nella famiglia. Ma questo recupero passa per la S. Famiglia. L’ha notato bene un esegeta pastore: “Il rinnovamento della vita familiare sull’esempio della Famiglia di Nazaret è una delle più importanti esigenze del tempo presente” (Gutzwiller). Sì, perché o come la S. Famiglia o le miserie del paganesimo, o come la S. Famiglia o il ritorno alle vergogne del mondo precristiano!
La Famiglia ideale e reale insieme esiste. La Famiglia-modello è qui, in mezzo a noi. Il Vangelo ce la presenta e propone come esempio imitabile in ogni tempo e luogo. A noi non rifiutarla. Accettiamola dietro l’esempio luminoso dei nostri Santi. È dovere e soprattutto interesse.

Lino Cignelli, ofm
(Gerusalemme 12/1993)

Publié dans:BIBLICA (sugli studi di) |on 29 décembre, 2011 |Pas de commentaires »
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