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GESÙ REDENTORE : SALVEZZA E SOFFERENZA

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GESÙ REDENTORE : SALVEZZA E SOFFERENZA

(da Qumran.net, sezione catechesi bibliche, temi paolini)

*“Che diremo dunque in proposito?Se Dio è per noi chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato a tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica .Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?
Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame la nudità, il pericolo la spada?….
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli,ne principiati né presente , né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’ altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio , in Cristo Gesù, nostro Signore.” ( Rm.8,21-39)

*“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta da uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.” (G.S. 1)1
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Molti potevano essere i passi per aiutarci a riflettere sulla tematica della Redenzione e sul significato della sofferenza umana nella storia dopo il Cristo. Ho scelto questo brano di Paolo e il punto 1 della G.S come sintesi teologica. La teologia infatti è invitata a riflettere sulle questioni con un cammino ben preciso: partire dalla S. Scrittura, passare dai padri Apostolici, poi i padri della Chiesa, S, Tommaso per finire con la riflessione storica dei concili ecumenici.
“ In realtà solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo , era figura di quello del futuro e cioè di Cristo Signore . Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore2, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione”3
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste…..
14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Queste parole del prologo del Vangelo di Giovanni , che sono un po’ la sintesi teologica del IV Vangelo ci richiamano in maniera forte questa idea: Dio quando ha creato il mondo aveva innanzi a sé l’immagine del figlio, in lui tutto è stato creato è Lui il tipo, la figura dell’UOMO. Padre Laurentin ed altri esegeti con lui facendosi forza anche della tradizione dei Padri latini interpretano già nel primo versetto del Prologo la figura del Cristo incarnato.
Questo non è una novità , gia la teologia paolina lo afferma chiaramente , soprattutto negli inni cristologici di Ef 1,3-14 4 e Ef 1,3-14 . Il primo forse più chiaramente svela il piano d’amore di Dio che ci ha fatto e pensato sempre come figli nel Figlio, il secondo forse sottolinea più l’aspetto di partecipazione alla Redenzione. Nel prologo di GV, il versetto 3 in greco dice “panta” , cioè tutto ciò che riguarda la salvezza; si potrebbe dire meglio che senza di Lui non avviene neppure una cosa all’interno del mistero della Salvezza,5 che tutto è stato pensato da Dio per comunicare all’uomo il suo amore di Padre .
Si può dire che la teologia e la riflessione della Chiesa a partire dal Vaticano II riscopre l’idea biblica di un solo piano: quello d’amore che Dio ha pensato per l’uomo superando, o cercando di superare la divisione tra naturale e sopranaturale che la riflessione umana aveva fatto dividendo l’azione di Dio Creatore e di Dio Redentore in maniera troppo incisiva e schematica.
K. Rahner a tal proposito scrive:”l’uomo può fare esperienza su se stesso solo nell’ambito dell’amorosa volontà sopranaturale di Dio, non può presentare la natura in uno ‘stato chimicamente puro ’separata dal suo esistenziale sopranaturale.” 6
Dio scrive la storia della Salvezza nel divenire del tempo e dello spazio, nella esperienza di relazione con ognuno, all’interno di un progetto d’amore chiamato Gesù Cristo. : 4In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, 5predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, 6secondo il beneplacito della sua volontà. ( Ef. 1, 4-6)
Chi ci separerà dunque dall’amore di Dio? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame la nudità, il pericolo la spada?…. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati
Questo versetto del brano iniziale che abbiano letto ci aiuta a legare il tema della sofferenza umana al tema della Salvezza. Noi tutti avremmo voluto che Dio ci salvasse riportandoci alla idealità descritta in Genesi del paradiso terrestre, ma non è così l’Apocalisse ci dice che in Paradiso avremo Cieli nuovi e terre nuove7 dove godere appieno di questa relazione con Dio, che ha scelto di camminare nella storia come Uomo grazie ad un sì di una ragazza di nome Miriam , circa 2000 anni fa a Nazareth di Galilea .
Per terminare la ns riflesione sulla sofferenza nella ns storia della salvezza ci facciamo aiutare brevemente dal brano dei Discepoli di Emmaus: possiamo vedere come l’evangelista metta in questi due tutti i sentimenti di sconfitta e delusione che sono nella vita di ogni uomo per la sofferenza, per le sconfitte , gli ideali non raggiunti, per l’idea di Dio che ci eravamo fatti: potente, salvatore, Messia anche politico; sottolinea l’atteggiamento di Gesù che si avvicina a loro, fa finta di non saper nulla di quanto successo, da fine psicologo li fa parlare gli fa tirar fuori le angosce e poi senza infierire, benché dica sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! [26]Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27]E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Questo riflettere sulla Parola, meditare sulla scrittura voce di Dio che mi parla nella mia storia, come ben sappiamo costa fatica. Si potrebbe dire col Maraldi la fatica della Fede 8:  » la fede se è calata nella storia costa fatica …. La fatica di credere in Dio stando sulla terra, dentro le situazioni in cui ci si trova gettati. E’ la fatica di meditare la Parola di Dio per cercare di capire cosa voglia il Signore nella concretezza dell’oggi ». E’ La fatica di vedere l’opera di Dio nella storia in corso d’opera, di avere gli occhi delle fede e non rimanere impantanati nelle situazioni, dalle più vicine, ( malattie, lutti, disgrazie), alle più globali ( carestie, terremoti, pandemie , guerre); non è facile e spesso tutti noi diciamo ‘ma Dio dov’è?’.
Ad ogni Natale facciamo memoria di questo Dio che si fa uomo, che per salvare il mondo ha sempre rifiutato la gente che voleva farlo re dopo i miracoli , non ha mai accettato di fare Dio ,ma ha voluto fare l’uomo e ha chiamato Pietro, Zaccheo, Giairo , da ognuno ha voluto fermarsi a casa sua , ha chiesto ospitalità, ha chiesto di fare Casa con lui . Comunione,….. è un Dio che si fa vicino, non ci dà ricette o ci risolve il problema , ma cammina affianco, si fa ultimo con gli ultimi, povero coi poveri, fratello di ogni uomo. Sembra retorica o poesia , ma è la realtà, è Dio che ci accompagna nella Vita perché possiamo essere ognuno la pienezza di noi stessi ( o meglio rispondere ognuno alla sua Vocazione).
Rileggendo mi vengono spontanee queste domande: So ascoltare i fratelli in difficoltà? So partire dai loro drammi e dalle loro angosce per aiutarli ? cammino loro affianco con tenerezza, con una presenza ‘gentile’e accorta ?
Li consolo con la stessa consolazione con cui sono stato consolato da Dio?!.9
San Paolo in Cor, 1,24 dice: “ Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo Corpo che è la Chiesa”….Perciò sono lieto delle sofferenza che sopporto per voi”.
GP II commentando questo brano al punto 1 della ‘Salvifici doloris’ dice che l’Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di coloro che essa può aiutare – così come aiutò lui – a penetrare il senso salvifico della sofferenza. Il Papa nella conclusione della sua lettera rifacendosi a GS 2210 , che abbiamo letto all’inizio di questa ns riflessione, dice che se Cristo svela interamente l’uomo all’uomo, queste parole che “ si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, allora certamente si riferiscono in modo particolarissimo all’umana sofferenza”.
Dio assumendo su di sé l’intera natura umana ne ha assunto tutte le peculiarità storiche, tra cui la sofferenza oltre che la gioia. Sicuramente questo è un mistero che fa parte del più grande mistero dell’Incarnazione, Passione Morte e Resurrezione di Gesù: Dio ci ama tanto che accoglie le ns offerte ‘ spirituali’ ( perché fatte attraverso lo Spirito Santo ) come compartecipazione alla sua opera salvifica. La Prima lettera di Pietro ci ricorda che Cristo ci ha fatto partecipi del suo sacerdozio regale: «ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato…»(1 Pt.2,9).

Vorrei finire, pertanto, con queste parole della lettera agli Ebrei:
5Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,un corpo invece mi hai preparato.6 Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.7Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro –per fare, o Dio, la tua volontà».( Ebrei 10,5)

L’obbedienza 25/4/88
La vita
prende
trascina
trasforma
lasciarsi vivere
è il segreto
gioia, dolore
sofferenza, paura
viviamola
coi nostri sentimenti,
attivamente
accettando
ogni momento,
la storicità
della vita.
E ciò
che nascerà
sarà nostro
storico
vitale.
Lasciamoci vivere
questo è il segreto.

LA BELLEZZA DEL RACCONTARE DIO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=151

LA BELLEZZA DEL RACCONTARE DIO

sintesi della relazione di Brunetto Salvarani

Verbania Pallanza, 31 marzo 2001

Il tema della bellezza è stato affrontato nel corso in modo serio, andando oltre la superficie, cercando di rispondere alla domanda di quale bellezza salverà il mondo. In questa prospettiva parlerò della bellezza del raccontare, del narrare in un primo momento, per poi passare in un secondo momento al tema sempre più attuale della presenza dell’altro nelle nostre città e nelle nostre chiese e sulla necessità di creare occasioni delle persone appartenenti alle varie culture possano incontrarsi. Qui sta la vera bellezza.
la bellezza del raccontare
Il racconto è la modalità espressiva più tipica della bibbia. Raramente si trovano argomentazioni, dimostrazioni, asserzioni dogmatiche. Si trovano invece poesie, simboli, miti, racconti.
Il narrare è forse l’eco della risata di Dio sulla terra, l’eco di quel ritornello ripetuto sette volte in Genesi 1 (Dio vide che tutto era bello e buono « tov »). La prima parola di Dio sul mondo riguarda la sua bontà e bellezza.
La narrazione ha una funzione terapeutica, come per quel nonno storpio, discepolo di Baal Schem, che racconta con tale passione del maestro, da guarire.
Il parlare di Dio è poi un parlare creativo. Non sono parole vuote che si perdono nel vento ma si traducono in un avvenimento.
Il primo credo ebraico, Deut 26,5-9, non è tipo dogmatico, argomentativo, ma è un credo narrativo (« mio padre era un arameo errante, vi stette come un forestiero, con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri. E il Signore ascoltò la nostra voce… »).
C’è qui la storia palpitante di un popolo.
Nell’autocoscienza ebraica è fortissima la dimensione dell’essere stati forestieri.
Il cuore di questo piccolo credo è la memoria di un uomo, Giacobbe, che ha combattuto contro Dio, ed anche la memoria della sofferenza.
Ciò che crea legame all’interno di una comunità non è tanto il credere in un dogma, ma avere una memoria collettiva.
La storia di Israele è una storia di una comunità che racconta (salmo 78,3-4). Così pura la storia delle prime comunità cristiane e così dovrebbe essere ancora oggi. Purtroppo oggi c’è la difficoltà di comunicare tra generazioni diverse, di raccontare la propria fede alle generazioni successive.
Il ricordo (ziqqaron), non è il ricordo oggettivo, ma il memoriale che fa entrare in un avvenimento passato. È questo un elemento che collega strettamente ebraismo e cristianesimo: come il seder pasquale ebraico in cui si fa memoria del passato di schiavitù e di liberazione così è l’eucaristia cristiana in cui si aggiunge il ricordo dell’ultima cena. Anche l’eucaristia è essenzialmente un racconto, non solo nella liturgia della parola ma anche in quella eucaristica.
Il racconto nella bibbia coinvolge anche il creato « I cieli narrano la gloria di Dio… » (salmo 19,1-2). Non solo il pio ebreo o la comunità sono orientati a raccontare, ma la creazione tutta. Sta a noi ascoltare e interpretare queste storie.
Oggi c’è un ritorno al raccontare. Nella chiesa cattolica hanno prevalso nettamente le ragioni del dogma, contro quelle, ritenute poco valide, del racconto.
La teologia narrativa è tornata sulla scena proprio nel secolo in cui si è arrivati al punto più basso della comunicazione. Come dice Benjamin « È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile: la capacità di scambiare esperienze ».
Due sono le figure che esprimono bene questa situazione. La figura del reduce, del reduce dal fronte bellico, che non racconta a nessuno ciò che ha vissuto, perché ritiene che sia talmente orribile da temere di non essere creduto.
L’altra figura è quella di Ireneo Funes (Borges), che ha una memoria infallibile e mostruosa, ricordando tutto. Ma proprio il ricordare tutto senza poter selezionare porta alla paralisi. Ha miliardi di ricordi, ma non la memoria, la capacità di cogliere ciò che è importante per noi.
Sia il reduce che Ireneo indicano l’incapacità di riandare alle antiche voci di salvezza.
Adorno si chiede se fosse ancora possibile scrivere dopo Auschwitz.
Oggi la ripresa del narrare è avvenuta grazie al pensiero teologico, alla teologia narrativa. L’esigenza di tornare a narrare le storie di Dio, le storie della bibbia, ritraducendole nella cultura di oggi. Oggi c’è un bisogno irrefrenabile di tornare ai grandi racconti, ai grandi miti, che possano attrarre i grandi e non solo i piccoli (Natale Terrin).
Il rischio è di intercettare male questo bisogno, come nel caso della New Age (De Mello, Coelho…)
l’irruzione dell’altro
È in atto un profondo cambiamento, « l’irruzione dell’altro », che è avvenuto silenziosamente e che ha spaventato e sta spaventando molti, con una spaccatura all’interno della chiesa.
Dopo la morte di Dio si parla di rivincita di Dio. Dopo la secolarizzazione, l’eclissi del sacro, il fatto che si sia spenta la spinta propulsiva delle grandi religioni, data l’attuale crisi dello stato sociale, degli stati assistenziali, che rispondevano a una serie di bisogni, si chiede la soluzione alla parola forte e autorevole della bibbia, dei testi sacri. Si propone (fondamentalismi) una risposta forte a questa crisi sociale grazie alla religione. Succede nell’islam, in buona parte dell’ebraismo israeliano, nel mondo cattolico e protestante, e anche nell’induismo.
C’è poi il bisogno una spiritualità ridotta a tecniche, che faccia poco i conti con l’etica, che non impegni troppo in profondità, che trae la propria ispirazione da un insieme di elementi presi dalle diverse tradizioni religiose sia occidentali che orientali, in un cocktail appetibile, anche se confuso ed eterogeneo (new e next age).
Anche questo tipo di bisogni andrebbe non demonizzato ma intercettato, dato che probabilmente un certo cristianesimo, giocato spesso in termini sociali, ha trascurato ambiti più personali, come quello della malattia e della guarigione, della morte, dell’al di là. Espressione di questo bisogno di spiritualità è il fenomeno in netta crescita anche in Italia del pentecostalismo, che tende a dare minore importanza alla dimensione dogmatica in favore del carattere mistico ed entusiastico, della partecipazione anche corporea (danza, ritmo…).
Ma tutti questi fenomeni esprimono un autentico bisogno di Dio, la rivincita di Dio, oppure il bisogno del tutto umano del sacro, del religioso?
Tutti questi fenomeni hanno favorito la crescita nel nostro paese di un pluralismo religioso, di un mosaico della fede, che pur presente nel passato (la comunità ebraica più antica e i valdesi) oggi è più visibile e reclama un’idea di laicità che riconosca il valore delle minoranze, viste piuttosto come ricchezza che non come fonte di problemi.
La ricerca anche faticosa di occasioni di incontro passa anche attraverso il lavoro sulla identità narrativa. Dialogare non significa necessariamente risolvere un problema: invece di argomentare o dimostrare si può anche raccontare o ascoltare la storia di un altro.
Deve essere data la possibilità ai molti del nostro paese che vogliono raccontare la propria storia di poterlo fare, moltiplicando le occasioni per entrare in contatto con gli autoctoni, per cui il nostro racconto si incroci con il loro racconto. È quanto è avvenuto con l’ondata migratoria dal meridione. L’incontrarsi giorno dopo giorno nelle scuole, nelle fabbriche ha consentito di vivere un’esperienza di socializzazione integrante.
Proprio la riscoperta della dimensione narrativa del cristianesimo, della teologia narrativa ha reso più facile l’incontro con l’ebraismo, che si è sempre maggiormente autocompreso attraverso la narrazione che non attraverso la riflessione dogmatica. L’argomentazione dogmatica tende a chiudere mentre la narrazione apre all’incontro del reciproco ascolto.

VIAGGI DI SAN PAOLO IN GRECIA – ASPETTI ARCHEOLOGICI – PARTE I

Ihttp://www.instoria.it/home/viaggi_san_paolo_grecia_I.htm

(la seconda parte domani, ci sono delle citazioni, credo in greco traslitterato – se le lasciavano in orginale forse era più semplice – io non le leggo, però lo studio è interessante)

 VIAGGI DI SAN PAOLO IN GRECIA

ASPETTI ARCHEOLOGICI – PARTE I

di Maria Cristina Ricci

La cronologia relativa a San Paolo è stata oggetto di svariati studi, ed ancora oggi gli esegeti non sono del tutto concordi; nel testo è stata seguita la datazione proposta da R. Fabris, che colloca il secondo viaggio missionario di San Paolo negli anni 50-52 d.C.; A. Penna propone una cronologia compresa tra gli anni 50-53 d.C., mentre M. Adinolfi tra il 49 ed il 52 d.C. Il viaggio si svolse per terra e per mare.
Tra le strade percorse da Paolo va ricordata la via Egnazia. Costruita con chiari intenti militari, da Apollonia-Dyrrachion attraversava i Balcani, toccando in Macedonia Eraclea, Edessa, Pella, quindi i centri interessati dal viaggio di san Paolo, da Tessalonica a Neapoli. Superata la Tracia, la strada giungeva fino all’Ellesponto e a Bisanzio. La sua cronologia è ancora motivo di discussione: F.W. Walbank ritiene possibile che la strada sia stata costruita qualche anno dopo la riduzione a provincia della Macedonia (146 a.C.).
Al contrario G. Molisani tende ad alzare la cronologia agli anni immediatamente successivi al 168 a.C., quando i Romani sconfissero Perseo, in base a due iscrizioni che riportano il nome di Cn. Egnatius: la prima (Suppl. CIL III,98), scoperta a Corinto sul basamento di una statua, secondo Molisani è precedente al 146 a.C. (anno in cui Corinto fu distrutta), la seconda, trovata a Lucus Feroniae, è di età repubblicana (lo studioso pur con qualche incertezza suggerisce di sciogliere l’abbreviazione PR PR di quest’ultima iscrizione con praetor proconsole; anche se gli ex pretori potevano governare province di media importanza, va però detto che questo scioglimento è piuttosto insolito).
F.W. Walbank tuttavia non accetta una datazione così alta e ritiene più plausibile che il Cn. Egnatius della strada omonima sia stato, nel 145 a.C., il diretto successore di Metellus Macedonicus, primo governatore della provincia macedone. Inoltre non è escluso che la persona citata nell’epigrafe di Corinto abbia vissuto in questa città anche dopo il 168, periodo in cui avrebbe comunque potuto offrire i propri servizi a L. Antonius Damonicus, i cui figli fecero costruire la statua dedicatoria.
Anche sull’interpretazione di PR PR data da G. Molisani lo studioso ha sollevato alcuni dubbi, notando che il miliario scoperto a Gallico, in cui compare il nome di Cn. Egnatius, presenta l’abbreviazione PRO COS (proconsul), che, in base a quanto riportato, andrebbe sciolta come praetor proconsule, dando luogo ad una evidente forzatura.
Per Aik. Romiopoulou Cn. Egnatius appartenne alla tribù Stellatina, rivestendo la carica di proconsole tra gli anni 146 e 120 a.C.; St. Samartzidou, che ha esaminato un altro miliario (Kavala Museum L 1209) trovato ad Amygdaleon, con un’iscrizione bilingue in cui compare il nome di Cn. Egnatius, si limita a presentare le varie ipotesi avanzate dai suoi predecessori.
Il viaggio di Paolo per Atene invece si svolge per mare, probabilmente partendo da Pidna o da Dium; è probabile che la rotta abbia costeggiato la Tessaglia passando successivamente per il mare Euboicum attraverso lo stretto dell’Euripo e doppiando il Capo Sunio. Molte fonti attestano il passaggio delle navi attraverso lo stretto dell’Euripo, nonostante fosse largo solo 60 m. e le sue correnti, in base alla testimonianza di Strabone (Strabo IX 403), Seneca (Sen. Herc. Oet. 779-781), Plinio (Nat. Hist. II 219) e Pomponio Mela (Pompon. Chor. II 108), cambiassero frequentemente corso di giorno e di notte; anche il Casson sostiene che San Paolo lo abbia attraversato. Di diverso avviso è il Fabris, che considerando la pericolosità di questo tratto di mare, ha ipotizzato che l’Apostolo sia passato al largo dell’Eubea.
Da Atene a Corinto, mancando elementi interni al testo che indichino un viaggio per nave, forse Paolo seguì un tratto della via Sacra e la via Scironiana; da questa strada, attraversato il Diolkos, si poteva raggiungere Corinto da nord, passando per il porto del Lechaion, oppure da sud, superando Isthmia e Kenkreai.
Il viaggio in Asia Minore si era concluso con l’imbarco da Troade in Frigia alla volta della Macedonia, dove San Paolo ed il suo seguito approdano dopo aver oltrepassato Samotracia.
NEAPOLI
(AT. 16,11)
Il porto che li accoglie è quello di Neapoli, punto di scalo della più importante Filippi, ad esso collegata dalla Via Egnazia; questo centro portuale, tappa di passaggio per Paolo, non ha lasciato grandi tracce della sua passata esistenza (At. 16,11: ‘Anacqšntej dš ¢pÕ TrJ£doj eÙqudrom»samen e„j Samoqr®khn, tÍ dš ™pioÚsV e„j Nšan pÒlin; sul suo sito è sorta l’odierna Kavala, la cui presenza non ha permesso di condurre in quest’area opportune indagini archeologiche.
Al contrario, lungo il tratto di strada di circa 12 miglia che unisce l’antica Neapoli a Filippi, nella località di Vassilaki vicina al villaggio di Amygdaleonas, sono stati riportati alla luce i resti di una fonte e di alcuni pozzi, identificabili con la statio Fons co; segnalata nella Tabula Peutingeriana segm. VII,3 tra Filippi (It. Ant. 320,5 mpm XXXIII; It. Hier. 603,10 mil. 10) e Nespoli (It. Ant. 321,1 mpm XII; It. Hier. 603,9 mil. 9) col disegno stilizzato di un tempio; per i Levi indicava la presenza di alloggi per i viandanti, mentre per Bosio un importante centro cultuale che avesse anche la funzione di mansio.
La via Egnazia da Neapoli si dirigeva verso ovest, lungo un percorso che fu successivamente ripreso in età medievale dalla strada lastricata del monastero di San Silas; attraversato lo stretto passaggio tra le pendici del monte Symbolon la strada girava intorno ad una collina fortificata, ai cui piedi sono stati trovati i resti della fonte, superava l’odierna Amygdaleon per proseguire nella piana di Filippi con orientamento SE-NO.
FILIPPI
(AT. 16,12-40)
All’altezza della località Megalo Lithari, dove fu eretto il monumento al legionario Gaio Vibio Quarto (CIL X,647) e dove la presenza di una fonte aveva inizialmente portato a credere che qui si trovasse Fons CO, la strada piegava bruscamente ad angolo retto e si dirigeva ad ovest, nella città di Filippi, che sorgeva al centro di una zona molto fertile, ricca di fiumi e ruscelli; oggi la sua posizione è messa in evidenza da un’ansa piuttosto accentuata della strada Kavala-Dramas, a circa 12 km a nord di Kavala. Dalla grande Porta di Neapoli, difesa da due torri avanzate, la Via Egnazia, passando lungo il lato settentrionale del foro, attraversava la città della quale era l’asse urbano principale.
Qui San Paolo inizia a diffondere il nuovo Credo, rivolgendosi soprattutto alla comunità ebraica del posto che, per celebrare i propri riti (il luogo di preghiera probabilmente era un recinto a cielo aperto), si riuniva il sabato fuori da Filippi oltre la porta occidentale, nei pressi di un fiume (At.16,13 tÍ te ¹mšrv tîn sabb£twn ™x»lqomen œcw tÁj pÚlhj par¦ potamÕn oá ™nom…zomen proseuc¾n eŒnai, kaˆ kaq…santej ™laloàmen ta‹j sunelqoÚsaij gunaic…n).
Probabilmente i Giudei non volevano celebrare i loro riti in un ambiente in cui prevalevano i culti pagani; inoltre non è da escludere che questa comunità fosse talmente piccola da non potersi permettere di costruire una sinagoga. Durante il suo regno Claudio aveva emanato una legge secondo cui gli ebrei, a causa dei recenti tumulti che avevano causato, non potevano risiedere a Roma; è possibile che qualche colonia abbia seguito l’esempio della capitale.
La frase ™x»lqomen œcw tÁj pÚlhj par¦ potamÕn si riferisce con ogni probabilità ad una porta, identificata da alcuni con una volta monumentale, ancora esistente ai tempi di Collart, che sorgeva presso le sponde del fiume Angites. L’arco, dalle linee semplici e a fornice singolo, era stato costruito sulla linea del pomerium; la zona compresa tra questo e la cinta muraria era considerata sacra.
Tuttavia, se lo si confronta con monumenti simili (ad es. ad Aosta e a Gerasa) si nota che in genere la loro distanza dalle mura non supera i 400 m, mentre in questo caso raggiunge i 2 km.; di conseguenza il Frothingham ha considerato il monumento di Filippi un arco territoriale che marcava la zona rurale della città, non quella urbana.
 Secondo altri studiosi invece questo monumento commemorava la battaglia di Filippi che in effetti si era svolta nelle vicinanze, mentre Koukouli-Khrysantaki identifica più semplicemente l’arco con la porta occidentale della città, e riconosce nel fiume citato uno dei tanti ruscelli che scorrono nel territorio di Filippi; tuttavia ogni ipotesi presentata non ha avuto finora conferma, quindi la questione è ancora aperta.
Invece sulla presenza di ebrei a Filippi è stata scoperta di recente, presso il cimitero ovest, una stele molto interessante, che conferma l’esistenza di questa comunità.
Si tratta di una lastra in marmo locale, la cui larghezza diminuisce verso la base, lavorata rozzamente, priva di cornice, con sommità curva. Le numerose scheggiature presenti lungo i bordi, specialmente quelle sul lato sinistro e sulla sommità, non impediscono la lettura dell’epigrafe greca che al primo rigo è preceduta da una foglia d’edera. Le dimensioni sono: altezza 90 cm, larghezza alla sommità 70 cm, larghezza alla base 58 cm; lo spessore varia dai 10 ai 15 cm; le dimensioni delle lettere hanno un’altezza tra i 3 ed i 5,5 cm. Catalogazione: trovata nel cimitero occidentale di Filippi, è oggi conservata nel museo della città (N° inv. L1529).

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“Nikostratos Aurelios Oxycholios stesso ha costruito questa tomba. Se qualcuno vi deporrà il cadavere di altri pagherà una multa alla sinagoga”.
Dallo studio dei nomi di vari ebrei stabilitisi in Grecia è emerso che era piuttosto comune usare la lingua e l’onomastica greca (Nikostratos Oxycholios) oltre al gentilicium romano (Aurelios); tuttavia ciò non dimostra che questa minoranza si fosse integrata con la gente del posto.
In particolare l’analisi del nome ricordato nella stele permette la datazione della tomba, poiché il gentilicium indica una data non antecedente al 212 d.C., anno della Constitutio Antoniniana, e il cognomen greco Oxycholios compare solo a partire dal III sec. d.C. Di conseguenza la tomba è d’epoca posteriore al viaggio di San Paolo, ma costituisce una testimonianza tangibile dell’esistenza a Filippi di una comunità ebraica nel III sec.
La predicazione in questa città si rivelò fruttuosa e portò alla conversione di Lidia, una commerciante di porpora, e della sua famiglia (At. 16,14 kaˆ tij gun¾ ÑnÒmati Lud…a, porfurÒpwlij pÒlewj Quate…rwn sebomšnh tÕn qeÒn, ½kouen, Âj Ð kÚrioj d»noixen t¾n kard…an prosšcein to‹j laloumšnoij ØpÕ toà PaÚlou. 15 æj dš ™bapt…sqh kaˆ Ð oŒkoj aÙtÁj).
La guarigione di una schiava posseduta, che aveva la facoltà di predire il futuro, fu per i padroni motivo di profondo risentimento nei confronti di San Paolo, a tal punto che lo condussero nella pubblica piazza affinché fosse giudicato dai capi della città.
L’agorà cui si fa riferimento nel testo greco (At.16,18 ›lkusan e„j t¾n ¢gor¦n ™pˆ toÝj ¥rcontaj) oggi presenta solo resti di fase antonina; le indagini di scavo hanno mostrato che alcuni edifici pubblici, tutti orientati a NE-SO, sono stati rifondati, con le stesse funzioni ma con un’architettura più imponente, sullo stesso sito occupato dalle strutture preesistenti.
Il lato occidentale della piazza aveva carattere prevalentemente amministrativo, quello orientale era dedicato al culto dell’imperatore e della sua famiglia, mentre lungo il lato meridionale erano disposte delle botteghe.
Il lato settentrionale infine era chiuso da una fila di monumenti che fiancheggiavano la tribuna degli oratori, o bema, formato da una struttura indipendente (infatti non era il prolungamento del pronao di un tempio, né dipendeva da una scalinata anteriore), addossata alle mura del Foro e alla strada, in modo da dominare così tutta l’area della piazza.
Secondo alcuni Paolo fu giudicato proprio di fronte al bema, sebbene altri propongano di cercare il luogo del processo tra gli edifici del lato occidentale dell’agorà, dove, nell’angolo NO, è stata localizzata la curia, sede degli strategoi o archontes, cui era affidato il compito di giudicare i reati di tradimento e di impietas (asebeia, capo di accusa contro Paolo secondo la voce del popolo).
Anche questa struttura fu ricostruita nel II secolo d.C. nello stesso sito occupato durante la fase giulio-claudia.
Nell’area centrale del foro si ergevano numerosi monumenti e statue dedicati a cittadini di rilievo(vedi ad esempio l’iscrizione per M. Lollius di I sec. a.C.), ad antichi re traci (vedi l’iscrizione per Roemitalces, che si schierò con Roma per reprimere varie ribellioni sviluppatesi in Tracia nel corso del primo trentennio del I sec. d.C.) e ad imperatori tra cui spiccano un ritratto di marmo in onore del giovane Ottaviano o di Gaio Cesare, risalente ai primi venti anni del I sec. d.C., ed un altro di Lucio Cesare, dello stesso periodo.
Con le loro accuse i padroni della schiava riuscirono a far rinchiudere in prigione Paolo e Sila (At.16,23 poll£j te ™piqšntej aÙto‹j plhg¦j ™/balon e„j fulak¾n paragge…lantej tù desmofÚlaki ¢sfalîj thre‹n aÙtoÚj), finché un terremoto di notevole intensità, verificatosi nella notte, non convinse i capi a liberare i due prigionieri, che nel frattempo avevano reso noto il loro stato di cittadini romani (At.16,26 ¥fnw dš seismÕj ™gšneto mšgaj éste saleuqÁnai t¦ qemšlia toà desmwthr…ou: º neócqhsan dš paracrÁma aƒ qÚrai p©sai kaˆ p£ntwn t¦ desm¦ ¢nšqh … 35 `Hmšraj dš genomšnhj ¢pšsteilan oƒ strathgoˆ toÝj ·abdoÚcouj lšgontej: ¢pÒluson toÝj ¢nqrèpouj ™ke…nouj. 36 ¢p»ggeilen dš Ð desmofÚlac toÝj lÒgouj toÚtouj prÕj tÕn Paàlon Óti ¢pšstalkan oƒ strathgoˆ †na ¢poluqÁte: nàn oân ™celqÒntej poreÚesqe ™n e„r»nV. 37 Ð dš Paàloj ™/fh prÕj aÙtoÚj: de…rantej ¹m©j dhmos…v ¢katakr…touj, ¢nqrèpouj `Roma…ouj Øp£rcontaj, œbalan e„j fulak»n, kaˆ nàn l£qrv ¹m©j ™kb£llousin; oÙ g£r, ¢ll¦ ™lqÒntej aÙtoˆ ¹m©j ™xagagštwsan. 38 ¢p»ggeilan dš to‹j strathgo‹j oƒ ·abdoàcoi t¦ ·»mata taàta. ‘Efob»qhsan dš ¢koÝsantej Óti `Roma‹o… e„sin, 39 kaˆ ™lqÒntej parek£lesan aÙtoÝj kaˆ ™cagagÒntej ºrètwn ¢pelqe‹n ¢pÕ tÁj pÒlewj).
Per lungo tempo è stata identificata con la prigione una struttura romana, probabilmente una cisterna, inglobata nel cortile rettangolare che precedeva l’atrio della Basilica A (V sec.); la presunta prigione diventò luogo di culto cristiano dal periodo in cui vennero distrutte la Basilica A e l’Ottagono (fine VI – inizi VII sec.), come attestano gli affreschi lì ritrovati.
Recentemente M. Torelli ha ipotizzato che in origine il cortile appartenesse a un tempio romano orientato come l’ala occidentale del Foro, con cui comunicava tramite la scalinata collegata con l’arco d’ingresso e visibile davanti alla cisterna.
Ch. Koukouli Chrysantaki sostiene che la cisterna fosse annessa ad un edificio romano inglobato nel complesso della Basilica A, insieme ad un altro edificio esistente ai tempi di Paolo, un piccolo tempio formato da un pronaos ed una cella e costruito in marmo (probabilmente questo edificio templare risale al IV sec. a.C., ed era connesso con il culto di Filippo II, come fa supporre un’iscrizione riutilizzata in un muro della basilica).
Ripreso il viaggio, Paolo e Sila si diressero verso la città di Tessalonica; il percorso della Via Egnazia a questo punto attraversava il ponte scoperto nei pressi del villaggio di Mavrolefki e la piana di Filippi fino alla mutatio ad Duodecimum, citata solo nell’Itinerarium Hierosolymitanum, 604,2, ed individuata tra la stazione ferroviaria di Fotalivi e il raccordo con la strada Eleutheropolis – Drama.
A questo punto, arrivata alle pendici settentrionali del monte Pangeo, la strada formava un arco e raggiungeva la mutatio Domerus (It. Hier. 604,3), il cui nome è la forma corrotta della parola doberus (“castello” in macedone).
Il sito di questa tappa potrebbe trovarsi presso il moderno villaggio di Straviki (Draviskos).
ANFIPOLI
(AT. 17,1)
Da qui la strada, dirigendosi a sud, conduceva direttamente ad Anfiboli (It. Ant. 320,4; Tabula Peutingeriana segm. VII,2 mp XXXIII da Tessalonica; It. Hier. 604,4 mil XIII da Domerus), sorta su una collina (154 m s.l.m.) sulla riva destra della grande ansa che il fiume Strymon forma poco prima di sfociare nel Golfo di Orfani. Questo centro è citato in At. 17,1 DiodeÚsantej dš ‘Amf…polin, come semplice punto di passaggio: il tratto meridionale delle mura cittadine presenta un’interessante porta rinforzata con una torre rettangolare all’interno ed una simile all’esterno, separate da un cortile: in età augustea la porta fu restaurata, secondo quanto riportato dalle iscrizioni di due basamenti di statue poste ai suoi lati. Forse questa porta costituiva l’uscita dalla città della via Egnazia, che entrava ad Anfipoli da nord, probabilmente in corrispondenza con il ponte ligneo tramite cui nel 424 a.C. Brasida riuscì a penetrare nella periferia della città e a conquistarla (Thuc. 5.10.6).
Prima di giungere alla città di Tessalonica la Via Egnazia passava per le tappe Pennana (It. Hier. 604,5) e Perpidis (It. Hier. 604,6), forse identificabile con l’Argilo citata da Erodoto (VII, 115), oggi individuata presso Asprovalta; da qui la strada costeggiava il golfo fino alla moderna Kato Stavròs per poi penetrare nell’entroterra e arrivare a Peripidis (nelle strette vicinanze di Rendìna), situata sulle coste orientali del lago Volvi (l’antico Bolbe), e ritenuta il luogo dove fu sepolto Euripide (la parola Peripidis è una forma corrotta per Euripidis).
APOLLONIA
(AT. 17,1)
Sulle coste meridionali del lago sorgeva Apollonia (It. Hier. 605,1; It. Ant. 320,3; Tab. Peut. segm. VII,2), altro punto di passaggio nel viaggio missionario di San Paolo (At. 17,1 DiodeÚsantej dš ‘Amf…polin kaˆ t¾n ‘Apollwn…an); la situazione di questa città è unica tra tutte quelle ricordate, perché non è ancora stata individuata con certezza la sua posizione, sebbene si siano susseguite numerose ricerche nel corso degli anni, dalla fine del secolo XIX ad oggi; in base agli studi più recenti il sito potrebbe essere localizzato nella zona compresa tra i fiumi Megalo Reuma e Cholomontas Reuma (gli antichi Amnites ed Olinthiakos), lungo la strada Apollonia – Marathousa, dove sono stati trovati sia frammenti ceramici risalenti all’età classica ed ellenistica, sia i resti di una cinta muraria.
TESSALONICA
(AT. 17,1-9)
La Via Egnazia, proseguendo il suo percorso, raggiungeva Herakleustibus (It. Hier. 605,2) sorta a metà strada tra i laghi Volvi e Koronia, dove oggi sorge il villaggio di Stivos.
Oltrepassati questi siti arrivava a Melissurgin (It. Ant. 320,2 mpm XX da Tessalonica; per la Tab. Peut. mp XVIII, segm. VII,2) (Aghios Vassilikos), presso le coste sud-occidentali del Lago Koronia; quindi la strada si dirigeva a nord fino a Duodecimum o Duodea (It. Hier. 605,3), che probabilmente si trovava nella zona compresa tra i villaggi di Laina e Kisla.
Con una larga curva la strada girava verso sud entrando nella città di Tessalonica (Tab. Peut. segm. VII,2), l’ultima delle tappe citate negli Atti raggiungibili tramite la via consolare romana.
La via Egnazia collegava la Porta Cassandreotica (Porta Calamaria) ad est con la Porta d’Oro (oggi Porta Vardar) ad ovest, probabilmente lungo il tracciato di una strada urbana di età ellenistica.
Nella città esisteva una fiorente comunità ebraica, cui facevano riferimento tutti i Giudei di questa zona della Macedonia. San Paolo si diresse subito tra loro e per tre sabati predicò nella sinagoga (At. 17,2 kat¦ dš tÕ e„wqÕj tù PaàlJ e„sÁlqen prÕj aÙtoÝj kaˆ ™pˆ s£bbata tr…a dielšcato aÙto‹j ¢pÕ tîn grafîn, 3 diano…gwn kaˆ paratiqšmenoj Óti tÕn cristÕn œdei paqe‹n kaˆ ¢nasqÁnai ™k nekrîn kaˆ Óti oátÒj ™stin Ð cristÕj ‘Ihsoàj Ön ™gë kataggšllw Øm‹n. 4 ka… tinej ™c aÙtîn ™pe…sqhsan kaˆ proseklhrèqhsan tù Paulù tù kaˆ tù Sil´ tîn te sebomšnwn `Ell»nwn plÁqoj polÚ, gunaikîn te tîn prètwn oÙk Ñl…gai).
Il successo riscosso soprattutto tra i greci e tra le nobildonne del posto causò una violenta ribellione tra i Giudei, che decisero di portare di fronte ai capi della città Sila e Paolo; non avendoli trovati a casa di Giasone, che li aveva ospitati, portarono lui ed altri cristiani davanti al popolo (At. 17,5 Zhlèsantej dš oƒ ‘Iouda‹oi kaˆ proslabÒmenoi tîn ¢gora…wn ¥ndraj tin¦j ponhroÝj kaˆ Ñclopoi»santej ™qorÚbon t¾n pÒlin kaˆ ™pist£ntej tÍ o„k…v ‘I£sonoj ™z»toun aÙtoÝj proagage‹n e„j tÕn dÁmon: 6 m¾ eØrÒntej dš aÙtoÝj œsuron ‘I£sona ka… tinaj ¢delfoÝj ™pˆ toÝj polit£rcaj boîntej Óti oƒ t¾n o„koumšnhn ¢nastatw/santej oátoi kaˆ enq£de p£reisin, 7 oÞj Øpodšdektai ‘I£swn: kaˆ oátoi p£ntej ¢pšnanti tîn dogm£twn Ka…saroj pr£ssousin basilša ›teron lšgontej eŒnai ‘Ihsoàn).
Della sinagoga e della casa di Giasone, come di numerosi edifici citati da altre fonti, non sono state rinvenute tracce, mentre alcuni saggi di scavo nell’agorà tardo romana condotti al di sotto del lastricato pavimentale hanno riportato alla luce una statua di Atlante tardo ellenistica e frammenti ceramici di età poco precedente, che documentano l’esistenza della fase ellenistica dell’agorà.
Non mancano testimonianze risalenti ad età repubblicana: ad O dell’agorà si apre uno spazio libero in cui probabilmente in età romana fu edificato un luogo di culto imperiale (BCH LXXXI 1958, pag. 759), come attestato da una statua di Augusto (BCH LXIII 1939, pag. 315) venuta alla luce nel 1939; inoltre in una casa di Via dell’Olimpo è stata scoperta un’iscrizione del 60 a.C. (IG X I, No. 5). In base a quanto riportato da Cicerone, (Cic. Planc., XLI.[99]) che visse per un certo periodo a Tessalonica, c’era un Quaestorium di cui non si sa nulla, come sono sconosciuti il palazzo e la piazza con un tesoro seppellito al centro di cui parla Diodoro Siculo (Diod. Sic. XXXII, 15,2); secondo Vickers si potrebbe ipotizzare che il palazzo fosse quello di Filippo V, il quale trascorse gli ultimi anni della sua vita a Tessalonica.

La notte dello stesso giorno in cui Giasone ed i cristiani che con lui erano stati portati a giudizio vennero liberati, Paolo e Sila furono costretti a riprendere il loro viaggio verso Berea (Tab. Peut. segm. VII,1).

LA STELLA CHE GUIDA MOLTI MAGI – Riflessione di Angelo del Favero

http://www.zenit.org/article-34817?l=italian

LA STELLA CHE GUIDA MOLTI MAGI

Riflessione sulla Solennità dell’Epifania

Angelo del Favero

ROMA, Thursday, 3 January 2013 (Zenit.org).

Is 60,1-6
« Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te.. ».
Ef 3,2-3a.5-6
« Fratelli…: per rivelazione mi e’ stato fatto conoscere il mistero…: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredita’, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo. ».
Mt 2,1-12
« Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: « Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo ». All’udire questo, il re Erode resto’ turbato e con lui tutta Gerusalemme (…).
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: « Andate e informatevi accuratamente  sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo ». Udito il re, essi partirono.
Ed ecco, la stella che avevano visto spuntare, li precedeva, finchè giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria, sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e
gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’ altra strada fecero ritorno al loro paese ».
« Alzati, rivestiti,..viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te… su di te. (…)..su di te. » (Is 60,1s): la Parola di Dio interpella oggi ognuno di noi come se fosse l’unico a dover essere illuminato. Il profeta Isaia sembra fissarci uno per uno: « …su di te… su di te », e Paolo fa intendere che i pagani di un tempo sono diventati i cristiani di oggi, i battezzati, che non si alzano più nemmeno per andare a Messa il giorno di Natale.
Sono dunque anzitutto io che mi devo svegliare dal sonno, mi devo rivestire, mi devo preparare; perché il Signore viene proprio da me, la sua luce è un faro puntato su di me. Egli viene per me! E’ allora insufficiente che io mi accontenti di trovare risposte a queste domande: « Che genere di uomini erano quelli che Matteo qualifica come Magi venuti dall’Oriente? Perché si sono mossi da così lontano? ». E’ meglio piuttosto che mi chieda: perché sono ancora addormentato e non mi decido ad alzarmi? Non vedo forse tutta la luce che mi avvolge? Non mi interessa? Preferisco ancora la luce del teleschermo? ».
Ecco, se ho bisogno di conferme che faccio anch’io parte dei Magi, ne trovo subito una assai autorevole: « Questi uomini sono dei predecessori, dei precursori, dei ricercatori della verità, che riguardano tutti i tempi.(…) Rappresentano l’attesa interiore dello spirito umano, il movimento delle religioni e della ragione umana incontro a Cristo ». (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù).
Allora, il fatto che il mondo intero vada dietro a maghi e astrologi, e che oggi chiunque accenda una stella più luccicante delle altre subito trova mille compagni di illusione che gli vanno dietro, non mi deve distrarre dalla cosa che viene per prima: che io non sia uno di
loro!
Sì, perché quella dei Magi di Matteo non e’ una favola. L’epifania del Signore è la più grande e la più vera storia mai accaduta e raccontata. Ed è anche la storia più « sociale » e più « comune » di tutte, dato che il protagonista è Uno di noi, Uno nato come noi, Uno che e’ morto come noi, Uno che ha a che fare con ognuno di noi.
Perciò qui importa solo questo: che sia io il primo ad alzarmi, senza fermarmi prima a vedere chi è sveglio e chi non lo è. Importa che sia io a rivestirmi, non di vestiti alla moda, ma della luce che promana dal Bambino più famoso e più dimenticato del mondo; vale a dire che mi metta in ginocchio ad adorarlo, così come sto, ancora in pigiama.
E lo posso fare veramente in questo stato, perché il Bambino adorato dai Magi è il Dio che ha creato la mia anima facendola della sua stessa Luce, sicché basta che mi guardi dentro, con umiltà e stupore, e la luce mi investirà come al sorgere dell’aurora. Anzi, molto di più: Cristo infatti sta come un sole sopra la mia anima di battezzato, e, se mi deciderò a spalancargli le porte, la sua Luce mi inonderà.
Ma cosa significa spalancare le porte a Cristo? Risponde uno che le teneva chiuse da molto tempo prima di aver visto spuntare la sua stella: « Sempre e in ogni istante abbiate presente che bisogna amare Dio e il prossimo: Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente; e il prossimo come se stessi. Questo dovete sempre pensare, meditare e ricordare, praticare e attuare.
L’amore di Dio è il primo come comandamento, ma l’amore del prossimo è il primo come attuazione pratica. Siccome pero’ Dio tu non lo vedi ancora, amando il prossimo ti acquisti il merito di vederlo; amando il prossimo purifichi l’occhio per poter vedere Dio. Amando il prossimo e prendendoti cura di lui, tu cammini. E dove ti conduce il cammino se
non al Signore? Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo l’abbiamo sempre con noi. Aiuta dunque il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a Colui con il quale desideri rimanere » (S. Agostino, dai Trattati su Giovanni, 17,7-9).

Più Bibbia, meno settarismi

http://www.sanpaolo.org/jesus/0705je/0705je86.htm

Più Bibbia, meno settarismi

di Ernesto Borghi  

Nel mondo cattolico italiano, la riscoperta delle Sacre Scritture ha fatto grandi passi avanti negli ultimi quarant’anni. Eppure molto si può ancora fare in questo senso. A partire da un sostegno meno reticente ai laici competenti fino a un insegnamento culturalmente ineccepibile nelle scuole.
È la Bibbia la fonte primaria di riferimento per la vita di ebrei e cristiani e una delle radici essenziali della cultura dell’Occidente? Questo interrogativo appare più che legittimo, quando si considera lo sviluppo storico dell’Occidente almeno negli ultimi duemilacinquecento anni e la prassi esistenziale comune, perlomeno dal secondo dopoguerra a oggi.
La costituzione dogmatica conciliare Dei Verbum, in particolare al n. 25, incoraggia decisamente alla lettura delle Sacre Scritture. Gli ultimi duecentocinquant’anni e, in particolare, soprattutto per i cattolici, gli ultimi quaranta sono stati fondamentali per un rapporto tra i credenti e le Scritture sempre più scientificamente sostenibile ed esistenzialmente maturante. Nelle tre dimensioni costituzionali della vita ecclesiale – la catechesi, la liturgia, la solidarietà sociale fattiva – la Bibbia ha conosciuto e conosce una presenza sempre più significativa.
Il processo « provvidenziale » che ha avuto, tra i suoi decisivi sostenitori, numerosi esponenti storici della Riforma protestante nella prospettiva, variamente fondata, di una centralità scientifica ed esistenziale delle Scritture nella vita della Chiesa, ha trovato le sue affermazioni più autorevoli, tra i cattolici, a partire dalla fine del XIX secolo.
Soprattutto tra cattolici e protestanti riformati si possono oggi vivere itinerari comuni di lettura e approfondimento delle Scritture a livello scientifico-accademico o divulgativo-esistenziale. Ciò avviene anche perché sono sempre più diffuse due persuasioni: le metodologie del filone storico-critico sono la base per qualsiasi approccio non fondamentalistico alla Bibbia (esegesi ed ermeneutica sono momenti distinti ma indissolubili di qualsiasi confronto con i testi biblici); l’ascolto della Parola biblica e il confronto tra essa e la propria vita sono del tutto basilari per qualsiasi discorso formativo anzitutto ebraico e cristiano.
Indubbiamente tanti progressi si sono realizzati rispetto a un passato, anche piuttosto recente, in cui tristi timori e gravi sospetti accompagnavano tutti coloro i quali – fossero anche seminaristi, suore o frati – cercavano di possedere una copia della Bibbia per leggerne personalmente le pagine e approfondire anche individualmente quanto vi era contenuto. Nel contempo aumentano sensibilmente le richieste e le iniziative culturali e pastorali che le reputano fondanti per qualsiasi discorso di autentica formazione spirituale e sociale degli individui e che contribuiscono realmente a farle conoscere e apprezzare.
Un quadro, ricco di « luci », che delinea un dinamismo certamente positivo, nel quale però le ombre e le difficoltà non mancano. Spesso la Bibbia non costituisce il punto di riferimento centrale nella pianificazione pastorale e nelle proposte formative a tutti i livelli del popolo di Dio, perlomeno in Europa. Questo fatto dipende certamente da molte ragioni, tra le quali la carente e datata formazione biblica di una parte del clero (sacerdoti e vescovi), in particolare in Italia: si è spesso in grado di cogliere la bellezza e l’efficacia di una conferenza o di una lectio, ma poco inclini a impostare l’intera azione del loro ministero pastorale a partire dalla Parola di Dio e sulla base di essa.
A questo si aggiunge un altro dato che mi pare assai importante. Vi sono ambienti ecclesiali in cui si considerano, con maggiore rispetto e apprezzamento, gli scritti di questo o quel fondatore di gruppi o movimenti piuttosto che i testi biblici e la libertà spirituale che consegue da una loro matura e seria lettura. Sarebbe molto interessante, per esempio, verificarlo esaminando i progetti formativi e la prassi di vita di gruppi, movimenti e congregazioni che si sono affacciati all’attenzione ecclesiale dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, ossia da quando nella Chiesa cattolica la considerazione della Bibbia ha assunto connotati di serietà scientifica ineguagliabili rispetto al passato.
D’altra parte le energie economiche e umane che sono dedicate in Italia allo studio e alla divulgazione e alla conoscenza seria della Bibbia sono certamente inadeguate. Ed è piuttosto grave il fatto stesso che, ancora oggi, pochissimi di coloro che si dedicano professionalmente a questo campo siano laiche e laici che vivano confortevolmente, insieme alle loro famiglie, di questo lavoro. Favorire in larga scala la presenza di non presbiteri realmente preparati tra gli studiosi della Bibbia (ma anche di altre discipline storico-religiose e teologiche) consentirebbe un’osmosi sempre più ricca tra la ricerca scientifica in campo biblico e teologico e la vita quotidiana della società umana nel suo complesso.
Indubbiamente – per rifarci alla situazione ecclesiale in Svizzera, Germania e Austria negli ultimi vent’anni – taluni « assistenti pastorali » hanno gravemente disatteso il ruolo formativo e testimoniale che avrebbero dovuto svolgere nella vita delle comunità locali. Ciononostante se la Chiesa cattolica vuole vivere realmente lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, non può che mettere in atto – anche nelle aree di lingua madre neolatina attraverso l’apporto di figure professionali analoghe a quelle appena menzionate – progetti e strategie utili a moltiplicare le occasioni in cui il « popolo di Dio » confronta menti e cuori con la Parola del Signore molto più organicamente di quanto avviene oggi.
Le energie intellettuali per pensare e attuare tutto ciò esistono. E si possono trovare, senza troppi sforzi di fantasia, anche le risorse finanziarie per sostenere adeguatamente le persone in grado di lavorare bene nelle prospettive appena indicate sia nelle facoltà universitarie ecclesiastiche sia nell’azione pastorale tout-court. Basta non averne paura e guardare a esse con fiducia e simpatia, attraverso l’apertura interiore propria di un altro testo conciliare quale la costituzione pastorale Gaudium et spes (cfr. in particolare il n. 44).
Occorre dare spazio crescente e seriamente configurato sotto ogni punto di vista, nelle istituzioni accademiche e pastorali ecclesiali, a donne e uomini ricchi di creatività e competenza scientifica. Sarebbero ben lieti di operare nella Chiesa italiana mettendo le proprie competenze professionali scientifiche e didattiche a disposizione della formazione biblica e teologica garantita da istituzioni accademiche e pastorali in un quadro economico e normativo serio.
Appare molto grave anche il fatto che, nei sistemi scolastici pubblici europei, lo studio dei classici della letteratura assai spesso non contempli l’attenzione alle Scritture bibliche secondo pari dignità rispetto ad altri « monumenti » della letteratura antica, medioevale, moderna e contemporanea. Spesso ci si limita a sostenere, più o meno esplicitamente, che gli insegnamenti scolastici di cultura religiosa, quando esistono, già se ne occupano.
Chi lo afferma, mostra di non rendersi conto che la Bibbia, in virtù anzitutto della sua incidenza storica nel tessuto culturale plurimillenario dell’Occidente, non può né deve essere terreno d’analisi esclusivo delle discipline strettamente religionistiche, in particolare nell’ambito formativo pubblico. Proporre la dimensione religiosa della cultura è certamente essenziale e la disciplina scolastica relativa deve diventare obbligatoria, a mio avviso, proprio a vantaggio della crescita interiore e sociale di tutti. Il confronto con la Bibbia, però, deve essere condotto nel quadro delle discipline letterarie, proprio là dove ci si occupa dei poemi antichi greci e latini e di altre successive testimonianze culturali di analoga rilevanza contenutistica e formale.
Non considerare le Sacre Scritture ebraiche e cristiane significa non capire gran parte dell’identità culturale, in primo luogo, dell’intero Occidente, che, sotto i profili letterario, filosofico e artistico deve moltissimo alla Bibbia.
Non impegnarsi a far entrare lo studio della Bibbia quale componente imprescindibile, per esempio, dei programmi scolastici vuol dire non aver colto l’importanza di questo discorso e contribuire a diminuire l’autocoscienza culturale delle generazioni euro-mediterranee ed euro-atlantiche presenti e future.
La battaglia meritoria che sta conducendo in proposito, in Italia, l’associazione Biblia è degna di ogni sostegno. Per raggiungere tale obiettivo occorrerebbe, però, al di là delle possibili diversificazioni tra letture « laiche » e « credenti » della Bibbia, un impegno comune di singoli e istituzioni, una vera e propria « alleanza », più globale di quanto realizzato sinora, tra tutti coloro che hanno a cuore, anche attraverso la proposta scolastica della lettura biblica, la formazione culturale seria e intensa di bambini e ragazzi del nostro Paese.
Analogo discorso vale per l’ambito universitario non ecclesiastico. Il fatto che le cattedre relative allo studio dell’Antico e del Nuovo Testamento siano numericamente assai esigue in tante istituzioni accademiche è un altro segno indiscutibile di disinteresse culturalmente davvero inqualificabile, in particolare nella società multiculturale odierna.
Enorme è il contributo etico ed estetico che le Scritture ebraiche e cristiane hanno dato nei secoli passati e possono dare all’esistenza contemporanea e a una salvaguardia dell’umanesimo più dinamico e intelligente. Ovviamente se questi terreni non sono adeguatamente investigati sotto il profilo scientifico e seriamente presentati a livello divulgativo, tale apporto risulta difficilmente fruibile, soprattutto in un’epoca come la nostra, ricchissima di opportunità e stimoli culturali, ma anche di settarismi e integralismi di ogni genere e di una superficialità etica ed estetica preoccupante.
Il rapporto dell’individuo con se stesso, quello tra l’uomo e la donna, la relazione degli esseri umani con la natura, il valore del lavoro e dei beni materiali nella vita umana: questi sono quattro ambiti fondamentali dell’esistenza dell’umanità e del mondo nei quali e sui quali i testi biblici hanno molto da proporre nell’interesse della ricerca della felicità di tutti con tutti per tutti.
Chi oggi può legittimamente sostenere il contrario, sapendo realmente quello che dice?
Le donne e gli uomini che popolano il nostro pianeta, segnatamente coloro che sono di identità culturale euro-mediterranea, hanno di fronte a sé una formidabile opportunità: leggere la Bibbia in modo serio e libero. Ciò può avvenire oggi, passo dopo passo, al di fuori di moralismi e devozionismi di corto respiro, senza chiedere sconti alla pazienza di percorrere capitoli, frasi e parole, nel tentativo di capire quello che il testo dice « nel suo contesto originario » e, successivamente, « alla vita odierna » di lettrici e lettori. Per fare tutto questo la paura, l’accademismo fine a se stesso e l’improvvisazione sono del tutto controproducenti.
La Bibbia, complessivamente intesa, propone un’idea di essere umano in cui intelletto e cuore, razionalità ed emotività sono ambiti tra loro integrati e unificati al servizio della solidarietà interumana concreta e quotidiana verso i propri simili. Per comprendere la perennità o meno di questo ideale di vita occorre un confronto continuo tra i testi biblici e le istanze della cultura del nostro tempo, in una logica di dialogo tra ispirazioni diverse che abbiano i diritti e i doveri personali e sociali delle persone al centro della loro attenzione.
Come si vede, si tratta sempre di un discorso formativo al servizio dell’essere umano nella sua integralità e delle sue possibilità di essere felice e sensato anzitutto nella dimensione terrena della sua vita, senza ripiegamenti egocentrici.
La lettura tenace, appassionata e rigorosa della Bibbia è una strada importante in questa direzione. Essa è da percorrere in chiave ecumenica, secondo una prospettiva che valorizzi armonicamente le diversità secondo un effettivo senso di responsabilità, per la Chiesa, a cominciare dalla confessione cristiano-cattolica, e per la società civile italiana di oggi e di domani.

Ernesto Borghi

Publié dans:BIBLICA (sugli studi di) |on 7 novembre, 2012 |Pas de commentaires »

L’amicizia nella Bibbia

http://www.mabible.net/reflexions-sur-la-foi/amitie-dans-la-bible

L’amicizia nella Bibbia

Fra i temi più belli che scorrono nelle pagine della Bibbia sicuramente c’è quello dell’amicizia.
Ogni libro sapienziale non manca mai di rivolgersi a questo grande tema. Perchè si può anche nostro malgrado vivere una vita senza necessariamente trovare la nostra anima gemella, incontro che non dipende certamente da noi, ma a tutti è concesso vivere arrichendo i nostro giorni con l’insostituibile balsamo di un sorriso di un amico.
Vivere l’amore vero, quello tra un uomo e una donnna, per quando se ne dica, non dipende mai completamente da noi. L’eventualità che si venga ricambiati da un sentimento d’amore si verifica spesso di rado, e questo mancato incontro è causa di immensa sofferenza. Ma nessuno potrà mai dirsi non ricambiato da un sentimento di amicizia se questo è vissuto in maniera sincera. Nessuno al mondo potrà mai dirsi non amico, e nessuno potrà dire chi eleggerà suo amico.
Ho deciso di citare alcuni passi molto belli:

« Non lasciare il vecchio amico,
perchè quello nuovo non è uguale a lui.
L’amico nuovo è come il vino nuovo:
lo bevi con piacere quando è invecchiato ».
Siracide (9;10,11)

« L’olio e il profumo raggrelano il cuore
e la dolcezza di un amico
consola l’anima »
Proverbi (27;9,10)

« Leali sono le ferite di un amico,
ingannevoli i baci di un nemico »
Proverbi (27;6,7)

« L’amico fedele è solido rifugio:
chi lo trova, trova un tesoro.
L’amico fedele non ha prezzo,
non c’è misura per il suo valore.
L’amico fedele è medicina che dà vita,
lo troveranno quanti temono il Signore.
Chi teme il Signore è cauto
nelle sue amicizie:
come è lui, tali saranno i suoi amici »
Siracide (6; 14,18)

« Prima di farti un amico mettilo
alla prova,
non confidarti subito con lui.
C’è chi è amico quando gli conviene,
ma non resiste nel giorno
della tua disgrazia.
C’è l’amico compagno dei banchetti,
che si dilegua nel giorno della tua disgrazia »
Siracide (6; 7,10)

Publié dans:BIBLICA (sugli studi di) |on 1 août, 2012 |Pas de commentaires »

L’Antico Testamento che ci manca

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=355

(lo posto per oggi, allora non ci avevo pensato purtroppo)

L’Antico Testamento che ci manca

di Giorgio Bernardelli | 14 marzo 2011

Di fronte alle immagini del Giappone devastato ripetiamo la parola Apocalisse. Ma non abbiamo più lo sguardo dei Salmi sulle catastrofi naturali

«… e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Quando rileggo la prima pagina delle Genesi di solito è la parte su cui scivolo via più facilmente. L’ho sempre considerata un retaggio di un vecchio tipo di descrizione scientifica del mondo. Ma ora che guardo alla televisione le immagini che da due giorni ormai ci arrivano dal Giappone sono proprio queste parole le prime che mi vengono alla mente. Insieme alle altre del libro di Qoelet: «Vanità delle vanità: tutto è vanità». O alla constatazione estremamente cruda del salmo 61: «Sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti gli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio».

Da che mondo è mondo le catastrofi naturali hanno sempre fatto affiorare nel cuore dell’uomo le grandi domande. E quindi non mi sento particolarmente originale scrivendo queste cose, né ho la pretesa di addentrarmi in un dibattito teologico sul senso dell’ora terribile che il Giappone sta vivendo. Mi colpisce, però, un aspetto: questo terremoto di inizio Quaresima sembrerebbe fatto apposta per scuotere tante nostre certezze. Perché il Giappone è il Paese antisismico per eccellenza; per cui stavolta non c’è neanche uno straccio di polemica a cui aggrapparci sugli allarmi che non hanno funzionato (come nello tsunami in Sri Lanka) o sulla «casa dello studente» costruita male (come nel nostro terremoto all’Aquila). Certo, adesso stiamo un po’ provando a deviare il discorso sulla questione delle centrali nucleari. Ma ugualmente non si scappa: stavolta è proprio con il tema della nostra umana finitezza che questa catastrofe naturale ci chiede di fare i conti. Ed è un tema che ci mette profondamente a disagio.
Tutti noi in queste ore ricorriamo fondamentalmente a due surrogati. Da una parte l’overdose informativa, scandita dalle immagini ad effetto (ho appena sentito il Tg1 dire che a chi vuole le manderanno anche sulla posta elettronica). E dall’altra la solidarietà, ovviamente preziosa per dare una mano a chi ha perso tutto. Ma queste due risposte bastano davvero? E – da sole – non rischiano di diventare un modo per riportare tutto molto in fretta alla normalità di uno schema che siamo in grado di controllare?
Sono domande aperte. A cui io so dare solo uno sprazzo di mia risposta personale. E torno, dunque, all’immagine da cui sono partito: se penso a come leggere un fatto del genere alla luce della Parola di Dio i brani che mi vengono in mente sono tutti tratti dall’Antico Testamento. Perché in questi casi ci riempiamo tutti la bocca con la parola Apocalisse (senza peraltro ricordarci che vuole dire « rivelazione » – e quindi verrebbe comunque da chiedere: di che cosa?). Ma nella Scrittura sono altri i libri in cui si parla del rapporto del cristiano con le catastrofi naturali. Ad esempio i Salmi sono pieni di immagini forti in questo senso: carestie, terremoti, uragani… Perché? Possibile che capitassero sempre tutte a loro? E allora mi viene da pensare che ciò che abbiamo perso è la capacità di far diventare sapienza condivisa questa consapevolezza del nostro limite. La cura di non fare scorrere via questi shock emotivi, ma farli diventare una preghiera di tutti. Perché – invece – oggi abbiamo confinato questo tipo di esperienze al formulario della Messa «in tempo di terremoto», che andiamo a rispolverare giusto in queste occasioni?
È una domanda che ho l’impressione porti lontano e sento le mie gambe non sufficientemente forti per affrontare una strada del genere. Di una cosa, però, sono certo: noi cristiani dovremmo guardare con un po’ meno sufficienza l’Antico Testamento. E ricominciare a prenderlo in mano sul serio. Un bel proposito da inizio Quaresima…

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