Archive pour la catégorie 'BIBLICA (studi di biblica temi vari)'

COMMENTI ALLA SCRITTURA – Atti 14,21b-27

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%2014,21-27

COMMENTI ALLA SCRITTURA

BRANO BIBLICO SCELTO – Atti 14,21b-27

In quel tempo, Paolo e Barnaba 21 ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, 22 rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio.
23 Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
24 Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia 25 e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad Attalia; 26 di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto.
27 Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede.

COMMENTO
Atti 14,21-27
Fine del primo viaggio missionario di Paolo 
In questo testo liturgico è riportata la parte finale del primo viaggio missionario di Paolo (At 13-14), che rappresenta la conclusione di tutta la seconda parte degli Atti (8,5-14,28). Dopo la sosta ad Antiochia di Pisidia, dove Paolo ha fatto il suo primo grande discorso missionario in ambiente giudaico, i predicatori si erano recati a Iconio, che però hanno dovuto lasciare in fretta e furia a causa di nuove persecuzioni da parte dei giudei. Vanno allora a Listra dove, in seguito alla guarigione miracolosa di uno storpio, evitano a stento di essere adorati come dèi: è questa l’occasione di un breve discorso missionario ai gentili che prelude a quello dell’Areopago di Atene. Nuove ostilità insorgono anche qui da parte dei giudei e Paolo, dopo aver rischiato la morte per lapidazione, si reca a Derbe.
L’attività di Paolo e Barnaba a Derbe, ultima tappa del loro viaggio, viene così descritta: «Dopo aver evangelizzato quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia» (v. 21). Con i due verbi «evangelizzare» (euangelizomai) e «fare discepoli» (mathêteuô) Luca mette in luce una feconda attività fatta soprattutto di contatti personali, che ha come risultato l’aggregazione di un buon numero di persone. Quando la comunità dà garanzie di poter continuare da sola il suo cammino, Paolo e Barnaba ritornano a Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Essi dunque ripercorrono a ritroso il cammino fatto e incontrano le comunità precedentemente fondate. Ciò offre loro l’occasione di incoraggiare i discepoli e di esortarli a restare saldi nella fede, rendendoli consapevoli che potranno entrare nel regno di Dio solo a prezzo di molte tribolazioni (v. 22).
Luca aggiunge che in ogni comunità costituirono (cheirotoneô, imporre le mani) degli anziani (presbyterous) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore in cui avevano creduto (v. 23). Solo a proposito della chiesa di Efeso Luca attesta la presenza di presbiteri che Paolo convocherà a Mileto mentre, al termine del suo secondo viaggio missionario, si recherà da Corinto a Gerusalemme (cfr. At 20,17). Si accenna invece più volte ai presbiteri della chiesa di Gerusalemme, i quali appariranno come membri, insieme agli apostoli, del consiglio che dovrà decidere a quali condizioni accettare i gentili nella chiesa (cfr. 15,2). È possibile che la struttura presbiterale sia stata introdotta nella comunità di Gerusalemme per influsso del sinedrio, che era composto di sacerdoti, scribi e anziani. Non è dimostrato però che tale struttura fosse accolta nelle comunità paoline, perché di essa non si parla mai nelle lettere sicuramente autentiche, mentre viene raccomandata verso la fine del sec. I nelle Pastorali (cfr. 1Tm 5,17; Tt 1,5). L’ipotesi più probabile è che sia stato Luca ad attribuire a Paolo l’introduzione di una struttura che in realtà si è affermata solo qualche decennio dopo la sua morte.
I missionari attraversano poi la Pisidia e raggiungono la Panfilia dove evangelizzano Perge, la città dove Marco si era separato da loro. Scendono poi ad Attalìa e di lì raggiungono via mare Antiochia di Siria, dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto (vv. 24-26). Ad Antiochia riuniscono la comunità e «riferiscono» (anangellô) tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai gentili la porta della fede (v. 27). 
LINEE INTERPRETATIVE
Il primo viaggio di Paolo a Cipro e nelle regioni a sud dell’Anatolia presenta diverse difficoltà dal punto di vista storico. Secondo alcuni studiosi Paolo in realtà avrebbe affrontato già in questo periodo, prima della seconda visita a Gerusalemme, l’evangelizzazione della Galazia e poi della Grecia. Il racconto degli Atti sarebbe quindi una composizione di Luca, il quale si sarebbe servito di questo viaggio sia per descrivere l’emergere di Paolo come apostolo chiamato dal Risorto per portare il vangelo fino ai confini della terra, sia per delineare alcuni aspetti del suo metodo missionario.
Paolo, ancora con il suo nome ebraico di Saulo, assume per la prima volta un incarico comunitario ad Antiochia, sotto la diretta responsabilità di Barnaba, un inviato degli apostoli di Gerusalemme; questi è il primo del gruppo di profeti e dottori che guidano la comunità locale, mentre Saulo occupa l’ultimo posto del gruppo. Barnaba e Saulo vengono designati per un compito di evangelizzazione e lasciano la città diretti a Cipro. A Salamina Saulo, nel confronto con il mago Elimas, prende per primo la parola e in quello stesso momento comincia ad essere chiamato con il nome romano Paolo (13,9); subito dopo è presentato come il capo della spedizione (13,13) ed è lui a prendere la parola nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,16); da questo momento viene sempre nominato prima di Barnaba. È quindi nel contesto di questo viaggio che egli si assume il ruolo di guida del movimento di evangelizzazione dei gentili che si estenderà a macchia d’olio in tutta l’Anatolia e nella Grecia. Luca non poteva scegliere occasione più propizia per far assumere al suo personaggio quella fisionomia che lo caratterizzerà per tutto il resto della sua vita.
Ma Luca coglie l’occasione di questo viaggio anche per dare qualche ragguaglio interessante anche circa la strategia missionaria di Paolo. Il suo lavoro ha luogo nelle città, dove poteva servirsi della lingua greca. Egli sceglie come predellino di lancio la locale sinagoga giudaica, annunziando Cristo in un modo fortemente inculturato nel giudaismo. Nella sinagoga egli stabilisce un rapporto privilegiato con i gentili timorati di Dio (e proseliti), provocando così l’opposizione dei giudei, che lo spinge poi a rivolgersi sempre più decisamente alla popolazione non giudaica. La sua predicazione kerygmatica tende alla raccolta di un piccolo gruppo di credenti. La sua permanenza in una località è brevissima: ciò è dovuto spesso allo scatenarsi di opposizioni violente, ma forse anche a una scelta strategica. Per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo delle comunità appena fondate egli si preoccupa di formare una leadership comunitaria efficiente, anche se forse non nella forma istituzionale (i presbiteri) che prenderà piede alla fine del secolo. Infine si incarica di seguire le comunità con visite successive. Così poteva dar vita a molteplici comunità, alle quali poi lasciava il compito di una ulteriore inculturazione e dell’evangelizzazione di tutta la regione.

LA GIUSTIZIA NELLA VISIONE BIBLICA

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=173

LA GIUSTIZIA NELLA VISIONE BIBLICA

SINTESI DELLA RELAZIONE DI ARMIDO RIZZI
VERBANIA PALLANZA, 19 FEBBRAIO 2005

In piena consonanza con quanto detto da Mauro Magatti ricordo che parlare di giustizia nella bibbia non vuol dire parlare solo di giustizia distributiva, di giustizia sociale o economica. C’è anche un’altra accezione di giustizia che emerge quando noi esclamiamo « non è giusto » o « giusto sarebbe se… », per esempio di fronte all’irrogazione di pene troppo poco severe per crimini particolarmente orrendi. Nella nostra esperienza è presente una dimensione di giustizia con cui sentiamo la necessità di fare i conti, nonostante tutti i tentativi di ridurla a livello etologico o psichico.
Nella bibbia la giustizia è l’orizzonte di senso di tutta la realtà, centrata sull’essere umano, chiamato ad operare secondo giustizia. L’uomo è al centro non in quanto padrone del mondo, ma in quanto responsabile, in quanto chiamato ad essere giusto.
l’ordine della bibbia è l’ordine etico, non cosmico: chiamati ad essere gisti
Il senso della realtà nella bibbia è presentato anzitutto nell’alleanza tra Dio e l’umanità, rappresentata da un gruppo di ex schiavi che diventano Israele in quanto popolo di Dio. Attraverso l’alleanza con questo gruppo si manifesta sempre più chiaramente la volontà di Dio di un’alleanza universale con l’umanità intera, con tutti i figli di Adamo.
Quindi l’orizzonte biblico è un orizzonte etico, è un orizzonte di vocazione ad essere giusti: essere giusti individualmente, essere giusti davanti a Dio, essere giusti nella trama dei rapporti sociali, ed essere giusti nella gestione del cosmo.
Nella nostra tradizione è prevalsa un’altra visione, il porre come punto di partenza il cosmo,dentro il quale c’è l’essere particolare che è l’uomo. L’etica della tradizione classica (Aristotele) ritiene che tutte le cose vadano al loro fine per una disposizione che è la loro natura. Le cose, raggiungendo il loro fine, si collocano in quella posizione che le mette in armonia con tutte le altre. L’insieme costituisce l’ordine cosmico. Questa visione dell’ordine cosmico sarà ripresa dalla tradizione cristiana, con la sottolineatura – si pensi a Tommaso – della presenza in quest’ordine di un particolare essere, l’uomo, dotato di libertà, di capacità di scegliere tra il bene e il male.
L’uomo, a differenza degli altri esseri, può deviare, non sottostà solo alle leggi fisiche, nell’ordine della necessità, ma alla legge morale che guida e si appella alla libertà. La libertà umana, in questa concezione, pur essendo il vertice della dignità dell’uomo, è una specie di defezione dalla perfezione del cosmo, in quanto può fallire e fallire integralmente.
Nella bibbia invece il fine non è l’integrazione nell’ordine cosmico. Prima dell’ordine cosmico c’è l’ordine etico, l’ordine dove ognuno è chiamato a vivere secondo giustizia. Prima della creazione c’è l’alleanza, c’è l’alleanza con un gruppo in quanto rappresentante dell’umanità intera. L’elezione di Israele non è esclusiva, ma rappresentativa.
I libri che narrano questa esperienza di senso sono quelli della formazione di Israele, dell’uscita dall’Egitto, del passaggio nel deserto, del dono della legge, dell’entrata nella terra promessa. L’alleanza ha il suo centro nei comandamenti, nelle indicazioni per vivere secondo giustizia. Solo successivamente il Dio dell’alleanza e della liberazione, il Dio etico diventerà il Dio creatore, il Dio cosmico. La bibbia invece presenta i momenti in modo diverso: prima il Dio cosmico e poi quello etico. Ma la creazione non è la prima pagina scritta. Questo Dio, che ci chiede di essere giusti e che si impegna a sua volta ed essere giusto nei nostri confronti, lega la nostra giustizia a una promessa di felicità. Ma per poter mantenere questa promessa deve avere a disposizione tutto il mondo. La conseguenza è che quel Dio deve essere anche colui che ha creato il mondo. Dio ha creato in ordine all’alleanza.
L’idea originaria di Dio non è creare un mondo, ma è creare dei partner: siete a mia immagine e somiglianza, con voi posso parlare. Che questa idea sia la prima idea di Dio nella bibbia è così forte che abbiamo dei testi in cui lo stesso Dio creatore viene presentato come un Dio che dà un comandamento. Vedi Baruc 3, 32-35, o nel Nuovo Testamento Luca 7, 1-10.
Questa è la visione originaria della bibbia. Evidentemente possiamo dire che è una metafora, ma è interessante appunto la scelta di questa metafora, di questo linguaggio figurato desunto dall’ordine etico, dall’ordine della giustizia.
l’ordine etico esprime l’autenticità dell’essere umano
L’ordine etico è ciò che misura la statura del soggetto umano davanti a Dio, rappresenta la verità, l’autenticità del soggetto umano. La vocazione alla giustizia ha precise indicazioni nei comandamenti, nei comandi, che tutti si riassumono nel comandamento dell’amore (Giovanni). I diversi contenuti sono espressi al minimo nel decalogo, ma indicano la strada su cui camminare: non basta non uccidere, bisogna non lasciar morire…
giustizia: amore in quanto dovuto e in quanto gratuito
Giustizia non è solo dare ad ognuno il suo nel senso di restituirgli il maltolto, ma rispondere al bisogno di vita di chi incontro: è amore in quanto dovuto (buon samaritano). Il comandamento ha al suo centro l’amore all’altro, è l’amore doveroso. C’è circolazione tra giustizia e amore.
Ma questo amore dovuto, orizzonte di senso dei rapporti, è dovuto in quanto gratuito, in quanto lasciato alla mia responsabilità. Sono chiamato ad essere giusto (dovere), ma la chiamata è rivolta alla mia responsabilità (gratuità).
Oggi c’è la tendenza in nome di condizionamenti sempre più pesanti a negare la responsabilità, a ritenerci di essere ciò che gli altri hanno fatto di noi. Ma in noi c’è la capacità di assumere i condizionamenti e di scegliere in un modo o nell’altro. Alcuni, i credenti, percepiscono questo come la Parola di Dio che ci interpella, altri come la coscienza etica.
immagine di Dio: chinarsi sul bisogno dell’altro
Rispetto alla concezione dell’essere umano come essere sociale (individuo parte dell’organismo del tutto), o alla concezione dell’essere umano come individuo che emerge al di sopra dell’organismo sociale, un individuo come soggetto di diritti, la bibbia presenta un modello diverso di ordine sociale dove ogni individuo è chiamato in prima persona. L’individuo trascende la sua appartenenza all’insieme, ma questa trascendenza non ne fa prima di tutto un soggetto di diritti (cercare anzitutto la propria realizzazione, senza invadere il campo altrui). Nella bibbia ciò che fa l’individuo un essere unico e irripetibile è proprio la sua capacità di chinarsi sull’altro in quanto altro (non come occasione della mia realizzazione). Nel gesto del mio chinarmi liberamente sul bisogno dell’altro nasce una trama di rapporti.
soggetto di diritti è il povero
Il soggetto dei diritti è l’altro, in quanto composto di bisogni che attendono di essere colmati. Nel linguaggio biblico è l’altro come povero, come straniero, come vedova, come schiavo, cioè l’altro come indigenza o a rischio di indigenza, come carente di quel tanto di avere senza il quale non si può neanche essere.
Anch’io pertanto sono soggetto di diritti, ma in quanto povero, non in quanto dotato. Il principio dei nostri diritti non risiede nelle nostre capacità, ma nei nostri bisogni. I nostri diritti sono i nostri bisogni a partire dai bisogni ultimi, che sono i bisogni degli ultimi.
Illuminante è il testo poco noto del Siracide (34, 18-22), che favorì la conversione del grande difensore degli indios Bartolomé de las Casas:
« Sacrificare il frutto dell’ingiustizia è un’offerta da burla, / i doni dei malvagi non sono graditi a Dio. / L’Altissimo non gradisce le offerte degli empi / e per la moltitudine delle vittime non perdona i peccati. / Sacrifica un figlio davanti al proprio padre / chi offre un sacrificio con i beni dei poveri. / il pane dei bisognosi è la vita dei poveri, / toglierlo a loro è commettere un assassinio. / Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento. / Versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio. »
Nella bibbia c’è una duplice concezione dell’uomo: da una parte c’è l’essere umano in quanto carne, bisognoso, in quanto portatore dei bisogni, dall’altra parte invece c’è l’essere umano in quanto responsabile, cioè « fatto a immagine e somiglianza di Dio », e quindi capace di agire come Dio, anzi chiamato a dare concretezza al disegno di Dio sul mondo. È il soggetto etico, cioè il soggetto di doveri.
È l’altro come povero per il quale posso fare qualcosa, ma sono anch’io come povero di fronte all’altro, che può fare qualcosa per me. E poi tutti possiamo sempre fare qualcosa per gli altri. Anche il povero moribondo può morire con serenità e con questo magari sottrarre il figlio alla depressione e alla disperazione, dargli una specie di luce: se si può morire così, vuol dire che val la pena vivere! Tutti possiamo dare qualcosa agli altri, se pensiamo di dare qualcosa agli altri in tutta la versatilità straordinaria dei nostri rapporti.
il rapporto con le cose
In questa visione dell’essere umano e della giustizia sta il rapporto con le cose, con il cosmo. Dio ha creato il mondo sette volte buono. E noi siamo chiamati non solo a non rovinarlo, ma anche a migliorarlo, a migliorare il rapporto tra la carne, cioè la fragilità umana, e ciò di cui essa ha bisogno, cioè quel bisogno di mondo che essa ha.
Non basta contemplare il mondo sette volte buono occorre trasformarlo per soddisfare i bisogni degli esseri umani.
Trasformazione non vuol dire dominio. Essere a immagine e somiglianza di Dio non vuol dire prendere il suo posto (è il peccato delle origini) ma mettersi a sua disposizione per realizzare il suo disegno nella storia.
Il rapporto con l’altro, almeno nel soddisfacimento dei bisogni elementari, implica il dono di un pezzo di mondo. Dare da mangiare all’affamato, dar da bere all’assetato, dare una casa, un letto a chi non ne ha, implicano un lavoro sul mondo per trasformarlo in pane, in acqua potabile, in ambiente protettivo, ecc.
La formula migliore per esprimere l’essere a immagine e somiglianza con Dio è « il buon governo », è avere un buon governo del mondo, dove « governo » vuol dire certamente gestire il mondo, e « buono » gestirlo secondo giustizia.
La creazione buona è dono di Dio, ma è un dono che porta dentro di sé sia l’intenzionalità di dono, sia il principio di custodia di questa immensa bontà, le regole d’uso.
Siamo chiamati a custodire e a promuovere il mondo buono anzitutto riconoscendo la sua dimensione di dono e, secondariamente, prolungando quella logica di dono con cui noi lo riceviamo da Dio nel donarlo agli altri.
La logica del dono può semplicemente esprimersi nel cogliere il dono già fatto (un frutto dell’albero), oppure nel lavorarlo per quel tanto che basta per renderlo accessibile ai bisogni, o anche nel realizzare le cose più strepitose come i trapianti d’organo. (La trasformazione del mondo può avvenire secondo la logica del dono o secondo quella dello sfruttamento).
Nella bibbia, ciò che dà senso definitivo al mondo, perché non solo ne tiene viva la bontà originaria, ma la conduce a destinazione portando il mondo alla sua pienezza di senso, è a livello di strumento, l’intervento sul mondo, ma a livello di fine è la intenzionalità di fondo. Quando l’intervento sul mondo giunge a dare la vita a chi sta rischiando la vita, ad aumentare la pienezza di vita, il mondo ha il suo senso definitivo. È la cosmologia etica della bibbia.
la bontà del mondo attende la giustizia del cuore
Nella parabola lucana del ricco stolto che ha pieni i granai e per questo si ritiene tranquillo, si dice: stolto, questa notte morirai… Il significato è questo: il granaio pieno, non in vista della distribuzione, è un non senso, blocca la circolazione… il mondo in quanto creazione vuole essere mondo per tutti.
La bibbia ha una ecologia umanistica, fatta di questi due elementi: da un lato tutto è fatto per l’uomo, ma dall’altro tutto è fatto in modo che l’uomo ne usi responsabilmente per colmare i bisogni di tutti Quindi l’uomo ricompare sotto due aspetti, sotto l’aspetto del destinatario, in quanto povero, e sotto l’aspetto del « luogotenente », del governante in nome di Dio in quanto dotato di capacità. Nella visione biblica anche la natura viene avvolta e trasferita a un senso superiore che non è più solo cosmologico, ma etico e teologale. Senza la giustizia del cuore il mondo fallisce lo scopo per cui è stato creato.
Il grande e tragico sogno di Marx di poter trasformare una volta per tutte il mondo in un mondo giusto e felice aveva un bellissimo frutto (la società giusta e felice), ma un seme sbagliato. Il seme non può essere la pura e semplice distruzione della base economica. Il seme è il cuore, è la responsabilità di ognuno. Anche la base economica, il sistema economico, è una produzione del soggetto, che a sua volta è plasmato dalla struttura economica, ma non al punto da annullare quella fiammella della libertà, dove io posso arginare, frenare, disciplinare sempre ciò che gli altri, compresa una mentalità di capitalismo sfrenato, una mentalità consumistica, ecc., hanno fatto e cercano di fare di me. Questa fiammella di trascendenza della mia libertà è quella che la bibbia chiama il cuore. Ed è quella che permette di sognare non un mondo definitivamente e irreversibilmente giusto e felice, ma dei frammenti di mondo buono.
creare frammenti di mondo buono: vocazione della chiesa
Il senso dell’Israele biblico era questo: creare quel frammento di mondo buono che testimoniasse davanti all’umanità il sogno di Dio. Oggi cominciamo a capirlo, è la vocazione della chiesa.
Abbandonato oramai il sogno di portare il vangelo dappertutto, perché tutto il mondo diventi cristiano, sogno ripreso dai mussulmani (perché tutto il mondo diventi la umma, la comunità mussulmana), dobbiamo tornare invece al sentimento della universalità rappresentativa, proprio dell’ebraismo biblico, di tornare all’impulso testimoniante, di far vivere come segno, cioè come realtà riuscita, frammenti di mondo buono. Possono essere anche dei frammenti quasi microscopici, oppure una catena, un’organizzazione, ecc. , che poi deve arrivare anche alla politica, alla dimensione istituzionale e oggi anche a una dimensione istituzionale planetaria. Ma il seme di tutto questo è il cuore dell’uomo.
crisi e glorificazione della giustizia
C’è anzitutto una crisi di fatto, che dipende dalla fallibilità della libertà umana di fronte alla chiamata alla giustizia da parte di Dio: è la crisi dell’alleanza, è la storia di Adamo ed Eva.
Ma c’è anche una crisi di principio della giustizia: la giustizia di Dio è la giustizia con cui Dio esegue la sua promessa, positiva o negativa a seconda della risposta di Israele. La giustizia di Dio si manifesta nel dare lo shalom, la pienezza di vita al giusto: se tu farai il bene, se tu opererai in maniera giusta, allora io ti darò la vita.
L’esperienza storica sembra contraddire questo legame tra giustizia e felicità, tra giustizia e pienezza di vita. È ciò che vien detto nel libro di Giobbe, in cui non si pone il problema del male, ma del male del giusto.
Precedentemente, in una visione organicistica della vita individuale, il problema non si poneva: le responsabilità dell’individuo si allargavano a quelle dell’intera società. A mano a mano che emerge la coscienza della individualità come responsabilità non trasferibile, per cui ognuno è responsabile per se stesso, il problema esplode.
Forse l’unica risposta alla contestazione di Giobbe che tiene è quella che può essere ricondotta al vangelo di Matteo e di Luca nel discorso della montagna: « guardate i fiori del campo, guardate gli uccelli dell’aria, non tessono, non lavorano, gli uni sono nutriti, gli altri sono vestiti… » Qui certamente c’è il senso della bravura del padre, ma soprattutto c’è il senso della benevolenza del padre, a cui dare una fiducia assoluta. Se questo lo fa con uccelli e fiori quanto più con voi, uomini di poca fede… fidatevi! Questa è per me la cifra per leggere in maniera acconcia, all’altezza della contestazione di Giobbe.
Se crolla questo punto, non crolla un punto della dottrina biblica, ma il fondamento stesso. Se il cuore della bibbia è l’idea di giustizia, del soggetto giusto, come mediatore della realizzazione del mondo come Dio lo vuole, il presupposto è che il disegno di Dio sia giusto e che Dio mantenga questo suo disegno giusto, che non venga meno lui.
Allora la crisi della giustizia di Dio, Dio che non mantiene la promessa, Dio che lascia cadere il giusto, e che lascia invece che gli empi, i sopraffattori, gli indifferenti, stiano bene, vincano, la sconfitta del giusto e la vittoria dell’ingiusto è la sconfitta della promessa di Dio.
Se crolla questo, crolla tutta la fede di Israele. Ecco allora il passo in avanti: il giusto in questa vita non ha avuto quello che Dio gli prometteva, ma Dio non può venir meno alle sue promesse, dunque deve esserci un dopo. Adesso io la sto mettendo in forma di sillogismo, ma è così.
Dunque deve esserci un’altra vita. La logica è che l’ultima parola della realtà non può essere l’ingiustizia, e se il giusto fallisse, la realtà sarebbe ingiusta.
Kant dirà la stessa cosa quando sosterrà che l’uomo veramente etico, che ha fatto il bene per amore del bene, deve avere il bene sommo, che include la felicità. Per questo Dio, che Kant ha espunto come fondamento dell’etica, viene recuperato come esecutore di questo bene sommo, che è la felicità del giusto.
A me piace dire che la bibbia comincia dove Kant finisce. Cioè che l’inizio della bibbia è quello a cui Kant arriva come conclusione, e cioè che l’ultima parola della realtà non può essere l’ingiustizia. Kant dice che è il postulato della coscienza etica, la bibbia dice che è la rivelazione degli Ebrei. Il messaggio cristiano dirà che è il crocifisso risorto.
Il principio che non può essere che il giusto fallisca è il fondamento dell’antico testamento, ma l’arrivare a dire che questo principio crollerebbe, sarebbe falsificato, smentito, sbugiardato, se non ci fosse un aldilà, non è mai diventato un dogma di fede di Israele. Gli Ebrei non sono tenuti a credere a questo. C’è quell’altra prospettiva dei tempi messianici, ma all’interno dell’orizzonte storico…
La glorificazione della giustizia è la realizzazione della giustizia divina, è la resurrezione del crocifisso, è la sua pienezza di vita. Credo allora che il risorto è colui che, nella stessa potenza dell’amore presente nel crocifisso, fa esplodere il sepolcro, cioè che il risorto è il crocifisso visto da dentro. Noi ci fidiamo del Dio che ha fatto risorgere suo figlio, che promette un mondo, dove giustizia e pace si baceranno al di là di ogni nostra possibile immaginazione.

UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/br_john_comandamenti1.htm

FRÈRE JOHN DI TAIZÉ
VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ
UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI

(ovviamente sono 10 pagine/studi, metto il primo, nellink trovate anche gli altri, un cenno anche a Paolo)

EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA 2005

Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore.
(Sal 119,32)

Perché un libro sui dieci comandamenti?
Ogni anno, preparando le introduzioni bibliche per i giovani che partecipano agli incontri internazionali sulla collina di Taizé, cerco un tema per la settimana che possa aiutare i partecipanti a cogliere l’unità all’interno delle diverse parti della Scrittura. Talvolta si tratta di un concetto, per esempio «la santità» oppure «la novità», in altri momenti leggiamo insieme un testo biblico e tentiamo di approfondirlo. Parecchie volte l’esperienza di meditare un passaggio anche già molto conosciuto, come il Padre Nostro o le Beatitudini, si rivela particolarmente utile. Ci sono dei testi di base per la comprensione del messaggio cristiano e il semplice fatto di rileggerli, di entrare direttamente in contatto con questi brani, come se avessero qualcosa di nuovo da dirci, permette un approfondimento della nostra fede. In effetti, quando immaginiamo di conoscere una realtà che abbiamo già visitato e dalla quale pensiamo di non aver più nulla da ricavare, questa realtà, in un certo senso, per noi non esiste più. Essa ha semplicemente preso il suo posto fra le nozioni abituali che arredano il nostro immaginario. Applicata alle verità della fede biblica, la pretesa di comprendere già tutto porta a pesanti malintesi. Per i credenti la Bibbia non è semplicemente una raccolta di parole, di modi di fare e di racconti umani; attraverso queste realtà umane noi entriamo in contatto, in maniera davvero inspiegabile, con il Dio vivente, colui che supera sempre ciò che noi siamo in grado di cogliere. In questo tocchiamo con mano la dinamica più profonda della Bibbia: Dio si serve di ciò che è a nostra disposizione per condurci là dove noi non siamo ancora stati, verso una vita insperata. È ciò che esprime un antico testo della liturgia cristiana, se pure in un contesto leggermente diverso: attraverso ciò che è visibile ai nostri occhi noi siamo scelti e condotti verso l’amore del Dio invisibile («ut per [visibilia] in invisibilium amorem rapiamur», Prefazio della Natività di Cristo).
Questo libro propone una rilettura di quello che, fra i testi biblici ben conosciuti, è certamente il più conosciuto di tutti: i dieci comandamenti. È una proposta che rischia di suscitare delle resistenze anche fra i lettori più attenti perché, per la maggior parte di noi, i dieci comandamenti riportano alla religione della nostra infanzia, alle lezioni di catechismo. Evocano facilmente l’obbedienza cieca, il peccato e il senso di colpa, in sintesi, un approccio moralista o giuridico alle realtà di Dio, che sembra essere agli antipodi della religione positiva d’amore e di responsabilità che identifichiamo con Gesù Cristo. Oppure possono interessarci per ragioni opposte, come un richiamo ai valori «di una volta», per difenderci contro l’ondata di relativismo e di anarchia che minaccia di inghiottirci. Questo per dire che, se seguiamo semplicemente la china delle nostre reazioni spontanee, rischiamo di accettare o di respingere questo testo per ragioni che sono più legate alle nostre idee preconcette che non al suo vero significato nel contesto dell’insieme del messaggio biblico.
Un primo passo per superare questo dilemma potrebbe consistere nella consapevolezza che non conosciamo i dieci comandamenti così bene come invece crediamo. Innanzitutto, quando apriamo la Bibbia, notiamo subito che la versione che abbiamo imparato da bambini non corrisponde esattamente alle parole che vi troviamo. E forse saremo poi molto sorpresi nello scoprire che non c’è solo una versione dei dieci comandamenti; esistono, infatti, due versioni, situate in due differenti libri della Bibbia: al capitolo 20 del libro dell’Esodo e al capitolo 5 del libro del Deuteronomio. Sebbene queste due versioni siano identiche nei contenuti essenziali, fra di loro è possibile trovare alcune divergenze, talvolta piccole, talvolta meno piccole. La stessa cosa vale, del resto, per gli altri due testi chiave che abbiamo citato poco sopra: nei Vangeli di san Matteo e di san Luca troviamo due versioni distinte del Padre Nostro e delle Beatitudini. Se in un primo momento questo fatto può sembrare una difficoltà, riflettendo meglio possiamo cogliere le prospettive liberatrici che invece ci apre. Testimoniando l’impossibilità di un’interpretazione letterale, parola per parola, della verità biblica – noi non conosciamo con esattezza le parole di Gesù (le sue ipsissima verba) e neppure quelle della rivelazione di Dio sul Sinai – queste differenze ci permettono di avvicinare la verità che le parole indicano senza poterla circoscrivere perfettamente. Nel linguaggio di san Paolo, siamo invitati a seguire non la lettera ma lo spirito, perché la lettera uccide ma lo Spirito dà vita (2Cor 3,6). Lo spirito, per intenderci, non è la fantasia umana ma lo Spirito Santo di Dio che traspare attraverso le scritture ispirate, che è presente nella comunità dei credenti e che sostiene il loro tentativo di comprendere la fede che hanno ricevuto cogliendone l’attualità del momento presente.
In secondo luogo, l’espressione «i dieci comandamenti» non s’incontra in nessuna parte delle Scritture. Troviamo semplicemente, in qualche passaggio, questo modo di dire:
Il Signore disse a Mosè: «Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io ho stabilito un’alleanza con te e con Israele». Mosè rimase con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua. li Signore scrisse sulle tavole le parole dell’alleanza, le dieci parole (Es 34,27-28; vedi anche Dt 4,13;10,4).
A dispetto di certe traduzioni, il testo ebraico dice ‘asheret ha-debarim, «le dieci parole». Si tratta, naturalmente, di dieci enunciati, di frasi complete, non solo di dieci parole scritte su una pagina. Nella versione greca della Bibbia, questa costruzione è tradotta con ta deka rhémata oppure hoi deka logoi, da cui l’espressione «il decalogo», usata sovente come termine tecnico per i dieci comandamenti. In questo libro utilizzeremo, generalmente, l’espressione «le Dieci Parole». Questa sfumatura non è senza importanza: se la parola di Dio ha un carattere «performativo», nel senso che porta alla realizzazione di ciò che essa enuncia, una parola non è, tuttavia, la stessa cosa di un comandamento e, lo sappiamo molto bene, un’identificazione immediata della fede con la morale non aiuta affatto i nostri contemporanei a cogliere la vera identità del Dio biblico e la sua relazione con l’universo che ha creato.
I testi che prenderemo in considerazione sembrano testimoniare una tradizione antica, custodita negli scritti di base del popolo di Israele, secondo la quale la relazione di questo popolo con Dio passava attraverso la comunicazione di dieci frasi scritte su tavole di pietra. Perché dieci e non sette, per esempio, o anche dodici, due numeri biblici particolarmente significativi? La risposta rimane nascosta nella nebbia della storia. Può darsi che all’ origine si trattasse di un semplice procedimento mnemotecnico basato sul numero delle dita delle due mani. li vero problema posto da questa tradizione non è però il numero assoluto delle parole, ma piuttosto la maniera attraverso la quale il numero dieci corrisponde al testo ricevuto. Partendo da Esodo 20 o da Deuteronomio 5, non è facile ricavare dieci differenti enunciati. La prova di ciò sta nel fatto che, nel corso dei secoli, ci sono stati almeno tre modi di dividere il testo: un primo, che risale a sant’Agostino, è seguito dalla Chiesa cattolica e luterana; un secondo sistema, più antico, è utilizzato dai cristiani riformati e ortodossi; un terzo, infine, s’incontra nella tradizione del popolo ebreo. Quello che è il «quinto comandamento» per gli uni è invece il quarto per gli altri, e via di seguito. In breve, nonostante, per tutti, le Dieci Parole siano identificate con il testo ricevuto sul Sinai come prologo alla Legge di Mosè, questa identificazione resta problematica, almeno se noi prendiamo alla lettera il numero dieci. La difficoltà nel trovare dieci parole è un’indicazione supplementare al fatto che il testo originale sarebbe stato revisionato e accresciuto nel corso della sua storia. Le cose non sono così chiare come una lettura ingenua del brano potrebbe far credere. Uno spazio non trascurabile resta aperto all’ interpretazione.
Inoltre, una seconda opinione complica ancora di più il nostro passaggio al testo. Incontriamo spesso l’affermazione, anche in alcuni scritti di riferimento, che i dieci comandamenti sono una specie di «legge naturale» valida per tutti gli esseri umani di ogni tempo e in ogni luogo, un fondamento universale della morale, chiaro a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla loro fede in un dio particolare o in una rivelazione specifica. Bisogna ammettere che una parte del testo sembra corrispondere a questa descrizione. L’ingiunzione di non uccidere i propri simili o di non rubare i loro beni, per esempio, è alla base di ogni esistenza in società. Tuttavia, un approfondimento della struttura del passo nel suo insieme mette in luce che al cuore delle Dieci Parole si trova l’invito a osservare il sabato. È il centro del testo, oltre che la parte più lunga. È dunque evidente che questa Parola è un puro atto di rivelazione: non solo essa non è comprensibile al di fuori di Israele, ma anche per il popolo di Dio, non avrebbe mai potuto essere dedotta a partire da una verità più generale riguardante la divinità, a dispetto dei tentativi fatti a posteriori in questa senso. La Parola sul sabato ci conduce piuttosto nella direzione opposta: attraverso di essa incontriamo un Dio «particolare» che è la sorgente della vita di Israele e che non potrebbe mai essere desunto da categorie religiose o morali più globali. In fin dei conti, le Dieci Parole sono comprensibili unicamente nel contesto di una rivelazione che è un tutt’uno con una storia particolare: quella raccontata nella Bibbia. Ciò che è universale in esse è accessibile solo attraverso questa storia. Il loro significato più autentico non è al di fuori del tempo o della storia. A differenza di un insegnamento filosofico, l’universalità delle Dieci Parole non può essere raggiunta attraverso un processo di astrazione, staccandole dal contesto storico nel quale sono nate. È in questo contesto che noi incominciamo la scoperta del loro significato.

Io sono il Signore, tuo Dio,
che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto,
dalla condizione di schiavitù.
(Es 20,2; Dt 5,6)

Ecco la prima della Dieci Parole secondo la tradizione ebraica. E, forse con nostro grande stupore, scopriamo che non si tratta di un comandamento. Questo dovrebbe aiutarci a superare l’impressione, purtroppo ancora molto diffusa fra i cristiani, che la religione ebraica sia una religione legalista che predica un’obbedienza cieca, mentre noi cristiani gustiamo la libertà dello Spirito. In realtà, lungi dal voler affermare ciò che serve per meritare l’approvazione di Dio, la prima Parola ci rivela semplicemente l’identità di Dio e quanto egli ha fatto per i suoi. Per usare una distinzione cristiana più tardiva, essa non rientra nella categoria della «legge» bensì in quella del «vangelo».
D’altronde, la Bibbia nel suo insieme, non è un manuale di istruzioni su ciò che gli esseri umani devono fare. Essa ha come punto di partenza questo mistero che è al centro dell’ esistenza e che noi chiamiamo Dio. L’identità e l’attività divina vengono sempre prima di ogni altra cosa. Da parte loro, gli esseri umani non possono assolutamente fare nulla per meritare l’attenzione e le premure di Dio nei loro riguardi. Molti comprendono questa verità a partire dalla sua enunciazione nelle pagine del Nuovo Testamento. È san Giovanni che la esprime nella maniera più concentrata:
In questo sta 1′amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio per il perdono dei nostri peccati [...]. Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo (1Gv 4,10.19).

A SUA VOLTA, SAN PAOLO DICE LA STESSA COSA IN ALTRE PAROLE:
Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5,6-8).

Dio ci ama per primo, ancora prima che noi possiamo o vogliamo fare qualsiasi cosa per meritare o guadagnare il suo amore. La nostra attività non può essere che una conseguenza, cioè una risposta al dono del tutto gratuito di Dio. Se questo è il cuore del Vangelo cristiano, è bene però rendersi conto che una logica identica governa l’avvenimento costitutivo del popolo d’Israele: l’uscita dall’Egitto. Proprio all’inizio delle Dieci Parole, Dio si definisce come colui che viene a liberare l’umanità sofferente dai legami che la rendono schiava.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7 -8a).
E per evitare ogni ambiguità, un passaggio del libro del Deuteronomio spiega chiaramente che Israele non ha fatto assolutamente nulla per determinare in anticipo le azioni della bontà divina. Era un gesto di pura gratuità, un’espressione incondizionata della generosità e della fedeltà di Dio.
Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – , ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto (Dt 7,6-8).
Ogni riferimento ai comandamenti divini e ad obblighi umani non può dunque venire che in un secondo tempo, come risposta umana alle scelte iniziali e libere di Dio. Un altro testo chiave del libro del Deuteronomio esprime questa medesima logica mentre cerca di spiegare in che modo la confessione di fede del popolo si trasmette da una generazione alla seguente:
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: «Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha date?». Tu risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha ordinato» (Dt 6,20-25).
In questo brano, come nelle Dieci Parole, la risposta del padre alla domanda del figlio inizia con il racconto delle azioni di Dio, la liberazione dalla schiavitù e il dono di una patria. I comportamenti umani vengono dopo, al seguito dell’iniziativa divina. Ma il testo aggiunge una precisazione importante: noi seguiamo i comandamenti per ottenere vita e felicità nella terra donata da Dio. Poiché gli esseri umani non sono degli automi, non basta che Dio doni loro la vita e la libertà attraverso un gesto o una decisione unilaterale. Affinché questo dono possa diventare reale, i beneficiari devono renderlo presente negli avvenimenti concreti della loro esistenza. li dono deve diventare un percorso di vita.
In Es 34,28, le Dieci Parole vengono anche definite come le parole dell’alleanza. In effetti, il concetto biblico dell’ Alleanza offre il contesto più accessibile per una comprensione generale della legge di Dio e delle Dieci Parole in particolare. Nelle Scritture ebraiche, questo testo è legato a un avvenimento su di una montagna santa (il Sinai nel libro dell’Esodo, l’Oreb nel Deuteronomio) poco tempo dopo la partenza dall’Egitto. Su questa montagna, il Signore rivelò la sua identità come Dio che libera un’accozzaglia di persone, da tempo in schiavitù, per offrirle un’ alleanza che farà di loro un popolo. Nel mondo dell’antico Medio-Oriente, la parola berit viene tradotta spesso con «alleanza» ma ha, di fatto, più significati differenti fra loro. Viene spesso utilizzata per definire un accordo o un patto fra due parti. C’erano diversi tipi di alleanze, ma quella che serve da analogia per i rapporti fra il Signore e Israele sembra essere l’alleanza fra un re o una nazione potente con un suddito più debole. li re prometteva di garantire l’identità e la sicurezza dello stato suo cliente e domandava in cambio di comportarsi in maniera consona rispetto alla protezione offerta. li patto era reciproco, ma gli interlocutori non erano su un piano di uguaglianza. Questo modello ebbe il merito di dare forma alla relazione fra Israele e il suo Dio, ma allo stesso tempo bisogna riconoscere che una tale relazione in continuo divenire è unica nel suo genere e possiede degli aspetti che non rientrano nella logica di un accordo umano, qualunque esso sia.
Quando i superstiti dall’Egitto arrivano al Sinai, ricevono attraverso la mediazione di Mosè questo messaggio di Dio:
Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,3-6a).
Ancora una volta è Dio che prende l’iniziativa. È lui che, avendo liberato coloro che lo ascoltano, li ha condotti verso di lui. Allo stesso tempo, questo Dio è un Dio che parla, non è un burattinaio di marionette che muove i fili, ma un comunicatore che cerca una relazione di reciprocità. Se tutto inizia con un’ azione di Dio, tutto non può che finire nello stesso modo. Coloro che sono stati liberati hanno adesso la possibilità di entrare coscientemente e liberamente in una relazione. Dio li invita ad ascoltare (questo è il senso essenziale di «obbedire») le sue parole e ad accettare l’accordo che propone loro. In questo modo, questa folla eterogenea che era da tempo in schiavitù diventerà un popolo, il popolo stesso di Dio.
Sarebbe però un errore intendere questa offerta come un privilegio, come se Dio avesse scelto una parte dell’umanità scartando tutto il resto. Il testo dice chiaramente che tutta la terra è di Dio. Di conseguenza, ogni scelta particolare non può essere compresa se non nel quadro di questo «tutto» che è la preoccupazione maggiore di Dio. Una chiave che permette di risolvere questo apparente paradosso fra una preoccupazione universale e una scelta particolare si trova nell’ espressione un regno di sacerdoti, una nazione santa. Nel mondo antico, i sacerdoti erano dei mediatori fra la divinità e l’umanità. Se dunque Israele riceve l’appello ad essere una nazione sacerdotale, è questa una maniera per dire che esso serve da mezzo o da strumento al Dio vivente per entrare nel concreto della storia umana. Per dire la stessa cosa in un altro modo, l’Alleanza rende Israele un segno visibile della presenza divina nel mondo, un «roveto ardente» che attira gli altri verso un incontro con la Sorgente di tutto ciò che esiste. Scegliendo un popolo, Dio evita di essere relegato in un cielo lontano e inaccessibile. L’universo si rivela come luogo sacramentale, aperto all’ eterno; l’avventura dell’Incarnazione è già in qualche modo cominciata.
Secondo la logica dell’ Alleanza, Israele è un regno di sacerdoti per due ragioni, distinte fra loro ma, allo stesso tempo, intimamente legate. In primo luogo a causa della scelta, della chiamata divina. Senza quest’intervento preliminare di Dio, nulla è possibile in questo ambito. L’iniziativa non potrebbe mai venire dagli esseri umani. Questi non possiedono in loro stessi la capacità di trasmettere agli altri qualcosa di Dio, sarebbe una pretesa eccessiva da parte loro. Non esiste alcun esercizio, formazione o riflessione che possano permetterlo. Non mi sento «scelto» o «chiamato» a causa di qualche cosa che avrei compiuto io; mi rendo semplicemente conto che il Dio vivente è entrato nella mia esistenza.
Ciò detto, bisogna aggiungere subito che questa scelta o chiamata di Dio non annulla affatto l’attività umana e nemmeno la rende inutile, le permette piuttosto di spiccare pienamente il volo. Israele è chiamato ad ascoltare e custodire le parole di Dio, in altre parole a vivere in maniera tale che la sua esistenza sia effettivamente un segno dell’identità e della presenza divina. Di conseguenza, l’Alleanza implica necessariamente un invito rivolto a coloro che sono chiamati ad utilizzare la loro intelligenza e le loro energie per fare scelte in armonia con la loro identità più profonda, quella di essere il popolo di Dio. È questo contesto che ci permette un’esatta comprensione della dimensione di «comandamento» contenuta in ogni relazione con Dio. Il comandamento è necessario non perché siamo di fronte a un Dio tiranno, geloso dell’autonomia umana, ma per una ragione del tutto opposta – proprio perché Dio prende sul serio la libertà umana. Dio non può fare in modo che noi diveniamo «automaticamente» segni della sua presenza, può solamente fare appello alla nostra capacità di comprendere la relazione che ci offre e dunque agire in modo consono a questo invito.
La stessa cosa può essere detta partendo dalla concezione di libertà. Il prologo delle Dieci Parole ci presenta un Dio che è essenzialmente un liberatore, che chiama gli esseri umani a uscire dalla condizione di schiavitù, rendendo così possibile un’ esistenza nella libertà. Ma cosa significa, esattamente, essere liberi? Come Israele ha ben presto scoperto, non è sufficiente abbandonare la «casa della schiavitù» per gustare senza ostacoli i vantaggi di una vita libera. Una riflessione sul vero significato della libertà ci conduce al cuore del messaggio delle Dieci Parole come anche della Legge divina nel suo insieme.
Prendiamo come punto di partenza l’idea di libertà come è abitualmente intesa ai nostri giorni, per poi vedere cosa c’è di specifico nella visuale biblica. Per molti dei nostri contemporanei, essere liberi significa fare ciò che si vuole, quando lo si vuole. La libertà è dunque essenzialmente radicata nel sé, un sé che non ha altra regola che non se stesso e che si erge in senso assoluto di fronte a tutte le altre realtà dell’universo. Poiché, in questo modo di vedere, tutto ciò che è al di fuori di me – gli altri, le necessità materiali, gli impegni – rappresenta una limitazione alla mia libertà, ne consegue che avrei la libertà perfetta soltanto se io stesso inglobassi in me tutto l’universo, se fossi «Dio» o, più esattamente, un dio inteso come un essere del tutto centrato su se stesso, il Sé ultimo. La rivelazione biblica, da parte sua, ci offre tutt’altra visione della libertà. Per la Bibbia, la libertà non è una realtà fondata su di un sé autonomo, essa è un dono nato da un incontro con il Dio vivente e vero che mi chiama a lasciare la condizione di schiavitù. E questo implica la scoperta della mia identità in quanto uno in mezzo agli altri, come componente di un popolo. La libertà biblica non è individualista; essa scaturisce da una vita condivisa. In una parola, in questo modo di vedere, l’altrui (sia l’Altro che noi chiamiamo Dio, sia gli altri esseri umani), lungi dall’essere un ostacolo alla libertà, la rende di fatto possibile. La libertà è la conseguenza di un certo tipo di relazione.
Il Dio della Bibbia fa uscire gli esseri umani dalla condizione di schiavitù per farli entrare in una terra di libertà. Ma la terra di libertà non è semplicemente un’ altra parte del nostro pianeta, per esempio la Palestina rispetto all’Egitto, o il Nuovo Mondo rispetto all’Europa. Secondo la nostra maniera di vivere – e la Bibbia ne è un eloquente testimone – proprio in mezzo alla Terra Promessa noi siamo capacissimi di ricadere in un’ esistenza da schiavi. Piuttosto che essere una semplice realtà geografica, la terra della libertà è dunque definita dalle parole che Dio invia al popolo, parole che indicano la relazione permanente tra le due parti, le parole dell’alleanza. Poiché è questa relazione che garantisce la libertà del popolo, le Dieci Parole tracciano il perimetro di uno spazio di libertà. O, per rendere l’immagine più dinamica, sono le pietre miliari di un cammino che porta alla pienezza della libertà e della felicità. Esse indicano i parametri che rendono possibile una vita pienamente umana.

Il fatto di guardare le Dieci Parole come i parametri di uno spazio di libertà ci aiuta a comprendere perché quasi tutte sono formulate in maniera negativa. Esse ci dicono essenzialmente ciò che non bisogna fare – e ciò, talvolta è stato utilizzato per minimizzare la loro importanza. In effetti si oppone volentieri la cosiddetta «morale negativa» dell’ Antico Testamento, fondata sulla condanna, e la chiamata positiva all’amore caratteristica del Vangelo di Gesù Cristo. Qui è però essenziale ricordarsi che la «negatività» delle Dieci Parole è piuttosto un’ espressione del loro significato in quanto pietre miliari che delimitano uno spazio. Esse non cercano di definire l’insieme della vita, ma piuttosto di definire i parametri che rendono possibile la libertà. Sta a noi utilizzare la nostra libertà, cioè, concretamente, la nostra intelligenza e la nostra volontà, per creare, all’interno dello spazio che si è aperto, una vita che valga la pena essere vissuta. I comandamenti ci informano quando noi stiamo per oltrepassare i limiti e dunque quando non siamo più nello spazio della libertà; essi ci danno anche delle indicazioni indirette, ci dicono in cosa consisterebbe una vita pienamente umana. Ma in quanto formulazioni sono incompleti, e ciò intenzionalmente. Per loro stessa natura, essi lasciano aperto uno spazio per la nostra libertà e per l’attività dello Spirito di Dio.
Non è sicuramente un caso che noi troviamo una logica identica in un altro dei passi fondamentali delle Scritture ebraiche, la storia della prima coppia raccontata al capitolo 2 del libro della Genesi.
Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’ albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,15-17).
Qui, lo spazio di libertà è descritto come un bel giardino che gli esseri umani sono chiamati a coltivare. In questo giardino, essi sono liberi di mangiare di tutti gli alberi. Dio non intende per nulla frenare la loro attività e le loro scelte. Al contrario, Dio li incoraggia a usare la loro libertà, perché è proprio questo che li rende umani. Tuttavia, non saremmo nel mondo del reale se queste parole di liberazione non fossero completate da un «comandamento negativo» che protegge la libertà così concessa. C’è un albero di cui essi non possono mangiare il frutto, perché così facendo abbandonerebbero lo spazio di libertà, con la conseguenza, poco dopo concretamente indicata, dell’esclusione dal paradiso (Gn 3,23-24). Se noi proviamo a chiederci perché bisogna che esista un albero proibito, in altre parole perché lo spazio di libertà non è senza confini e bisogna che esso si scontri con un limite, la risposta è che questo limite rappresenta l’Altro, le relazioni che sono essenziali per l’esercizio della libertà nel mondo reale. Senza il limite rappresentato dal «frutto proibito», saremmo rinchiusi per sempre in un universo auto-referenziale, prigionieri incoscienti del nostro io. Ancora una volta, il comandamento negativo testimonia che la libertà non è egocentrica, ma che la pienezza della vita fa sbocciare una rete di relazioni. Le Dieci Parole non hanno altro fine se non quello di porre l’essere umano in questa rete di relazioni che rende possibile la vera vita e la vera felicità.
Nel linguaggio della Scrittura, «mangiare dell’ albero della conoscenza del bene e del male» (cfr. Gn 2,17) significa pretendere di essere noi stessi i soli e unici arbitri del nostro comportamento. Lungi dall’essere un divieto riguardo a questo e quel contenuto preciso, le parole di Dio ad Adamo esprimono, per così dire, il comandamento allo stato puro, l’invito a prendere in considerazione la presenza dell’ Altro, a riconoscere che io non sono la Sorgente. In questo senso, l! albero della conoscenza del bene e del male è la faccia «negativa» della Sorgente, l’ombra dell’ albero della vita (cfr. Gn 2,9).

L’IGNORANZA DEI DISCEPOLI. APRIRE GLI OCCHI – CARLO MARIA MARTINI

http://www.adpbrindisi.it/rubriche/content/101/2/l-ignoranza-dei-discepoli-aprire-gli-occhi.htm

L’IGNORANZA DEI DISCEPOLI. APRIRE GLI OCCHI

mercoledì 9 gennaio 2013

DEL CARD. CARLO MARIA MARTINI, S.J.

La meditazione che intendo proporre vuole aiutarci nell’approfondimento del senso della penitenza. Chiediamo, quindi, al Signore la grazia di purificarci interiormente.
Come appare nel Vangelo di Marco, questa esperienza di purificazione?
Utilizziamo uno dei passi fondamentali in cui Marco, al capitolo quarto, vuol fare comprendere il mistero del Regno: «A voi è dato il mistero del Regno; a quelli di fuori tutto avviene in parabole» (4,11-12).
Lo scopo di tutta la catechesi marciana è di far passare da una situazione al di fuori, in cui il mistero del Regno appare da angolature sociologiche o fenomenologiche, ma non è colto nella sua sostanza, alla situazione al di dentro.

Entrare nel mistero del Regno
Nel Nuovo Testamento ricorre spesso l’espressione al di fuori per indicare chi non partecipa alla conoscenza interiore del mistero del Regno, cioè della fede, come per esempio i pagani.
Per esempio, nella prima lettera ai Corinti, parlando dei giudizi che devono aversi all’interno della comunità, Paolo dice: «… tocca forse a me giudicare quelli di fuori? . . .» (1 Cor 5, 12-13); e ancora, nella lettera ai Colossesi: «Camminate nella sapienza per riguardo a quelli di fuori» (Col 4, 5) cioè, a quelli che non partecipano al dono del Vangelo e stanno a vedere, e vi guardano giudicandovi da un punto di vista esteriore. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, poi, troviamo: «… affinché camminiate in maniera degna, per riguardo a quelli di fuori» (1 Ts 4, 12).
L’espressione è, quindi, abbastanza nota nel Nuovo Testamento e designa la categoria di coloro che non hanno ancora capito il mistero del Regno. Oggi essa comprende non solo i non battezzati ma, di fatto, tutti coloro per i quali i misteri del Regno di Dio e della Chiesa sono ancora qualcosa di esteriore a cui non si partecipa dall’interno, con cui non ci si identifica, al punto che tutto appare enigmatico. Si vede la Chiesa fare certe cose, compiere certe azioni sacre o agire in determinati modi, ma tutto sembra come una grande parata di cui non si capisce il significato.
Bisogna allora entrare con coraggio all’interno di questo mistero per identificarci con esso. Ecco la via catecumenale: da un di fuori in cui i segni appaiono enigmatici, verso un interno in cui essi si identificano con la realtà. Questa via è appunto descritta al capitolo quarto in cui si cita un passo dell’Antico Testamento:

«Affinché, vedendo, non vedano,
ascoltando non odano,
per paura che si convertano
e venga loro perdonato»
(4,12: citaz. di Is 6,9- 10).

Si è discusso a lungo su questo versetto per indicare se è mai possibile che ci sia, da parte di Dio, una volontà di non farsi capire. In realtà si tratta di un modo espressivo per dire cosa succede a chi chiude gli occhi, ed è un versetto molto istruttivo se lo rovesciamo cogliendone l’aspetto positivo. Cioè se ci chiediamo: qual è la via del catecumeno? È la via di colui che vuole aprire gli occhi così da vedere. Molti guardano le cose della Chiesa, ma non le vedono, non ne capiscono il senso. Molti, oggi in posizione di critica verso la Chiesa, sono spesso nell’atteggiamento del guardare e non vedere, dell’ascoltare e non intendere. Bisogna, invece, passare dal guardare al capire, dall’ascoltare al comprendere, in modo da convertirsi ed avere il perdono. Ecco la via positiva che le parole del v. 12 esprimono.

Aprire gli occhi
E si comprende meglio questo, quando si medita il ripetuto invito, nel Vangelo di Marco, ad aprire gli occhi, ad ascoltare e a comprendere. Possiamo, così, dedicare questa meditazione all’ignoranza del discepolo.
San Marco suppone che il punto di partenza della via catecumenale — e per gli stessi Dodici della loro intimità con Gesù — sia una riconosciuta situazione di ignoranza: di un non sapere e non capire, di un non vederci chiaro. Questa attitudine di ignoranza viene più volte ricordata da Gesù ai suoi discepoli, perché si convincano che non hanno ancora veramente visto né capito. Egli ribadisce che è necessario uscire da una tale situazione di sufficienza e mettersi invece in un atteggiamento di riconosciuta ed umile ignoranza, disposta ed attenta all’ascolto.
[...]
Nel capitolo quarto, oltre al già citato v. 12, abbiamo il v. 23 con l’invito: «Se qualcuno ha orecchi per intendere ascolti». Al v. 24, «Guardate bene ciò che udite» e al v. 40: «Perché tanta paura? non avete ancora fede?», cioè, non intuite ancora? Vedremo, poi, quanto il capitolo quarto sia fondamentale, perché segna un passo avanti nella conoscenza di Gesù.
Nel capitolo sesto ritorna lo stesso rimprovero: «Non avevano capito riguardo ai pani, essendo il loro cuore indurito» (6,52). Altro brano di insistenza sull’ignoranza del discepolo e al capitolo ottavo:

«Perché state discutendo che non avete pane?
Ancora non capite, non intendete
(in greco letteralmente: non avete mente)?
Avete il cuore indurito?
Avendo occhi non vedete,
avendo orecchi non udite?
E non vi ricordate . . .» (8,17).

Ci sono presentati cinque rimproveri successivi che passano in rassegna tutti i sensi dell’uomo per fare intendere agli interlocutori che non hanno capito assolutamente niente.
E finalmente al capitolo nono troviamo l’ultimo brano riguardante l’incomprensione: «Ma questi non capivano la parola e avevano paura di interrogarlo» (9,32).
Ecco dunque il punto di partenza per il cammino catecumenale. Tale stadio, anzi, accompagna per qualche tempo questo itinerario ed è caratterizzato dalla situazione di essere in qualche modo con l’animo ancora al di fuori dal centro del messaggio; di intuire confusamente qualcosa, ma di non avere ancora capito il mistero. «A voi è dato il mistero…» (4,lls), ma questo mistero non viene inteso, non viene capito fino in fondo finché non si è percorso tutto il cammino che è segnato dal Vangelo di Marco. Dal capitolo quarto al capitolo nono si sottolinea che si è ancora molto indietro in questa strada.
È un atteggiamento che dovremmo suscitare in noi ogni volta che ci mettiamo di fronte al mistero di Dio. Dovremmo poter dire: «quanto poco conosciamo del mistero di Dio». Perché è soltanto con questo atteggiamento che possiamo metterci in attentissimo ed umile ascolto, pronti a percepire ciò che Dio vuole comunicarci.

Accettiamo la nostra ignoranza

Il primo punto allora è il seguente: il Vangelo di Marco suppone, per un serio cammino catecumenale e per una vera sequela dei Dodici nei riguardi di Gesù, che si parta dalla costatazione dello stato di una certa ignoranza e incomprensione teorica e pratica del mistero di Dio.
Il secondo di questa meditazione vuole rispondere alla domanda: in che cosa consiste concretamente questa ignoranza? Dove si esplica negli apostoli, nei discepoli?
Occorre leggere tutto il Vangelo di Marco e vedere dove e come tale ignoranza affiora. Tra i vari passi che si potrebbero proporre ne ho scelti alcuni, tenendo presente che il Vangelo di Marco viene letto in una situazione di istruzione catecumenale. Ogni episodio di Marco, in fondo, ha lo scopo, soprattutto nella prima parte, di stigmatizzare l’ignoranza del discepolo e fargli capire cosa non va in lui affinché se ne avveda e cerchi di correggersi. Tutta li prima parte, quindi, ha uno scopo penitenziale.

(Estratto da L’itinerario spirituale dei dodici, C.M. Martini, Ed. AdP, 2012)

 L’itinerario spirituale dei dodici
Si tratta di una delle prime (1974) esperienze di Esercizi spirituali, alla luce della Parola di Dio, proposti ami gruppo di vescovi dell’Emilia dall’allora “semplicemente” padre Carlo Maria Martini.
A differenza degli altri il riferimento è meno costante al testo degli Esercizi ignaziani e più rivolto ad approfondire le esigenze della vera sequela di nostro Signore Gesù, secondo un itinerario dell’apostolo,del discepolo e del catecumeno, ben illustrato dal Vangelo di Marco. Mai più stampato dal 1978.ma spesso citato, anche dallo stesso ca,d. Martini.questo corso viene finalmente riproposto in una nuova edizione, raccomandata dall’autore stesso, dopo il successo della recente e analoga rivisitazione degli Esercizi sul Vangelo di Giovanni.

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI – DIETRICH BONHOEFFER

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer2.htm

DIETRICH BONHOEFFER 

LE DIECI PAROLE DEL SIGNORE: PRIMA TAVOLA

INTERPRETAZIONE DEI PRIMI TRE COMANDAMENTI

(forse l’ho già messo, ma è sempre bello!)

In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.

Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».

Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).

La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.

Il terzo comandamento

«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».

LA BELLEZZA DEL RACCONTARE DIO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=151

LA BELLEZZA DEL RACCONTARE DIO

sintesi della relazione di Brunetto Salvarani

Verbania Pallanza, 31 marzo 2001

Il tema della bellezza è stato affrontato nel corso in modo serio, andando oltre la superficie, cercando di rispondere alla domanda di quale bellezza salverà il mondo. In questa prospettiva parlerò della bellezza del raccontare, del narrare in un primo momento, per poi passare in un secondo momento al tema sempre più attuale della presenza dell’altro nelle nostre città e nelle nostre chiese e sulla necessità di creare occasioni delle persone appartenenti alle varie culture possano incontrarsi. Qui sta la vera bellezza.
la bellezza del raccontare
Il racconto è la modalità espressiva più tipica della bibbia. Raramente si trovano argomentazioni, dimostrazioni, asserzioni dogmatiche. Si trovano invece poesie, simboli, miti, racconti.
Il narrare è forse l’eco della risata di Dio sulla terra, l’eco di quel ritornello ripetuto sette volte in Genesi 1 (Dio vide che tutto era bello e buono « tov »). La prima parola di Dio sul mondo riguarda la sua bontà e bellezza.
La narrazione ha una funzione terapeutica, come per quel nonno storpio, discepolo di Baal Schem, che racconta con tale passione del maestro, da guarire.
Il parlare di Dio è poi un parlare creativo. Non sono parole vuote che si perdono nel vento ma si traducono in un avvenimento.
Il primo credo ebraico, Deut 26,5-9, non è tipo dogmatico, argomentativo, ma è un credo narrativo (« mio padre era un arameo errante, vi stette come un forestiero, con poca gente e vi diventò una nazione grande forte e numerosa. Gli egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri. E il Signore ascoltò la nostra voce… »).
C’è qui la storia palpitante di un popolo.
Nell’autocoscienza ebraica è fortissima la dimensione dell’essere stati forestieri.
Il cuore di questo piccolo credo è la memoria di un uomo, Giacobbe, che ha combattuto contro Dio, ed anche la memoria della sofferenza.
Ciò che crea legame all’interno di una comunità non è tanto il credere in un dogma, ma avere una memoria collettiva.
La storia di Israele è una storia di una comunità che racconta (salmo 78,3-4). Così pura la storia delle prime comunità cristiane e così dovrebbe essere ancora oggi. Purtroppo oggi c’è la difficoltà di comunicare tra generazioni diverse, di raccontare la propria fede alle generazioni successive.
Il ricordo (ziqqaron), non è il ricordo oggettivo, ma il memoriale che fa entrare in un avvenimento passato. È questo un elemento che collega strettamente ebraismo e cristianesimo: come il seder pasquale ebraico in cui si fa memoria del passato di schiavitù e di liberazione così è l’eucaristia cristiana in cui si aggiunge il ricordo dell’ultima cena. Anche l’eucaristia è essenzialmente un racconto, non solo nella liturgia della parola ma anche in quella eucaristica.
Il racconto nella bibbia coinvolge anche il creato « I cieli narrano la gloria di Dio… » (salmo 19,1-2). Non solo il pio ebreo o la comunità sono orientati a raccontare, ma la creazione tutta. Sta a noi ascoltare e interpretare queste storie.
Oggi c’è un ritorno al raccontare. Nella chiesa cattolica hanno prevalso nettamente le ragioni del dogma, contro quelle, ritenute poco valide, del racconto.
La teologia narrativa è tornata sulla scena proprio nel secolo in cui si è arrivati al punto più basso della comunicazione. Come dice Benjamin « È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile: la capacità di scambiare esperienze ».
Due sono le figure che esprimono bene questa situazione. La figura del reduce, del reduce dal fronte bellico, che non racconta a nessuno ciò che ha vissuto, perché ritiene che sia talmente orribile da temere di non essere creduto.
L’altra figura è quella di Ireneo Funes (Borges), che ha una memoria infallibile e mostruosa, ricordando tutto. Ma proprio il ricordare tutto senza poter selezionare porta alla paralisi. Ha miliardi di ricordi, ma non la memoria, la capacità di cogliere ciò che è importante per noi.
Sia il reduce che Ireneo indicano l’incapacità di riandare alle antiche voci di salvezza.
Adorno si chiede se fosse ancora possibile scrivere dopo Auschwitz.
Oggi la ripresa del narrare è avvenuta grazie al pensiero teologico, alla teologia narrativa. L’esigenza di tornare a narrare le storie di Dio, le storie della bibbia, ritraducendole nella cultura di oggi. Oggi c’è un bisogno irrefrenabile di tornare ai grandi racconti, ai grandi miti, che possano attrarre i grandi e non solo i piccoli (Natale Terrin).
Il rischio è di intercettare male questo bisogno, come nel caso della New Age (De Mello, Coelho…)
l’irruzione dell’altro
È in atto un profondo cambiamento, « l’irruzione dell’altro », che è avvenuto silenziosamente e che ha spaventato e sta spaventando molti, con una spaccatura all’interno della chiesa.
Dopo la morte di Dio si parla di rivincita di Dio. Dopo la secolarizzazione, l’eclissi del sacro, il fatto che si sia spenta la spinta propulsiva delle grandi religioni, data l’attuale crisi dello stato sociale, degli stati assistenziali, che rispondevano a una serie di bisogni, si chiede la soluzione alla parola forte e autorevole della bibbia, dei testi sacri. Si propone (fondamentalismi) una risposta forte a questa crisi sociale grazie alla religione. Succede nell’islam, in buona parte dell’ebraismo israeliano, nel mondo cattolico e protestante, e anche nell’induismo.
C’è poi il bisogno una spiritualità ridotta a tecniche, che faccia poco i conti con l’etica, che non impegni troppo in profondità, che trae la propria ispirazione da un insieme di elementi presi dalle diverse tradizioni religiose sia occidentali che orientali, in un cocktail appetibile, anche se confuso ed eterogeneo (new e next age).
Anche questo tipo di bisogni andrebbe non demonizzato ma intercettato, dato che probabilmente un certo cristianesimo, giocato spesso in termini sociali, ha trascurato ambiti più personali, come quello della malattia e della guarigione, della morte, dell’al di là. Espressione di questo bisogno di spiritualità è il fenomeno in netta crescita anche in Italia del pentecostalismo, che tende a dare minore importanza alla dimensione dogmatica in favore del carattere mistico ed entusiastico, della partecipazione anche corporea (danza, ritmo…).
Ma tutti questi fenomeni esprimono un autentico bisogno di Dio, la rivincita di Dio, oppure il bisogno del tutto umano del sacro, del religioso?
Tutti questi fenomeni hanno favorito la crescita nel nostro paese di un pluralismo religioso, di un mosaico della fede, che pur presente nel passato (la comunità ebraica più antica e i valdesi) oggi è più visibile e reclama un’idea di laicità che riconosca il valore delle minoranze, viste piuttosto come ricchezza che non come fonte di problemi.
La ricerca anche faticosa di occasioni di incontro passa anche attraverso il lavoro sulla identità narrativa. Dialogare non significa necessariamente risolvere un problema: invece di argomentare o dimostrare si può anche raccontare o ascoltare la storia di un altro.
Deve essere data la possibilità ai molti del nostro paese che vogliono raccontare la propria storia di poterlo fare, moltiplicando le occasioni per entrare in contatto con gli autoctoni, per cui il nostro racconto si incroci con il loro racconto. È quanto è avvenuto con l’ondata migratoria dal meridione. L’incontrarsi giorno dopo giorno nelle scuole, nelle fabbriche ha consentito di vivere un’esperienza di socializzazione integrante.
Proprio la riscoperta della dimensione narrativa del cristianesimo, della teologia narrativa ha reso più facile l’incontro con l’ebraismo, che si è sempre maggiormente autocompreso attraverso la narrazione che non attraverso la riflessione dogmatica. L’argomentazione dogmatica tende a chiudere mentre la narrazione apre all’incontro del reciproco ascolto.

LIBRO DEL PROFETA NEEEMIA

http://www.bibbiaweb.org/jk/jk_pcat_neemia.html

PICCOLO COMMENTARIO DELL’ANTICO TESTAMENTO

NEEMIA

JEAN KOECHLIN

Indice:
 Neemia 1    Neemia 2    Neemia 3    Neemia 4    Neemia 5    Neemia 6    Neemia 7    Neemia 8    Neemia 9    Neemia 10    Neemia 11    Neemia 12    Neemia 13

Neemia

Capitolo 1, versetti da 1 a 11

Storicamente il libro di Neemia è l’ultimo colpo d’occhio che l’Antico Testamento ci permette di gettare sul popolo d’Israele. Gli avvenimenti che riferisce cominciano circa trent’anni dopo quelli che il libro d’Ester riferisce e tredici anni dopo il ritorno di Esdra. I suoi insegnamenti sono dunque particolarmente appropriati a noi cristiani «che ci troviamo agli ultimi termini dei tempi» (1 Corinzi 10:11).
Povero popolo! Si trova in «gran miseria e nell’obbrobrio», secondo quel che raccontano alcuni viaggiatori (vers. 3). Ma Dio ha preparato qualcuno che si prenderà a cuore questo stato. È Neemia! Quest’uomo è sensibile alle sofferenze e all’umiliazione degli scampati, superstiti della cattività e confessa dinanzi all’Eterno i peccati che ne sono la causa. Così aveva fatto Esdra (cap. 9). Dio sceglie sempre gli strumenti delle sue liberazioni fra quelli che amano il suo popolo.
Ma dirigiamo i nostri sguardi su uno più grande di Neemia. Chi ha preso in cuore la condizione disperata d’Israele e dell’uomo in generale, se non il Figlio di Dio stesso? Egli investigava a fondo il nostro misero stato, quell’abisso di male ove eravamo immersi. Ed Egli venne per strapparci di là.

Capitolo 2, versetti da 1 a 8
Mentre i figli di Giuda erano nella miseria e nell’obbrobrio, Neemia occupava alla corte un posto dei più onorevoli: quello di coppiere del re. Avrebbe potuto, egoisticamente, conservare quel posto vantaggioso. Ovvero giustificarlo pensando: Poiché ho la fiducia del re, restando presso di lui sarò più utile al mio popolo. Dio mi ha posto qui a questo scopo.
Ma Neemia non ragiona così. Il suo cuore, come un tempo quello di Mosè, lo conduce a visitare i suoi fratelli, i figli d’Israele (Atti 7:23). E, piuttosto di godere per breve tempo i piaceri del palazzo reale, sceglie «d’essere maltrattato col popolo di Dio» (Ebrei 11:25).
Notate che il suo abboccamento con Artaserse è non soltanto preceduto (cap. 1:4), ma anche accompagnato dalla preghiera (vers. 5). Fra la domanda del re e la propria risposta, Neemia trova il tempo di rivolgersi a Dio nel cuore. Si è chiamato questa una «preghiera-freccia». Imitiamo più sovente quest’esempio! E vedremo, come questo servitore (servitore dell’Eterno prima d’esserlo del re), la buona mano di Dio riposare su noi e su quel che faremo.

Capitolo 2, versetti da 9 a 20
Neemia è arrivato a Gerusalemme munito delle lettere del re. Comincia col fare l’ispezione delle mura, o piuttosto di quel che ne rimane. Il fratello suo gliene aveva parlato (cap. 1:3), ma desidera rendersi conto da sé dell’estensione dei guasti. Grande è la sua costernazione dinanzi a quello spettacolo, a cui gli abitanti di Gerusalemme, da parte loro, si erano abituati! Anche noi, cristiani, siamo certamente in pericolo di non più soffrire dello stato di rovina in cui si trova oggi la Chiesa responsabile. Nessun muro la protegge più contro l’invasione del mondo. E un tale stato è perfettamente ciò che i suoi nemici desiderano.
Al tempo di Zorobabel e d’Esdra, questi nemici si chiamavano per Israele: Bishlam, Tabeel… poi Tattenai, Scethar-Boznai e i loro colleghi. Sotto Neemia si tratta di Samballat, di Tobia e di Ghescem. Il diavolo si serve di strumenti diversi. Egli rinnova di tanto in tanto il suo «personale». Ma il suo scopo è sempre il medesimo: Mantenere il popolo di Dio nell’abbassamento e nella servitù.
Neemia sa come fare per esortare gli uomini di Gerusalemme. Il suo nome significa: l’Eterno ha consolato. Egli ottiene questa risposta gioiosa e incoraggiante: «Leviamoci e mettiamoci a costruire» (vers. 18).

Capitolo 3, versetti da 1 a 15
Al contrario dell’ordine normale, la ricostruzione di Gerusalemme ha cominciato dall’altare, poi dal tempio (Esdra 3) ed è soltanto dopo questo che le mura della città sono riedificate. L’altare e il santuario ci parlano del culto che, evidentemente è la prima responsabilità del popolo di Dio. Ma noi non siamo soltanto dei cristiani della domenica. Anche il resto della città, che si riferisce alla vita quotidiana nelle nostre case e nelle nostre circostanze di ogni giorno, deve ugualmente essere protetto contro i nemici e separato arditamente dal mondo circostante. Ad ognuno spetta di vegliarvi e in particolare di costruire dirimpetto alla propria casa (vers. 10, 28, 30).
Sotto l’impulso di Neemia, tutto Giuda s’è messo all’opera. E questo capitolo ci fa fare il giro della città per presentarci in atto i vari gruppi di lavoratori. Ognuno ha intrapreso, chi la propria porta, chi la propria torre, chi la propria parte di muro, in proporzione delle forze che ha e soprattutto della propria devozione. Ma mentre alcuni hanno abbastanza zelo per restaurare una parte doppia (vers. 11, 19, 24, 27, 30), altri — fra cui i principali — rifiutano di piegare il loro collo al servizio del loro Signore (parag. Matteo 20:27-28). Triste testimonianza, non è vero?

Capitolo 3, versetti da 16 a 32
Dal vers. 16 si tratta della parte di muro che proteggeva la città di Davide e il cortile del tempio.
Siamo stupiti di venire a conoscenza che Eliascib, il sommo sacerdote non ha restaurato dirimpetto alla propria casa (parag. 1 Timoteo 3:5). Altri han dovuto farlo in vece sua (vers. 20-21). Seconda negligenza colpevole: costruendo la porta delle Pecore, lui ed i suoi fratelli, come cattivi pastori, avevano omesso di munirla di serrature e di sbarre (vers. 1). Era lasciare ai ladri e ai marioli il mezzo di introdursi per impadronirsi delle «pecore» di Israele (vedere Giovanni 10:8,10).
Degli orefici, dei profumieri, dei commercianti (vers. 8 e 32) si sono improvvisati muratori. Uno dei capi, Shallum (vers. 12), lavorò alle riparazioni con le sue figlie. Con questi esempi Dio ci insegna che possiamo lavorare all’opera Sua a qualsiasi età, qualunque sia il nostro sesso o la nostra professione. Notiamo pure che parecchi di questi uomini, o i padri loro, si erano compromessi al tempo di Esdra nella triste unione con le donne straniere. Tale era il caso di Baruc figlio di Zabbai, di Malkia, di Benaia, figli di Parosh (Esdra 10:25,28). È bello vedere ora la loro premura per proteggere Gerusalemme precisamente contro le influenze straniere.

Capitolo 4, versetti da 1 a 14
Durante la riparazione delle mura, l’ira dei nemici si scaglia contro Giuda. Samballat, il loro portavoce, esprime beffeggiando il suo disprezzo più profondo. Le beffe! noi vi siamo particolarmente sensibili. Il mondo non manca di beffarsi della separazione dei cristiani, della debolezza del loro radunamento… Non lasciamoci turbare dalle sue riflessioni. «Noi dunque riedificammo…», conclude Neemia! (vers. 6).
Allora il nemico passa alla guerra aperta. E lo scoraggiamento minaccia gli uomini di Giuda. Guardano alla loro debolezza (vers. 10). Equivale ad esser d’accordo col nemico che aveva sprezzato «quegli spossati Giudei» (vers. 2). Essi considerano i pesi dei carichi, il volume delle macerie… Ma vi sono quelli che, insieme a Neemia, conoscono la doppia risorsa (vers. 9). Essa è ad un tempo un ordine del Signore: «Vegliate e pregate…» (Matteo 26:41; 1 Pietro 4:7). La preghiera deve essere la nostra prima risposta agli sforzi dell’Avversario. Però non dispensa dalla vigilanza. Perciò Neemia prende varie disposizioni per assicurare la sorveglianza e la custodia del popolo durante la fine del lavoro.

Capitolo 4, versetti da 15 a 23
Capitolo 5, versetti da 1 a 5
Alle difficoltà e alla fatica della costruzione si aggiungono, alla fine del cap. 4, quelle del combattimento. Infatti il credente non è soltanto operaio, è anche soldato. Assomiglia al milite di Neemia, che tiene con una mano il suo arnese e con l’altra la sua arma (che è la Parola di Dio: Efesini 6:17). Non ha il diritto di deporre né l’uno né l’altra.
Dopo il bello zelo a cui abbiamo assistito, il capitolo 5 ci reca una penosa sorpresa. Quei «superstiti della cattività», che, prima della venuta di Neemia, erano in gran miseria (cap. 1:3), si trovano ora in una situazione anche peggiore. Hanno dovuto impegnare ciò che possedevano, e talvolta sottoporre i loro figli alla schiavitù, per pagare le imposte e non morir di fame. Per di più, quelli che li hanno ridotti in quello stato non sono dei nemici. Sono i loro propri fratelli, che hanno in tal modo trasgredito la legge (Esodo 22:25); Levitico 25:39 a 43; Deuteronomio 15:11; 23:19-20).
A che punto siamo, miei cari amici, per ciò che riguarda l’amor fraterno? Senza di esso il più bel servizio cristiano non ha valore (1 Corinzi 13:1 a 3). Realizziamo quel che dice l’apostolo Giacomo (cap. 2:15-16). Sì, esaminiamo bene il nostro cuore a questo riguardo, e anche il nostro comportamento!

Capitolo 5, versetti da 6 a 19
«Indignato forte», Neemia raduna i notabili ed i magistrati davanti al resto del popolo per rivolger loro i rimproveri che meritano! I colpevoli si sottomettono. Non semplicemente perché Neemia è il governatore, ma perché egli stesso dà l’esempio del disinteressato! Egli ha rinunziato ai diritti personali che gli dava la sua posizione, e questo gli permette di chiedere ai capi di agire nello stesso modo. L’esempio è la regola d’oro per ottenere qualunque cosa dagli altri. L’apostolo Paolo s’è sempre proposto di poter servire di modello ai credenti che egli ammaestrava (Atti 20:35; 1 Corinzi 4:11,16; 10:32-33…). Ma soprattutto consideriamo il divino Maestro. Egli diceva ai suoi discepoli: «Io v’ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v’ho fatto io» (Giovanni 13:15). Ma nello stesso tempo li metteva in guardia contro gli scribi e i farisei: «Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le opere loro; perché dicono e non fanno..» (Matteo 23:3). Le moltitudini notavano la differenza: Gesù «le ammaestrava come avendo autorità, e non come i loro scribi» (Matteo 7:29).

Capitolo 6, versetti da 1 a 14
I loro cattivi esiti precedenti non hanno scoraggiato Samballat, Tobia e Ghescem. Essi fanno a Neemia una proposta ipocrita: «Vieni e troviamoci assieme…» La valle di Ono (ossia degli artigiani: cap. 11:35), fissata come luogo di incontro, suggerisce una collaborazione con i nemici del popolo di Dio. Ma l’offerta è respinta, nonostante le minacce che l’accompagnano per la quinta volta. Allora un altro laccio è teso per l’intermediario d’un giudeo, Scemaia. Con una falsa profezia, questo agente del nemico cerca di indurre Neemia (che non era sacerdote) a disobbedire all’Eterno cercando asilo nel Tempio (vedere 2 Corinzi 11:13 e 1 Giovanni 4:1). Nello stesso modo hanno agito i Farisei col Signore Gesù. «Parti e vattene di qui — Gli dicono — perché Erode ti vuol far morire» (Luca 13:31). Essi, avendo Satana dietro a loro, cercavano di spaventare, e far deviare dal sentiero della fede, Colui che «si era messo risolutamente in via per andare a Gerusalemme» (Luca 9:51). La doppia offensiva, sventata dal fedele Neemia, mette il cristiano in guardia contro due pericoli opposti:
Allargare il sentiero, lavorando in collaborazione con quelli che non sono sottomessi alla Parola.
Rinchiudersi in un settarismo orgoglioso ed egoista.

Capitolo 6, versetti da 15 a 19
Capitolo 7, versetti da 1 a 7
Son bastati cinquantadue giorni agli uomini di Giuda per colmare le brecce e ricostruire le mura. La maggior parte di loro erano inesperti nel maneggio della cazzuola e della zappa. Ma avevano zelo, e gran cuore per il lavoro (cap. 3:20; 4:6). Agli occhi del Signore, la devozione dei suoi operai ha più valore delle loro capacità. D’altronde, Egli dà precisamente queste capacità a quelli che hanno della devozione e si confidano in Lui.
Gli sforzi di Tobia per intimidire Neemia, e l’appoggio che questo nefasto personaggio trova in alcuni notabili di Giuda, sono le ultime manifestazioni d’ostilità dei nemici. Gerusalemme con le sue mura ricostruite appare ormai alle nazioni circonvicine, «edificata come una città ben compatta» (Salmo 122:3). Però bisogna assicurarne la sorveglianza. Neemia s’occupa delle porte, e anche di stabilire dei guardiani (vedere Isaia 62:6 e 7). Si attribuiscono altre funzioni, comprese quelle dei due governatori della città (vers. 1. 2). L’uno e l’altro hanno meritato quest’incarico: Hanani, per il suo interessamento per il popolo (cap. 1:2), Hanania, per fedeltà e timor di Dio (vers. 2).

Capitolo 7, versetti da 61 a 73
Dio ha messo in cuore a Neemia di fare il censimento del popolo. E si è servito per questo del registro genealogico stabilito al tempo del primo ritorno a Gerusalemme. I vers. 6 a 73 riproducono press’a poco il cap. 2 del libro di Esdra. Vi ritroviamo per esempio la discendenza di quest’uomo «che aveva sposato una delle figliuole di Barzillai, il Galaadita, e fu chiamato col nome loro» (vers. 63). Barzillai era quel vecchio ricco e considerato che aveva fornito i viveri al re Davide a Mahanaim (2 Samuele 19:32). Qui siamo informati che suo genero, benché sacerdote, aveva dianzi rinunziato al proprio nome. Si era fatto chiamare con quello del suocero che lo metteva in maggior evidenza. Quali ne sono state le disastrose conseguenze? I suoi discendenti sono esclusi come profani dalle cariche del sacerdozio! Guardiamoci, per tema di perdere considerazione, di abbandonare i nostri privilegi cristiani! Vi è forse maggior dignità e nobiltà che appartenere alla famiglia di Dio, al «sacerdozio regale»?
Questo censimento del popolo sottolinea il contrasto con i giorni di Davide! La sola tribù di Giuda contava allora 470’000 uomini di guerra; dieci volte più numerosa. Ma quel che vale, non è la potenza; è la fedeltà.

Capitolo 8, versetti da 1 a 12
Per la bella scena di questo capitolo, Neemia ha ceduto il posto principale a Esdra, il sacerdote. Sappiamo che questi era uno «scriba versato nella legge di Mosè» e che aveva da molto tempo «applicato il cuore… ad insegnare in Israele le leggi e le prescrizioni divine» (Esdra 7:6 e 10). Felice desiderio che, alla richiesta del popolo, trova occasione per realizzarsi! Si tratta della lettura distinta e della spiegazione della Parola di Dio.
Aprendola, Esdra benedice l’Eterno che ha dato questa Parola, proprio come oggi si rende grazie quando la Bibbia è letta e meditata in un’assemblea. Riguardo agli assistenti, non basta aver intelligenza (vers. 3); occorre anche che essi tendano le orecchie (fine vers. 3). Lo facciamo noi sempre durante le riunioni o la lettura in famiglia? Capire la Parola è il mezzo per essere nutriti e rallegrati dalla comunione col Signore (vers. 12). Ma dobbiamo pensare anche a «mandar porzioni ai poveri», cioè fare approfittare gli assenti di quel che ha fatto bene a noi.
Infine quel magnifico versetto: «Il gaudio dell’Eterno è la vostra forza» (fine del vers. 10). E soprattutto facciamone l’esperienza!

Capitolo 8, versetti da 13 a 18
Capitolo 9, versetti da 1 a 4
«Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca; essa non torna a me a vuoto…» — dice l’Eterno (Isaia 55:11). E questa promessa si realizza qui. Secondo l’insegnamento divino, il popolo, sotto la condotta dei suoi capi, celebra i Tabernacoli con più magnificenza che ai giorni più belli di Salomone. Per noi cristiani, la rovina attuale deve anche farci realizzare più che mai il nostro carattere di forestieri (l’abitazione sotto tende) e dirigere i nostri pensieri sulle gioie del regno futuro (i Tabernacoli).
Al principio del. cap. 9 la scena cambia. I figli d’Israele si radunano di nuovo in un giorno fissato. Questa volta lo scopo del radunamento è la confessione dei loro peccati. Vi sono forse anche nella nostra vita di credenti dei momenti particolari in cui dobbiamo fare il bilancio dei nostri falli e umiliarcene? Alcuni pensano che si debba regolare questo ogni sabato sera; altri, alla fine di ogni giornata. Non hanno ragione né gli uni, né gli altri. Il giudicio di sé è un’azione continua. Dobbiamo praticarlo ogni volta che lo Spirito Santo ci ha resi coscienti d’un peccato.

Capitolo 9, versetti da 5 a 15
Alcuni Leviti, di cui abbiamo i nomi, invitano il popolo ad alzarsi per benedire l’Eterno. E Gli rivolgono, a nome di tutta l’assemblea, la lunga preghiera che occupa il resto del capitolo. Risalendo alla creazione, celebrano l’adempimento dei consigli di Dio: la chiamata d’Abrahamo (il cui cuore fu trovato fedele) la liberazione dall’Egitto, il mar Rosso, le cure pazienti lungo tutto il tragitto nel deserto con il dono della legge, poi l’entrata nel paese.
Se apparteniamo al Signore, potremo stendere una lista altrettanto lunga e che non sarà meno meravigliosa! Poiché comincerà nel modo seguente: «Tu hai dato per amor mio il tuo Figlio». Ripassiamo sovente nei nostri cuori ciò che la grazia ha fatto per noi. Ed esercitiamoci a scoprire dei motivi sempre più numerosi di riconoscenza, che saranno altrettanti nuovi legami d’amore col nostro Padre celeste e col Signore Gesù. Come Davide esortiamo l’anima nostra a benedire l’Eterno e a non dimenticare «nessuno dei Suoi benefizî» (Salmo 103:2). Ma veramente questi benefizi sono innumerevoli! (vedere Salmo 139:17- 18).

Capitolo 9, versetti da 16 a 27
Dopo aver, come questi Leviti, tracciato a lungo la storia della grazia di Dio verso Israele, Stefano, nel cap. 7 degli Atti, continua il suo discorso nello stesso modo: «Gente di collo duro,… voi contrastate sempre allo Spirito Santo…» (vers. 51). Il collo duro, la nuca che non vuol piegarsi per sottomettersi al giogo del Signore, non caratterizza unicamente il popolo d’Israele, e neppure soltanto gl’inconvertiti! Abbiamo tutti in noi questa natura volontaria, indomita. Ogni cristiano, senza eccezione, la conosce purtroppo. E gli è impossibile venirne a capo con i propri sforzi. Ma conosce ognuno ad un tempo la liberazione che Dio gli concede? Poiché alla croce, ha messo a morte questa volontà ribelle ed irriducibile, Egli ci ha dato in sua vece la natura obbediente di Gesù. La vecchia natura è sempre in noi, con i suoi desideri, ma non ha più il diritto di dirigerci.
Come risaltano di più tutti quei peccati d’Israele quando sono messi, come qui, in contrasto con la grazia divina! Raddoppiano, per così dire, d’ingratitudine (vedere Deuteronomio 32:5-6). E non è forse anche il caso di tanti giovani e giovanette allevati da genitori credenti?

Capitolo 9, versetti da 28 a 38
Al vers. 33 abbiamo il riassunto di tutto questo capitolo: «Tu sei stato giusto in tutto quello che ci è avvenuto, poiché tu hai agito fedelmente, mentre noi ci siamo condotti empiamente». Accostiamo questo a quella parola dell’Evangelo di Giovanni: «Chi ha ricevuto la Sua (di Gesù) testimonianza ha suggellato che Dio è verace» (Giovanni 3:33; vedere anche Romani 3:4). Suggellare, vuol dire approvare formalmente una dichiarazione, garantirla e impegnarsi a rispettarla. I principi, i Leviti ed i sacerdoti appongono così i loro sigilli (cioè le loro firme), per confermare il loro accordo.
Al termine di questa lunga confessione, riteniamo anche due insegnamenti molto importanti: In primo luogo, è necessario risalire quant’è possibile alle origini d’un male, con un completo dietro front. La violazione della legge è incominciata con l’affare del vitello d’oro; ebbene, questa non può passare sotto silenzio (vers. 18)! Poi, una confessione deve essere precisa: Dire a Dio in modo generale: Io sono un peccatore; ho commesso dei peccati — costa ben poco, e non ha valore ai suoi occhi. Egli aspetta che Gli diciamo: Signore, io sono questo colpevole. Ho fatto quest’atto e quello ancora (vedere Levitico 5:5).

Capitolo 10, versetti da 28 a 39
Gli uomini nominati al principio del capitolo sono quelli che hanno apposto il loro sigillo al patto dell’Eterno. Sapete voi che Dio ha ugualmente il suo sigillo? Lo Spirito Santo è, sopra ogni riscattato, il segno di proprietà per mezzo del quale Dio lo riconosce e dichiara: Ecco qualcuno che mi appartiene (Efesini 1:13 e 4:30). Può Egli riconoscervi in questo modo? Ma, mentre i loro sigilli non potevano dare ai compagni di Neemia la forza di compiere ciò a cui s’impegnavano, lo Spirito Santo invece è ad un tempo il sigillo, la potenza per cui il cristiano agisce secondo la volontà divina (Efesini 3:16).
Tutto il popolo si è associato d’un medesimo cuore ai suoi conduttori. La conoscenza della legge, acquistata a nuovo, non resta teoria per loro. Li conduce successivamente alla purificazione, al rispetto del sabato e dell’anno di riposo della terra; poi al servizio della casa e all’osservanza delle istruzioni concernenti le primizie e le decime. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate», diceva il Signore Gesù (Giovanni 13:17).

Capitolo 11, versetti da 1 e 2
Capitolo 12, versetti da 22 a 30
Erano ben poco numerosi i rimpatriati da Babilonia in paragone a quelli che abitavano nel paese prima della deportazione. Gerusalemme, con le sue mura ricostruite sulle loro antiche basi, non contava che un infimo numero di cittadini: fra altri quelli che avevano riparato le mura dirimpetto alla loro casa! Si decide di fare appello a dei volontari di Giuda e di Beniamino per venire a ripopolare la città. Sono riferiti i loro nomi. Dio infatti onora quelli che, rinunziando ai loro campi e alle loro case, vengono per amore a dimorare presso il Suo santuario.
Son fatte delle promesse a riguardo della Gerusalemme del regno di mille anni (Zaccaria 2:4; Isaia 33:20; 60:4 e 15). — Ma delle promesse più belle ancora concernono la santa Città, la Gerusalemme celeste. Dio, che l’ha «preparata» per Cristo (Apocalisse 21:2), l’ha pure «preparata» per quelli che Gli appartengono ed hanno rinunziato a possedere quaggiù una città permanente (Ebrei 11:16). Questa meravigliosa Città non è fatta per rimanere vuota. Dio stesso vi abiterà in mezzo ai suoi. Tuttavia vi si penetra ad una condizione: Bisogna aver «lavato le proprie vesti» per fede nel sangue dell’Agnello (Apocalisse 22:14). L’avete fatto?

Capitolo 12, versetti da 31 a 47
La cerimonia della dedicazione delle mura, che comincia al vers. 27, si svolge fra una grande allegrezza. Due cortei formati di cantori e accompagnati da trombe partono insieme sul sentiero di ronda, ognuno dal proprio lato. Uno è condotto da Esdra, mentre Neemia chiude la marcia del secondo. Le due processioni si incontrano in prossimità del Tempio dopo aver compiuto ognuno la metà del giro della città. Hanno realizzato la parola del bel salmo 48: «Circuite Sion, giratele attorno; contatene le torri… osservatene i bastioni…» (Salmo 48:12-13).
Giunti alla casa dell’Eterno, i due cori riuniti «fecero risonar forte le loro voci» e «numerosi sacrifizi» sono offerti fra la gioia generale. Il vers. 43 ci insegna tre cose a proposito di questa gioia:
1. Anzitutto che essa ha la sua sorgente in Dio: «Iddio aveva loro concesso una grande gioia.»
2. Poi, che tutti vi partecipano, compresi i fanciulli. Ciò che forma la gioia dei genitori, forma anche quella dei figli?
3. Infine, che questa gioia «si sentiva di lontano». Il mondo che ci attornia può forse vedere e udire che siamo delle persone il cui cuore è ripieno d’una gioia divina?

Capitolo 13, versetti da 1 a 14
Neemia era stato obbligato di ritornare dal re. Approfittando della sua assenza, Tobia, il nemico ben conosciuto, era pervenuto a farsi attribuire una delle camere contigue alla casa dell’Eterno, grazie alla complicità d’un sacerdote, quel tale Eliascib che si era già dimostrato tanto negligente al tempo della costruzione delle mura. Ahimè! i portinai, gli uomini che al capitolo precedente erano stati «preposti… alle stanze che servivano da magazzini delle offerte», non avevano dal canto loro osservato ciò che si riferiva al servizio del loro Dio (cap. 12:45).
Indignato, Neemia fa gettare fuori dalla camera tutte le masserizie appartenenti a Tobia. Poi fa purificare le camere e rimettere a posto gli utensili e le offerte. L’affezione di questo uomo di Dio per la casa dell’Eterno e lo zelo che pone a sbarazzarla da ogni contaminazione, ci fa pensare a Gesù, quando caccia dal tempio quelli che avevano fatto, d’una casa di preghiera, una spelonca di ladroni (Matteo 21:12- 13).
Questa prima negligenza ne aveva trascinate altre, e Neemia deve anche occuparsi delle porzioni dovute ai Leviti come pure della sorveglianza e della ripartizione delle decime recate dal popolo.

Capitolo 13, versetti da 15 a 31
Nonostante l’impegno preso dal popolo (cap. 10:31), neppure il riposo del sabato era stato rispettato. Neemia energicamente prende le misure necessarie per rimediare a questa situazione.
Non dovremmo noi, cari figli di Dio, attribuire almeno altrettanta importanza al giorno del Signore quanto Israele al suo sabato? Certamente noi non siamo più sotto la legge. Ma è triste che la domenica sia considerata, da certi cristiani, come un semplice giorno di riposo o di agio; ovvero che sia impiegata ad un compito scolastico che avrebbe potuto essere terminato alla vigilia!
A che cosa ci fan pensare quelle porte che bisognava chiudere durante la notte, per la protezione contro i pericoli del mondo? Non è forse una volta ancora alla santa Città di cui è detto: «E le sue porte non saranno mai chiuse di giorno (la notte quivi non sarà più)… E niente d’immondo e nessuno che commetta abominazione o falsità v’entreranno» (Apocalisse 21:25,27).
Il sipario della storia cade ora su Israele. Esso non si alzerà che quattro secoli dopo (esattamente quattrocento quarant’anni) sul suo Liberatore e Messia, alla prima pagina del Nuovo Testamento.

1...7891011...14

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01