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GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA

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GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA

Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono ereditare la sal­vezza? ». (Eb 1,14) « Benedite il Signore voi tutti suoi angeli, potenti ese­cutori dei suoi comandi, pronti al suono della sua parola. Benedite il Signore voi angeli suoi ministri, che fate il suo volere ». (Salmo 102, 20-21)

GLI ANGELI NELLA SACRA SCRITTURA
La presenza e l’opera degli angeli compaiono in molti testi dell’Antico Testamento. I cherubini con le loro spade folgoranti custodiscono la via all’albero della vita, nel paradiso terrestre (cfr Gn 3,24). L’angelo del Signore ordina ad Agar di ritornare dalla sua signora e la salva dalla morte nel deserto (cfr Gn 16,7-12). Gli angeli liberano Lot, sua moglie e le sue due figlie dalla morte, a Sodoma (cfr Gn 19,15-22). Un ange­lo viene mandato davanti al servo di Abramo per gui­darlo e per fargli trovare una moglie per Isacco (cfr Gn 24,7). Giacobbe vede in sogno una scala che si erge fino in cielo, con angeli di Dio che vi salgono e scendono (cfr Gn 28,12). E più avanti questi angeli vanno incontro a Giacobbe (cfr Gn 32,2). « L’angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica questi giovinetti! », (Gn 48,16) esclama Giacobbe benedicendo i suoi figli prima di morire. Un angelo appare a Mosè in una fiamma di fuoco (cfr Es 3,2). Uangelo di Dio precede l’accampamento di Israele e lo protegge (cfr Es 14,19). « Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato » (Es 23,20). « Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco, il mio angelo ti precederà » (Es 3Z34); « Manderò da­vanti a te un angelo e scaccerò il Cananeo… » (Es 33,2). L’asina di Balaam vede sulla strada un angelo con la spada sguainata in mano (cfr Nm 22,23). Quando il Signore apre gli occhi a Balaam anch’egli scorge l’angelo (cfr Nm 22,31). Un angelo incoraggia Gedeone e gli ordina di combattere i nemici del suo popolo. Gli promette di restare al suo fianco (cfr Gdc 6,16-22). Un angelo appare alla moglie di Manoach e le annun­cia la nascita di Sansone, nonostante la donna sia steri­le (cfr Gdc 13,3). Quando Davide pecca e sceglie come castigo la peste: « L’angelo ebbe stesa la mano su Geru­salemme per distruggerla… » (2 Sam 24,16) ma poi la riti­ra per ordine del Signore. Davide vede l’angelo che colpisce il popolo d’Israele e implora da Dio il perdo­no (cfr 2 Sam 24,17). L’angelo del Signore comunica a Elia la volontà di Jahvé (cfr 2 Re 1,3). L‘angelo del Signore colpì centottantacinquemila uomi­ni nell’accampamento degli Assiri. Quando i superstiti si svegliarono al mattino, li trovarono tutti morti (cfr 2 Re 19,35). Nei Salmi si citano spesso gli angeli (cfr Salmi 8;90; 148). Dio manda il suo angelo a chiudere la bocca dei leoni per non far morire Daniele (cfr Dn 6,23). Gli angeli com­paiono di frequente nella profezia di Zaccaria e il libro di Tobia ha come personaggio di primo piano l’angelo Raffaele; questi svolge un ruolo di protettore ammire­vole e dimostra come Dio manifesti il suo amore per l’uomo attraverso il ministero degli angeli.

GLI ANGELI NEL VANGELO
Troviamo spesso gli angeli nella vita e negli insegna­menti del Signore Gesù. L’angelo Gabriele appare a Zaccaria e gli annuncia la nascita del Battista (cfr Lc 1,11 e ss.). Ancora Gabriele annuncia a Maria, da parte di Dio, 1 incarnazione del Verbo in lei, per opera dello Spirito Santo (cfr Lc 1,26). Un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli spiega ciò che è accaduto a Maria, gli dice di non temere di rice­verla in casa, poiché il frutto del suo grembo è opera dello Spirito Santo (cfr Mt 1,20). Nella notte di Natale un angelo porta ai pastori il lieto annuncio della nascita del Salvatore (cfr Lc 2,9). L’angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe e gli ordina di ritornare in Israele col bambino e sua madre (cfr Mt 2, 19). Finite le tentazioni di Gesù nel deserto… « il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano » (Mt 4, 11). Durante il suo ministero Gesù parla degli angeli. Mentre spiega la parabola del grano e della zizzania, dice: « Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. il campo è il mondo. il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemi­co che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappre­senta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo, il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda! » (Mt 13,37-43). « Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni » (Mt 16,27). Quando si riferisce alla dignità dei bambini dice: « Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sem­pre la faccia del Padre mio che è nei cieli » (Mt 18, 10). Parlando della risurrezione dei morti, afferma: ‘Alla ri­surrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo » (Mt 2Z30). Nessuno conosce il giorno del ritorno del Signore, « neanche gli angeli del cielo » (Mt 24,36). Quando giu­dicherà tutti i popoli, verrà « con tutti i suoi angeli » (Mt 25,31 o cfr Lc 9,26; e 12, 8-9). Presentandoci davanti al Signore e ai suoi angeli, dun­que, saremo glorificati oppure rifiutati. Gli angeli par­tecipano alla gioia di Gesù per la conversione dei pec­catori (cfr Le 15,10). Nella parabola del ricco epulone troviamo un compito degli angeli molto importante, quello di portarci dal Signore nell’ora della nostra morte. « Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo » (Lc 16,22). Nel momento più difficile dell’agonia di Gesù nell’or­to degli Ulivi venne « un angelo dal cielo a confortar­lo » (Lc 22, 43). Il mattino della risurrezione appaiono di nuovo gli angeli, come già era accaduto nella notte di Natale (cfr Mt 28,2-7). I discepoli di Emmaus sentirono parlare di questa presenza angelica il giorno della risur­rezione (cfr  Lc 24,22-23). A Betlemme gli angeli avevano recato la notizia che Gesù era nato, a Gerusalemme che era risuscitato. Gli angeli furono dunque incaricati di annunziare i due grandissimi avvenimenti: la nascita e la risurrezione del Salvatore. Maria Maddalena ha la fortuna di vedere « due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’al­tro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù ». E può anche ascoltare la loro voce (cfr Gv 20,12-13). Dopo l’ascensione, due angeli, sotto forma di uomini in bianche vesti, si presentano ai discepoli per dire loro « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo » (At 1, 11).

GLI ANGELI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI
Negli Atti viene narrata l’azione protettrice degli ange­li nei confronti degli apostoli e proprio a beneficio di tutti questi avviene il primo intervento (cfr At 5,12-21). Santo Stefano cita l’apparizione dell’angelo a Mosè (cfr At 7,30). « Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissan­do gli occhi su di lui, videro il suo volto [il volto di santo Stefano] come quello di un angelo » (At 6,15). Un angelo del Signore parlò a Filippo dicendo: ‘Alzati, e và verso il mezzogiorno, sulla strada che discende da Gerusalemme a Gaza » (At 8,26). Filippo ubbidì e incon­trò ed evangelizzò l’Etiope, funzionario di Candace, regina di Etiopia. Un angelo appare al centurione Cornelio, gli dà la bella notizia che le sue preghiere e le sue elemosine sono arrivate a Dio, e gli ordina di mandare i suoi servi a cer­care Pietro per farlo venire lì, in quella casa (cfr At 10,3). Gli inviati raccontano a Pietro: Cornelio  » è stato avver­tito da un angelo santo di invitarti nella sua casa, per ascoltare ciò che hai da dirgli “ (At 10,22). Durante la persecuzione di Erode Agrippa, Pietro viene messo in prigione, ma, un angelo del Signore gli appar­ve e lo fece uscire dal carcere: « Ora sono veramente certo che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che si attendeva il popolo dei Giudei » (cfr At 12,6-16). Poco tempo dopo, Erode, colpito « improvvisamente » da « un angelo del Signore », « roso dai vermi, spirò » (At 12,23). In viaggio verso Roma, Paolo e i suoi compagni in peri­colo di morte a causa di una fortissima burrasca, rice­vono l’aiuto salvifico di un angelo (cfr At 27,21-24).

GLI ANGELI NELLE LETTERE DI SAN PAOLO E DI ALTRI APOSTOLI
Numerosissimi sono i passi in cui si parla di angeli nelle lettere di san Paolo e negli scritti degli altri apo­stoli. Nella Prima lettera ai Corinzi San Paolo dice che siamo venuti per essere « spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini » (1 Cor 4,9); che giudicheremo gli angeli (cfr 1 Cor 6,3); e che la donna deve portare « un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli » (1 Cor 11,10). Nella seconda Lettera ai Corinzi li avverte che « anche Satana si maschera da angelo di luce » (2 Cor 11,14). Nella Lettera ai Galati considera la superiorità degli an­geli (cfr Gai 1,8) e afferma che la legge ‘fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore » (Gal 3,19). Nella Lettera ai Colossesi, l’Apostolo enumera le di­verse gerarchie angeliche e sottolinea la loro dipenden­za da Cristo, nel quale tutte le creature sussistono (cfr Col 1,16 e 2,10). Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi ripete la dottrina del Signore sulla sua seconda venuta in compagnia degli angeli (cfr 2 Ts 1,6-7). Nella Prima lettera a Timoteo dice che « è grande il mistero della pietà: Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu an­nunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria » (1 Tm 3,16). E poi ammonisce il suo disce­polo con queste parole: « Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favo­ritismo » (1 Tm 5,21). San Pietro aveva sperimentato personalmente l’azione protettrice degli angeli. Così ne parla nella sua Prima lettera: « E fu loro rivelato che non per se stessi, ma per voi, erano ministri di quelle cose che ora vi sono state annunziate da coloro che vi hanno predicato il vangelo nello Spirito Santo mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo » (1 Pt 1,12 e cfr 3,21-22). Nella Seconda lettera parla degli angeli decaduti e non perdonati, così come si legge anche nella lettera di San Giuda. Ma è nella lettera agli Ebrei che troviamo riferimenti abbondanti all’esistenza e all’azione angelica. Il primo argomento di questa lettera è la supremazia di Gesù su tutti gli esseri creati (cfr Eb 1,4). La grazia specialissima che lega gli angeli a Cristo è il dono dello Spirito Santo loro concesso. È, infatti, lo Spirito stesso di Dio, il legame che unisce angeli e uo­mini con il Padre e con il Figlio. Il collegamento degli angeli con Cristo, il loro ordinamento a lui come crea­tore e Signore, si manifesta a noi uomini, soprattutto nei servigi con cui essi accompagnano in terra l’opera salvifica del Figlio di Dio. Attraverso il loro servizio gli angeli fanno sperimenta­re al Figlio di Dio fattosi uomo che egli non è solo, ma che il Padre è con lui (cfr Gv 16,32). Per gli apostoli e i discepoli, invece, la parola degli angeli li conferma nella fede che il regno di Dio si è avvicinato in Gesù Cristo. L’autore della lettera agli Ebrei ci invita a perseverare nella fede e porta come esempio il comportamento de­gli angeli (cfr Eb 2,2-3). Ci parla anche dell’incalcolabile numero degli angeli: « Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli… » (Eb 12, 22). E, infine, dice una cosa che dovremmo tenere sempre presente quando incontriamo un fratello bisognoso: « Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo » (Eb 13,2).

GLI ANGELI NELL’APOCALISSE
Nessun testo è più ricco di questo, nel descrivere il numero incalcolabile degli angeli e la loro funzione glorificatrice di Cristo, il Salvatore di tutti. « Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti » (Ap 7,1). ‘Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliar­di e i quattro esseri viventi, si inchinarono profonda­mente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di gra­zie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen’ « (Ap 7,11-12). Gli angeli suonano la tromba e scatenano piaghe e ca­stighi per i malvagi. Il capitolo 12 ci descrive la grande battaglia che ha luo­go in cielo tra Michele e i suoi angeli da una parte, e Satana e il suo esercito dall’altra (cfr Ap 12,7-12). Chi adora la bestia sarà torturato « con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello » (Ap 14,10). Nella visione del Paradiso l’autore contempla « le dodi­ci porte » della città e su di esse « i dodici angeli » (Ap 21,12). Nell’epilogo Giovanni sente: « Queste parole sono cer­te e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve » (Ap 2, 26). « Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le aveva mostrate » (Ap 2,28). « Io, Gesù, ho mandato il mio angelo, per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese » (Ap 22,16).

21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO – IL VANGELO DI SAN MATTEO

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21 SETTEMBRE SAN MATTEO APOSTOLO

IL VANGELO DI SAN MATTEO

AUTORE, DATA E LUOGO DI COMPOSIZIONE
Il Vangelo secondo Matteo è scritto in greco. Il testo non dice nulla a proposito dell’autore, ma il nome di Matteo compare nel racconto della chiamata di un funzionario che riscuoteva le imposte a Cafàrnao (9,9-13) e nell’elenco dei dodici apostoli, dove è accompagnato dal soprannome «il pubblicano». (10,3).
Un vescovo del II secolo (Papia) e altri dopo di lui hanno affermato che l’apostolo Matteo ha scritto in lingua «ebraica», cioè nell’aramaico parlato ai tempi di Gesù, un testo che potremmo chiamare un «Vangelo».
Dopo aver analizzato con molta precisione le caratteristiche letterarie del Vangelo di Matteo nel testo che è arrivato fino a noi, gli studiosi sono attualmente propensi a credere che quello di Marco sia più antico.
Nel Vangelo secondo Matteo troviamo alcune allusioni alla distruzione di Gerusalemme come a un fatto già avvenuto (22,7); vediamo inoltre riflettersi nelle sue pagine l’aspra lotta tra il giudaismo ortodosso dei farisei e la nascente chiesa cristiana. Possiamo concludere che è stato scritto non prima dell’anno 70 d.C., probabilmente intorno all’80.
Gli studiosi sono abbastanza concordi anche nel ritenere che sia stato redatto in Siria (Antiochia) o in Fenicia, due zone dove i cristiani provenivano in gran parte dal giudaismo. La cosa più importante comunque è sapere che il primo Vangelo, come tutti i libri della sacra Scrittura, è stato composto sotto la guida dell’ispirazione divina.

I DESTINATARI DEL PRIMO VANGELO
Se vogliamo conoscere meglio il volto della giovane chiesa a cui probabilmente è indirizzato il primo Vangelo dobbiamo soffermarci su tre sue caratteristiche:
I suoi membri sono cristiani provenienti dal giudaismo.
Prendono decisamente le distanze dalla dottrina ufficiale dei farisei.
Si sforzano di aprire progressivamente le porte ai pagani.
 CRISTIANI PROVENIENTI DAL GIUDAISMO
  Ebrei di razza, fino a poco tempo prima questi cristiani erano anche di religione giudaica. Sono riconoscibili nel Vangelo secondo Matteo situazioni, problemi, residui di tradizioni e preoccupazioni che rivelano un ambiente e un’origine giudaica. Molti particolari lo indicano chiaramente: la presenza di una genealogia dettagliata che risale fino ad, Abramo; l’importanza attribuita alla legge di Mosè e all’insegnamento dei dottori della legge; l’interesse per il mantenimento delle tradizioni degli antichi (preghiera, elemosina, digiuno); il rispetto per il sabato; l’aspirazione alla «giustizia» che apre le porte del regno tanto atteso.
È evidente tuttavia che i destinatari del Vangelo secondo Matteo non sono giudei, ma cristiani che hanno bisogno di una «catechesi» per consolidare la propria fede in Gesù, il Messia figlio di Davide. Essi sanno che la legge è stata portata a compimento dal Cristo. Non ignorano che la celebrazione del culto eucaristico esige una vita di perdono, di amore e di misericordia. Sanno che i responsabili della comunità e tutti i suoi membri hanno bisogno di essere continuamente stimolati a preoccuparsi con amore dei più piccoli e dei più deboli, a perdonare senza misura, a denunciare l’ipocrisia e a non lasciarsi trascinare dal desiderio degli onori umani. E poiché l’attesa della venuta del Signore si prolunga, sono minacciati dal pericolo della stanchezza. Di qui il pressante invito: vegliate, tenetevi pronti, perché non conoscete né il giorno né l’ora.
PRENDONO LE DISTANZE DALLA DOTTRINA UFFICIALE DEI FARISEI
L’autore del primo Vangelo ha compreso l’enorme pericolo che correrebbe la comunità cristiana se intendesse la legge del Cristo come i farisei intendono la legge di Mosè. L’insistente affermazione: « Ma io vi dico», contrapposta all’espressione: «Avete inteso che fu detto», mette davanti agli occhi dei discepoli la distanza tra l’antica e la nuova legge, che si può osservare soltanto con la grazia del Cristo e che trasforma il mondo e i rapporti fra gli uomini.
In molte pagine del primo Vangelo si avverte la contrapposizione al fariseismo. Certi farisei non hanno visto la luce che brillava in Gesù. Una parte del popolo si è lasciata trascinare al punto da prendere su di sé la responsabilità della condanna del Cristo («II suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli») (27,23-25). Il regno sarà tolto loro e sarà dato ad altri (21,43). Un primo segnale del castigo è la distruzione della città santa e del suo tempio (24,2). Nel giorno del giudizio costoro avranno una sorte più dura di quella degli abitanti di città come Sòdoma e Gomorra (10,15) o come Tiro e Sidone (11,22-24).
Notiamo tuttavia che le minacce non sono soltanto per i farisei, ma anche per i cristiani che non amano Dio. L’opposizione al fariseismo inoltre non è un invito alla vendetta e all’odio. Il richiamo all’amore per i nemici viene ricordato in maniera molto esplicita (5,44-47).
SI SFORZANO DI APRIRE PROGRESSIVAMENTE LE PORTE AI PAGANI
Si tratta di una preoccupazione reale, che in Marco e Luca emerge con molta maggior forza ma che è riconoscibile anche in Matteo. La comunità per cui scrive l’evangelista ha i suoi problemi sul piano dell’organizzazione, della vita morale, della preghiera e della pratica sacramentale, ma non tralascia per questo di sforzarsi di essere una comunità in cui possano trovare posto tutti gli uomini.
Il racconto dei magi (i primi adoratori del Messia) (2,1-12) e le ultime parole di Gesù risorto (che chiede ai suoi di portare l’annuncio evangelico a tutti i popoli) (28,19) inquadrano una serie di allusioni all’idea che la salvezza di Dio è per tutti: «Questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo» (24,14). «Molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» (8,11). Gesù infatti è « il servo che annunzierà la giustizia alle genti», come ricorda Matteo (12,18-21) citando il profeta Isaia (Is 42,1-4).

UNO SCRIBA DIVENUTO DISCEPOLO DEL REGNO DEI CIELI
L’autore del primo Vangelo redige il suo testo dando un’interpretazione nuova a tradizioni preesistenti. Cura attentamente il suo stile. È chiaro e preciso nelle sue espressioni. Usa un linguaggio raffinato. Non trascura i piccoli particolari e li inserisce armoniosamente all’interno dei blocchi dottrinali.
Nel Vangelo di Matteo troviamo espressioni e procedimenti letterari molto usati dagli ebrei della Palestina.
Fra le prime, le principali sono: «il regno dei cieli», «la Legge e i Profeti», «legare e sciogliere», «prendere sopra di sé il giogo».
Fra i secondi ricordiamo:
I raggruppamenti numerici, molto in uso presso i giudei. Hanno valore simbolico e rendono più facile imparare il testo a memoria. (Abbiamo ad esempio una serie di sette parabole. Sette sono anche le invettive contro i farisei e le domande del Padre nostro. I grandi discorsi sono cinque e le tentazioni tre).
ll parallelismo sinonimico o antitetico, cioè l’introduzione di formule parallele facili da ricordare («Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico»).
La ripetizione di determinate espressioni («Guai a voi, scribi e farisei»; « Tu invece»; «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»).
Matteo è attratto, più degli altri evangelisti sinottici, dagli insegnamenti di Gesù maestro. Li raggruppa in cinque discorsi, lunghi, densi di contenuto e molto più completi di quelli riportati da Marco o da Luca nei rispettivi Vangeli:
Il cosiddetto discorso della montagna, che si apre con le « beatitudini» e costituisce una specie di dichiarazione programmatica o di grande annuncio del regno di Dio (5-7).
Il discorso ai missionari, che raccoglie i consigli dati da Gesù ai discepoli inviati a predicare il regno di Dio (10).
Le parabole del regno. Il regno è un mistero e non solo una legge nuova. Attraverso una serie di parabole Gesù ci rivela i misteri di Dio (13).
Il discorso ai responsabili della comunità, in cui si raccomanda vivamente la sollecitudine per i più piccoli, la fraternità e il perdono delle offese (18).
Il discorso sulla fine dei tempi, in cui risuona il pressante invito a vegliare in modo attivo e responsabile, dedicandosi al servizio dei più umili (24-25).
Matteo si rifà molto spesso all’Antico Testamento. Nel suo Vangelo è possibile rintracciare quarantatré riferimenti molto chiari. La formula introduttiva più usata è: «Perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta». L’Antico Testamento viene citato ad esempio per quanto riguarda:
il concepimento verginale di Gesù (1,22);
l’adorazione dei magi (2,5);
la fuga in Egitto (2,15);
la strage degli innocenti (2,17);
il ritorno di Gesù a Nàzaret (2,23);
la predicazione iniziale in Galilea (4,14);
l’insegnamento per mezzo di parabole (13,14.35);
la guarigione di indemoniati e di altri infermi (8,17;12,17);
l’ingresso trionfale in Gerusalemme (21,4);
la triste fine di Giuda (27,9).
In tutti questi casi l’evangelista afferma non solo che si compie ciò che era stato predetto, ma anche che il disegno di Dio raggiunge in Gesù la piena realizzazione prevista da Dio stesso.
 Le indicazioni geografiche del primo Vangelo sono vaghe e non permettono di ricostruire un itinerario preciso. Alcuni studiosi pensano che potrebbero anche avere un significato religioso.
Bambino, Gesù ritorna dall’Egitto e si stabilisce in Galilea. Proprio in questa regione, che aveva ben poco valore agli occhi degli abitanti di Gerusalemme, Gesù comincia a predicare il regno di Dio. Matteo vede in questo fatto la grande luce annunciata da Isaia per il popolo che camminava nelle tenebre (4,15-16).
Gesù risorto si manifesta ai discepoli in Galilea. Da questa terra disprezzata dai giudei la parola di Dio rimbalzerà in tutto il mondo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (28,19). Tranne qualche rapida puntata in terra pagana, Gesù esce soltanto due volte dalla Galilea: la prima per essere battezzato da Giovanni sulla riva del fiume Giordano. Qui egli riceve e accetta la sua missione. Il Padre dichiara Gesù Figlio e Messia. Sullo sfondo si delinea la figura del servo sofferente preannunciato da Isaia (3,17).
Gesù esce una seconda volta dalla Galilea per andare a morire nella città santa. A Gerusalemme si consumerà il rifiuto del Cristo da parte dei capi e del popolo. Matteo segnala questo fatto riferendo nel suo Vangelo che alla morte di Gesù il velo del tempio si squarcia da cima a fondo (27,51).
«Vi precede in Galilea; là lo vedrete» (28,7). «Ecco, noi stiamo salendo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato…, lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani… perché sia crocifisso…» (20,18-19). Galilea e Gerusalemme. Due luoghi e anche due simboli. La regione disprezzata si apre alla luce. La città santa si chiude e porta fino in fondo il rifiuto di Dio.

GESÙ È IL MESSIA ATTESO. LA CHIESA LO PROCLAMA SIGNORE

 Il Vangelo secondo Matteo è costruito su due idee chiave:
Gesù è il Messia atteso da Israele. Ma in seno al suo popolo questa verità non è stata riconosciuta.
Gesù fonda una nuova comunità e la chiama chiesa. È il nuovo Israele. Il suo capo è Pietro. Questa comunità è depositaria delle promesse di Dio e viene incaricata di annunciare a tutti i popoli il regno dei cieli.
Matteo vuol rivelare il mistero meraviglioso di Gesù. Per questo presenta il Cristo con nomi e titoli che sono molto significativi per i suoi ascoltatori giudeo-cristiani.
Gesù è il figlio di Abramo, il figlio di Davide, il re dei giudei. Secondo le antiche promesse, il Messia sarebbe venuto dalla stirpe di Abramo (Gn 12,2) e il suo regno avrebbe reso eterno il regno di Davide (2Sam 7,12).
Gesù è anche il Figlio dell’uomo. Questo misterioso personaggio del libro di Daniele riceve da Dio il potere divino di giudicare (Dn 7). Gesù riceverà questo potere il giorno della sua risurrezione. Di conseguenza è il titolo che Gesù preferisce, perché esprime velatamente la gloria che egli possiede come Figlio eterno del Padre e che lo attende come uomo.
Gesù è il servo sofferente che si carica della nostra miseria e versa il suo sangue per la remissione dei nostri peccati (Is 42,1 = Mt 12,18; Is 53,4 = Mt 8,17; Is 53,12 = Mt 26,28). Egli rivela così la misericordia di Dio verso tutti.
Il Cristo del Vangelo di Matteo si presenta rivestito di una maestà e di una dignità straordinaria. È il maestro per eccellenza, che vive in mezzo alla comunità. Insegna la nuova «giustizia» e interpreta la legge con autorità e in maniera definitiva. Non la sopprime, ma ne mette in luce l’essenza e la porta a compimento: Dio vuole che amiamo anche i nemici.
 Il Cristo di Matteo infine è il Signore onnipotente. Questo titolo, ripetuto per ottanta volte nel corso del Vangelo, equivale all’affermazione che Gesù è Dio (il termine «Signore» traduce l’ebraico JHWH). Gesù vive nella sua chiesa e agisce in essa con potenza.
Il contenuto del primo Vangelo si potrebbe sintetizzare in una frase: «La salvezza di Dio è Gesù Cristo per mezzo della chiesa».

UN POSSIBILE SCHEMA DEL VANGELO SECONDO MATTEO
Per la sua semplicità e chiarezza, presentiamo come semplice guida di lettura il seguente schema del primo Vangelo:

Vangelo dell’infanzia del Cristo                                1,1-2,23
Il regno dei cieli: proclamazione
                – Sezione narrativa                                           3,1-4,25
                – Discorso della montagna                                5,1-7,29
Il regno dei cieli: istruzioni agli apostoli
                – Sezione narrativa (miracoli)                            8,1-9,38
                – Discorso ai missionari                                    10,142
Il mistero del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                            11,1-12,50
                – Le parabole del regno                                     13,1-52
Il primo frutto del regno dei cieli: la chiesa
                – Sezione narrativa                                             13,53-17,27
                – Discorso alla comunità                                     18,1-35
L’avvento prossimo del regno dei cieli
                – Sezione narrativa                                              19,1-22,46
                – Discorso contro i capi del popolo                      23,1-39
                – Insegnamenti sulla fine                                      24,1-25,46
Vangelo della passione e della risurrezione                      26,1-28,20

TUTTE LE CREATURE VIVENTI. – LA RIFLESSIONE TEOLOGICA ED ETICA.

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MILANO, 2 LUGLIO 2011 – INTERVENTO DI DON LUIGI LORENZETTI

TUTTE LE CREATURE VIVENTI. – LA RIFLESSIONE TEOLOGICA ED ETICA.


Il terzo appuntamento di La coscienza degli animali si propone, _ come annuncia il Ministro del turismo, on. Michela Vittoria Brambilla, nel programma _ «la necessità di interpretare compiutamente il sentimento di amore verso tutte le creature viventi». L’attenzione va su quel «tutte»: ci sono forse creature viventi che sono escluse dall’amore e dal rispetto? Al riguardo, cosa insegna la teologia? Quale morale ne deriva? Sono domande alle quali si vuole rispondere, sia pure per linee essenziali. L’intento è duplice: delineare una teologia (comprensione cristiana) delle creature viventi; e mostrare l’etica che ne deriva.

I.  Le creature viventi: quali sono?
Creature viventi sono gli umani, gli animali, i vegetali: sono forme di vita distinte ma correlate: non si può parlare compiutamente dell’una senza includere anche l’altra. Tuttavia, nel corso della storia, non solo cristiana, il discorso sulle creature viventi è stato riduttivo: tra le creature viventi, si considerava quasi esclusivamente il vivente umano: il vivente animale e, ancora più, il vivente vegetale passavano in secondo piano. Ma anche quando si parlava delle diverse forme di vita,  si evidenziava subito il rapporto gerarchico tra il vivente umano e il vivente animale: superiore l’uno, inferiore l’altro. Come si sa per esperienza, quando s’introduce l’ordine gerarchico tra un primo e un secondo, il secondo ci perde sempre. L’ordine gerarchico (dominato-dominante, superiore-inferiore) falsa il rapporto tra i viventi umani, ma anche tra questi e gli animali.

1I. Una aggiornata teologia delle creature viventi
 Per evitare un discorso riduttivo e discriminatorio tra le creature viventi, è necessario ripensare le diverse fasi della storia della salvezza, dove appare evidente che la salvezza, annunciata e promessa, include tutte le creature viventi: i viventi umani, i viventi animali, vegetali e gli stessi elementi naturali.

1. La creazione
Il testo biblico riferisce che prima compaiono le piante, successivamente gli animali, infine l’essere umano, uomo e donna, che è posto al vertice e culmine dell’universo. Il quadro delle creature viventi è così completo: tutte le creature,  animate e inanimate, sono opera dell’azione creatrice di Dio. E questo è vero anche nella prospettiva dell’evoluzione che ha, come punto di partenza non il caso, ma un disegno Intelligente.
All’uomo e alla donna, il Creatore affida il dominio su l’universo: . dice (Genesi 1,28): «riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi, 1,28). Al capitolo seguente  appare chiaro il tipo di dominio conferito all’essere umano dal, Creatore: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e la custodisse» (Genesi 2,15).
All’essere umano viene, quindi, affidato un compito che si traduce in servizio e responsabilità verso il creato e quanto contiene. Purtroppo, il pensiero tradizionale ha fatto riferimento quasi esclusivamente a Genesi 1, 28; e non a Genesi 2, 15, e così si è prestato a legittimare un dominio, inteso come «jus utendi et abutendi».
Nella storia del cristianesimo, in base al dato biblico diversamente interpretato, si sono formate due scuole di pensiero: quella che ha il suo massimo rappresentante in Francesco d’Assisi, per il quale gli animali sono fratelli e sorelle; e quella che ha legittimato, di fatto, una sorta di irrilevanza e anche di disprezzo nei confronti degli animali considerati più come cose, di cui disporre arbitrariamente piuttosto, che come creature viventi.

2.  Alleanza di Dio con ogni vivente
Dopo il diluvio universale, Dio stabilisce l’alleanza non solo con la famiglia di Noè e neppure solo con i viventi umani, ma anche con i viventi animali (Genesi 9, 9-11):
«Quanto a me, ecco stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».

3. La redenzione
La redenzione, a opera di Gesù Cristo, morto e risorto, coinvolge tutte creature viventi e  lo stesso cosmo (universo). La salvezza è già accaduta, ma non ancora compiutamente. Questa troverà compimento alla fine della storia umana e cosmica. La redenzione è collegata all’escatologia (annuncio delle realtà future).

4. Escatologia (o futuro ultimo)
Il creato e quanto contiene ha un futuro ultimo. I profeti e, tra questi, Isaia (11,6-8), annunciano con linguaggio allegorico le realtà ultime che coincidono con la  pace e la riconciliazione con tutte le creature, umane e non umane.
«Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme i loro piccoli, il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi»
Sono figure allegoriche alle quali i profeti ricorrono di frequente per annunciare la fine dei tempi che ristabilisce l’armonia degli inizi, quell’armonia che il peccato (e i peccati), hanno interrotto (e interrompono) a ogni livello: con Dio, tra gli umani e con gli animali. Il cammino dell’umanità e dell’universo va verso la promessa dei «cieli nuovi e della terra nuova».
Sono certamente figure allegoriche ma anche reali che evidenziano un aspetto della Redenzione, sovente trascurato nella trasmissione del messaggio cristiano: la piena armonia futura, cioè, non riguarda soltanto il mondo umano, ma anche il mondo non umano che passa dalla violenza e sofferenza alla riconciliazione con tutte le creature. Un futuro, tuttavia, che non è solo da attendere. La speranza ultima non conduce all’evasione, è invece impegno a preparare, e in qualche modo anticipare, la realtà ultima, che passa attraverso il prendersi cura del creato secondo il mandato di custodia e di coltivazione che Dio ha affidato all’essere umano, uomo e donna.
L’idea della possibilità di un’altra vita per tutte le creature viventi e, dunque, anche degli animali, non costituisce una novità. In epoca recente è sostenuta da autorevoli uomini religiosi: Paolo VI, a un bimbo in lacrime per la morte del suo piccolo cane, gli dice: «Non piangere, perché nuovamente l’avrai».

III. L’etica che deriva dalla teologia delle creature viventi
 A questo punto, si tratta di passare dalla teologia delle creature viventi, all’etica, cioè all’atteggiamento e comportamento verso le creature viventi. Se l’atteggiamento e il comportamento fosse spontaneamente di empatia non ci sarebbe bisogno di etica, ma così non è. Ma quale etica?
L’etica che deriva dalla teologia delle creature viventi, si declina in un’etica di  rispetto,  di compassione, di autolimitazione.

1. Rispetto (rispettare)
Rispetto è una parola che ritorna attualmente anche nel linguaggio pubblico: «rispetto della vita», «rispetto dell’ambiente». È sicuramente un segno di un cambiamento culturale della nostre società, anche se la cosa è ancora tutta da verificare.
Il rispetto è un atteggiamento, una disposizione che non dà la soluzione concreta bell’e fatta ai problemi concreti, ma descrive il giusto orizzonte entro il quale si può e si deve trovare la soluzione concreta.
Che cosa esige il rispetto della vita degli animali per quanto riguarda i limiti degli esperimenti medici su di essi? Che cosa comporta il rispetto delle diverse forme di vita presenti nel nostro ambiente naturale, della molteplicità delle specie vegetali e animali? Sono interrogativi ai quali non è facile dare, in ogni caso, la giusta risposta, ma sicuramente non la si troverà se non si parte da un atteggiamento (disposizione, virtù) di rispetto.
Filosofi e teologi concordano nel sostenere che, alla base del rispetto (etimologicamente re-spectare, guardare di nuovo), c’è, tutto sommato, un modo specifico di accostarsi alla realtà che si esprime in termini di vicinanza e, insieme,  di distanza. Il rispetto conduce a mantenere una certa distanza nei confronti dell’altro, di ogni altro, degli altri, e permette loro di essere così come sono; scopre cioè che gli altri, che incontra: umani, animali, vegetali e le stesse cose naturali non hanno solo un valore utile; prima di tutto hanno un valore proprio.
La persona che rispetta, rinuncia a riferire a se stesso, quale unico centro, tutto quello che lo circonda e a volgerlo ai suoi interessi; non gli è difficile riconoscere i limiti morali nel disporre della vita, di ogni vita. Al contrario, una persona utilitarista e consumista tende a volgere a proprio vantaggio ogni realtà che incontra, a sfruttare l’altro a proprio vantaggio, a calpestare anche i diritti del prossimo, specie quando è più debole ed è possibile discriminarlo senza correre pericoli.
Per prossimo si deve intendere non solo l’umano, ma anche l’animale, la pianta, la realtà inanimata. «È necessario estendere _ avverte Paolo De Benedetti _ la concezione di prossimo; il mio prossimo è tutto il creato», nelle dovute distinzioni che, però, non possono trasformarsi in discriminazioni.
2. Compassione (o empatia)
La compassione (il concetto) dà luogo, negli odierni dibattiti bioetici, a interpretazioni controverse, nelle quali si riflettono le diverse visioni filosofiche sulla vita. F. Nietzsche vede nella compassione solo «un moltiplicatore della miseria» e una corrispondente «perdita di vita». Al contrario, M. Scheler e la fenomenologia del nostro secolo parlano nuovamente, in base a una lunga tradizione filosofico-morale, della compassione (simpatia) come di una reale immedesimazione, che dà luogo a un’identificazione con l’altro e a una genuina partecipazione alla sofferenza delle creature, umane e non umane.
Nella Lettera ai Romani (Rm 8, 22), l’apostolo Paolo parla del gemito della creazione: «Sappiamo infatti che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi».
Il tema della sofferenza dell’animale è un tema centrale nella Bibbia alla pari anzi di più di quanto non sia la sofferenza umana. «Credo _ osserva Paolo De Benedetti _ che il problema della sofferenza nell’animale dopo il paradiso terrestre, abbia questa grave inesplicabilità: le disgrazie, i mali e tutte le sventure, compresa la morte, che vengono all’uomo sono presentate come conseguenza di un peccato, mentre i mali che travolgono gli animali non sono riconducibili a un peccato da essi commesso. Gli animali non peccano: sono innocenti. Anche l’episodio del diluvio dimostra che il regno animale è in rapporto con l’uomo sia in quanto essere vivente sia perché è travolto, inconsapevolmente e senza colpa alcuna, dal peccato dell’uomo. Per questo, bisognerebbe dire: come l’essere umano travolge nella rovina gli animali e le piante, così l’uomo ha il dovere di riportare salvezza anche per gli animali e per le piante. Come dovere di riparazione.
Ma c’è di più, oltre la sofferenza degli animali che è conseguenza di un mondo ancora imperfetto, c’è la sofferenza che i viventi umani causano agli animali. «Nel corso dei due precedenti appuntamenti  _ ricorda il Ministro, on. Michela Vittoria Brambilla _ abbiamo introdotto tutti i temi relativi al maltrattamento degli animali, alla loro detenzione negli zoo, al loro sfruttamento nei circhi, alla terribile pratica della vivisezione e via dicendo. Inoltre, abbiamo dedicato un momento di approfondimento alla caccia».
Nella medesima assoluta mancanza di rispetto e causa di sofferenza gratuita e crudele, rientra «l’allevamento intensivo per l’industria della carne e per quella della pelliccia».
Sono fenomeni che rappresentano una massa di dolore e di deprivazione. Non possono lasciare indifferenti o neutrali, chiamano in causa la libertà-responsabilità dell’essere umano e la mancanza di una elementare formazione alla pietas verso gli animali.
3. Autolimitazione
L’auto-limitazione (o senso del limite e della giusta misura) modera la forza di espansione, con la quale il soggetto umano estende continuamente i confini del proprio dominio sulla natura interna ed esterna.
Si può riconoscere che l’auto-limitazione, nell’odierno risveglio della coscienza ecologica, ha acquisito una nuova forza di attrazione. Tuttavia, il largo consenso per la salvaguardia della creazione e per il rispetto della vita, di ogni vita, presuppone ed esige un cambiamento di mentalità (cultura) e di comportamento (etica). Si è oggi maggiormente consapevoli che il degrado ambientale (dell’ambiente e delle creature che ci vivono) è il risultato di una tendenza storica e culturale. La cultura, che si è affermata progressivamente e che ha guidato le società occidentali, è una cultura di tipo padronale che considera il creato, e quanto contiene, come un grande magazzino da saccheggiare e, in ogni caso, da disporre arbitrariamente; è una cultura individualista (di singolo o di gruppo umano) e utilitarista che tutto volge al proprio interesse e utilità.
Di conseguenza, per uscire dalla grave crisi ecologica è necessaria una conversione culturale di tipo etico: il passaggio dall’atteggiamento della sopraffazione e dello sfruttamento a quello della solidarietà che cerca il bene proprio nel bene dell’altro, di ogni altro, umano e non umano, e delle stesse cose o risorse naturali. E questo pone le società democratiche dell’occidente, guidate dal principio della massima libertà possibile, di fronte a sfide inusitate.
Per concludere, In base al messaggio biblico, è necessario ricuperare il  discorso sulle creature che include gli animali e i vegetali ai quali, nel corso della tradizione si è dato poca importanza. Di conseguenza si può vedere come gli atteggiamenti etici (rispetto, compassione, autolimitazione) sono pertinenti e esigenti per tutte le forme di vita, umane e non umane; e delineano l’orizzonte entro il quale è possibile trovare la giusta soluzione nei casi concreti e denunciare le soluzioni ingiuste e immorali.

IL CEDRO (biblica)

http://www.sanpietroepaologerenzano.it/pdf/TemiMese/Novembre08Cedro.pdf

IL CEDRO

Un argomento al mese su cui riflettere: Novembre 2008

da “La vita in Cristo e nella Chiesa” – Anno LVII, n°1.

Per esprimere la storia particolare che intercorre tra Dio e il suo popolo, la Bibbia spesso  ricorre a delle metafore vegetali. Nella letteratura sapienziale e nei Profeti la vigna lussureggiante è simbolo di Israele, popolo piantato e coltivato dal Signore (cf Is 5,1-7; Os 10,1); l’abbondanza dell’olivo, del grano e del vino sono segni
di prosperità e di vita; la mietitura, i covoni raffigurano il vigore e la fecondità dell’uomo sia nella vita fisica sia in quella spirituale. Gli alberi e le piante sono solidali con la condizione dell’uomo, legato alla terra. È per disposizione divina che la terra produce frutti e tale fecondità include non solo i frutti agricoli, ma anche i figli (cf Sal 128,3). Di fronte ad una situazione di infedeltà e crisi (l’idolatria) Osea chiama il Signore Izreèl, «Dio-semina», ad intendere che è Dio stesso che ripianta il suo popolo affinchè questi dia frutto abbondante (Os 2,2). A volte, tali immagini tratte dal mondo vegetale, sono contrastanti tra di loro: l’uomo è come «un fiore del campo che appassisce» (Is 40,6); ma è anche «rigoglioso come un albero piantato lungo corsi d’acqua» (Ger 17,8). I giusti, i timorati del Signore hanno una vitalità indistruttibile e perciò sono paragonati ad un albero (cf Sal 1,3; 92,13-14; Ger 17,7-8), mentre gli empi sono inconsistenti come pula (cf Sal 1,4; Is 17,13; Os 13,3). Il cedro nei testi extrabiblici Fonti extrabibliche riportano l’importanza che aveva quest’albero nell’economia del vicino oriente antico. Nell’epopea di Gilgamesh l’eroe intraprende un viaggio verso la foresta dei cedri, custodita dal mostro Hubaba, che il dio Enlil ha scelto per proteggere la foresta dagli intrusi. Gilgamesh non si lascia impressionare dalle difficoltà: sconfigge Hubaba, tronca i cedri dei quali un tronco deve essere portato a Nippur per onorare il tempio di Enlil: «Amico mio, è stato abbattuto il meraviglioso cedro, la cui corona bucava il cielo. lo voglio fare con esso una porta la cui altezza sia sei volte dodici spanne, la cui larghezza due volte dodici spanne, una spanna sia il suo spessore; la sua spranga, il suo cardine inferiore, il suo cardine superiore siano ognuno di una spanna; che sia trasportata a Nippur».
1.II racconto di Wenamun, un ufficiale tebano, che intorno al 1070 a.C. per conto del faraone si recò a Biblo per l’approvvigionamento di legname da Tiro
2. testimonia quanto fossero importanti i boschi di cedri del Libano. Il legno di quest’albero era molto apprezzato in tutti i paesi circostanti. Da Tiglatpileser in poi fu obiettivo di spedizioni militari assire, ittite, babilonesi ed egizie. Il cedro veniva infatti utilizzato per tutte le edilizie importanti, come materia indispensabile per le costruzioni di palazzi, templi e navi, oltre che perstrumenti di guerra.
Il cedro nella Bibbia
II cedro, che appartiene alla famiglia delle conifere, affonda le radici delle sue origini in Asia Minore. Estese foreste si sviluppavano un tempo sui monti del Libano e dell’Antilibano dove il legno era adoperato per la costruzione di case e di navi. Nei tempi remoti erano le foreste del Libano che assicuravano il legname per tutta la regione mediorientale. Gli alberi, in generale, per la loro fisionomia alludono alla solidità ed alla robustezza. I cedri, secondo la descrizione dei salmi, si trovano sul territorio del Libano, sulla catena montuosa del nord (cf Sal 29,5; 36,7; 68,16; 104,16). La loro altezza può raggiungere anche i 40 metri e hanno una notevole circonferenza che può superare i 10-12 metri.I passi biblici, relativi al cedro, documentano come Chiram, re di Tiro, fornì il legno del cedro a Davide per il suo palazzo regale (cf 2 Sam 5,11) e, successivamente, anche a Salomone per la realizzazione del tempio di Gerusalemme (cf 1 Re 5,20-25). II cedro, per le sue notevoli dimensioni, è stato fatto anche emblema di nobiltà, di magnificenza e di maestà. È proprio per questo che Ezechiele lo utilizza come simbolo del Messia e del suo regno. «Dice il Signore Dio: lo prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami coglierò un ramoscello e lo pianterò sopra un monte alto, massiccio; lo pianterò sopra un monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
2. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco, lo, il Signore, ho parlato e lo farò» (Ez 17,22-24).
Per la sua possanza e altezza il cedro è anche emblema della potenza che non si piega, mentre nel libro di Daniele (cf Dn 4,17-14) e in Ezechiele (cf Ez 31,3-14) vediamo che gli alberi indicano la potenza crescente ma caduca delle nazioni, così come anche nell’Apologo di lotam, in cui l’esuberante cedro sarà suscettibiledi umiliazione.
La parabola degli alberi che vogliono un re: Gdc 9,7-15
All’epoca dei Giudici sorge Gedeone. Nell’ordine cronologico egli è al quinto posto, ma per la sua vittoria sui Madianiti è considerato fra i primi, al punto che gli Israeliti entusiasti vorrebbero farlo re. La loro domanda nasce dal desiderio di creare un’unità ben compatta fra le varie tribù, con un esercito stabile e pronto ad intervenire con tempestività contro i popoli circostanti in caso di emergenza. Tale richiesta non sarà soddisfatta: Gedeone si rifiuta di diventare re ritardando cosi, ancora per un breve periodo, l’instaurazione della monarchia. Si presenta allora l’opportunista Abimelech, figlio di Gedeone, nato da una delle concubine di suo padre. Spregiudicato e ambizioso, persuade gli abitanti di Sichem della necessità di avere un re, si fa eleggere da loro e uccide quindi i suoi settanta fratelli. L’unico sopravvissuto alla strage è lotam (= YHWH è perfetto), il figlio più giovane di Gedeone, il quale si rifugia sul monte Garizim. Dalla sommità di questo monte egli vuole mettere in guardia i sichemiti sulle insidie del fratello, pronunciando loro questo discorso:
«Quando lotam fu informato della cosa, andò sulle cime del monte Garizim, da dove a gran voce gridò ai signori di Sichem: « Ascoltatemi, signori di Sichem, e che Dio ascolti voi. Un giorno gli alberi si misero in cammino per andare a eleggere un re che regnasse sopra di loro. Dissero all’ulivo: « Regna sopra di noi! » Rispose loro l’ulivo: « Dovrò forse rinunciare al mio olio, col quale si rende onore agli uomini e agli dèi, per andare ad agitarmi al di sopra degli altri alberi? » Allora gli alberi dissero al fico: « Vieni tu a regnare sopra di noi! » Rispose loro il fico: « Dovrò forse rinunciare alla mia dolcezza, ai miei ottimi frutti, per andarmi ad agitare al di sopra degli altri alberi? » Allora gli alberi dissero alla vite: « Vieni tu a regnare sopra di noi! » Rispose loro  la vite: « Dovrò forse rinunciare al mio mosto, che da gioia agli dèi e agli uomini, per andare ad agitarmi al di sopra degli altri alberi? » Allora gli alberi, tutti insieme dissero al rovo: « Vieni tu a regnare sopra di noi! »Rispose il rovo agli alberi: « Se avete davvero l’intenzione di eleggere me vostro sovrano, venite a ripararvi alla mia ombra. Altrimenti, un fuoco uscirà dal rovo, e divorerà i cedri del Libano! »» (Gdc 9,7-15). Secondo la parabola, gli alberi, senza specificarne la specie, si consultano tra di loro e si mettono in cammino in cerca di un re. Essi interpellano gli alberi più pregiati d’Israele: per primo l’ulivo, in seguito il fico, infine la vite. Ma la loro proposta non trova il gradimento degli alberi nobili: tutti e tre congedano i loro interlocutori con una domanda retorica concernente i loro rispettivi prodotti. L’ulivo, il fico e la vite possono, a buon diritto, vantarsi dei loro frutti che sono un elemento diagnostico sicuro per poter valutare la genuinità e la natura di qualsiasi pianta. I frutti sono segni di benedizione divina: l’olio indica l’abbondanza e allude alla regalità, all’unzione; il frutto del fico mette in evidenza il contrasto tra deserto e terra fertile; la vite poi è immagine di benessere e ricchezza.A questo punto del racconto gli alberi, sbalorditi di tale rifiuto, scendono di livello e si rivolgono al rovo. Alla triade degli alberi è contrapposto il rovo, infruttuoso, rozzo e dannoso. Il rovo, come si legge, si erge al di sopra degli altri alberi e, sfidando tutti, accetta ben volentieri di fare il re delle altre piante, esigendo da esse fedeltà e ubbidienza. In cambio della sudditanza può offrire solo… ombra! E quanta ombra potrà mai offrire un cespuglio? L’ombra, di per sé è qualcosa di inconsistente, indica l’irrealtà di un oggetto. Essa si sposta secondo il giro del sole; termina il giorno e l’ombra si dilegua. Offrire la propria ombra indica perciò qualcosa di fuggente, caduco e vano. L’applicazione della parabola alla storia d’Israele è di facile comprensione: quante nazioni, anche gloriose, hanno affidato la loro sorte anziché al Signore a degli individui meschini e violenti che, accendendosi come paglia, bruciarono i loro stessi popoli! All’epoca di Gedeone e di suo figlio Abimelech i tempi erano ancora prematuri per la costituzione della monarchia. Il Signore, secondo la testimonianza di 1 Sam 8,1 ss, voleva che nessuno dominasse su Israele e che il suo popolo restasse libero. Rinunciare a questa libertà è disprezzare Dio e negare la sua rega¬lità, unico vero re d’Israele. Sia l’esuberante cedro, sia il rovo si trasformano in simboli di orgoglio e di altezzosità. Su di essi scende inesorabilmente il giudizio divino che infrange e calpesta la superbia. I sichemiti (i cedri) si sono scelti un re inetto, Abimelech, cioè un «rovo», che sfrutterà i suoi sudditi e li manderà in rovina. I rovi, anche se tolti nell’aratura, tendono ad invadere e soffocare tutto il resto, oltre che mettere in pericolo il raccolto per improvvisi incendi. Esattamente è questo che storicamente si veri-ficò. Le parole di lotam non furono ascoltate e la maledizione di Gdc 9,15.20, che parla di un «fuoco divoratore», si avverò alla lettera tre anni più tardi (cf Gdc 9,57). La potenza divina non conosce ostacoli al suo incedere tempestoso. Israele potrà «radicarsi» nella terra solo confidando nel Signore. Alla luce della ghematria ebraica cogliamo poi un nesso sorprendente tra il nome«Sichem» e la loro crudele sorte, quella cioè di essere «preda, bottino».

1 RE 19,16.19-21 – TESTO E COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=234

1 RE 19,16.19-21

In quei giorni, disse il Signore ad Elia: 16 « Ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto ».
19 Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. 20 Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: « Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò ». Elia disse: « Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te ».
21 Allontanatosi da lui Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio.

COMMENTO 
1 Re 19,16b-21

Vocazione di Eliseo
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 – 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico. Dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb, il luogo della rivelazione e dell’alleanza. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove gli appare JHWH (1Re 19,9-18). Il fatto che Dio parli ad Elia non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma «nel mormorio di un vento leggero» (lett. nella voce di un sottile silenzio) significa che anche il profeta, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, «pieno di zelo per il Signore». Egli appare così come il genuino continuatore di Mosè in quanto rende attuale nell’oggi, nonostante l’assenza di fenomeni straordinari, la volontà di JHWH contenuta nella legge (cfr. Dt 18,15-18).
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (cfr. 2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (cfr. 2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Sia Cazael sia Ieu provocheranno una grande distruzione in Israele, ma Dio risparmierà in Israele settemila persone, un resto che gli è fedele. Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a JHWH. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo. Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da JHWH sull’Oreb (v. 16b). Il racconto si divide  in due parti: gesto simbolico di Elia (v. 19); congedo di Eliseo (vv. 20-21).

Il gesto simbolico di Elia (v. 19)
Il narratore decrive immediatamente l’incontro di Elia con Eliseo. La scena si svolge con ogni probabilità nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Costui è intento a un impegnativo lavoro agricolo; egli arava infatti con una serie di dodici coppie di buoi che egli guidava tenendo stretta l’ultima coppia, la dodicesima. Al vederlo, Elia gli si avvicina e gli getta sulle spalle il suo mantello. La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (cfr. 2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. La concezione del mantello dotato di qualità taumaturgiche era abbastanza diffusa nell’antico Vicino Oriente, dove esistono testimonianze a partire da rituali assiri, dal regno di Mari e dal graffito in greco di una tomba fenicia, fino ad arrivare al NT e precisamente all’episodio della guarigione dell’emorroissa operata semplicemente dal contatto della donna con il mantello di Gesù (Mc 5,25-34).
Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo.  Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. La scena ricorda la designazione di Giosuè come successore di Mosè (Nm 27,18-23; Dt 34,9; cfr. anche Sir 46, l).  Però il rituale adottato è diverso e inoltre, mentre nel caso di Mosè e di Giosuè si tratta di una vera e propria trasmissione di poteri, a Eliseo per ora viene solamente richiesto  di mettersi al servizio di Elia.

Il congedo di Eliseo (vv. 20-21).
Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia e accetta di mettersi al suo servizio, ma chiede di poter prima congedarsi dai suoi genitori, mostrando così di aver capito che la sua missione avrebbe avuto un carattere definitivo. Elia glielo concede, ma gli chiede di tornare subito, data l’importanza di quanto era stato appena compiuto. Tale motivazione è formulata in un modo difficile da comprendere. Dal punto di vista grammaticale la frase si può rendere come un’interrogativa: « (Torna), perché, che cosa ti ho fatto?» ma non sembra abbia senso. Dal momento che in ogni caso sembra significare il carattere speciale della missione che gli è stata conferita, l’espressione può essere interpretata come un’esclamazione: «Ritorna, perché (sai bene) che (grande) cosa ho fatto per te!».
Ritornato a casa, Eliseo sacrifica un paio di buoi e con i pezzi di legno dell’aratro accende il fuoco per cuocerne la carne; poi, divide il pasto con i suoi in una festosa cerimonia d’addio. Con questo pasto comune egli rivela ai suoi che il suo distacco da loro ha come scopo l’assunzione di un compito più importante e impegnativo. Il fatto che egli si serva della carne dei suoi buoi e la faccia cuocere con il legno del giogo al quale erano legati significa che egli taglia i ponti dietro di sé: ormai non potrà più ritornare al lavoro di prima. Compiuto questo atto di affetto e di distacco, Eliseo si mette al servizio del suo maestro, così come aveva fatto Giosuè nei riguardi di Mosè (Es 24,13). Nel vangelo di Luca vi è un riferimento abbastanza esplicito a questo episodio, ma Gesù, al contrario di Elia, non concede alcun congedo dai parenti al suo seguace: è questo un altro odo per indicare la radicalità della sequela evangelica (cfr. Lc 9,61-62).

Linee interpretative
La chiamata di Eliseo rappresenta per Elia l’uscita dalla solitudine che aveva caratterizzato la sua esistenza fino a quel momento. Ora ha trovato un compagno con cui condividere un progetto per nulla facile, che è quello non solo di ammonire il popolo, ma anche di condizionare gli avvenimenti della storia perché Israele, colpito dai flagelli predisposti da Dio, ritorni sulla retta strada. Al tempo stesso Elia, con la chiamata di Eliseo, assicura la continuità della sua opera. Infatti gli altri due compiti che gli erano stati assegnati sul monte Oreb saranno portati a termine rispettivamente da Eliseo e da un profeta della sua cerchia. La chiamata di Eliseo dà anche un’idea appropriata di quella schiera di profeti che, secondo Dt 18,15-8, saranno i continuatori dell’opera di Mosè. Come Elia, anche i profeti che verranno dopo di lui garantiranno la presenza attiva e costante di Dio in mezzo al suo popolo.
La chiamata di Eliseo dà anche un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo. A Eliseo si richiede una risposta immediata e radicale. Paradossalmente anche il banchetto con i suoi parenti non è un indugio, ma il segno di un distacco totale, di un cambiamento radicale di vita. D’ora in poi non potrà più tornare indietro, ma dovrà immergersi sempre più in un compito nel quale non mancheranno difficoltà e sofferenze.

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

 http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/dogmatica/peccorpaolo.htm

 GIOVANNI S. ROMANIDIS

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

La traduzione è tratta da:
St. Vladimir’s Seminary Quaterly,
vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

Introduzione
 Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. È sicuramente un’opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi “non ignoriamo i pensieri” (noemata) del Demonio (II Cor 2, 11).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (Sant’Atanasio, De incarnatione verbi Dei, 4). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.  Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono “mondo naturale” e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere. Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. È incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 “eph’ho pantes hemarton” per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:
    1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
    2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
    3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.
Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta
 San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (I Tim 4,4). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (Rom 5, 12) ma pure tutta la creazione è decaduta (Rom 8, 20). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (Rom 8, 21-23). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (I Cor 15, 26) “dio di questo secolo” (II Cor 4, 3). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (Rom 1, 20).
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse “poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata” (Rom 8, 20) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’“uomo interiore” ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (Rom 7, 15-25). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per “normale”, intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (Rom 11, 5), è il Demonio (II Cor 4, 3).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (I Cor 15, 56). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (Rom 3, 9-12; 5, 19). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (Rom 5, 13). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (II Cor 4, 3; 11, 14; Ef 6, 11-17; II Tess 2, 8) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (Rom 8, 24).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (Col 2, 8 ) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (Cfr. San Cirillo d’Alessandria, Migne, PG, t. 74, c. 788-789). Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. È una realtà personale con volontà (II Tim 2, 26), pensieri (II Cor 2, 11) e metodi falsi (I Tim 2, 14; 4, 14; II Tim 2, 26; II Cor 11, 14; 4, 3; 2, 11; 11, 3), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (Ef. 6, 11-17) poiché possono essere ancora tentati da lui (I Cor 7, 5; II Cor 2, 11; 11, 3; Ef 4, 27; I Tes 3, 5; I Tim 3, 6; 3, 7; 4, 1; 5, 14). Egli è dinamicamente attivo (II Cor 11, 14; 4, 3; Ef 2, 2; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tess 2, 9; I Tim 2, 14; 3, 7; II Tim 2, 25-26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (II Cor 11, 15). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (II Tess 2, 9) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (Ef 6, 12; Col 2, 15). Egli è “il bene di questo secolo” (II Cor 4, 4), colui che ha ingannato la prima donna (II Cor 11, 3; I Tim 2, 14). È lui che ha condotto l’uomo (Ibid.) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (Rom 8, 19-22). Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56) che, a sua volta, fa regnare la morte (Rom 5, 21). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (Rom 8, 21) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (Rom 8, 20). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte – l’ultima e probabilmente la maggior nemica – sarà distrutta (I Cor 15, 24-26). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (I Cor 15, 54). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (Col 2, 13-15; I Cor 15, 24-27; 15, 54-57).
È ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.
Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (II Cor 4, 3; Gal 1, 4; Ef 6, 12). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (I Cor 15, 1 e ss.). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (Rom 12, 2; I Cor 2, 12; 11, 32; II Cor 4, 3; Col 2, 20; II Tess 2, 9; II Tim 4, 10; Col 2, 8; I Cor 5, 10).

La giustizia di Dio e la Legge
 Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (Rom 1, 17; 3, 21-26). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (Rom 10, 2-4; Fil 3, 8). La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (Rom 3, 20; 5, 15 ss.; 9, 32) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (Rom 9, 30; 10, 10; I Cor 13, 1; 14, 1; I Tim 5, 8). “La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori…” (I Tim 1, 9-10). La legge non è un male ma un beneficio (I Tim 1, 18) pure spirituale (Rom 7, 14). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (Gal 3, 24). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (Gal 5, 13) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (Rom 8, 29; 15, 1-3; 15, 7; I Cor 2, 16; 10, 33; 13, 1 ss.; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 1; 5, 25; Fil 2, 5; Col 3, 10; I Tes 1, 6). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. “Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla” (I Cor 13, 2). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. “Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento” (I Cor 13, 3). Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. “La rettitudine sarebbe stata data nella legge” (Gal 3, 21) “Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare” (Ibid.). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (Gal 3, 18). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio “l’unico che possiede l’immortalità” (I Tim 6, 16). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (Rom 9, 16), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (Rom 3, 26; Ef 2, 4-6; I Tim 6, 15).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (II Cor 11, 13; I Tim 2, 14) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (Rom 5, 12); tuttavia questa nemica (I Cor 15, 26) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (San Gregorio Palamas, Kephalia Physica, 52, Migne, PG t. 150-A). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (F. Prat, La Theologie de saint Paul, Paris 1924, t. c. pp. 67-68). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (Rom 8, 20; I Cor 10, 10; II Cor 2, 11; 4, 3; 11, 3; 11, 14; Ef 2, 1-3; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tes 2, 9; I Tim 2, 14; 5, 14; II Tim 2, 26). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (Col 2, 15; I Cor 15, 24-26; 15, 53-57; Rom 8, 21).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto “i principati e le potenze” inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (Col 2, 14-15) “poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse” (II Cor 5, 19). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (Rom 3, 20-27). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (Rom 10, 3; Fil 3, 8). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione “amore di Dio” potrebbe essere molto facilmente sostituita da “giustizia di Dio”. È interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (Rom 1, 18 ss.). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom 1, 20); “perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda…” (Rom 1, 24). E ancora: “Dio li abbandonò a sentimenti reprobi” (Rom 1, 28). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (Ad es. Rom 9, 14-18; 11, 8).
L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (Rom 9, 6). “Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno” (Rom 2, 13). “Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge” (Rom 2, 12). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi “non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono” (Rom 2, 14-15). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (Rom 2, 16) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine – “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” – non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che “non hanno la legge” ma che “fanno per natura le cose contenute nella legge” non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, “mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza”. Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. “Dio stesso le ha manifestate in loro” (Rom 1, 19) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (Rom 1, 21; I Cor 4, 5 14-25; Ef 1, 17) e, nei membri del corpo di Cristo (Ef 3, 17), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (II Cor 1, 22; Gal 4, 6).

IL DESTINO DELL’UOMO E L’ANTROPOLOGIA
 Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.

Il destino dell’uomo
 Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’“uomo naturale”. Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (Rom 8, 10; 8, 13; II Cor 4, 10-11; 6, 4-10; Col 2, 11-12; 2, 20; 3, 3; II Tes 1, 4-5) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (II Tim 1, 8; 2, 3-6; 6, 4-5). Paolo asserisce che “quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati” (II Tim 3, 12). È certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (I Tim 6, 7-9). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (I Cor 13, 3).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che “siamo collaboratori di Dio” (I Cor 3, 9). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. “Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge” (Gal 5, 18). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (I Cor 13, 4) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (Fil 2, 5-8). L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (Rom 3, 21-28) attraverso la distruzione del Demonio (Col 2, 15) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (Rom 8, 24; 66) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (Ef 5, 1) il quale ci ha predestinati a divenire “conformi all’immagine del proprio Figlio” (Rom 8, 29) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (Rom 15, 1-3). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (II Cor 5, 15), ma divenissero uomini perfetti, “nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (Col 2, 20), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (I Cor 2, 16; Fil 2, 5-8) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (Col 1, 28). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (Fil 2, 20) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (Ef 5, 1) e Cristo (Rom 8, 29; I Cor 10, 33; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 25; Fil 2, 5-8; Col 1, 28; 3, 10). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (I Cor 13, 2-3), “che è vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (Fil 2, 20). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (Rom 14, 7; 15, 1-3; I Cor 10, 24; 10, 29; 11, 1; 12, 25-26; 13, 1 ss.; II Cor 5, 14-15; Gal 5, 13; 6, 1; Ef 4, 2; Fil 2, 4; I Tess 5, 11).Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire “conforme” al “corpo glorioso” (Fil 3, 21) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. “Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi” (Rom 8, 11). San Paolo afferma che la morte è il nemico (I Cor 15, 26) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (Rom 5, 12). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (Rom 8, 20-21). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (I Cor 15, 42-49). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.

L’antropologia di san Paolo

Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (Rom 7, 12) ma pure spirituale (v. 14). Ciò è noto all’“uomo interiore” (Rom 7, 22). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (Rom 7, 18) perché è “carnale e soggetto al peccato” (Rom 7, 14). Se egli stesso, secondo “l’uomo interiore”, vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (Rom 7, 20). Così san Paolo si domanda: “Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24). Essere liberati da questo “corpo di morte” significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così “la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
È fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (Rom 7, 13 ss.) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, “salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza” (I Cor 7, 4-5. Vedi anche Rom 15, 27). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro “ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore – en plaxi kardias sarkinais” (II Cor 3, 3). Cristo fu conosciuto secondo la carne (II Cor 5, 16) e “Dio fu manifestato nella carne” (I Tim 3, 16) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (I Cor 9, 11). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (Gal 3, 3). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (Gal 5, 16-18). “Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose” (Gal 5, 19-21). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (Gal 3, 1), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (Rm 7, 17-18) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (I Cor 9, 11; Rom 15, 27; II Cor 3, 3; 4, 11; 5, 16) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (I Tim 3, 16). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (Rom 7, 17-18; Ef 2, 15).
Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (Tresmontant, Essai sur la pensée hebraique, Paris 1953, pp. 95-96). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (Gen 6, 13-17; 7, 15-21; Sal 135, 25) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (Gen 6, 12; Is 40, 6; Ger 25, 31; 12, 12; Zac 2, 17). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (Gios 10, 28, 30, 32, 35, 37; Gen 1, 21, 24; 2, 7; 19; 9, 10, 12, 15; Lev 11, 10). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (Mat 24, 22; Mc 13, 10; Lc 3, 6; Rom 3, 20; I Cor 1, 23; Gal 11, 16) e pasa psyche (At 2, 43; 3, 23; Rom 2, 9; 13, 1) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (Rom 7, 14) e psychikos (I Cor 2, 14) significa esattamente la medesima cosa. “La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio” (I Cor 15, 50) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (Ibid.). Per tale ragione un soma psychikon è “seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (I Cor 15, 42-49); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza”. “Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon!” (I Cor 15, 44) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. “Non è precedente il pneumatikon. (l’elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste” (I Cor 15, 46-47). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (I Cor 15, 4) poiché “tratto dalla terra è terrestre…” (I Cor 15, 47). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon “tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa “tratta dalla terra, terrestre” condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: “Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente” Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (I Cor 14, 14-15). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. È in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (Mat 13, 15; 15, 19; Mc 2, 6; 2, 8; 3, 5; 6, 52; 8, 17; Lc 2, 35; 24, 15; 24, 38; At 8, 22; 28, 27; Gv 12, 40). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (Lc 24, 45). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (Rom 1, 21; 1, 24; 2, 5; 8, 27; 10, 1, 6, 8, 10; 16, 18; I Cor 4, 5; 7, 37; 14, 25; II Cor 3, 15; 4, 6; 9, 7; Ef 4, 18; 6, 22; Fil 4, 7; Col 2, 2; 3, 16; 4, 8; I Tes 2, 4; II Tes 2, 16; 3, 5; I Tim 1, 5; II Tim 2, 22) e nous (I Cor 14, 14-19; 2, 16; Rom 7, 23; 12, 2; Ef 4, 23; Tit 1, 15) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (II Cor 1, 22; Gal 4, 6) o nell’eso anthropon (Ef 3, 16), e Cristo deve abitare nel kardia (Ef 3, 17). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (Rom 7, 22-23). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (Ef 3, 16-17).
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de “l’indurimento del cuore – dia ten perosin tes kardias” (Ef 4, 17-18). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (Rom 1, 21) e indurito (Ef 4, 18) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (Ef 1, 18-19). È nel cuore che vengono colti i segreti umani (I Cor 14, 25) ed è qui che Cristo “darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori” (I Cor 4, 5).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (Tresmontant, Op. cit., p. 110). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (Ibid.). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (Eccl 12, 7). Inoltre, il pneuma “è il solo a possedere l’immortalità” (I Tim 6, 16). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
“I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace” (Rom 8, 6) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (Rom 8, 13). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (Ibid.). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (Rom 8, 9): “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ma “la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (Rom 7, 6) dall’unione con lo Spirito di Dio (Rom 8, 9) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8, 16). Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (II Cor, 7, 1). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (Rom 11, 21; I Cor 5, 1-13; II Tes 3, 6; 3, 14; II Tim 3, 5). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (II Cor 1, 22; Gal 4, 6; Ef 3, 16-17). “Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rom 8, 9). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. È impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone. “Le opere della carne sono manifeste…” (Gal 5, 19) “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rom 8, 7-8). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (Rom 6, 1-14). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 22-24).
È chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: “i desideri della carne portano alla morte” (Rom 8, 6). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
È assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56). Il peccato ha regnato con la morte (Rom 5, 21). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (I Cor 15, 26). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (Rom 8, 8) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero” (Rom 8, 7). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per liberare l’uomo “dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-11).
Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (Rom 6, 1-14). È solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo “lo spirito di vita” non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello “spirito di vita”. I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo “spirito di vita”. Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (Cfr. Mt 5, 29; 10, 28; 14, 12; 26, 12; 27, 52; 58, 59; Mc 14, 18; 15, 43; 15, 45; Lc 12, 4; 23, 52; 24, 3-23; Gv 2, 21; 19, 31, 38, 40; 20, 12; At 9, 40; I Pt 2, 24; Gd 9). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (Westcott, Commentary on the Epistle to Hebrews). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo “spirito” (l’uso paolino del termine soma non è sempre consistente. Tuttavia non viene mai utilizzato in un contesto dualistico per distinguere il corpo dall’anima. Al contrario, Paolo usa frequentemente soma come sinonimo di sarx (I Cor 6, 16; 7, 34; 13, 3; 15, 35-58; II Cor 4, 10-11; Ef 1, 20-22; 2, 15; 5, 28 ss.; Col 1, 22-24). Se la sua antropologia fosse dualistica non sarebbe logico utilizzare il termine soma per designare la Chiesa e kephale tou somatos (capo del corpo) per designare Cristo. Sarebbe molto più normale denominare la Chiesa con il termine di corpo e presentare Cristo come l’anima di tale corpo).

Osservazioni sintetiche
 San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. È ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (Ebr 2, 14-15) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (Gal 5, 19-21). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come “l’uomo normale”, esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (Rom 7): “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24.).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (Sant’Atanasio, Op. cit., 4-5). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del “peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini.” (Rom 5, 12). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (Rom 8, 20-22). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. È attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Migne, P.G. t. 60, col. 391-692; Theophylactos, Migne, P.G. t. 124, c. 404-405). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (Cfr. Cirillo di Alessandria, Migne, P. G. t. 74, c. 781-785 e specialmente c. 788-789; Teodoreto di Ciro, Migne, P.G. t. 66, c. 800).
San Paolo dice chiaramente che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56), che “il peccato ha regnato nella morte” (Rom 5, 21) e che la morte è “l’ultimo nemico ad essere distrutto” (I Cor 15, 26). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:
    1) che la morte è normale o che, al più,
    2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
    3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
    4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).
La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’“uomo interiore”, può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. È per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente “ha ingannato Eva” (II Cor 11, 3) e che “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Tim 2, 14). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che “fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo” (Rom 5, 13-14). È chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (I Cor 15, 26) e che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (Rom 5, 12) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come “perché” fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (Amphilochia, heroteseis, 84, Migne, P.G. t. 101, c. 553-556). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni – Adamo e thanatos –. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (Ecumenius, extracts from Photius, Migne, P.G. t. 118, c. 418). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (Rom 9, 33; 10, 19; 15, 12; II Cor 5, 4; Rom 6, 21) o la frase (Fil 4, 10) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere “perché” significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos – kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton – “poiché della quale” (morte), o “sulla base della quale” (morte), o “per la qual (morte) ognuno ha peccato”. Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (Cfr. Lagrange, Epitre aux Romains, p. 117-118; Sanday and Headlam, Romans, p. 136-137). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (A. Gaudel, Peché Originel in “Dictionaire de Theologie Catholique”, t. XII, prèmiere partie). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (Col 3, 3), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): “In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza”. Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: “Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti” (San’Ignazio, Epistola ai Romani c. 7). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (Canone 10°, primo Concilio Ecumenico; 62° Canone apostolico; 1° Canone, Concilio di Angyra, 313-314; 1° Canone, Pietro d’Alessandria). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (II Cor 2, 11), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora “leur puissance n’est qu’apparente” (O. Cullman, Christ et le temps, p. 142). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. “Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede” (San’Ignazio, Epistola agli Efesini, c. 13). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. “Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso…” (Ibid. c. 5). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (Ef 2, 12; 6, 11-12; II Tes 2, 8-12). Satana è ancora “il dio di questo mondo” (II Cor 4, 4) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (Col 2, 20-23).

Conclusioni

Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
È chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (I Cor 15, 23). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (I Cor 15, 12-19). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. È impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi “logico-ginnici” nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. È solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: “Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri” (II Cor 2, 11). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. È per questa ragione che i Padri potrebbero asserire che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

Pubblicato originariamente in: http://http://digilander.libero.it/ortodossia/peccato.htm

MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA – di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

http://www.enzocaruso.net/site/materialita-e-simbologia-biblica-dellelemento-vitale-per-eccellenza-g-ravasi/

MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA

di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

È questa la stagione nella quale riusciamo a comprendere in pienezza il valore di quella tetrade aggettivale che san Francesco ha dedicato nel suo Cantico a “sor’acqua”: “utile et humile et pretiosa et casta”. Tanti sono i profili che questa realtà presenta, soprattutto a livello sociale, come vediamo ininterrottamente nelle “lotte per l’acqua”, nelle tragedie legate alla siccità, nelle stesse politiche: si pensi, per stare vicino a noi, anche alla recente vicenda del referendum che l’aveva proprio per tema.
Si tratta, infatti, di una realtà veramente “utile et pretiosa”, principio della nostra composizione organica e della stessa sopravvivenza. Noi ora ci accontenteremo di lasciare spazio alla Bibbia che ci parlerà non solo della “materialità” dell’acqua ma anche e soprattutto della sua “simbolicità”. … Un panorama assolato, una steppa arida, un’oasi verdeggiante incastonata in una valle, una pista che si dipana negli spazi solitari, qualche raro albero e cespuglio: può sembrare uno stereotipo paesaggistico orientale, ma è effettivamente questo l’habitat prevalente dell’uomo della Bibbia ed è così che l’acqua costituisce, ieri e oggi, il cardine dei desideri e delle contese, l’archetipo dei simboli e delle idee del nomade e del sedentario.
La parola majim, “acqua”, risuona oltre 580 volte nell’Antico Testamento, come l’equivalente greco hydor ritorna un’ottantina di volte nel Nuovo (metà di queste occorrenze sono nel solo Vangelo di Giovanni); circa 1.500 versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono “intrisi” d’acqua, perché oltre ai vocaboli citati c’è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento così prezioso, a partire dal pericoloso jam, il “mare”, o dal più domestico Giordano, passando attraverso le piogge (con nomi ebraici diversi, se autunnali, invernali o primaverili), le sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le cisterne, i serbatoi celesti, il diluvio, l’oceano e così via. Per non parlare poi dei verbi legati all’acqua come bere, abbeverare, aver sete, dissetare, versare, immergere (il “battezzare” nel greco neotestamentario), lavare, purificare…. Un filo d’acqua scorre idealmente attraverso le pagine delle Sacre Scritture, testimoniando una sete ancestrale, legata a coordinate geografiche ed ecologiche segnate dall’aridità.
Non per nulla la Bibbia si apre con la creazione della luce e dell’acqua (Genesi, 1, 3-10) e con le piogge e la canalizzazione delle sorgenti (Genesi, 2, 4-6) e si chiude con “unfiume d’acqua viva limpida come cristallo che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello” (Apocalisse, 22, 1). E in mezzo c’è sempre l’ansiosa ricerca dell’acqua e la sete. Basti solo pensare a Israele nel deserto e al suo grido: “Dateci acqua da bere!” (Esodo, 17, 2), o alla siccità vista come una maledizione celeste pronunziata dal profeta in nome di Dio: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto – minaccia Elia – non ci sarà né rugiada né pioggia se non quando lo dirò io” (1 Re, 17, 1).
Geremia ci ha lasciato uno dei più vivaci e drammatici ritratti di questa piaga endemica del Vicino Oriente: “I ricchi mandano i loro servi in cerca d’acqua; essi si recano ai pozzi ma non la trovano e tornano coi recipienti vuoti. Sono delusi e confusi e si coprono il capo. Per il terreno screpolato, perché non cade pioggia nel paese, gli agricoltori sono delusi e confusi. La cerva partorisce nei campi e abbandona il parto perché non c’è erba. Gli onagri si fermano sulle alture e aspirano l’aria come sciacalli; i loro occhi languiscono perché non si trovano erbaggi” (14, 3-6)…. È per questo che, quando s’affacciano le nubi e cade la pioggia, si è convinti di ricevere una benedizione divina, come si legge nel Deuteronomio: “Il Signore apre per te il suo benefico tesoro, il cielo, per dare alla tua terra la pioggia a suo tempo e per benedire tutto il lavoro delle tue mani” (28, 12).
Tuttavia il Creatore, che è Padre di tutti, si preoccupa di ogni sua creatura prescindendo dal merito, come dirà Gesù: “Il Padre vostro celeste fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo, 5, 45). E quando arriva la primavera con le sue piogge, il Salmista – in un dipinto poetico di straordinaria fragranza (65, 10-14) – immagina che il Signore passi col suo carro delle acque “dissetando la terra, gonfiando i fiumi, irrigando i solchi, amalgamando le zolle, bagnando il terreno con la pioggia: al suo passaggio stilla l’abbondanza, stillano i pascoli del deserto (…) e tutto canta e grida di gioia”.
L’uomo dà il suo contributo con le canalizzazioni e la tecnica idraulica: basti solo visitare nella fortezza di Meghiddo in Galilea l’imponente acquedotto o seguire la galleria (di 540 metri) scavata nell’VIII secolo prima dell’era cristiana, dal re Ezechia per portare l’acqua dalla sorgente di Ghicon fino alla riserva di Siloe a Gerusalemme (una lapide, conservata ora al museo archeologico di Istanbul evoca il momento emozionante della caduta dell’ultimo diaframma e dell’incontro delle due squadre di operai che da lati opposti avevano condotto lo scavo)…. Proprio perché è al centro della esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza.
Melville in quel particolare “romanzo d’acqua” che è Moby Dick scriveva: “Perché gli antichi Persiani consideravano sacro il mare? Perché i Greci gli assegnarono un dio a sé, fratello di Giove? Certo tutto questo non è senza significato. E ancora più profondo è il senso della favola di Narciso che, non potendo afferrare la tormentosa, dolce immagine che vedeva nella fonte, vi si immerse e annegò. Ma quella stessa immagine anche noi la vediamo in tutti i fiumi e oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, e questa è la chiave di tutto”. La stessa chiave è, dunque, adottata anche nella Bibbia e secondo uno spettro molto variegato di significati, non solo positivi. Pensiamo solo al segno del diluvio come atto giudiziario divino compiuto attraverso l’acqua e allo stesso esodo nel mar Rosso che si chiude come un sepolcro di morte sugli Egiziani oppressori o al citato jam, il “mare”, che meriterebbe una trattazione a sé stante, essendo per Israele il simbolo del caos, del nulla e persino del male: per questo Cristo cammina sulle onde e fa piombare i porci, animali impuri, nel mare e riesce a sostenere su quelle acque anche il discepolo impaurito, Pietro (Matteo, 14, 24-31)….
L’acqua è, però, prima di tutto e sopra tutto segno di vita e di trascendenza. Noi ora ci accontenteremo di mettere quasi in fila, in una sorta di elenco, alcuni dei tanti valori metaforici che le acque acquistano: esse, infatti, nella Bibbia non sono mai dolcemente contemplate come “chiare fresche dolci acque” alla maniera petrarchesca, ma sono celebrate come rimandi a realtà nascoste più alte. Così, l’acqua è per eccellenza simbolo di Dio, sorgente di vita. Basti solo evocare l’indimenticabile comparazione geremiana: “Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (2, 13). L’acqua è segno della Parola divina senza la quale si soffoca e si è aridi: “Verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete d’acqua, ma di ascoltare la parola del Signore… Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca” (Amos, 8, 11 e Isaia, 55, 10-11)….
L’acqua è simbolo della sapienza divina effusa in Israele: “Essa trabocca come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi, fa dilagare l’intelligenza come l’Eufrate e come il Giordano nei giorni della mietitura, espande la dottrina come il Nilo, come il Ghicon nei giorni della vendemmia (…) Io sono come un canale derivante da un fiume e come un corso d’acqua sono uscita verso un giardino. Ho detto: Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola! Ed ecco il mio canale è divenuto un fiume e il mio fiume un mare” (Siracide, 24, 23-25.28-29).
L’acqua annunzia l’era messianica e la rinascita dell’umanità: “Scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa; la terra bruciata diventerà una palude e il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua” (Isaia, 35, 6-7). Anzi, l’acqua diventa l’emblema di Cristo, come si intuisce nel celebre dialogo con la Samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni, 4, 14). È per questo che l’evangelista testimonia con insistenza che dal costato del Cristo crocifisso “uscì sangue e acqua” (19, 34). E come si intuisce nelle parole destinate alla donna di Samaria, l’acqua diventa anche il segno della vita nuova del credente nel quale è effuso lo Spirito di Dio. Gesù, durante la festa ebraica delle Capanne (che comprendeva proprio un rituale con l’acqua di Siloe), aveva esclamato: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Giovanni, 7, 7-39).
L’acqua, allora, è immagine della vita nuova del fedele che con essa si purifica il cuore del male (“Lavami da tutte le mie colpe”, Salmi, 51, 4), secondo quel rito lustrale che è presente in quasi tutte le culture religiose. Essa rappresenta, così, anche la rigenerazione interiore, destinata a dare frutti di giustizia: “Il giusto sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua; darà frutti a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Salmi, 1, 3).
Ma l’acqua rimane soprattutto il simbolo supremo di quel Dio di cui l’uomo ha sempre sete ed è questa la costante preghiera di tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia (letteralmente “la mia gola”) ha sete di Dio, del Dio vivente (…) O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua…” (Salmi, 42, 2-3; 63, 2).

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