Archive pour la catégorie 'BIBLICA (studi di biblica temi vari)'

COLLEGIO « SAN PAOLO APOSTOLO » – GIOVANNI PAOLO II (San Paolo)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1981/documents/hf_jp-ii_hom_19810124_visita-collegio-san-paolo_it.html

(ho cercato : « il timore di Dio in San Paolo » e tra gli altri risultati il motore di ricerca mi ha dato questo)

VISITA AL PONTIFICIO COLLEGIO MISSIONARIO INTERNAZIONALE « SAN PAOLO APOSTOLO »

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

Cappella del’Istituto

Sabato, 24 gennaio 1981

Carissimi Sacerdoti!

1. È per me una grande gioia potermi oggi incontrare con voi, in questo Collegio dedicato a san Paolo Apostolo, dove avete la vostra dimora, mentre frequentate l’Università di “Propaganda Fide”, per sviluppare e completare i vostri studi filosofici e teologici e la vostra preparazione pastorale. Nelle visite, che sto compiendo ai vari Istituti e Atenei della Città di Roma, non poteva e non doveva mancare, nella circostanza così singolare della festa del Collegio, questo incontro con voi, che venite da ogni parte del mondo e che portate qui, nel centro della Cristianità, le caratteristiche e le ansie dei vostri popoli e delle vostre culture.
Accogliete perciò il mio saluto cordiale e affettuoso, che si rivolge prima di tutto al Cardinale Prefetto e al Segretario della Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ai Superiori e ai Responsabili del Collegio, e si estende poi a ciascuno di voi personalmente, comprendendo anche tutti coloro che collaborano in varie mansioni per il buon andamento della casa e della vita in comune. È un saluto che vuole esprimere compiacimento e apprezzamento per la buona volontà che dimostrate nel vostro impegno di studio e di aggiornamento, per un più efficace ministero adatto alle esigenze della società, e per un aiuto illuminato e concreto alle Comunità ecclesiali delle vostre nazioni e delle vostre diocesi. Ed è un saluto che intende anche manifestare la mia riconoscenza per la vostra fedeltà alla Sede Apostolica e per le preghiere che offrite per la mia persona e per la mia missione universale.
2. Desidero però che l’odierno incontro attorno all’altare, celebrando il Sacrificio eucaristico, divenga per tutti voi anche uno stimolo ad una vita sacerdotale sempre più santa e ad un impegno sempre più responsabile nei vostri studi e nei vostri ideali. E proprio le letture della liturgia si prestano ad alcune riflessioni di notevole importanza per tale scopo.
Nella prima lettura abbiamo sentito ciò che il Signore dice per mezzo del profeta Isaia: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). Sono espressioni ben note, che hanno fatto riflettere i Padri e i Dottori della Chiesa, i santi e i mistici di tutte le epoche e che destano impressione anche nei nostri animi, perché affermano l’assoluta potenza ed efficacia della Rivelazione di Dio: nessun ostacolo o rifiuto umano può fermarla o spegnerla. Noi sappiamo che la “Parola di Dio”, nella pienezza dei tempi, si è incarnata: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14) ed è rimasta presente nella storia umana per mezzo della Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La “Parola di Dio” è sempre efficace, perché prima di tutto mette in crisi la ragione umana: le filosofie semplicemente razionali e temporali, le interpretazioni solamente umanistiche e storicistiche, sono sconvolte dalla “Parola di Dio”, che risponde con suprema certezza e chiarezza agli interrogativi posti al cuore dell’uomo, e lo illumina circa il suo vero destino, soprannaturale ed eterno, e gli indica la condotta morale da praticare, come autentica via di serenità e di speranza. Non solo: la “Parola di Dio” dà “luce” e “via”, si fa vita di grazia, partecipazione alla stessa vita divina, inserimento nel misterioso ma reale dinamismo della redenzione dell’umanità. Infatti Gesù si definì “luce del mondo”: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre” (Gv 12,46) e vita delle anime.
Forti di questa certezza che viene da Dio, bisogna avere il coraggio della sua Parola! Nessuna paura della Verità: la “Parola di Dio” è sempre efficace, non è inerte, non è mai sconfitta, non torna a Dio umiliata e delusa! E allora, vi dico con san Paolo: “Comportatevi come figli della luce” (Ef 5,8). Certamente, la “Parola di Dio” è sconvolgente perché, dice il Signore: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8); mette in crisi, perché è esigente, è affilata come spada a doppio taglio, è basata non su discorsi persuasivi di umana sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (cf.1Cor 2,4-5). “Nessuno si illuda – scriveva san Paolo ai Corinzi –. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio… Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini!” (1Cor 3,18-19.21). C’è infatti una falsa sapienza che può tentare e illudere, confondendo e facendo diventare presuntuosi. Commentando l’affermazione: “Rendiamo a Dio un culto a lui gradito, con riverenza e timore, perché il nostro Dio è un fuoco divoratore (Eb 12,28-29), il Cardinale Newman, un appassionato di san Paolo, così diceva: “Il timore di Dio è il principio della sapienza; fino a quando non vedrete Dio come un fuoco consumatore, e non vi avvicinerete a Lui con riverenza e con santo timore, per il motivo di essere peccatori, non potrete dire di essere nemmeno in vista della porta stretta… Il timore e l’amore devono andare insieme; seguitate a temere, seguitate ad amare fino all’ultimo giorno della vostra vita. Questo è certo; dovete però sapere che cosa vuol dire seminare quaggiù nelle lacrime se volete mietere in gioia nell’al di là” (Card. Newman, Parochial and Plain Sermons, Vol. I, Serm. XXIV; cf. J. H. Newman, La mente e il cuore di un grande, Bari 1962, p. 230).
3. Nella seconda lettura, il celebre episodio della conversione di san Paolo, da lui stesso narrato agli Ebrei di Gerusalemme, è ugualmente denso di insegnamenti per la vostra vita sacerdotale. Sulla via di Damasco, caduto nella polvere, san Paolo viene abbacinato dalla luce sfolgorante di quel Gesù che egli perseguita nei cristiani; ne segue la sua conversione immediata e decisiva, evidente opera miracolosa della grazia di Dio, perché Paolo doveva essere il primo autorevole interprete del messaggio di Cristo, divinamente ispirato. Il Divino Maestro gli comanda di alzarsi e di proseguire il cammino; e da quel momento, si può dire, san Paolo diventa nostro maestro e guida nel conoscere ed amare Cristo.
Ma soprattutto devono interessarci e farci meditare le parole del giusto Anania: “Il Dio dei nostri Padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito” (At 22,14-15). Queste parole si possono applicare anche ad ogni sacerdote, ministro di Cristo. Anche voi siete stati scelti, anzi predestinati dall’Altissimo a conoscere la “Parola di Dio”, a incontrarvi con Cristo, a partecipare agli stessi suoi poteri divini, per annunziarlo e testimoniarlo davanti a tutti gli uomini. Come Paolo, convertito alla verità, si gettò con ardente fervore nella sua missione di apostolo e di testimone, e nessuna difficoltà riuscì più a fermarlo, così fate anche voi. Il mondo ha bisogno di anime fervorose e ardimentose, umili nel comportamento, ma ferme nella dottrina; generose nella carità, ma sicure nell’annunzio; serene e coraggiose, come Paolo, che in mezzo a difficoltà e contrasti di ogni genere, sovrabbondava di gioia in ogni sua tribolazione, perché per lui vivere era Cristo e morire un guadagno (cf. 2Cor 7,4; Fil 1,21).
L’Evangelista san Marco riferisce le ultime parole di Gesù, categoriche e imperative: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato” (Mc 16,15-16). Esse significano che è positiva volontà di Dio che il messaggio evangelico sia annunziato a tutto il mondo e che si creda alla “Parola di Dio”. L’essere sacerdoti è indubbiamente una dignità immensa ed eccelsa; ma è anche una grande responsabilità. Siate sempre consapevoli della vostra grandezza e degni della fiducia che Dio ha posto in voi!
Carissimi, vi illumini nei vostri studi e vi conforti nei vostri propositi Maria Santissima, che in questi giorni preghiamo come “Madre dell’Unità della Chiesa”, e che sempre invochiamo “Sede della Sapienza”, “Causa della nostra letizia”.

IL PERDONO CRISTIANO, PERDONARE IL PROSSIMO, IL PERDONO DEI PECCATI

http://camcris.altervista.org/perdono.html

IL PERDONO CRISTIANO, PERDONARE IL PROSSIMO, IL PERDONO DEI PECCATI

« Siate invece gli uni verso gli altri benigni, misericordiosi, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo » (Efesini 4:32).

Per molte persone la parola « perdono » non ha alcun senso. Un episodio di risentimento lo troviamo descritto perfino negli evangeli. In viaggio verso Gerusalemme, Gesù aveva bisogno di ospitalità forse per il pernottamento. Per questo dalla schiera dei discepoli partirono Giacomo e Giovanni per domandare ai samaritani del vicino villaggio qualche posto per l’alloggio.
Ma i samaritani sono duri e non trattano coi giudei! Ci sono vecchi attriti storici e religiosi che hanno sempre impedita una leale amicizia tra i due popoli, perciò essi non intendono ricevere Gesù.
I discepoli vogliono vendicarsi di un simile atteggiamento e dicono: « Signore vuoi tu che diciamo che scenda fuoco dal cielo e li consumi? ». L’Evangelo dice che Gesù sgridò i discepoli. Li sgridò come sgridò gli spiriti immondi e come sgridò il mare in tempesta. Era necessario che nel loro cuore albergasse il sentimento della carità e che imparassero a perdonare.
La legge del perdono è la grande rivoluzione spirituale che il cristianesimo ha introdotto nel mondo. Per gli antichi esisteva la legge del « fai come ti è stato fatto ». Se uno ti spezza un dente, spezza anche tu il dente all’avversario, se uno ti acceca un occhio, cava l’occhio al tuo avversario. Ed i giudei, che erano educati religiosamente, dicevano di perdonare fino a tre volte.
L’apostolo Pietro parlando con Gesù va oltre: « Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte? E Gesù a lui: Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette » (Matteo 18:21-22). Gesù non voleva porre un limite matematico facendo pensare che si dovesse perdonare 490 volte e poi si è liberi di vendicarsi. No, egli esclude in senso assoluto il sentimento di vendetta, dovendosi perdonare sempre, senza limiti.
Bisogna che si segua la pratica del Padre che è nei cieli. Egli è largo nel perdonare, dice il profeta Isaia. Egli fa risplendere il sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Nel Salmo 103 troviamo scritto: « Quanto i cieli sono alti al disopra della terra, tanto è grande la sua benignità verso quelli che lo temono. Quanto è lontano il levante dal ponente, tanto ha egli allontanato da noi le nostre trasgressioni. Come un padre è pietoso verso i suoi figliuoli, così è pietoso l’Eterno verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siamo polvere » (vv. 11-14).
Come cristiani, siamo chiamati ad agire alla maniera di Cristo che ci insegna un metodo nuovo dicendo: « Non contrastate al malvagio » (Matteo 5:39), ed anche: « Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano… Se infatti amate quelli che vi amano, che premio ne avete?… Voi dunque siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste » (Matteo 5:44-48).
Gesù ha realizzato pienamente queste parole nella sua vita, non solo perdonando un gran numero di peccatori, ma chiamando « amico » Giuda Iscariota, pur sapendo che stava per tradirlo. E quando sul legno della croce, inchiodato, sente l’insulto dei suoi carnefici, Egli dice: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Luca 23:34).
In Matteo 18 vi è la parabola del servitore spietato. Essa inizia dicendo che il Regno dei Cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servitori. Gliene fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti, una somma rilevante che corrisponde a 60 milioni delle nostre lire. Ma il servitore non aveva di che pagare. Il re dispose che fosse venduto schiavo lui insieme alla moglie ed i figli. Ma egli gettatosi ai piedi del re disse: « Abbi pazienza con me, e ti pagherò tutto ».
Il re, mosso a compassione, gli rimise il debito. Ma quel servitore a sua volta doveva ricevere del denaro da un suo compagno, una somma assai modesta di solo 100 danari, circa 90 lire. Il modo con cui gli chiese il danaro fu violento: gli strinse fortemente la gola quasi a farlo morire dicendo: « Paga quello che devi! ».
Il poveretto chiese di aver pazienza con lui, ma il crudele creditore lo fece mettere in carcere finché non gli avesse pagato il debito. La cosa fu saputa dal re il quale, mandando a chiamare il servitore a cui aveva rimesso il debito, gli disse: « Malvagio servitore, io t’ho rimesso tutto quel debito, perché tu me ne supplicasti; non dovevi anche tu aver pietà del tuo conservo, com’ebbi anch’io pietà di te? ».
Il re lo consegnò in mano degli aguzzini che lo avrebbero trattenuto fino al tempo del pagamento di tutto il debito.
La parabola aggiunge una parola che è valida per noi: « Così vi farà anche il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello ». Il che significa che il Signore non ci userà misericordia se a nostra volta non usiamo misericordia. Il debito del nostro fratello è piccolo, rispetto a quello che abbiamo noi col Signore. La nostra ribellione a Dio costituisce il debito impagabile dei diecimila talenti. Dio perdona solo se a nostra volta perdoniamo di cuori i nostri debitori.
Questa prassi è tanto importante nella legge di Dio che Gesù l’ha inclusa nella preghiera modello: « Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori » (Matteo 6:12).
E l’apostolo Paolo scrive: « Siate invece gli uni verso gli altri benigni, misericordiosi, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo » (Efesini 4:32).
Vogliamo concludere ricordando l’insegnamento biblico riguardante il perdono dei peccati e la salvezza. Ogni essere umano è peccatore per natura, e a causa del peccato è caduto, separato in modo irrimediabile da Dio, e condannato alla morte eterna. Questa è la condizione di tutto il genere umano, nessuno escluso. Dio, essendo santo e giusto, deve condannare il peccato, e ciò implica la morte del peccatore (Ebrei 9:22). Ma, nella sua misericordia e amore, Dio ha dato all’uomo la possibilità di essere perdonato da ogni peccato, reso giusto, riconciliato con Dio e, da creatura di Dio, diventare figlio di Dio.
Gesù Cristo, il figlio di Dio, è venuto nel mondo a morire per noi, affinché la morte che doveva colpire noi in quanto peccatori, cadesse su di Lui, il Signore e Creatore di ogni cosa! Chiunque crede in Lui, nel suo sacrificio, e abbandonato ogni peccato, Lo accetta come personale salvatore e Signore, è salvato e riconciliato con Dio. Ciò implica il perdono dei peccati, e la giustificazione del peccatore non per la propria giustizia, ma per la giustizia di Gesù Cristo stesso.
Questo però può avvenire a una sola condizione: che vi siano il ravvedimento e la fede in Gesù Cristo. Bisogna cioè riconoscere umilmente davanti al Signore il proprio stato di peccatori caduti e separati da Lui, abbandonare i propri peccati e credere in Gesù. « Io vi dico che così vi sarà in cielo più allegrezza per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti i quali non han bisogno di ravvedimento » (Luca 15:7).
Non c’è perdono senza il ravvedimento. « Ravvedetevi dunque e convertitevi, onde i vostri peccati siano cancellati » (Atti 3:19).
« Se confessiamo i nostri peccati, Egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e purificarci da ogni iniquità » (1 Giovanni 1:9).
« Poiché Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figliuolo, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna » (Giovanni 3:16).

IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

http://camcris.altervista.org/sacerdozio.html

IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI

(anche Paolo, naturalmente)

di Filippo Chinnici

Non raramente è capitato di sentire alcuni che, dietro la facciata di un servizio di culto « ordinato », affermavano la necessità di uno stretto « controllo ». Le testimonianze, tanto per fare un esempio, prima dovrebbero essere ascoltate dal pastore che, dopo aver messo il proprio imprimatur ne consente la viva partecipazione alla comunità. In taluni casi, si è arrivati addirittura a sostenere l’abolizione delle stesse. Questo modo di pensare, però, non solo non tiene conto del fatto che le testimonianze erano parte integrante del culto dei cristiani del tempo apostolico (cfr. At 21:17-19; 12:12-17; 11:4), ma mina anche uno dei pilastri del cristianesimo biblico, qual è appunto quello del sacerdozio universale dei credenti. La concezione di un cristianesimo separato tra clero e laicato trae origine da influssi sociologici pagani e giudaici che man mano, nel corso dei secoli, si è sempre piú sviluppato. E ci sorprende che alcuni, usando una terminologia diversa, arrivino sostanzialmente a cadere nello stesso errore. È vero che Dio ha chiamato alcuni al «ministerio della Parola» per l’edificazione del Corpo di Cristo, ma secondo il Nuovo Testamento tutti coloro che sono nati di nuovo e sono salvati, sono dei «laici» (dal gr. laòs = popolo, folla, gente), in quanto appartengono al popolo di Dio, ma contemporaneamente sono anche membri del «clero», ossia «sacerdoti». D’altra parte, Pietro usa il termine greco kleroi (plurale di «clero») per i credenti affidati alle cure degli anziani (cfr. 1 P 5:3). Quindi, è da escludere il luogo comune secondo cui «io vado ad assistere al culto» e, invece, riaffermare «io vado ad offrire il culto al Signore».

Il «sacerdozio» tra Antico e Nuovo Testamento È vero che nel tempio ebraico dell’Antico Testamento vi erano i sacerdoti i quali rappresentavano il popolo d’Israele davanti a Dio, e molto del loro lavoro consisteva nell’offrire olocausti, oblazioni e sacrifici a Dio per il popolo. Però, la Bibbia afferma esplicitamente che oggi ogni credente può liberamente entrare nel « santuario » di Dio (Eb 10:19-22; 1 P 2:5-9) senza alcun bisogno di un mediatore, in quanto il Signor Gesú Cristo è l’unico Mediatore (1 Ti 2:5). Paolo dice che attraverso Gesú Cristo «abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito» (Ef 2:18). Questo versetto è particolarmente interessante perché sia prima che dopo Paolo parla riferendosi all’immagine del Tempio. Cosí lo Spirito Santo stabilisce una diretta relazione tra noi e Dio. E poiché questa è opera dello Spirito Santo, Pietro può riferirsi a tutti i credenti come a «un sacerdozio santo» a «un sacerdozio regale» (1 P 2:5, 9), un pensiero che riecheggia nel libro dell’Apocalisse, dove l’idea del sacerdozio è legata alla chiamata a regnare al fianco di Cristo (Ap 1:6; 5:10; 20:6). Il Nuovo Testamento parla spesso di sacrifici personali – già adombrati nell’Antico Patto (cfr. Osea 6:6) – e poiché il sacerdozio è spirituale, cosí come il tempio che è il nostro corpo (1 Co 3:16; 6:19) anche i sacrifici da offrire a Dio devono essere spirituali (1 P 2:5), non in quanto metaforici, ma in quanto mossi dall’impulso interiore dello Spirito Santo. Il sacrificio supremo è stato offerto alla croce, ma ora Dio chiede sacrifici viventi. Paolo parla di questo principio quando afferma: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1). Quindi, come il sacerdote ebraico era un maestro, un uomo di preghiera e l’offerente qualificato di sacrifici a Dio, cosí il cristiano oggi è l’ambasciatore di Dio, l’uomo di preghiera e l’offerente.

Ambasciatore di Dio Il cristiano è chiamato a proclamare il Vangelo della salvezza in Cristo al mondo. Questo compito, che Paolo considerava un obbligo, è presentato dall’apostolo con una terminologia sacerdotale: «Ma vi ho scritto un po’ arditamente su alcuni punti [...] di essere un ministro di Cristo Gesú tra gli stranieri, esercitando il sacro servizio del vangelo di Dio, affinché gli stranieri diventino un’offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (Ro 15:15, 16). Per cui l’annuncio della salvezza in Cristo è un atto sacro da offrire a Dio non soltanto durante le campagne di evangelizzazione, ma sempre; ed è un compito che spetta a tutti i credenti e non solamente a coloro che Dio ha chiamato al ministerio. Come i «segni che accompagnano» sono per tutti i credenti allo stesso modo anche il mandato di Gesú Cristo è riferito ad ogni credente: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mr 16:15-18).

L’uomo di preghiera Nel tempio venivano sacrificati quotidianamente degli animali, quindi un profumo di odor soave saliva a Dio; allo stesso modo tutti i cristiani «abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui» (Ef 3:12). In questo contesto viene detto ai nati di nuovo: «offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome» (Eb 13:15). Questo «sacrificio di lode» sale a Dio come il profumo dell’incenso, cioè come atto squisitamente sacerdotale (cfr. Ap 8:3-5).

L’offerente L’atto sacerdotale per eccellenza è pur sempre il sacrificio che, però, dopo la morte di Gesú sulla croce non è più congiunto con lo spargimento di sangue. L’apostolo Pietro afferma che i cristiani devono offrire dei sacrifici spirituali (1 P 2:5). Il sacrificio consiste nell’offrire a Dio qualcosa che ci è prezioso e con il quale noi mostriamo il nostro amore e la nostra dipendenza da Lui. Esso può essere vario:

A. L’offerta di denaro Le offerte che Paolo ricevette dai credenti di Filippi per supplire alle sue necessità, vengono da lui chiamate «servizi» (Fl 2:30), «profumo di odore soave, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Fl 4:18). Perciò la lettera agli Ebrei suggerisce: «Non dimenticate di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace» (Eb 13:16). Le offerte per l’Opera di Dio e le collette per i poveri sono anch’essi un «sacrificio a Dio» che ogni credente è chiamato ad offrire, esse vanno molto al di là di ciò che è materiale e fanno parte del culto.

B. Vita conforme a quella di Cristo Ad imitazione di Cristo il cristiano deve dire: «Ecco, vengo per fare la tua (di Dio) volontà» (Eb 10:9). La vita del Signore Gesú comportò dei sacrifici continui perché si conformò alla profezia del «Servo sofferente» (cfr. Is 53; 1 P 2:20-25). Per cui il cristiano è chiamato a vivere la propria vita sull’esempio di Cristo: «come colui che vi ha chiamati è santo, anche voi siate santi in tutta la vostra condotta» (1 P 1:15). I sacrifici spirituali del cristiano, quindi, sono prima di ogni cosa un’imitazione volontaria della vita e del sacrificio di Cristo, necessaria conseguenza del nostro essere uniti a Lui (cfr. Gv 15:1-5; 17:21). Questo concetto è espresso chiaramente nella lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

C. Il dono della vita Talvolta potrebbe essere necessario dare la propria vita per conservare la fede in Cristo o per aiutare i propri fratelli. Poiché la vita non appartiene piú a noi stessi, ma a Cristo che l’ha acquistata con il proprio sangue (1 Co 6:19) come Gesú ha dato la propria vita per i peccatori, cosí pure noi, se è necessario, dobbiamo essere pronti ad offrire la nostra vita in sacrificio per Cristo o per i nostri fratelli (cfr. 1 Gv. 4:11). L’apostolo Paolo era pronto anche a questo pur di difendere e onorare il Vangelo: «Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi» (Fl 2:17). E ciò che era un suo sentimento, piú tardi divenne una realtà, e – alludendo ai sacrifici ebraici sui quali si versava il vino prima della loro offerta a Dio (Nu 28:7) – Paolo scriveva: «Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione» (2 Ti 4:6; cfr. 2 Co 4:10-12).

Conclusione Fino a quando i credenti comprenderanno a fondo il proprio ruolo di sacerdoti e lo metteranno in pratica, noi continueremo a vivere e perpetuare un genuino risveglio evangelico pentecostale. Il cristiano non è chiamato a fare lo spettatore durante le riunioni di culto, ma ad essere un protagonista, un sacerdote che partecipa attivamente al culto attraverso il « sacrificio » della testimonianza, della lode, della preghiera, dell’offerta generosa, del dono della propria vita… Nessuno nega che nel dare spazio alla spontaneità si corrano certi rischi, tuttavia è un « rischio » che vale la pena di correre, perché eliminare la spontaneità dal culto cristiano equivale a «spegnere lo Spirito» (1 Te 5:19), quasi a volerlo controllare o ingabbiare dentro i nostri schematismi. Ma c’è di piú, un corretto ammaestramento dei conduttori disciplinerà i credenti fino ad avere dei culti ordinati e contemporaneamente spontanei dove si manifesta la potenza dello Spirito Santo. Non è assolutamente vero che «ordine» e «spontaneità» non possano coesistere, in quanto esse si integrano a vicenda. «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale» (Ro 12:1).

 

EBRAISMO – ALLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA – DAVIDE

http://www.diesselombardia.it/imgdb/Davide1.pdf

EBRAISMO – ALLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA (PDF)

DAVIDE

Davide Rondoni   ( Da Tracce N. 2 > febbraio 1999)

Nell’Antico Testamento la figura del re incorpora il popolo e fa con esso un tutt’uno. L’esempio del secondo re d’Israele. La sua missione per la grandezza del popolo, la sua grande umanità alle prese con la storia e la miseria umana. Gesù chiamava sé « Figlio di Davide », perché quello era stato il re più grande e amato da Dio M’è capitato di imbattermi nella figura di Davide re lavorando intorno a una nuova versione poetica dei salmi che l’editore Marietti mi commissionò lo scorso anno (Poesia dell’uomo e di Dio). Sapevo già che a Davide si attribuisce la composizione di molti salmi e che, al di là della ancora viva discussione filologica, la sua figura « doppia » di re e poeta è centrale nella storia del popolo ebraico. Ma oltre a ciò, e a quel che qualunque povero cristiano sa dalle letture domenicali della messa e da qualche rudimento appreso qua e là, sapevo ben poco. Sapevo che Dante lo pone in Paradiso al centro della pupilla dell’aquila dei beati che guarda la luce di Dio, secondo la leggenda che l’aquila sia l’unico essere che può fissare il sole e ricordavo che l’autore della Divina Commedia, secondo esegeti autorevoli, vedeva sé come un nuovo Davide poeta. Del resto, nei testi danteschi non mancano riferimenti alla figura di Davide: mentre danza «più e men che re» (Purg. II), «re e umile salmista». Ho poi scoperto che Boccaccio regalò a Petrarca i salmi commentati da Agostino e che il poeta del Canzoniere (e di alcuni Psalmi Poenitentiales) voleva che quel libro gli stesse «di giorno sempre tra le mani e di notte e nell’ora della morte sotto il capo». Lo stesso Nietzsche diceva che nulla in tutta la storia letteraria era pareggiabile a quella poesia di ebrei. Sull’opera e sulla figura di Davide ha lavorato e lavora un’infinita schiera di poeti, pittori, romanzieri e musicisti. Amore e peccato Ma la poesia, anche quella potente di Dante, adombra solo e introduce la realtà. Davide re e poeta compare sull’orizzonte umano e storico della Bibbia come un gigante di umanità. Non a caso, per commentare cosa sia il peccato, sant’Ambrogio, autore di una splendida Apologia prophetae Davide, accosterà la riflessione intorno a san Pietro e al momento in cui Gesù gli chiede se lo ama alla contrizione di Davide omicida e adultero. «Un grande amore – scrive Ambrogio – rimette il peccato». Ambrogio, inoltre, « usa » Davide e le sue storie (anche le sue colpe) come figure e interpretazione del mistero dell’Incarnazione, contro le eresie a lui coeve degli ariani. Le parole del suo salmo 50, Miserere mei, sono entrate non solo nel Purgatorio dantesco, ma nel sentimento di pietà per sé che ogni cristiano è educato a scoprire dalla liturgia. Il numero 50, informano gli esegeti, è posto a quel salmo perché è il numero del perdono: è il numero che compare nella parabola evangelica dei due debitori e sono gli anni che separano l’uno dall’altro i giubilei di misericordia. Su Davide, come su ogni grande, sono fiorite leggende e interpretazioni varie e fantasiose: che fosse una reincarnazione di Orfeo, il semidio dell’antichità; che non fosse un uomo soltanto, ma una serie di re (Davide sarebbe l’equivalente di Zar); che avesse trecento figli; addirittura, Paolo Flores d’Arcais, partecipando a un recente convegno sulla figura di Davide, non gli ha negato un anodino omaggio laico.  Scelto da Dio La Bibbia narra di questo giovinetto dai capelli rossi e chiari, ultimo figlio, che viene individuato dal profeta Samuele. Davide ha 14 anni e nel segreto dei campi assolati di Betlemme viene unto re dal profeta. Siamo vent’anni circa prima del 1000 a.C. Tale scelta resta un mistero. Di certo, ha notato un acuto romanziere biografo di Davide, il giovane poeta pecoraio deve aver maturato in quei lunghi giorni e notti passati nelle deserte campagne con il gregge il suo rapporto così potente con il Dio le cui dita creano il cielo e fissano gli astri, con il Dio «pastore». Ma a corte egli viene invitato perché con la sua poesia possa sollevare l’animo del re Saul, reso greve dall’infedeltà a Dio e tormentato da uno spirito maligno. Il figlio del re, Gionata, ha infatti sentito parlare della bravura di questo giovane poeta che inventa i propri strumenti. A corte diverrà anche guerriero. Dà prova di coraggio e di avere Dio dalla sua parte. Il celebre episodio dello scontro vinto con Golia rappresenta l’entrata nel novero degli eroi del popolo e della corte. Per dieci anni Davide è al servizio del re come soldato. La figlia di Saul, Micol, se ne innamora e il re concede le nozze. Intanto il popolo inizia a prediligere Davide e mormora che egli ha ucciso più di diecimila filistei, mentre Saul « solo » mille. Questo e altro fan sorgere in Saul l’ombra dell’invidia. Egli è poi affranto dal presentimento della fine, preannunciatagli dal profeta Samuele. Dopo le nozze, secondo un piano segreto di Saul, Davide dovrebbe morire. Ma il piano è sventato dall’amore di Micol. Davide è però costretto all’esilio e si separa dall’amato Gionata. Il tempo dell’esilio Il tempo dell’esilio sarà costellato da battaglie, tradimenti, negromanti, da nuovi e numerosi figli, da segreti appostamenti per far comprendere a Saul che egli non lo odia, tanto da risparmiarlo per ben due volte. I due libri di Samuele, nell’Antico Testamento, raccontano questo periodo avvincente. Intanto Saul vive il suo amaro declino, abbandonato via via dal «suo» profeta, da Dio e dal popolo. Davide, dopo aver passati alcuni anni in esilio e dopo aver pianto la morte del suo re Saul, suicida al termine di una battaglia perduta, e di Gionata, può essere Re. Egli ha con sé l’Arca dell’Alleanza, che porta infine a Gerusalemme, la città che stabilisce come capitale. È allora che si situa uno degli episodi più significativi. Egli avanza «danzando con tutte le sue forze» dinanzi all’Arca, svestito e lieto. La prima moglie, Micol, ne ha disappunto e lo rimprovera di far brutta figura. Ma egli risponde che ha danzato per Dio e non si cura del giudizio dei benpensanti come lei, ma di quello del suo popolo, che ama il Signore. Il re e poeta che danza rimarrà per sempre nell’iconografia. La sua gratitudine a Dio si esplicita nelle grandi parole dei Salmi e in quelle che pronuncia entrato in Gerusalemme: «Chi sono io, o Signore, e cos’è la mia casa, perché tu mi abbia esaltato fino a questo punto? Eppure tutto ciò è sembrato ancor poco agli occhi tuoi, o Signore Dio; tu hai voluto estendere le tue promesse anche alla casa del tuo servo fin nel lontano futuro Che potrà ancora dirti Davide? Tu stesso, Signore, hai scelto il tuo servo. Per mantener fede alla tua parola e assecondare il tuo cuore, hai compiuto quest’opera grande e l’hai svelata al tuo servo. Perché tu sei grande, Signore Dio E quale nazione vi è mai sulla terra uguale al tuo popolo Israele? Ci fu mai un popolo che un dio sia andato a riscattare per farne il proprio popolo, per creargli un nome, operando in suo favore? Tu infatti hai stabilito quale popolo per te Israele, in eterno». Chi pronuncia queste parole è lo stesso uomo che ha composto il magnifico salmo 8. Rientrato dunque re in Gerusalemme, Davide fa chiamare l’ultimo discendente di Saul, lo storpio e disgraziato Merib-Baal, unico figlio di Gionata rimasto in vita, e lo ospiterà sempre alla sua mensa. Nonostante lotte e odii, resta in Davide il senso dell’appartenenza a un popolo, alla sua storia concreta. Da allora Davide, pur crescendo in potere e prestigio, vedrà la sua vita e il suo regno turbato in ciò e da ciò che ha più caro: i figli e l’amore. Una storia umana Davide, uomo di grande amore, per un peccato d’amore comprenderà la durezza della lontananza da Dio: è la nota storia dell’omicidio di cui si macchia per poter possedere la bella Betsabea. Il figlio da lei concepito allora morirà. Dio manderà una pestilenza. In quell’occasione, infatti, Dio aveva prospettato tre ipotesi di punizione: la fame per tre anni, la caduta in mano nemica o la peste per tre giorni. Davide decide che è meglio cadere nelle mani del Signore che in quelle degli uomini, perché Lui è grande in misericordia. Il suo primogenito, Amnon, compirà violenza su una sorella. Egli sarà superbo. L’altro figlio prediletto, Assalonne, muoverà in guerra contro di lui. È una storia di astuti consiglieri, di passioni non frenate, di voltafaccia per il potere: una storia umana, di fango e di sangue. Uno dei vertici drammatici della vita di Davide è l’uccisione di Assalonne da parte di un suo luogotenente. Il re, pur se in guerra contro il figlio, non avrebbe voluto e aveva chiesto che fosse risparmiato. Quando gli viene riferita la notizia, egli piange Assalonne con straziata tenerezza. I suoi fedeli non capiscono, e lo rimproverano. Ancora una volta il re è troppo umano. Alla fine della vita, Davide sente il freddo del tempo e dei dolori patiti. Non riesce più a scaldarsi. I suoi uomini cercano per tutto il regno una vergine che, dormendogli accanto, lo possa scaldare. Con lei, Abisag, il vecchio re non ha rapporti. E questa immagine del re anziano che ha bisogno di calore è entrata nella storia, oltre che come figura di valore teologico, anche come emblema del potere che non basta a far sentire a un uomo il calore della vita. Davide fece ancora in tempo a vedere la rivolta di un altro suo figlio, lo splendido Adonia, che egli non volle mai mortificare, nonostante aspirasse evidentemente a un regno che non gli spettava. E a vedere nuovo spargimento di sangue. Il suo, gli era stato predetto, non sarebbe stato un regno di pace. Infine, proprio su consiglio di Betsabea, indicherà nel figlio avuto con lei il nuovo re: Salomone. E con lui venne un periodo di pace in Israele. Nel 970 a.C., secondo il detto tradizionale, Davide si addormenta con i suoi padri, dopo aver regnato su Israele per quarant’anni. Di lui ha scritto uno storico evangelico, Samuel Amsler: «Davide si alza in uno dei punti di fuga delle prospettive veterotestamentarie, là dove si congiungono e si compiono la missione di Israele e l’opera di salvezza di Yahve. È là che Davide sorge oggi ancora dalla testimonianza dell’Antico Testamento per indicare alla Chiesa il ruolo unico e decisivo di un certo Gesù».    IL TEMPIO DI DIO LUIGI GIUSSANI «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove, quando giurò al Signore, al Potente di Giacobbe fece voto: »Non entrerò sotto il tetto della mia casa, non mi stenderò nel mio giaciglio, non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non trovi una sede per il Signore, una dimora per il Potente di Giacobbe »». È l’intendimento di Davide, quello di creare il tempio del Signore: «Non mi darò più pace fino a quando non avrò costruito la casa del Signore», non posso vivere io in una casa di legno duro o di bel legno quando il tempio di Dio è fatto di frasche. Questa, descritta nel salmo 131, è una povertà dello spirito; ma dovunque leggiamo un documento di povertà dello spirito, ci sentiamo dentro aleggiare e respirare la letizia. Un salmo così può essere detto soltanto nella letizia. (Luigi Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 1994, pp. 222-223)   Davide e il perdono Se ottenne il perdono Pietro, per aver pianto una sola volta, quanto più lo ottenne Davide che ogni notte lavava di pianto il suo letto. Se dunque Gesù ebbe pietà di colui che si pentì e pianse, se guardò Pietro ed egli pianse, quanto più rimase sotto lo sguardo del Signore colui che pianse a lungo! Pietro negò e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò ancora e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò per la terza volta, Gesù lo guardò e subito pianse, e pianse amaramente. Perciò Davide, che non cessava di piangere, diceva: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore»; egli, che sempre era sotto lo sguardo di Cristo, diceva: «I miei occhi sono discesi in torrenti di lacrime». (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 6,25)   Davide e il peccato  Mi sono determinato a scrivere un’apologia in difesa di Davide non perché egli abbia bisogno di questo favore, ma perché molti si chiedono come mai un così grande profeta non sia riuscito ad evitare il peccato di adulterio e di omicidio… Possiamo anche intendere che il peccato ha addirittura in sé un’utilità… Lo stesso apostolo Paolo avverte che Dio, nostro Signore, si preoccupò che anche nei santi il loro animo di uomini non si inorgoglisse per la sublimità delle verità rivelate loro e per una costante riuscita delle loro opere… Dio permise che si insinuasse anche in loro la colpa, così che capissero anch’essi d’aver bisogno dell’aiuto divino per salvarsi. Infatti Paolo confessa che la debolezza umana fu per lui di vantaggio; rispose Dio, mentre l’Apostolo lo pregava di allontanare da sé gli stimoli della carne: «Ti basta la mia grazia: la mia forza infatti si realizza nella tua debolezza». Giustamente si gloria, dunque, delle proprie debolezze: sapeva infatti che per eccessiva fiducia in sé moltissimi, anche santi, irrimediabilmente erano periti. (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 2,8)   Davide e i moralisti Troviamo scritto nel Libro dei Re che Davide, mentre passeggiava in casa sua, vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il marito della donna, che non aveva nessuna colpa (così almeno ce lo presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, nessuno lo nega: ma come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura dei Vangeli che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che egli stesso meriterebbe. Spesso, infatti, nel giudicare è più grave la colpa che si compie emettendo il giudizio, che non quella di chi è stato giudicato. Chiunque si accinge a giudicare un altro, deve giudicare, sempre, prima se stesso e non condannare nell’altro peccati minori, quando egli ne abbia commessi di più gravi! Chi sei dunque tu che ti permetti di giudicare Davide, uomo giusto? (Sant’Ambrogio, Seconda Apologia di Davide, 2,5)  

Dal libro del Profeta Isaia 42,1-4.6-7 – commento alla Prima Lettura

http://www.agosti.191.it/laparola/HTML%20PAROLE%20DI%20VITA/ANNO%20A/A04%20-%20DOMENICHE%20DEL%20TEMPO%20ORDINARIO/A01%20-%20BATTESIMO%20DEL%20SIGNORE.htm

PRIMA LETTURA COMMENTO

Dal libro del Profeta Isaia 42,1-4.6-7

Così dice il Signore: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finche non avrà stabilito il diritto sulla terra; e per la sua dottrina saranno in attesa le isole. Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre».

La prima lettura che la Liturgia propone in questa Domenica dedicata al Battesimo di Gesù, è compresa in uno dei quattro poemi che costituiscono il “libretto del Servo” del profeta Isaia. Gli studiosi esprimono opinioni diverse, a volte contrastanti, nell’identificazione di questo “Servo di JHWH”, e la sua immagine resta controversa; se questi canti non si leggono isolati, ma si interpretano nel loro insieme costituito dai capitoli 40-55, si intuisce che per Isaia il “Servo” è lo stesso Israele, come è precisato anche nella Bibbia greca detta “dei Settanta”, dove il primo versetto della presente lettura è tradotto “Ecco Giacobbe, il mio servo…, Israele, il mio eletto…”. Resta comunque indicativo il titolo di “Servo” usato dal Profeta, perché rileva una completa ubbidienza e sottomissione; un servo, infatti, può fare solo quello che il suo padrone gli comanda e quindi, nel contesto della lettura, può fare solo la volontà di Dio.
Nelle parole di Isaia, l’incarico affidato al “Servo” è una missione di giudizio (…porterà il diritto alle nazioni …) sottolineata dall’espressione (Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta); una frase che ricorda la dura pratica giudiziaria usata nell’antica Israele, secondo la quale, quando era emessa una sentenza, un araldo percorreva le vie della città con una canna e una lanterna, fino alla casa dell’imputato dove, se la sentenza era di condanna (a morte) spegneva la lanterna e spezzava la canna. Il Servo, invece, è incaricato di annunciare a tutte le nazioni un giudizio di salvezza, e il suo ruolo (il ruolo di Israele) è quello di manifestare l’amore e il perdono di Dio per tutti i popoli, amore e perdono che, secondo quanto rivelerà il quarto canto, saranno invece la causa della morte del Servo stesso.
Al Servo è affidata anche una seconda missione, strettamente legata alla prima: essere alleanza di un popolo. In questa parte della lettura si intuisce come l’Autore sacro giochi sull’espressione “popolo dell’alleanza”, rovesciandola per indicare in Israele l’alleanza di un popolo, che diventa così l’umanità intera, come attestano le parole “luce delle nazioni” dello stesso versetto; quindi la stessa alleanza tra Dio e Israele è ora esercitata dal Servo (Israele) nel rapporto tra Dio e l’intera umanità. È la realizzazione della rivelazione del Sinai, dove Dio aveva stipulato l’alleanza con Israele manifestandogli il suo giudizio misericordioso e che ora, nel Servo, allarga a tutti i popoli della terra, rivelando loro il suo giudizio di salvezza e la sua più intima giustizia. Ma tutto questo può avvenire solo tramite il Servo unto dallo Spirito (Ho posto il mio spirito su di lui …), ed è proprio in questa citazione dello Spirito, tanto evocata da Isaia, che già il Targum (traduzione aramaica in parte parafrasata del testo ebraico dell’Antico Testamento, utilizzata nella Sinagoga durante le cerimonie liturgiche) vedeva nel Servo annunciato il futuro Messia. Le parole iniziali del carme sono riprese, quasi integralmente, anche nel Vangelo di Matteo, ma alla luce del mistero pasquale dove il “Servo” diventa “Figlio”; un’interpretazione della “Parola” del grande profeta rigorosamente esatta, poiché l’espressione greca “páis” della vecchia versione, detta “dei Settanta”, può significare sia “servo”, sia “figlio”. Con il termine “Figlio”, Matteo e gli altri Sinottici hanno voluto evidenziare il rapporto “unico” ed esclusivo di Gesù con il Padre.

LA PAROLA BIBLICA NELLA «DEUS CARITAS EST» DI BENEDETTO XVI (pdf)

http://www.camaldolesiromani.it/sito/documenti/articoli/web%20articoli/09%20LA%20PAROLA%20BIBLICA%20NELLA%20-DEUS%20CARITAS%20EST-%20DI%20BENEDETTO%20XVI.PDF

LA PAROLA BIBLICA NELLA «DEUS CARITAS EST» DI BENEDETTO XVI (pdf)

di p. Guido Innocenzo Gargano Monaco camaldolese, priore di san Gregorio al Celio – Roma

Paolo o Giovanni? Nel paragrafo 34 della sua prima Enciclica « Deus Caritas est » Papa Benedetto XVI scrive: « San Paolo nel suo inno alla carità (cfr 1Cor 13), ci insegna che la carità è sempre più che semplice attività:  » (v.3). Quindi conclude: « Questo inno deve essere la dell’intero servizio ecclesiale; in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso di questa Enciclica, ho svolto sull’amore ». Con queste parole il Santo Padre stesso, in persona, si preoccupa di offrire la chiave interpretativa autentica del suo scritto. Né noi possiamo presumere di non tenerne conto. Bisogna dunque partire da Paolo? Eppure il titolo e l’inizio della lettera suggerirebbero Giovanni! Come mai? In realtà i riferimenti biblici presenti nella enciclica papale suppongono proprio una sorta di centralità della riflessione paolina a partire soprattutto da testo di Gal 5, 6 sull’amore operante. Ed è ancora un testo paolino, 2Cor 5, 14, che fornisce la motivazione dell’Enciclica stessa là dove il Santo Padre, facendo sua la onstatazione di Paolo, scrive ripetutamente: « L’amore di Cristo ci spinge ».Il che significa che ciò che preme a Papa Benedetto è anzitutto ribadire la connessione strettissima esistente fra l’amore, visto come sentimento e tensione interiore, e la carità che non soltanto verifica nel concreto l’autenticità dell’amore, ma rimanda anche in modo assolutamente chiaro, all’amore di Cristo. Con questo riferimento il santo Padre indica allo stesso tempo sia quell’amore la cui fonte è Cristo, amante per eccellenza, sia l’amore inteso come naturale eco, traboccante per gli altri, dell’amore ricevuto da Lui.Infatti, dopo essersi dilungato, in modo particolarmente nuovo per un’Enciclica papale, sulla descrizione delle due forme dell’amore condivise dalla letteratura e dall’opinione pubblica, quella dell’ e quella della , alla fine il Papa riconduce tutto il suo discorso alla proposta dell’ attingendo a piene mani dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Dunque non dalla riflessione filosofica o poetica, né da fondamenti specificamente antropologici, ma dalla Scrittura il santo Padre ricava quelle convinzioni profonde che lo hanno condotto a scrivere un’Enciclica simultaneamente antica e nuova come antico e nuovo simultaneamente è il comandamento dell’amore proposto dalla così determinante nell’insieme della riflessione papale.Sembra che il punto di partenza di questa riflessione di Papa Ratzinger si possa rintracciare nel libro dell’amore per eccellenza che è il in cui il santo Padre trova due parole diverse per indicare l’amore (n.6): e . Cosa che gli permette di evidenziare l’insicurezza sottesa all’utilizzazione della prima e il superamento dell’indeterminatezza, ancora in ricerca, che è sottesa alla seconda. Il riferimento alla traduzione dell’ebraico nel greco agape gli permette così di precisare che con quest’ultimo termine si « esprime l’esperienza dell’amore che diventa scoperta dell’altro » e dunque superamento di quel « carattere egoistico prima chiaramente dominante ». Infatti « adesso l’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità, ma cerca invece il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca ». Su questo fondamento dell’Antico Testamento si innesta l’insegnamento di Gesù quando dice: « Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà » (Lc 17, 33). Ma su questa intuizione si fonda soprattutto l’intera vita personale di Gesù, « che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione ». Infatti « la vera novità del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito » ( n. 12). »Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo compimento », Gesù sintetizza nella piccolissima parabola del chicco di grano che cade nella terra e muore, e così porta molto frutto, l’essenza dell’amore e dell’esistenza umana (cfr n.6).

AMORE ASCENDENTE E AMORE DISCENDENTE E’ alla luce di questo riferimento totalmente biblico che il santo Padre può riprendere ancora le intuizioni sull’amore ascendente, inteso come eros, collegandolo indissolubilmente all’amore discendente, identificato con agape , e constatando: « In realtà eros e agape – amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro » (n. 7), pur evidenziando, in questa indissolubilità reciproca, un primato indiscusso dell’agape, dal momento che senza di esso  » l’eros decade e perde anche la sua stessa natura » (ivi).Credo che questa sia un’affermazione assolutamente centrale dovuta, ancora una volta, al fondamento biblico che tutta la sorregge. La metafora della sorgente è assai illuminante in tutto questo. Scrive il Santo Padre: « Certo l’uomo può – come dice il Signore – diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi d’acqua viva (cfr Gv 7, 37-38). Ma per divenire una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente, che è Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio » (cfr Gv 19, 34). Del resto « L’amore può essere <comandato> perché prima è donato » constata il papa riassumendo tutto l’insegnamento di Giovanni (n. 14). Questo primato dell’amore che viene da Lui, dal Crocifisso, fonda ogni altra possibilità di amore. Il santo Padre ne deduce – facendosi per un momento discepolo di Gregorio Magno – un analogo primato della contemplazione sull’azione ma, di nuovo, senza che questo comporti una sorta di superiorità di grado della vita contemplativa sulla vita attiva, essendo soltanto un primato di origine della prima sulla seconda in analogia al Padre che, rispetto al Figlio, è origine e fonte della divinità, senza che questo nulla tolga alla perfetta uguaglianza del Padre col Figlio nell’amplesso comune dello Spirito Santo. L’intuizione di Papa Ratzinger sulla pari dignità fra vita attiva e vita contemplativa, condivisa da Agostino e da Gregorio Magno, i quali parlavano chiaramente di , mi sembra fondamentale. Essa infatti elimina in un colpo solo secoli di contrapposizione e di supposta superiorità dell’una o dell’altra forma di vita, sostenute senza sufficiente consapevolezza teologica e sfociate in discussioni inutili, spesse volte perfino laceranti, che hanno prodotto grandi danni alla concezione della vita consacrata. Credo che, a partire da questi suggerimenti del Papa teologo, tutti coloro che si dedicano a riflettere sui fondamenti biblico-teologici della vita consacrata dovrebbero trarne grande giovamento.L’approfondimento di questa tematica, che Papa Benedetto compie con l’aiuto di Gregorio Magno, è di un’importanza fondamentale. Scrive il santo Padre: « San Gregorio , in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che viene rapito in alto fino nei più grandi misteri di Dio e così, quando ne discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr 2Cor 12, 2-4; 1Cor 9, 22). Inoltre indica l’esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da Dio, essere a disposizione del suo popolo. <Dentro (la tenda) rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori (della tenda) incalzare dal peso dei sofferenti: « intus in contemplationem rapitur, foris infirmantium negotiis urgetur » (n 7).

L’AMORE NEI PADRI DELLA CHIESA In realtà tutto questo conduce inevitabilmente il lettore, e il santo Padre ne è profondamente cosciente, alla teologia tradizionale dei Padri sull’immagine di Dio riflessa nell’interiorità dell’uomo. « Sì, esiste una unificazione dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo – ma questa unificazione non è un fondersi insieme – spiega il papa teologo- un affondare nell’oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano pienamente una cosa sola: « Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito », dice san Paolo (1 Cor 6, 17) » (n. 10). Da questa misteriosa unità nella distinzione, così fondamentale nella teologia biblica cristiana, il santo Padre parte non soltanto per suggerire alcuni punti di antropologia cristiana, ma anche per sviluppare ulteriormente la sua particolare concezione dell’amore fra uomo e donna. Spiega papa Ratzinger: « Adamo trova l’aiuto di cui ha bisogno: <Questa volta essa è carne della mia carne e osso dalle mie ossa> (Gn 2, 23). E’ possibile vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per esempio, nel mito riferito da Platone » (n.11); ciò non toglie in ogni caso che sia fondamentale affermare che l’uomo « solo nella comunione con l’altro sesso possa diventare <completo> ». Il che permette di capire la profezia su Adamo contenuta nel libro della Genesi, là dove si legge: « Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne » (Gn 2,24). Il santo Padre può così concludere con estrema serenità: primo, che « l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo » (un’affermazione del tutto ovvia, a partire dall’intuizione biblica, e tuttavia a suo modo di suono quasi rivoluzionario ad alcune orecchie cristiane contemporanee); secondo, che l’eros inscritto nella creazione dell’uomo suppone il matrimonio inteso come « un legame caratterizzato da unicità e definitività » (anche questa un’affermazione del tutto ovvia e tuttavia di difficile accoglienza nella società contemporanea). Il santo Padre, ben consapevole di simili difficoltà non torna però indietro e ribadisce le sue convinzioni, attinte all’insegnamento biblico, sintetizzando: « All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico ». Per cui « Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa ». Stabilendo poi solennemente il principio che « il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano » (n. 11).Un principio, che posto in relazione con il mistero dell’amore fatto carne in Gesù di Nazaret  permette a papa Benedetto di scendere nelle profondità abissali di ciò che ha enunciato fin da principio nella sua Enciclica con le parole di 1Gv 4, 8 proclamando al mondo intero che <Dio è amore>. Spiega papa Ratzinger: « E’ sulla morte in croce di Cristo che questa verità può essere contemplata », perché proprio « partendo da lì deve definirsi che cosa sia l’amore ». Infatti solo partendo « da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare » (n. 12). Un vivere ed un amare che restano squisitamente personali, fondando teologicamente la diversità delle scelte di vita cristiana che possono andare dalla chiamata al compimento ‘naturale’ nel matrimonio, al misteriosissimo completamento umano che uomini e donne, chiamati da un particolarissimo sguardo ricevuto dal Crocifisso stesso alla vita consacrata, realizzano in Lui.La connessione strettissima fra sacrificio della croce ed eucaristia è, a questo punto, del tutto ovvia e naturale per qualunque battezzato. Così come viene accolta con naturalezza l’osservazione che nell’Eucarestia « l’ di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi ». E che « solo a partire da questo fondamento cristologico – sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di Gesù sull’amore »(n. 14): (1Cor 10, 17), dice san Paolo. E papa Benedetto commenta: « L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me »(ivi), né mi posso illudere di tralasciare completamente l’attenzione all’altro, « volendo essere solamente <pio> e compiere i miei <doveri religiosi>, perché allora si inaridisce anche il rapporto con Dio » (n. 18); né posso pensare di avere con gli altri un rapporto « soltanto <corretto>, ma senza amore » (ivi). L’amore poi non è soltanto un sentimento – precisa il santo Padre -, che spiega: « Il sentimento può agape Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore. E’ proprio della maturità dell’amore coinvolgere tutte le potenzialità dell’uomo e includere l’uomo nella sua interezza ». Questa maturità « unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore » in un processo continuamente in divenire, perché « l’amore non è mai concluso e completato » (n. 17, passim). « L’amore cresce – conclude papa Benedetto – attraverso l’amore. L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia <tutto in tutti> (1Cor 15, 28) ». (n. 18).

I SERVIZI DELLA CARITÀ La seconda parte dell’Enciclica inizia con una vera e propria sinfonia di testi biblici dai quali parte il santo Padre per riassumere i concetti principali espressi nella prima parte e rilanciare il discorso sull’amore aprendolo ai molteplici servizi propri di una carità operante.Fondamentali, in questa parte, sono due proposte paradigmatiche poste l’una di fronte all’altra: primo, la dimensione trinitaria della carità supportata dalla splendida citazione di sant’Agostino: « Se vedi la carità, vedi la Trinità »; secondo, il riferimento alla koinonia originaria della Chiesa descritta negli Atti degli Apostoli (cfr. nn. 19-20), col prezioso riferimento allo Spirito indicato come « forza che trasforma il cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone dell’amore del Padre, che vuole fare dell’umanità, nel suo Figlio, un’unica famiglia » (n. 19). Da cui l’esaltante conseguenza del servizio della carità della Chiesa, inteso come « espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo, cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana. Amore è pertanto – sottolinea il papa – il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini » ( n. 19). Un compito che la Chiesa non può esimersi dal compiere « a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità » (n. 20). La Chiesa infatti « non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola » (n. 22). Direi che in questa triade: Servizio, Sacramenti, Parola, debba essere vista la sintesi della parte propositiva di tutta l’Enciclica. L’elevazione del Servizio della carità allo stesso livello di Sacramento e Parola, nonostante che essa sia del tutto ovvia nell’insegnamento del Nuovo Testamento, costituisce forse, accanto alla pari dignità fra vita attiva e contemplativa, della quale abbiamo già parlato, la particolare accentuazione che papa Benedetto intende dare al suo servizio pastorale e al suo magistero universale. Da qui un invito spontaneo – mi sembra – per tutti i componenti del corpo ecclesiale, a prendere sul serio queste due accentuazioni del papa per farne un approfondimento adeguato a tutti i livelli generazionali e culturali, sia nell’ambito laicale che in quello della vita consacrata, che porti a scoprire in ciò che ci siamo permessi di chiamare con linguaggio patristico , l’obiettivo o il fine della comune appartenenza cristiana. Il santo Padre offre a questo proposito una vera e propria traccia di lavoro quando, sintetizzando i due dati essenziali del suo insegnamento, scrive: « a) L’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro. La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza. b) La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario. Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa » (n.25). La dimensione ecumenica della carità è fuori discussione, così come è ovvio l’impegno, anche politico, dei credenti per una società umana la più giusta possibile, per il semplice fatto che, come diceva Agostino in un’altra delle perle patristiche proposte da papa Ratzinger: ; cioè: « se non c’è giustizia a cosa si riducono i regni se non aun grande latrocinio? ». Un giudizio severissimo nei confronti di qualunque istituzione politica che non ponga scrupolosamente se stessa a servizio della giustizia.L’impegno politico va comunque perseguito – sottolinea il papa – tenendo conto che « alla struttura del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (cfr Mt 22, 21). Particolarmente importante per i credenti che sono stati chiamati alla vita consacrata è il richiamo del santo Padre a garantire la <formazione del cuore> (cfr n. 31). Una formazione che dovrebbe realizzare « quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore (cfr Gal 5,6). Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è <un cuore che vede>, spiega ulteriormente il papa. « Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente » (n. 31). E fa tutto questo con atteggiamento assolutamente gratuito, privo scrupolosamente di secondi fini, senza tuttavia lasciare da parte né Dio né Cristo, dal momento che è in gioco sempre tutto l’uomo e « spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza » (ivi).

CONCLUSIONE CONCLUDE IL PAPA: « IL CRISTIANO SA QUANDO È TEMPO DI PARLARE DI DIO E QUANDO È GIUSTO TACERE DI LUI E LASCIAR PARLARE SOLAMENTE L’AMORE. EGLI SA CHE DIO È AMORE (CFR 1GV 4, 8) E SI RENDE PRESENTE PROPRIO NEI MOMENTI IN CUI NIENT’ALTRO VIENE FATTO FUORCHÉ AMARE… DI CONSEGUENZA LA MIGLIORE DIFESA DI DIO E DELL’UOMO CONSISTE PROPRIO NELL’AMORE » (IVI). NON POTEVA ESSERCI CONCLUSIONE PIÙ BELLA DI QUESTA IN UNA LETTERA ENCICLICA INTERAMENTE DEDICATA ALL’AMORE. DA QUESTE PAROLE DEL SANTO PADRE RICEVIAMO INFATTI UNA TALE PROVOCAZIONE ALLA LIBERTÀ DA FUGARE UNA VOLTA PER TUTTE, IN NOI E IN OGNI NOSTRO INTERLOCUTORE, QUALUNQUE PREOCCUPAZIONE MORALISTICA, PROSELITISTICA, IDEOLOGICA E QUANT’ALTRO DOVESSE OSCURARE LA LIMPIDITÀ DELL’AMORE DI DIO CHE SI È RIVERSATO SOPRA DI NOI COL SANGUE PREZIOSISSIMO DI CRISTO E CHE CONTINUA A PERMEARE LA CHIESA E OGNI SINGOLO FEDELE GRAZIE AL DONO INEFFABILE DELLO SPIRITO SANTO. L’ULTIMA PARTE DELL’ENCICLICA RIVELA LA CONSAPEVOLEZZA DI PAPA RATZINGER SULLA VACUITÀ DELLE PAROLE, E DELLE ATTIVITÀ, PERFINO DI QUELLE DI UN PAPA, SE NON SONO ACCOMPAGNATE DALLA TESTIMONIANZA DI UNA VITA CHE FACCIA APPUNTO DELL’ , COME INSEGNA PAOLO NEL SUO BELLISSIMO INNO DI 1COR 13, LA FONTE, IL CENTRO E IL CULMINE DELL’INTERA VITA DI FEDE.

PADRE GARGANO È PROFESSORE DI TEOLOGIA SPIRITUALE E DI TEOLOGIA SACRAMENTARIA ORIENTALE PRESSO LA PONTIFICIA UNIVERSITÀ URBANIANA E PROFESSORE INVITATO DI ERMENEUTICA BIBLICA PATRISTICA PRESSO IL PONTIFICIO ISTITUTO BIBLICO DI ROMA

LA RADICE BIBLICA: L’INCONTRO CON L’ALTRO – Piero Stefani

http://bes.biblia.org/index.php/percorsi-ed-esperienze-didattiche/secondaria-di-ii-grado/la-ardice-biblica-lincontro-con-laltro.html

(anche Paolo, sono quattro pagine, prendo solo la prima tra l’altro c’ è il copyright del 2009).

LA RADICE BIBLICA: L’INCONTRO CON L’ALTRO

PIERO STEFANI   tratto da: La radice biblica. La Bibbia e i suoi influssi sulla cultura occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 116-145 (per gentile concessione dell’editore)

1. LA VISIONE BIBLICA DELLO STRANIERO La lingua ebraica, pur essendo piuttosto povera di vocaboli, dispone di vari termini per nominare il forestiero. “Straniero” è parola relativa, in quanto si è definiti tali non già in se stessi, ma nei confronti di qualcun altro, e poiché la Bibbia si presenta come il libro di un popolo particolare, quello d’Israele, in essa necessariamente si parla molto dell’“altro”. Il cosmopolitismo secondo cui l’uomo si qualifica come “cittadino del mondo”, tema costante della saggezza ellenistica (specie di matrice stoica), è estraneo alla concezione propriamente biblica, la quale non dimentica mai l’esistenza di una distinzione tra il popolo d’Israele e le altre genti. Questa situazione non sfocia meccanicamente in un sentimento di contrasto o di contrapposizione nei confronti degli altri, né diviene, per forza, espressione di orgoglio nazionale (tratti, peraltro, in parte effettivamènte presenti); va vista piuttosto come una precondizione indispensabile per parlare di rapporti con gli stranieri, questione ancora oggi attualissima.

Tre parole chiave In ebraico esistono almeno tre parole chiave per indicare lo straniero: zar, nekhàr (o il connesso aggettivo, spesso sostantivato, nokhrì) e gher. Zar significa “straniero” o “estraneo”. Lo si impiega per riferirsi ai popoli con cui Israele ha direttamente a che fare: in particolare è termine con cui si indicano i nemici politici ed è quindi spesso caricato di un senso di antagonistico. In altri contesti vuol dire, però, semplicemente “estraneo” rispetto a qualcosa o a qualcuno. Nekhàr ha un significato simile al precedente, volendo dire anch’esso “straniero o forestiero”. A volte si è voluta chiarire la sottile differenza fra i due termini sostenendo che nekhàr indica quanto non si riconosce come proprio, mentre zar esprime quel che appartiene a qualcun altro. Nel loro insieme essi sembrano quindi contenere le due facce della dimensione tipica dell’essere straniero: l’“altro” come diverso da noi e l’“altro” come colui che viene definito indipendentemente da noi. Essi si riferiscono a un “diverso” avvertito come estraneo e nei cui confronti si manifestano non di rado atteggiamenti negativi. Tuttavia, tra “noi” e l’“altro” non sempre sono erette demarcazioni invalicabili: il forestiero da estraneo può diventare vicino. Nasce così la figura del gher, lo straniero che risiede in mezzo a una popolazione a una popolazione diversa dalla propria. La Bibbia dedica una particolare attenzione proprio a quest’ultima figura e lo fa sia guardando alle antiche vicende del popolo d’Israele sia dettando varie norme al riguardo. È infatti significativo che il termine gher venga impiegato per riferirsi ad alcune grandi figure della storia ebraica che soggiornarono presso popolazioni diverse dalla propria: Abramo fu gher in Egitto (Gen 12,10), a Gherar (Gen 20,1) e a Hebron (Gen 23,4); Mosè lo fu a Madian dove ebbe un figlio che chiamò Gherson (nome derivato appunto da gher); inoltre tutti i figli d’Israele furono gherìm (plurale di gher) in terra d’Egitto (cfr. Es 22,20; 23,29; Lv 19,34; 25,33; Dt 10,19). Nello snodarsi della storia che dai patriarchi giunge fino alla generazione dell’esodo, l’esperienza di essere gher, cioè minoranza, più volte vessata e perseguitata, diviene tratto accomunante dell’intero popolo.

Dall’essere minoranza all’ospitarla Vi è però anche un momento successivo, quando il popolo ebraico, ormai insediato nella propria terra, diviene, a sua volta, colui che ospita in mezzo a sé degli stranieri. La Bibbia mostra quindi di conoscere assai bene tanto l’esistenza di società multietniche, multiculturali e multireligiose, quanto l’impiego, nei confronti del forestiero residente, di strategie orientate, in modo oscillante, all’accoglimento, allo sfruttamento o alla chiusura. Stando al primo libro delle Cronache, nel censimento voluto da Salomone (X sec. a.c.) furono enumerati ben 153.600 stranieri residenti in terra d’Israele (1Cr 2,16; cfr. 1Cr 22,2). Si è calcolato che una simile cifra potesse, grosso modo, corrispondere all’8-9 % della popolazione globale. Sempre in quest’epoca, in connessione alla costruzione del Tempio e della reggia di Gerusalemme, venne utilizzata manodopera straniera per lavori di fatica o per opere edilizie poco familiari agli ebrei. Il re Salomone prese settantamila stranieri «come portatori, ottantamila come scalpellini perché lavorassero sulla montagna e tremilacinquecento come sorveglianti perché facessero lavorare la gente» (2Cr 2,17. Difficile, osservando questa moltitudine di stranieri impiegati in lavori che non si vogliono (o non si sanno) fare, non cogliere – nonostante le ovvie differenze – analogie piuttosto forti con dinamiche presenti nelle società contemporanee. Secondo le normative bibliche il gher non gode di tutti i diritti del popolo ebraico presso cui risiede, per esempio a lui non spetta alcuna parte del territorio. Di solito si trova al servizio di qualcuno che è suo signore e protettore, è annoverato tra i poveri e, al pari delle categorie economicamente più deboli. gode del diritto di spigolatura, vale a dire della possibilità di raccogliere le spighe rimaste nei campi dopo la mietitura (Lv 19,10; 23,22; Dt 2,19-21). Le condizioni di precarietà propria del gher attirano su di lui la protezione divina: il Signore «rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama lo straniero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18). La situazione del gher prospettatici dalla Bibbia è dunque multiforme: egli in genere vive in condizioni di insicurezza economica, pur avendo dei diritti non è parificato all’ebreo dal punto di vista giuridico, tuttavia, appunto per questa sua debolezza, è amato in modo particolare dal Signore; la Scrittura, inoltre, ribadisce a più riprese il precetto di amare lo straniero.   Lo straniero nel Vangelo Nei Vangeli il significato di straniero si conforma, in genere, a quello fin qui illustrato: con questo termine si indicano infatti i non appartenenti al popolo ebraico. Nel cosiddetto “discorso missionario” Gesù impone ai dodici apostoli di non andare fra i gentili (cioè, i non ebrei) e di non entrare nelle città dei samaritani, ma di rivolgersi piuttosto alle pecore sperdute della casa d’Israele, cioè comanda loro di dedicarsi agli ebrei peccatori (cfr. Mt 10,5-6); e Gesù stesso qualifica in modo analogo il proprio compito (Mt 15,24). I Vangeli descrivono però vari incontri di Gesù con stranieri (cfr. per es. Mt 15,21-28; Mc 5,1-20; 7,24-30; Lc 8,26-39); anzi, riportano sue affermazioni che additano alcuni non ebrei come esempi di fede (cfr. per es. Mt 8,5-13; Lc 7 ,l-10). Tuttavia, a ben guardare, proprio questi passi tendono più a confermare che a smentire la sussistenza di una diversità tra gli appartenenti al popolo di Israele e i membri di altri popoli. Dopo la pasqua di Gesù, l’annuncio apostolico è, invece, rivolto a costituire comunità formate da credenti in Gesù Cristo provenienti sia dal popolo d’Israele sia dalle genti (questo termine, come quello simile di gentile, si riferisce a tutti i non ebrei; in Paolo, tale senso è a volte espresso pure dalla parola “greci”). Questo allargamento verso le genti è particolarmente sottolineato nell’incontro tra Pietro e il centurione romano Cornelio descritto negli Atti degli apostoli, episodio che si conclude con il battesimo di quest’ultimo e con la consapevolezza instillata nell’apostolo che a Dio è gradito colui che pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga (cfr. At 10,1-11.18).   Paolo, l’apostolo delle genti Anche nelle grandi dichiarazioni teologiche presenti nelle lettere di Paolo – l’apostolo delle genti (egli infatti, più di ogni altro, si impegnò a far giungere l’annuncio evangelico ai non ebrei) – l’uguaglianza tra i credenti in Cristo non annulla le differenze di ordine etnico, antropologico e sociale; esse però sono ormai viste in una nuova luce: «Tutti siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo, poiché quando siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né giudeo, né greco, non più schiavo o libero, non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Gesù Cristo» (Gal 3,28). Il senso di tale affermazione è che in Cristo vengono meno le discriminazioni; l’essere o il non essere circoncisi (cioè l’essere giudei o greci) non dà più luogo a una separazione reciproca (cfr. Gal 5,6;6,15; 1Cor 7,19). In Lui i credenti formano un’unità spirituale, senza che ciò comporti il venir meno delle distinzioni tra uomini e donne, ebrei e gentili, e, per l’epoca di Paolo, anche tra schiavi e liberi. 

1...56789...14

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01