Archive pour la catégorie 'BIBLICA (studi di biblica temi vari)'

COSMO, REDENZIONE E COMUNIONE.

http://www.corsodireligione.it/bibbiaspecial/vangeli/vangeli_teologia/cosmologia_cristiana_5.html

COSMO, REDENZIONE E COMUNIONE.

Ogni cosa riceve un nuovo senso nell’incarnazione del verbo,
ogni cosa e’ chiamata alla santificazione in Gesù.

Dio è il creatore del mondo. Questa è la rivelazione.
Che cosa significa che Dio ha creato il mondo?
La Bibbia risponde a questa domanda dicendo che Dio crea il mondo continuamente , attraverso una azione storica che lo salva continuamente dalla sparizione.

La creazione divina si rivela come storia, storia di salvezza dalla sparizione che è la corruzione, la decomposizione, la morte. Dio salva il mondo dalla sparizione, gli fornisce energia e vita , luce, perchè il mondo permette la vita al suo popolo, Israele. Dio salva il mondo per salvare Israele.
Dio ha un progetto che ha rivelato nella storia: dare la vita eterna al suo popolo,e questo progetto include la vita eterna per il mondo in cui il suo popolo vive.
Ef 1,egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito 10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.

Stephanos Charalambidis : Cosmologia Cristiana in Iniziazione alla pratica della teologia

Il Cristo, con la sua Incarnazione, «ha assunto un corpo perché in lui abiti la pienezza della divinità» (Col 2,9) e Dio dona la vita eterna al suo popolo incorporandolo in Gesù. Gesù, l’uomo-dio incorpora in sè coloro che si affidano a lui, li salva dalla sparizione, dalla corruzione, dando loro la compartecipazione al suo Spirito, alla sua natura divina. La natura divina è vita eterna e alla morte fisica essa trascinerà il corpo -con cui è fusa – nella dimensione della vita divina: è la resurrezione del corpo.
La grande Tradizione patristica definisce l’uomo come ‘microcosmo’ nel senso che nel suo corpo umano, egli ricapitola tutta la creazione. Così il cristiano, il salvato, che come uomo incorpora in sè tutta la creazione, la ricapitola in sè , porta la creazione nella dimensione della vita eterna. Attraverso la resurrezione del corpo umano i figli di Dio raggiungeranno la loro pienezza, , risponderanno pienamente alla  » chiamata divina », e insieme a loro, ricapitolata il loro anche la creazione entrerà definitivamente nella vita eterna.
L’essere creato, materiale, corruttibile e mortale,è chiamato a diventare un un essere di comunione, un essere eterno .
E’ la capacità stessa di comunione dell’uomo che condiziona lo stato di tutto il nostro universo
Rm 8,9 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
La Chiesa considera il mondo come un prodotto che si realizza, che raggiunge la propria verità quando risponde all’amore creatore di Dio. Essendo incorporato nell’uomo-microcosmo, il mondo risponde all’amore di Dio, raggiunge la sua verità solo insieme all’uomo. L’uomo è il solo essere nella creazione ad essere libero, capace di autodeterminarsi : incarna la possibilità di personalizzare la vita.
Solo l’uomo, che racchiude in sè la creazione può, attraverso le sue libere scelte, i suoi comportamenti autodeterminati, portare la creazione nella giusta relazione con Dio, portarla a rispondere pienamente alla chiamata divina verso la vita eterna, l’esistenza vera. Attraverso quella congiunzione tra il divino e il terrestre che è l’uomo salvato, il cristiano, l’essere del mondo costituisce un fatto di comunione con Dio.
Il cristiano-in quanto «santuario dello Spirito santo» secondo l’espressione di S. Paolo può realizzare nel proprio corpo la risposta positiva o negativa della creazione intera alla chiamata dell’amore divino .
Noi possiamo esistere per sempre, partecipare alla vita eterna (al di là del tempo e dello spazio, della corruzione e della morte) se accettiamo l’amore divino nella libertà del nostro amore.

L’azione sacramentale della Chiesa e il cosmo
La Chiesa è la ‘gloria’ del Verbo, la sua apparizione e la sua manifestazione , e ciò realmente e direttamente avviene grazie all’azione dello Spirito santo. Il mondo, come natura della storia, costituisce di fatto la « gloria del Verbo », la manifestazione e la rivelazione della persona del Verbo. Così, la gloria del Verbo come inizio e come fine della storia rimane il mistero della fede e la possibilità della vita «Camminiamo nella fede, non ancora in visione» (2 Cor 5,7).
Questa grazia naturale dello Spirito santo, che costituisce il fondamento stesso dell’essere di creatura, è nella carne del mondo, nella sostanza mondiale; essa è la condizione della santificazione di questa sostanza , santificazione che avviene per mezzo della ricezione dello Spirito santo.
Il fatto della « trasfigurazione » di tutte le cose in Gesù è il presente continuo della Chiesa e di conseguenza è la theósis, la deificazione del mondo.
Le cose non esistono se non per essere presenti e partecipi nelle preghiere e nelle benedizioni (sacramentali) e nelle trasmutazioni (i sacramenti) che vengono operate nella Chiesa.
Preghiere, benedizioni e trasmutazioni realizzano tutta una gradazione di consacrazioni delle cose per « partecipazione »: come se in tutto ciò la materia morta e insensibile ricevesse in sé « la forza di Dio » e trasmettesse i suoi grandi miracoli.
La Chiesa del Cristo conosce diverse santificazioni della materia che hanno luogo nella maggior parte dei sacramenti e dei sacramentali. (acqua, olio, sale, pane, vino, …) La benedizione delle acque del Giordano per la discesa dello Spirito santo, da cui provengono tutte le benedizioni delle acque (battesimali e non), quella del sacro crisma e dell’olio, del pane e del vino (eucaristici e non), la consacrazione delle chiese e degli oggetti di culto, la benedizione dei frutti, dei cibi e in generale di tutti gli oggetti, etc.
Così, per esempio, tutta una teologia della natura viene esplicitata il giorno dell’Epifania: lo Spirito si effonde nell’acqua del battesimo come si effonde nell’olio del sacro crisma; il battesimo attualizza, la discesa del Cristo nel Giordano, è segno della sua discesa vittoriosa agli inferi. Allo stesso modo, le epiclesi di tutte le azioni sacramentali costituiscono come una continuazione della Pentecoste, la ripresa, in un dinamismo rinnovato, della Pentecoste cosmica delle origini.
Tutto culmina allora nella metabole’ eucaristica. La liturgia eucaristica, mondo trasfigurato in Cristo Per S. Ireneo di Lione, «è tutta la natura visibile che noi offriamo nei santi doni affinchè essa venga eucaristiata, perché nell’eucarestia, uno dei due fattori è terrestre» Nell’anafora, ricorda S. Cirillo di Alessandria, si fa memoria del ciclo e della terra, del mare, del sole, di tutta la creazione visibile ed invisibile» .
Che cosa rappresenta questa santificazione nel suo principio?
Come le cose e la materia possono ricevere e trattenere l’azione dello Spirito santo?
Il Cristo risorto è la vera Bellezza dell’uomo, e la vita dello Spirito santo è la Vita Reale, eterna.
In questo quadro divino-umano- in cui il corpo nell’attesa della sua resurrezione è anche designato come segno dell’essere cristificato- l’uomo viene salvato con le sue cose e i suoi gesti.
Così, se «i cicli, la creazione di Dio narrano la sua gloria» (Sal 19,1) le opere dell’uomo che continuano la creazione dì Dio, hanno anch’esse per scopo supremo, attraverso la creazione, la glorificazione di Dio.
Il corpo allora è teofanico , in esso si manifesta la gloria di Gesù, e non è più considerato come nemico dell’uomo. E non è neanche esclusivamente il compagno dell’anima. Il corpo umano è soprattutto un microcosmo portatore di tutto il cosmo davanti a Dio e mediatore tra di essi. Con i sacramenti avviene una Nuova Creazione .
«Nella consacrazione -scrive il Padre Sergej Bulgakov in Il Paraclito – si effettua una discesa dello Spìrito santo, una comunicazione della sua forza al creato naturale e pneumatoforo; la Sofia di creature si unisce con la Sofia divina, lo Spirito santo con lo Spirito di Dio nella creazione. Si produce così una misteriosa ‘transustanziazione’ della materia e non solamente nell’eucarestia, ma in ogni atto sacramentale. Avviene una trasfigurazione della creatura, misteriosa, impercettibile allo sguardo. Restando ontologicamente la stessa, essa diventa trasparente allò Spirito e diventa atta a comunicare con Dio. In tal modo, questa permeabilità delle cose allo Spìrito e nella «comunicazione degli idiomi» o perìcoresi che ne risulta , abbiamo l’unità senza separazione e senza confusione della vita creata e della vita divina. In altre parole, va compiendosi la teantropia; ma non soltanto nell’uomo, bensì nel mondo umano e che si umanizza; quello che nell’uomo ha il suo punto centrale ontologico. È la divinizzazione della creatura avente come condizione necessaria la conservazione del suo essere proprio» «Fuoco ineffabile e prodigioso, nascosto nell’essenza delle cose»
Il tempo dello Spirito è il tempo della ‘sinergia’, cioè di una collaborazione, di una creatività dìvino-umana; nel Nome del Cristo, cioè nella presenza sua più intensa, ecclesiale, si apre un campo infinito alla libertà umana resa creatrice dallo Spìrito, affinchè ‘il Dio-uomo’, come diceva Vladimir Soloviev, divenga ‘Dio-umanità’ e ‘Dio-universo’…Lo Spirito discende in persona nel cuore del mondo,- trasparenza originale – ed eccolo : coscienza della nostra coscienza, vita della nostra vita, soffio del nostro soffio»
«Oltre che nella Chiesa, l’azione dello Spirito si manifesta nel mondo della materia e in quello della cultura. Essa si manifesta innanzitutto nella natura vivente, che ha la sua libertà, anche se limitata. Questa libertà sta nella spontaneità elementare del movimento. Nel mondo inorganico regna la legge che porta il segno della razionalità del Logos, del fondamento matematico-ideale del mondo. Nel mondo organico interviene Io « slancio creatore » che testimonia la forza vivificante del!o Spirito non soltanto nell’uomo ma anche nell’animale, nel vegetale e in genere nel cosmo tutto intero».
OLIVIER CLÉMENT, L’Eglise, espace de l’esprit saint, conferenza tenuta a Notre-Darac di Parigi, il 24 ottobre 1976:
La Chiesa esercita il suo ministero per mezzo dei sacramenti (o misteri).
I ‘misteri’ della Chiesa, cioè i diversi aspetti della vita della Chiesa come sacramento del Cristo nello Spirito santo, costituiscono il centro e il senso della vita cristiana .
Facendo ciò la Chiesa esercita anche un ministero cosmico: i sacramenti della Chiesa costituiscono il centro e il senso della vita cosmica. E’ nell’azione sacramentale che le cose vengono  » santificate  » per opera dello Spirito. Vivificate, ricreate, deificate.
È perché c’è la ‘Chiesa e la liturgia, che il mondo resta ancorato all’essere, cioè al Corpo del Cristo . La Chiesa rimane il luogo spirituale in cui l’uomo fa l’apprendistato di una esistenza eucaristica e diventa autenticamente sacerdote e re: mediante la liturgia egli scopre il mondo trasfigurato nel Cristo e ormai collabora alla sua metamorfosi definitiva, il che significa, in termini espliciti, alla sua trasfigurazione.
La liturgia eucaristica diventa allora l’accttazione del mondo e della creazione in senso pienamente positivo, e ciò nell’azione: ogni fedele che va alla liturgia porta in sé il mondo nel modo più realistico che si possa pensare.
Non porta soltanto la propria carne di uomo, il proprio essere concreto con le sue debolezze e le sue passioni: egli porta la sua relazione con il mondo naturale, con la creazione. Il mondo che entra nello spazio liturgico è il mondo decaduto ma esso non vi entra per rimanere tale: la liturgia è un rimedio di immortalità [leggi eternità ] perché nella sua accettazione e nella sua affermazione del mondo, essa ne rifiuta appunto la corruzione per offrirlo, invece, a Dio, al Creatore.
In tal modo, nella liturgia eucaristica, il mondo non cessa mai di essere il cosmo di Dio: una simile visione del mondo non lascia possibilità alla dissociazione tra naturale e soprannaturale; ciò che qui esiste di fatto è l’unica realtà della natura e della creazione completa fino all’identificazione tra la realtà terrena e la realtà celeste .

Dice la liturgia orientale:
«Ricordandoci quindi di questo comandamento di salvezza e di tutto ciò che è stato fatto per noi: della Croce, della Tomba, della Resurrezione al terzo giorno, dell’Ascensione al cielo, della sessione alla destra (del Padre), del secondo e glorioso Nuovo Avvento, i tuoi doni che prendiamo tra i tuoi doni, noi te li offriamo in tutto e per tutto ».
L’Eucarestia, rispondendo in modo fondamentale a certe attese contemporanee, può salvare l’uomo contemporaneo dall’opposizione e dalla dissociazione tra eternità e tempo che lo spingono a rifiutare Dio; quel Dìo che la teologia troppo spesso ha collocato in una sfera ormai incomprensibile per gli uomini di oggi. Considerata da questo punto di vista, la liturgia eucaristica può anche rivestire una dimensione profondamente polìtica: essa può ristrutturare il tempo, lo spazio, i rapporti tra le persone umane nonché il rapporto tra l’essere umano e la natura.
Se i cristiani riuscissero a vivere pienamente il sacrificio della messa in questo modo, non soltanto sarebbero capaci di conservare il mondo che Dio ha loro affidato, ma senza alcun dubbio lo svilupperebbero all’infinito e lo trasfigurerebbero veramente in sacrificio ‘logico’, ragionevole, cioè conforme al Logos, alla Parola sempre creatrice di Dio .
La liturgia dunque è il nostro rendimento di grazie più autentico per il mondo creato, reso nel nome dello stesso mondo. Essa è anche la restaurazione del mondo decaduto e la piena partecipazione dei fedeli alla salvezza (portata dall’Incarnazione del Logos divino) attraverso cui questo stesso Logos viene dato al cosmo tutto intero. La liturgia eucaristica è infine l’immagine del Regno, che è il Cosmo diventato Ecclesiale

Il pentimento e l’ascesi cristiana nel ministero cosmico della Chiesa
Il pentimento e l’ascesi sono la lotta con la quale l’uomo- in- Cristo fa morire in se stesso e nelle proprie opere la propria autonomia malvagia, il solo elemento di sè che debba essere respinto (1 Tim 4,4).
Il pentimento e l’ascesi ricollocano l’uomo nella sua bellezza originale; essi volgono lo specchio verso il sole reale. E le creazioni dell’uomo ricevono in tal modo la luce e la vita.
Il cristiano, l ‘uomo santificato è un uomo che santifica tutto e la sua «coscienza eucaristica» cerca, nel cuore degli esseri e delle cose, il punto di trasparenza in cui far irradiare la luce della trasfigurazione di Gesù sul Tabor.
Questa partecipazione a tutta la creazione, alla dossologia che è diretta al Creatore, questa atmosfera di riconciliazione della natura e della religione nel culto, noi le ritroviamo pienamente espresse nell’iconografia bizantina: l’ascesi e la mistica, lungi dal concernere unicamente l’anima, appaiono in tal modo come l’arte e la scienza del soma pneumatikon (corpo spirituale), e questo corpo, penetrato dalla Luce, la comunica all’ambiente cosmico da cui è inseparabile.

PACE NELL’ANTICO TESTAMENTO

http://www.rivistazetesis.it/Pace_file/AT.htm

PACE NELL’ANTICO TESTAMENTO

In ebraico i valori fondamentali di šālôm (שלום) si articolano in tre direzioni specifiche: 1. ‘salvezza, incolumità’ (sia come salvezza dei singoli sia come prosperità di poli e regni); 2. ‘pace’ (sia fra singoli sia fra popoli); 3. ‘pace come sommo bene divino’. Il termine per ‘pace’ ha nel mondo semitico una connotazione materiale quasi completamente assente nelle corrispondenti parole del mondo pagano. Per ripetere le parole di von Rad, « è difficile trovare nell’AT un altro concetto così trito e comune nella lingua quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come šālôm … il significato fondamentale della parola è quello di ‘benessere’, con una chiara preponderanza dell’aspetto materiale » (art. cit., 195-196). La parola indica spesso la salute fisica e materiale o la soddisfazione che ne consegue. Questo suo valore ne favorisce l’uso nelle formule di saluto, di augurio e di benedizione (« Va in pace »). Cfr. p.es. Ps. 122, 6 ss. « Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: « Su di te sia pace! ». Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene ». In alcuni testi šālōm passa dal valore di ‘benessere (materiale e spirituale)’ a quello puro e semplice di ‘buon augurio’. Ad es. in I Sam. 16, 4 gli anziani di Betleem chiedono a Samuele le sue intenzioni dicendo: « è šālōm la tua venuta? » e Samuele risponde semplicemente « šālôm », che qui indica non tanto uno stato attuale quanto la prefigurazione di un’intenzione. Ancora più interessante Ier. 6, 14 « Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: « Bene, bene! » ma bene non va » (le parole in corsivo sono la traduzione di ebr. šālōm). A partire da questo valore si capisce il senso della formula ‘morire in pace (bešālōm)’, che ricorre p.es. in Ier. 34, 5; Gen. 15, 15 e altrove, ed è alla base dell’espressione formulare cristiana requiescat in pace.
All’interno della vasta gamma di valori di šālōm sta anche quello di ‘accordo fra due contraenti’, analogo insomma a quello riscontrato nell’equivalente latino, e col termine berît šālôm si indica il trattato che dà inizio alla pace: cfr. p.es. I Re 5, 26 « Fra Chiram e Salomone regnò la pace e i due conclusero un’alleanza ».
È stato notato che questo uso del termine è minoritario e appare soprattutto in testi recenti, perché l’AT « non parla della pace tra gli uomini, ma della Signoria di Dio ». Ma più che accordo fra gli uomini o scopo da raggiungere la pace è intesa nell’AT soprattutto come dono divino.
[Sono stati studiati con molto interesse i rapporti che esistono fra la concezione veterotestamentaria della pace e l’idea della pace che emerge nei testi egiziani o mesopotamici (si veda per esempio il capitolo iniziale di H. Schmid). In questi testi spesso la pace è intesa come "qualcosa di divino a cui è ammesso il mondo" (Schmid, p. 41). Nel testo sumerico in cui si descrive la costruzione di un tempo da parte del re Gudea, è il diretto intervento divino che porta a una condizione di pace, i cui contenuti specifici sono l’assenza di ostilità, il benessere materiale e lo stato di uguaglianza tra tutti i cittadibni, senz<a più distinzioni sociali. Tra i compiti del re vi è anche quello di assicurare pace al popolo. Nel prologo del suo codice Hammurabi scrive "io lo ho sempre governati in pace, sempre li ho protetti nella mia sapienza": ma al dovere di garantire benessere e sicurezza ai propri sudditi si contrappone la necessità di mostrarsi inflessibili coi nemici, ed è questa l’altra faccia dell’antico re orientale, che nelle iscrizioni spesso si presenta come "terrore dei nemici", sui quali non esiterà a scatenare la distruzione e dai quali riscuoterà pesanti tributi.]
Basti citare, fra i molti, I Re 2, 33
Su Davide e sulla sua discendenza, sul suo casato e sul suo trono si riversi per sempre la pace da parte del Signore.
Lo stretto collegamento che si ha nell’AT fra pace, benessere e giustizia appare da luoghi come i seguenti: Is. 32, 17 ss.
Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata.
o Is. 9, 5-6
Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
o Ps. 72, 1-7
Dio, da al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l’oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.
La giustizia, o addirittura la correzione del prossimo, come condizione necessaria per la pace è ribadita ad es. in Prov. 10, 10
Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace,
da cui la conclusione radicale che « non vi è pace per i malvagi » come afferma con forza Is. 48, 22, e anche Ps. 28, 3 avvertono: « Non travolgermi con gli empi, con quelli che operano il male. Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore ». L’uomo di pace (šālōm) è l’esatto contrario dell’empio, e soltanto il primo ha un futuro, perché l’empio è inesorabilmente avviato verso la distruzione (Ps. 37, 37). Anche il collegamento fra pace e verità ha un rilievo importante nell’AT: la formula šālōm we-’emet s’incontra p.es. in 2 Re 20, 19; Is. 39, 8; Jer. 33, 6; Est. 9, 30. E poiché in ’emet è compresa l’idea della verità come cosa stabilita in maniera definitiva e stabile, nell’espressione šālōm we-’emet può affermarsi l’idea della stabilità anche materiale: con « pace e sicurezza » sono tradotte queste parole ebraiche nella versione italiana corrente.
Ancora, šālōm viene ad assumere un’importanza rilevante nel contesto messianico. Il patto tra YHWH e l’uomo viene definito come immutabile patto di pace: Ez. 34, 25 e 37, 26 usa il termine tecnico berît šālōm per indicare quest’alleanza fra Dio e l’uomo; Is. 54, 10 (« Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia ») aggiunge all’espressione qualcosa di ancora più intenso affettivamente con l’uso del possessivo (berît šelômî ‘il patto della mia pace’). Principe della pace è il futuro Messia (Is. 9, 5 nel testo ebr. śar šālōm: come scrive von Rad, art. cit., col. 206, « il Messia, in quanto mandato da Dio, è il garante e custode della pace nel futuro regno messianico »), e « disciplina per la nostra pace » la sua passione (Is. 53, 4 môsar šelômnû nel testo ebraico, paideía eêrÔnhj (paideía eirēnēs) nella versione dei LXX: un’espressione pregnante ed efficace, che purtroppo è andata completamente perduta nella versione italiana della Bibbia approvata dalla CEI: « Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti »).
È stato osservato che nei libri dell’AT la cui redazione originaria è in greco eêrÔnh (eirēnē) ha un valore più attenuato, e viene a significare solamente ‘assenza di guerra’. Si è pensato anche a un possibile influsso del pensiero ellenistico su questi testi, ma è più naturale pensare che le cose siano andate diversamente, e che si abbia a che fare con una serie incrociata di interferenze che ha agito sui due termini. Da una parte l’utilizzazione di eêrÔnh per tradurre šālōm rappresenta in qualche modo un ripiego, in quanto l’opposto di eêrÔnh nel parlante greco di epoca ellenistica è pólemoj (pólemos), mentre l’opposto di šālōm è il male in tutte le sue possibili accezioni. Siamo insomma di fronte a un processo di calco semantico che porta ad ampliare considerevolmente la sfera di significati connessa originariamente con eêrÔnh. Ma se la sovrapposizione, peraltro non del tutto completa, fra le due parole ha finito per conferire al termine greco una serie di significati che non gli appartenevano in precedenza e che si svilupperanno pienamente nella successiva letteratura cristiana: d’altronde, non è possibile pensare che ei;rh[nh in ambienti di lingua aramaica (e soprattutto nelle sfere più colte di questi ambienti) sia servita esclusivamente per come riproduzione passiva di šālōm senza alcun rapporto con gli usi che la parola aveva in greco: si tratta di vicende del tutto comprensibili in individui e comunità linguistiche bilingui o plurilingui (ad esempio nelle opere di Filone l’uso di ei;rh[nh corrisponde pienamente a quello del greco ellenistico: cfr. Foerster, art. cit., col. 219). Il diretto riflesso di quest’evoluzione si coglie anche negli usi rabbinici di šālōm, che spesso viene a significare ‘assenza di discordia (fra individui o fra popoli)’: cfr. Foerster, art. cit., col. 215.
Nei testi giudaico-ellenistici eêrÔnh viene ad assumere un significato che tramezza fra quello di ‘perdono’ e quello di Þgáph (agápē) ‘amore (che Dio ha nei confronti degli uomini)’, come appare dal seguente passo di un apocrifo dell’AT, il cosiddetto Enoch etiopico 1, 7 s.:
Tutto ciò che vi è sulla terra perirà, e vi sarà il giudizio di ogni cosa e (il Signore) porrà la pace sui giusti, e per gli eletti vi sarà il perdono e la pace, e per l ro vi sarà la pietà e tutti saranno di Dio e darà loro la sua benevolenza e tutti benedirà e ricambierà ogni cosa e ci aiuterà e apparirà loro la luce e opererà su di loro pace.
Per quanto fra idea della pace semitica e idea della pace greca si abbia l’impressione di cogliere qualche affinità, in realtà la distanza che le tiene separate è enorme. Per riassumere le conclusioni a cui perviene E. Bellini in un breve, ma penetrante esame dei due termini greco ed ebraico (nello scritto collocato in appendice, pp. 129 e ss., al vol. G. di Nazianzo, Teologia e chiesa, Milano, Jaca Book, 1971), due sono fondamentalmente i caratteri che li rende diversi: mentre per i Greci la pace è uno stato di tranquillità, e il benessere è visto come una sua filiazione, sia pure spontanea e naturale, nell’AT la pace è innanzitutto uno stato di benessere o addirittura di perfezione; ancora, mentre per i Greci la pace rappresenta una conquista dell’uomo, nell’AT la pane è un dono divino. Soprattutto potremmo aggiungere con von Rad (art. cit., col. 206) che « non si saprebbe indicar nessun testo in cui la parola šālōm designi lo specifico atteggiamento spirituale della ‘pace interiore’. Anzi si può constatare facilmente che šālōm vien riferito molto più spesso a più persone che non al singolo ». E ancora richiamiamo quanto scrive H. Schmid, a proposito dei riflessi che la lettura dell’AT può avere sul dibattito attuale circa la pace: « Oggi si sente dire che quello della pace appare come il problema per eccellenza, o anche il problema teologico del nostro tempo. Invece nella Bibbia il tema della pace non sta al centro delle riflessioni, come lo è per noi … Che peculiare del mondo sia o debba essere, la condizione di pace, e che l’uomo sia chiamato a realizzarla, è detto in tutti i modi, sia pure con differenze nei particolari. La cosa non è specificamente biblica o cristiana, ma risponde a un postulato umano generale, come sarebbe facile mostrare dando uno sguardo ad altre civiltà. … La pace di Dio e la pace e del mondo, dunque, per l’antico Oriente coincidono e sono divise allo stesso tempo. Questa difficile determinazione delle loro rapporto si può considerare come un prodotto degno di attenzione dello spirito dell’antichità. » (pp. 98 ss.).

Un tempo per giocare

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Rubriche Giovani

Un tempo per giocare

Dicembre 2011

Sebbene il gioco sia sempre stato considerato come qualcosa legato esclusivamente all’infanzia, da qualche anno si sta sviluppando una nuova concezione dell’attività ludica, non più vista come momento gratuito di svago, ma come un vero e proprio metodo finalizzato a stimolare l’apprendimento degli studenti nelle scuole e ad aumentare la produttività dei dipendenti nelle grandi aziende.
A causa di questo nuovo orientamento, ormai da tempo vediamo comparire, per esempio, videogiochi « istruttivi » e assistiamo al sorgere di palestre e aree di ricreazione nei luoghi di lavoro.
A prima vista, la Bibbia sembra tacere su questo argomento, ma noi desideriamo applicarci nello studio della Parola, affinché essa possa disciplinare ogni aspetto della nostra vita…
Al contrario di quanto si possa pensare, il gioco esiste fin dagli albori della storia umana.
Nelle Scritture questo termine ricorre raramente, eppure possiamo rintracciarvi degli indizi che testimoniano l’esistenza di questa pratica persino nel popolo d’Israele.
Nel corso dei secoli, molti filosofi, psicologi e sociologi hanno studiato il gioco, classificandolo in varie tipologie a seconda delle caratteristiche ed evidenziandone l’importanza dal punto di vista pedagogico, ma senza disperdersi in tali inutili ripartizioni, a noi occorre distinguere a grandi linee le forme di gioco e svago riscontrabili nella Bibbia.
Nelle Sacre Scritture troviamo riferimenti più o meno espliciti ai giochi d’azzardo, ai divertimenti conviviali (come i banchetti) e ai giochi sportivi.
Di fronte a questa prima suddivisione, possiamo già individuare una particolare forma di gioco che il mondo sembra praticare in maniera febbrile, ma che non si addice ad un cristiano: il gioco d’azzardo.
La Bibbia ci testimonia che tale attività era già in voga nell’antichità, infatti è scritto che quando Cristo fu crocifisso, i soldati tirarono a sorte per aggiudicarsi come vincita la sua tunica (Matteo 27:35).
Oggi il gioco d’azzardo è una delle molte piaghe che affliggono la nostra società, la quale, essendo attirata dalla possibilità di vincere del denaro, tenta la sorte ma poi viene ingannata dal laccio del vizio.
La Parola è molto chiara su questo argomento: « Ma coloro che vogliono arricchirsi cadono nella tentazione, nel laccio e in molte passioni insensate e nocive, che fanno sprofondare gli uomini nella rovina e nella distruzione » (1 Timoteo 6:9).
Alcuni ritengono che non ci sia nulla di male nel giocare senza scommettere denaro, ma al di là di questo, personalmente ritengo che non sia molto edificante, per esempio, vedere un cristiano seduto ad un tavolo con delle carte da gioco in mano.
Leggendo la Bibbia, ci si potrebbe giustificare affermando che presso il popolo d’Israele fosse consuetudine tirare a sorte, ma in questo caso occorre fare un chiarimento.
Nella Scrittura è riportato che gli israeliti usavano tirare a sorte non per giocare, per tentare la fortuna o per aggiudicarsi delle vincite, ma unicamente per prendere decisioni importanti o per spartirsi la proprietà della terra.
In Giosuè 18:10 è chiaramente detto che Giosuè tirò le sorti per il popolo davanti all’Eterno.
Questa dicitura significa che anche se Israele utilizzò una pratica apparentemente regolata dal caso e dalla fortuna, ogni decisione e ogni evento era stato già stabilito da Dio e da Lui gli uomini attendevano la rivelazione e la manifestazione della sua volontà, perché: « Le disposizioni del cuore appartengono all’uomo, ma la risposta della lingua viene dall’Eterno » (Proverbi 16:1).
Oggi, per noi credenti, non è più necessario tirare a sorte per conoscere la volontà di Dio, perché Egli ci ha donato lo Spirito Santo, il quale ci rivela la volontà del Padre contenuta nella Parola che leggiamo.
Veniamo ai banchetti: nei tempi antichi essi costituivano il modo più consueto di divertirsi e rilassarsi.
Ogni avvenimento particolare e ogni ricorrenza come la mietitura, la vendemmia o la nascita di un figlio, offrivano il pretesto per organizzare dei conviti nei quali, oltre al cibo, erano protagonisti la musica, le danze e alcuni giochi come la proposta di enigmi e indovinelli (Giudici 14:12, 1 Re 10:1).
Israele aveva delle occasioni particolari nelle quali si riuniva per condividere il cibo, come ad esempio la festa della Pasqua, ma anche in questo caso l’attitudine del popolo di Dio era diversa da quella dei gentili, poiché essi celebravano delle feste comandate dalla legge in onore dell’Eterno.
Questa considerazione fa nascere spontanea una domanda: le agapi organizzate dai credenti del nuovo testamento, possono essere considerate delle occasioni di svago e divertimento?
Innanzitutto l’agape non è un’opportunità di « svagarsi in maniera cristiana », ma nasce dal dovere dell’amore fraterno, che fra le tante opere, trova espressione anche tramite la partecipazione dei credenti ad un pasto comune.
Un’agape, per essere tale, non può nascere dalla volontà di pochi fedeli che decidono di riunirsi tra loro, ma deve essere decisa dal pastore e richiede la partecipazione di tutti i credenti dalla chiesa.
Bisogna stare attenti al modo con il quale ci si accosta a tali attività e non bisogna dimenticare che l’apostolo Paolo dovette intervenire nella chiesa di Corinto perché si erano introdotti dei disordini nello svolgimento delle agapi, che erano diventate soltanto delle occasioni per sollazzarsi.
Infine abbiamo lo sport, alla cui pratica la cultura ebraica lasciava poco spazio, sebbene l’abilità bellica di alcuni uomini fa supporre che si praticasse comunque l’allenamento e l’esercizio fisico (Giudici 20:16).
La cultura ellenista, imperante ai tempi dell’apostolo Paolo, incoraggiava l’organizzazione di giochi e gare atletiche che infondevano nei partecipanti il senso della disciplina, uno stile di vita sano e il rispetto delle regole.
Ai credenti di Corinto dovevano essere ben noti questi elementi culturali, infatti Paolo li utilizza per istituire un paragone tra l’atleta mondano e l’atleta cristiano: « Non sapete voi che quelli che corrono nello stadio, corrono bensì tutti, ma uno solo ne conquista il premio? Correte in modo da conquistarlo » (1 Corinzi 9:25).
Abbiamo ampiamente dimostrato che la Bibbia ci testimonia dell’esistenza di varie tipologie di gioco e divertimento, ma ora è il momento di domandarsi: è lecito per un cristiano dedicarsi a queste forme di svago?
Ho investigato a lungo il Nuovo Testamento alla ricerca di un accenno ad un momento ludico o di ricreazione o di ilarità da parte del Signore e degli apostoli, ma non l’ho trovato.
Persino durante la sua infanzia, Gesù non prendeva parte ai giochi dei suoi coetanei ma preferiva stare presso il tempio a discutere con i dottori della legge: « E avvenne che, tre giorni dopo, lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, intento ad ascoltarli e a far loro domande » (Luca 2:46) e i primi convertiti, a quanto pare, seguivano il suo esempio: « E perseveravano con una sola mente tutti i giorni nel tempio e rompendo il pane di casa in casa, prendevano il cibo insieme con gioia e semplicità di cuore… » (Atti 2:46).
Timoteo era un giovane ministro sul quale gravava il peso di un’opera importante e sicuramente anche lui era soggetto a momenti di malattia e di stanchezza, ma nonostante questo, l’apostolo Paolo non gli consiglia di prendersi un periodo di riposo per dedicarsi ai suoi interessi e ricrearsi, anzi lo incoraggia a dedicarsi maggiormente all’opera: « Applicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento, finché io venga. Non trascurare il dono che è in te che ti è stato dato per profezia, con l’imposizione delle mani da parte del collegio degli anziani.
Adoperati per queste cose e dedicati ad esse interamente, affinché il tuo progresso sia manifesto a tutti » (1 Timoteo 4:13- 15).
Ricordo che quando facevo parte del coro dei bambini della chiesa, cantavo un cantico tratto dalle parole del Predicatore, il quale mi ricordava che c’era un tempo per giocare, ma anche un tempo per fare tante altre cose: « Per ogni cosa c’è la sua stagione, c’è un tempo per ogni situazione sotto il cielo » (Ecclesiaste 3:1).
L’apostolo Paolo ci dice ancora che: « Quand’ero un bambino, parlavo come un bambino, avevo il senno di un bambino, ragionavo come un bambino; quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino » (1 Corinzi 13: 11).
Quando entrai nel periodo dell’adolescenza cominciai a ricevere qualche piccolo incarico nella chiesa e di ciò ero entusiasta, perché mi sentivo più adulto e responsabile, ma ben presto compresi che servire il Signore significava sacrificare gran parte del mio tempo libero che fino a quel momento avevo dedicato ai miei giochi infantili.
Per un lungo periodo affrontai di malavoglia quei doveri che inizialmente avevo accettato di buon grado, ma successivamente, notando lo zelo che avevano gli altri giovani neoconvertiti, compresi di non avere più tempo da sprecare nei giochi e nei divertimenti proposti dal mondo e così pregai il Signore affinché potessi ricevere la stessa passione e lo stesso zelo dei miei fratelli per l’opera sua.
Questo mondo ci ruba già troppo tempo, ci obbliga a lavorare o a studiare per tante ore al giorno e ci lascia ben poco a disposizione, perciò non permettiamo che esso eserciti il controllo anche sul nostro tempo libero.
Il gioco è un elemento importante per la crescita di ogni bambino e sicuramente ha un forte valore formativo, ma prima o poi va abbandonato per dedicarsi con serietà ai doveri che giungono con l’età adulta.
L’adolescenza è proprio il momento adatto per iniziare questa prova di maturità: se ti accorgi che i giochi, i passatempi, i divertimenti e le proposte di svago di questo mondo ti impediscono di leggere la Bibbia, di pregare e di dedicarti all’opera di Dio, chiedi al Signore che possa infondere in te la fede e la costanza necessaria per non stimare più queste cose futili.
Il mondo mostra il suo zelo dedicandosi interamente a determinate attività ricreative con lo scopo di dare un significato la propria esistenza, ma i cristiani, che conoscono il vero scopo della vita su questa terra, devono profondere un impegno maggiore nelle cose del Padre, perché riceveranno un premio celeste: « Ora, chiunque compete nelle gare si auto-conrtolla in ogni cosa; e quei tali fanno ciò per ricevere una corona corruttibile, ma noi dobbiamo farlo per riceverne una incorruttibile » (1 Corinzi 9:25)

DIFFERENTI CULTURE TEOLOGICHE NEL PRIMO SECOLO DEL CRISTIANESIMO

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=63

Incontri di « Fine Settimana » percorsi su fede e cultura – anno 35° – 2013/2014

Una Chiesa povera e aperta che ascolta e accompagna

DIFFERENTI CULTURE TEOLOGICHE NEL PRIMO SECOLO DEL CRISTIANESIMO

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

Verbania Pallanza, 12-13 gennaio 1991
Il tema non concerne i diversi influssi culturali che dall’esterno sono penetrati nella vita delle comunità cristiane dei primi anni, ma la diversità dentro le stesse comunità cristiane e le cui origini sono varie.
diversi modelli interpretativi di fede

La diversità è sì teologica, però bisogna precisare che la teologia in questi casi, come si trova nei Vangeli, nelle lettere di Paolo, è l’interpretazione della fede, è la fede in quanto viene esposta. La diversità tocca le radici stesse della fede; più che diverse teologie, ci sono diversi modelli interpretativi, non soltanto pensati, ma anche vissuti. Il processo interpretativo non è puramente mentale, ma coinvolge tutta la persona in quanto vive quella realtà nuova al centro della fede cristiana che è Gesù. C’è un’unica fede cristiana perché tutti questi modelli hanno al centro Gesù, però le immagini di Gesù e della sua centralità sono molto diverse.
riflesso di diversi tipi di comunità
Negli scritti del Nuovo Testamento troviamo il riflesso di diverse comunità; dal punto di vista tipologico potremmo dire che vi sono tre tipi di comunità cristiana nei primi cento anni: c’è un tipo di comunità cristiana palestinese costituita da giudeo cristiani di lingua aramaica che è la comunità madre di Gerusalemme, la comunità degli Apostoli con attorno altre comunità palestinesi. La sua caratteristica è che credevano in Gesù in quanto Messia, figlio di Dio e che vivevano armoniosamente questa fede all’interno dell’eredità giudaica, per cui dal punto di vista esterno consumavano l’Eucarestia nelle loro case, questo era lo specifico, e poi frequentavano il tempio in comune con il mondo giudaico. Erano una setta all’interno del mondo giudaico; avevano la circoncisione, osservavano tutte le regole, la liturgia al tempio, le preghiere quotidiane, i tabù alimentari ed in più avevano la fede in Gesù come Messia. La loro novità era il compimento di una speranza presente nell’attesa giudaica.
Un secondo tipo di comunità era la giudeo cristiana di lingua greca che aveva al suo vertice i sette diaconi, soprattutto Stefano, Filippo, Barnaba. La diversità culturale in questo caso era molto più profonda; questa comunità ha vissuto un rapporto conflittuale e critico con la comunità giudaica: il tempio è finito, sono finiti i sacrifici, Gesù rappresenta una novità. Questa comunità giudeo cristiana di lingua greca a Gerusalemme è stata oggetto della prima persecuzione anticristiana negli anni 40 scatenata da Agrippa, come apprendiamo fra le righe del racconto di Luca che parla solo di dissapori e della costituzione dei sette diaconi delle mense, ma la frattura in realtà fu molto forte.
Un terzo tipo di comunità nasce dal fianco di questa seconda di Stefano ed è una comunità cristiana mista, ad Antiochia di Siria. Al suo interno esistevano circoncisi e pagano-cristiani che venivano ammessi alla comunità senza circoncisione; era una comunità nata dopo la morte di Stefano nella persecuzione, fondata dagli altri che erano riusciti a scappare.
Un altro tipo di comunità cristiana è quello delle comunità paoline etnico-cristiane, costituite principalmente da circoncisi ed in essa non vigeva, come invece nella comunità mista, il problema della coesistenza a causa dei tabù alimentari. Paolo difendeva la scelta degli incirconcisi della comunità di Antiochia di non osservare le prescrizioni sul cibo mentre Pietro e Barnaba sostenevano che, pro bono pacis, non in linea di principio, i pagani dovessero scendere a compromessi. Nelle comunità paoline non c’è alcun problema di coesistenza pacifica, di rapporti con le tradizioni giudaiche perché sono di formazione nuova.
tre modelli di fede cristiana
Questa diversa tipologia non solo presenta differenze morfologiche, ma induce alla elaborazione di diversi modelli di fede cristiana. Per modello di fede si intende vissuti, cammini di fede profondamente diversi e quindi diverse immagini di Gesù, di Dio, del mondo e dell’uomo. La convergenza è la centralità di Gesù per la salvezza umana e per il rapporto con Dio. Dio è il Dio di Gesù Cristo, l’uomo è un essere in Cristo ed il mondo riporta l’immagine di Gesù.
I modelli qui presentati sono tre: modello matteano, paolino e giovanneo; però ve ne sono altri, si può anche parlare di un modello lucano e di Marco.
Il modello matteano, testimoniato dal Vangelo di Matteo si può definire autoritario-magisteriale-obbedenziale. Il Vangelo di Matteo riflette una comunità cristiana molto legata alla tradizione giudaica.
Il secondo modello, paolino, si può definire modello dinamico-spirituale, incentrato sulla forza dello Spirito, energia creatrice di vita. Paolo è legato ad elementi veterotestamentari, alla testimonianza sullo Spirito soprattutto dei Profeti, Geremia ed Ezechiele, però è legato molto anche alla cultura ellenistica, stoica, misterica dovuta alla temperie in cui era vissuto a Tarso. Paolo è stato l’uomo dei due mondi, il mondo giudaico orientale e il mondo greco occidentale.
Il terzo modello è giovanneo, del Giovanni autore del Vangelo e delle lettere, mentre l’Apocalisse appartiene ad un altro filone, anche se la tradizione lo attribuisce a Giovanni; è di autori diversi. E’ un modello che si può definire conoscitivo-esperienziale; risulta da eredità culturali molto diverse di sfondo ebraico, ma con elementi apocalittici, sincretistici, con un giudaismo non tanto legato alla Palestina quanto al mondo della diaspora e molto dipendente dalla mistica di Efeso. Efeso era allora una grande metropoli culturale che risentiva dell’oriente. Paolo e Giovanni elaborano modelli di fede cristiana abbastanza lontani dall’eredità giudaico-palestinese.
I tre modelli sono molto diversi, soprattutto quello paolino e quello matteano. Per noi questo significa che nelle fonti scritte del cristianesimo non abbiamo un solo modello di fede, ma più modelli e profondamente diversi. L’unità cristiana che è data nella sua espressione scritta dal Nuovo Testamento, non è una omogeneità indifferenziata, tanto che i Vangeli sono quattro. L’unità cristiana è un’armonia di diverse percezioni profonde. La fede cristiana è la stessa, ma in diversi modelli dati da differenze culturali che non sono solo influssi esterni, ma sono il tessuto culturale di diversi ambienti e sono il modo di vedere Dio e di vedere il mondo e di situarsi nel mondo.
ecumenismo come coesistenza solidale di diversi modelli
L’ecumenismo non si deve intendere come tensione verso un unico modello di fede. La preghiera ecumenica non può essere la richiesta a Dio di un unico modello, perché già all’origine cosi non era. Nell’origine abbiamo diversi modelli, tutti canonici, tutti normativi, tutti ugualmente validi, perché sono entrati nelle Scritture. L’ecumenismo è una convergenza, un cammino di solidarietà delle diverse chiese; non è il superamento di diversi modelli per sceglierne uno, è la consapevolezza che la ricchezza di Gesù può essere vissuta dagli uomini su tutta la terra in senso universale in diversi modi, con diversi modelli interpretativi. Se noi riuscissimo a raggiungere questa coscienza ecumenica coesisteremmo pacificamente nella solidarietà piena dei diversi modelli. Così voleva Paolo il quale diceva: nell’unica chiesa di Cristo ci sto io, le comunità miste ed anche quelle di Gerusalemme. Questo testimonia la ricchezza della diversità dei modelli per cui la fede cristiana è una realtà cosi ricca e complessa che non può essere vissuta totalmente in un modello, ma da tanti modelli, più facce di una unica realtà inesauribile. E’ proprio la ricchezza della fede cristiana che giustifica ed esige la pluralità per salvare la ricchezza inesauribile, come dicono le lettere ai Colossesi ed ai Filippesi, del mistero di Cristo.
1. il modello di Matteo

Il modello di fede cristiana presentato nel Vangelo di Matteo è autoritario-magisteriale-obbedenziale.
La comunità di Matteo è stata influenzata molto profondamente dalla cultura ebraica. Questa comunità per esprimere la propria fede in Gesù e per viverla ha elaborato un proprio orientamento che consiste nel fare la volontà di Dio, che ci è stata disvelata e chiarita da Gesù. Da una parte abbiamo l’autorità di Dio, il suo potere, la sua volontà sugli uomini e dall’altra Gesù, il maestro, che ci chiarisce e ci insegna il volere di Dio perché lo pratichiamo. Gesù è un maestro pedagogico che non solo ci chiarisce questa volontà, ma ci esorta a farla; vuole far crescere in noi l’atteggiamento di obbedienza.
Questo modello si può trovare in vari testi.
Nel Padre Nostro l’invocazione molto sottolineata da Matteo è « sia fatta la tua volontà », invocazione che non compare nella versione di Luca (« sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, dacci oggi il pane »). Questo interesse rilevante viene confermato in Matteo nella scena del Getsemani di cui parlano anche Marco e Luca: « vorrei che questo calice della sofferenza passasse da me ». Matteo prosegue: « sia fatta la tua volontà ». In Marco c’è il concetto (« sia fatto non come voglio io, ma come vuoi tu »), ma in Matteo l’invocazione è uguale a quella utilizzata nel Padre Nostro. Il confronto fra Matteo e Marco, che è la sua fonte, o con i detti di Gesù di cui è testimone anche Luca, ci permette di vedere su che cosa Matteo insiste.
Nel testo di Matteo 7,21 è messo in discussione il modello carismatico-profetico della vita cristiana, quello per cui la vita cristiana consiste in una esperienza carismatica, spettacolare, in cui l’uomo, supera il limite di se stesso, esce dalla propria razionalità e dalle capacità puramente umane e diventa un superman religioso. Matteo ha combattuto contro questo modello facendo valere il suo ed in questo passo Gesù dice: « non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio ». Anche la conclusione è molto significativa, Gesù dice (Mt. 7, 23) « andate via da me operatori di iniquità ». Matteo usa quindi il termine tecnico di « fuorilegge », quelli che sono contro la nomos, la legge che è volontà di Dio che si esprime in un dettato.
Al cap. 12 v. 50, è narrato l’episodio della famiglia di Gesù che vuole parlargli (è un testo preso da Marco con cui si può fare un confronto). In Matteo la risposta di Gesù è articolata: « Gesù stende la mano sui suoi discepoli ». Il termine discepolo ha per Matteo un significato molto preciso, indica i dodici discepoli storici in quanto raffigurazione di tutti i credenti di tutti i tempi. Per Matteo, quindi, e questo è un primo elemento, la vita cristiana è una vita da discepolo. Un secondo elemento riguarda la vita nuova di Gesù, per il quale la famiglia naturale perde di importanza, dato che la nuova famiglia si costruisce non sui legami del sangue, ma sui legami del discepolato. Un terzo elemento è messo poi in luce dalle parole di Gesù: « chi sono mia madre, mio padre? Quelli che fanno la volontà del Padre mio ». In questa scena Matteo riesce ad elaborare tre concetti collegandoli strettamente e che definiscono il modello del credente: discepolato di Gesù, la nuova famiglia, chi fa la volontà del Padre. In Marco manca il riferimento ai discepoli.
In 21, 31 abbiamo la parabola che è presente solo in Matteo, quella del Padre e dei due fratelli. Il padre dice al figlio maggiore: « va a lavorare nella mia vigna » ed il figlio dice: « si, vado »; invece non va; anche al figlio minore dice di andare a lavorare, ma lui risponde no, poi si pente e ci va. La domanda di Gesù è: chi dei due ha fatto la volontà del padre? Certamente il secondo. E’ qui fortemente sottolineato l’interesse di Matteo sul fare la volontà del Padre. Tutta l’esperienza del popolo di Israele nell’Antico Testamento era basata sul fare la volontà di Dio, poi evidenziata nel rabbinismo, nel fariseismo coll’elaborazione degli oltre seicento comandamenti per poter fare in ogni momento la volontà di Dio con tutte le indicazioni; la legge era la « siepe » costruita attorno all’uomo in modo che non potesse uscire dal campo della volontà di Dio. L’elemento propriamente cristiano sta in Gesù che è l’interprete autorevole e magisteriale della volontà di Dio.
Solo in Matteo abbiamo due sommari, due riassunti dell’attività di Gesù che sono l’uno alla fine del capitolo 4 e l’altro alla fine del capitolo 9. In 4, 23 « Gesù percorreva tutta la Galilea insegnando – didaskón – in tutte le loro sinagoghe – keryssòn – proclamando ad alta voce la lieta notizia del regno e – therapeuón – curando ogni malattia ed ogni infermità nel popolo ». Attività didascalica, kerigmatica e terapeutica. Il termine didaskón in Matteo ha significato tecnico, non è generico come in Marco. In Matteo l’attività didascalica è l’attività con cui Gesù interpreta la legge, espressione della volontà di Dio, indicando qual è veramente il volere di Dio nei confronti dell’umanità. Gesù è l’interprete autorizzato della legge del Sinai, interprete ultimo e definitivo.
L’attività didascalica di Gesù viene evidenziata nel Vangelo di Matteo nel discorso della montagna. All’inizio la scena viene così descritta, al cap. 5, 1: « e vedendo le folle salì sul monte e sedutosi gli si avvicinarono i suoi discepoli », il che vuol dire che il discorso della montagna per Matteo non è universale, ma destinato ai discepoli, a quelli che fanno la volontà, mentre Luca ambienta il discorso nella pianura dove c’è tanta gente « e aperta la bocca insegnava loro dicendo ».
Il tema di Gesù maestro della legge, volontà di Dio, si trova anche al cap. 5, 17, « non ritenete, dice Gesù, che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti, ma a far sì che avvenga il compimento, « plerosai ». Nel v. 20 « vi dico infatti che se la vostra giustizia – o meglio l’obbedienza al volere di Dio – non supera l’osservanza degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli ».
Nel cap. 22, 36-40, alla domanda sul comandamento più grande, Gesù risponde: « amare Dio », citando l’inizio del cap. VI del Deuteronomio, e, citando Levitico 18 « amare il prossimo come te stesso ». Matteo aggiunge che dall’osservanza di questi due comandamenti dipende tutta la legge, tutta la rivelazione di vita dal punto di vista normativo. Matteo (22, 40) usa il verbo tecnico « crematai », il perno su cui si muove la porta. Tutta la legge, espressione della volontà di Dio, si muove nel perno di questi due comandamenti.
In 7, 12 quando Matteo riporta la « regola d’oro » « quello che vuoi sia fatto a te fallo agli altri » aggiunge « in questo sta tutta la legge »; è l’insegnamento del maestro Gesù sul senso definitivo, ultimo e perfetto della legge che rivela il volere di Dio. Gesù non solo è maestro, ma anche pedagogo perché lui per primo ha osservato questa legge.
In 3, 15 quando Gesù va a farsi battezzare dal Battista, il Battista si rifiuta e c’è un dialogo presente solo in Matteo; dice Gesù: « lascia fare, perché noi due dobbiamo fare la giustizia di Dio ». Nel cap. 28, 18-20 il mandato missionario è espresso in termini assolutamente nuovi rispetto a Marco e Luca ed anche alla mentalità di Paolo, « andate in tutto il mondo, fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli ed insegnando loro ad osservare tutto quanto io vi ho comandato ». Il Cristo risorto rimanda i suoi discepoli, di tutti i tempi, a ciò che Gesù di Nazareth ha detto e comandato di fare.
il contesto culturale delle immagini di Dio, di Gesù e dell’uomo

Nel Vangelo di Matteo i termini « volontà », « legge », « comandamento », « osservanza », « parola autorevole di Gesù », sono fondamentali perché la sua comunità elabora, una immagine di Dio come il Signore, il padrone la cui volontà è da osservare, ed elabora una immagine di Gesù come il maestro autorevole che insegna il volere e la sua osservanza ed infine elabora l’immagine dell’uomo come un essere sottomesso a questa autorità suprema divina, a questa paternità autorevole e autoritaria ed a questo maestro e pedagogo che è Gesù.
Queste immagini di Dio, di Cristo e dell’uomo emergono da precisi contesti culturali. Innanzitutto il contesto sociale della famiglia orientale, ebraica, con il pater familias che aveva autorità indiscutibile e somma sui figli e sulla moglie. Il secondo riferimento culturale e sociale è la società del tempo che era non democratica, con grandi capi, il grande re signore ed il popolo sottomesso. L’uomo viene percepito in questo contesto socioculturale come il servo, nel senso migliore del termine perché anche Figlio è un servitore del volere del Padre. « Pais » in greco oscilla tra servo e figlio ed in ebraico si usa « ebhedh ». Terzo riferimento socioculturale è il riflesso degli altri due: il rapporto con Dio è caratterizzato dal patto, dall’alleanza. Nell’Antico Testamento questa era la categoria fondamentale. Nel patto i partners sono disuguali, Dio è il creatore ed il popolo è il suo servo; nel patto Dio protegge il popolo, lo libera e lo salva ed il popolo osserva la volontà di Dio. C’è da precisare che questa autorità di Dio « pater familias », grande sovrano, partner divino della alleanza, non impone con la forza il suo volere, ma lo propone, il popolo entra nella alleanza liberamente, ma accettando questi rapporti.
Anche la parola magisteriale di Gesù segue questa logica, Gesù è un maestro che non si impone con la violenza, lo dice lui stesso: « imparate da me che sono mite ed umile di cuore, « tapeinós e prays ». Il suo giogo è leggero, ma è giogo. L’autorità magisteriale di Gesù è da lui proposta ed accettata, e l’uomo, da questo punto di vista, è concepito come un essere eterodiretto, che ha bisogno di ricevere direttive autorevoli che deve osservare se vuole arrivare alla salvezza, alla pienezza, all’autenticità del suo essere; le direttive vengono dall’alto ed, infatti c’è nell’A.T. la categoria fondamentale, che poi ha pervaso anche la cultura moderna, del servizio, « abda ». Il grande cambiamento di Israele è stato dalla schiavitù all’abda, dall’assoggettamento al faraone imposto e violento, ad un servizio accolto ed accettato a Dio, per cui è diventato « ebhedh Jahvè ». L’uomo è un essere bambino, bisognoso di venire istruito, educato, indirizzato. Questo modello autoritario-magisteriale-obbedienziale crea difficoltà al credente d’oggi, sensibile ai valori dell’autonomia della persona, persona capace di orientarsi verso il vero ed il giusto, che si autodetermina. Per l’uomo d’oggi l’autodeterminazione è costitutiva dell’essere persone; anche nell’antica concezione si autodeterminava, ma per sottomettersi ad una guida superiore; era un’autodeterminazione a venire eterodiretto. Il modello autoritario-magisteriale suppone una concezione dell’uomo come essere eteronomo, che si muove secondo la nomos di un altro, un essere la cui legge è la legge di un altro. E’ chiaro che il rapporto fra Dio e noi è un rapporto fra creatore e creatura ed in cui la creatura è nella dipendenza del creatore; però la dipendenza in questo modello matteano viene intesa come obbedienziale, perché la volontà del creatore è sovrana e ad essa devono sottomettersi tutti gli uomini, quindi vi è dipendenza nell’essere e dipendenza nel volere. La dipendenza non si può far saltare, ma lo schema è inteso, ad esempio da Luca e Paolo, in modo diverso. Gesù è certamente il rabbi, ma non si esaurisce in questa sua attività didascalica. Matteo ha elaborato per la sua comunità il modello di fede cristiana autoritario-magisteriale-obbedenziale, che si inserisce in un contesto socioculturale ben preciso della famiglia, della società e dei rapporti tra le società.

2. il modello di Paolo
Il modello di Paolo è dinamico-spirituale; bisogna considerare che Paolo è stato un discepolo della seconda ora e questo ha influito molto.
al centro Gesù crocifisso e risorto
Paolo mostra un disinteresse totale a ciò che Gesù di Nazareth ha detto e ha fatto, quindi a Gesù maestro; l’interesse suo e delle sue comunità è tutto incentrato su Gesù crocifisso e risorto. Non dice niente del discorso della montagna, che pure è importante, non considera le parabole, i detti, ciò che Gesù ha fatto; tutto il suo interesse è per la risurrezione del crocifisso.
La risurrezione è una categoria teologica, quindi già interpretativa. Non è descrittiva, ma dà una chiave di lettura, che solo nella fede si può accogliere, ad una realtà, ad un evento.
Anche per Matteo Gesù è il risorto, però egli pone l’accento sulla chiamata del risorto ai discepoli perché insegnino a tutti gli uomini ciò che aveva insegnato loro e quindi il risorto rimanda al Gesù di Nazareth.
resurrezione: una categoria di origine apocalittica
Invece in Paolo la caratteristica fondamentale di risurrezione non rinvia ad altro. E’ una categoria di origine apocalittica, cioè fa parte di quel movimento di pensiero espresso nei libri apocalittici, come Daniele e i libri apocrifi che non sono entrati nella Bibbia, e che si è sviluppato nel N.T. nell’Apocalisse, dove la risurrezione significa il nuovo mondo. L’Apocalisse era dominata dallo schema dei due mondi; nel libro apocalittico IV Esdra si dice che Dio all’inizio ha creato due mondi, questo attuale ed il mondo celeste che sta nei cieli. Questo mondo è corrotto ed è da buttare e sulle ceneri di questo mondo scenderà dal cielo un mondo nuovo. La risurrezione è una categoria apocalittica teologica che riguarda i destini del mondo, di questo mondo con l’umanità. E’ una categoria universalistica e cosmica.
mutamento con Gesù e Paolo: il nuovo mondo inizia nel vecchio
Con Gesù e poi con Paolo, questa eredità apocalittica è stata modificata nel suo schematismo perché è stata tolta la successione fra i due mondi, cioè il mondo celeste che viene a prendere il posto di questo mondo. In Gesù ed in Paolo il nuovo mondo entra in questo vecchio mondo che deve diventare un nuovo mondo. La risurrezione significa che c’è una svolta decisiva nella storia dell’umanità e del mondo per cui cominciano i cieli nuovi e la terra nuova. Il nuovo mondo comincia già dentro il vecchio, ma la conclusione del processo è rimandata al futuro: Paolo dice che se Gesù è risorto la svolta è avvenuta, il nuovo mondo lotta col vecchio mondo in attesa di vincere totalmente.
il dono dello Spirito
La novità fondamentale che è già realizzata è il dono dello Spirito, il principio attivo delle forze nuove e positive della vita contro le forze della morte. Già nell’A.T. si riteneva che lo Spirito fosse donato a tutti gli uomini, ma alla fine dei tempi: Gioele « verranno giorni in cui tutti profeteranno » e questa linea profetica verrà portata avanti da Luca. Ezechiele e Geremia intendevano lo Spirito come forza capace di cambiare l’uomo dal di dentro. Geremia parlava della legge scritta nei cuori, ed Ezechiele parlava dello Spirito capace di sostituire il cuore di pietra con il cuore di carne. Paolo si collega a questa aspettativa dello Spirito non sulla linea profetica, ma sulla linea del principio nuovo di vita per cui dice « Cristo risorto è pneuma zoopoioun » in 1 Corinti 15, 45. Paolo che è interessato alle sorti dell’umanità afferma che mentre il primo Adamo è stato principio di vita psichica, cioè principio della vita naturale, il nuovo Adamo è il principio della vita pneumatica, soprannaturale.
l’uomo: campo di lotta tra dinamismo della carne e dinamismo dello spirito
Gesù per Paolo è il principio della vita del nuovo mondo già iniziato, Gesù risorto è colui che è stato investito totalmente dalle forze dello Spirito di Dio in quanto principio creatore. La persona di Gesù è diventata un campo magnetico delle forze del nuovo mondo; essendo un campo magnetico, Gesù è il principio attivo che dona queste forze agli altri, è il risuscitato ed il risuscitatore di chi entra in questo campo magnetico.
La formula, fondamentale della vita cristiana per Paolo, è essere in Cristo, equivalente con essere nello Spirito. L’uomo è pertanto una nuova creatura, non un bambino che ha bisogno di direttive per trovare la strada, e di sollecitazioni per camminare nella strada indicata.
L’essere umano è però un drammatico campo di lotta tra due dinamismi contrastanti, il dinamismo della « sarks » (carne) (Galati 5 e Romani, 8), che è il dinamismo dell’egocentrismo, ed il dinamismo dello spirito. Anche l’uomo molto religioso può essere egocentrico perché fa della religione il piedestallo della costruzione di se stesso. L’uomo è zimbello della « sarks »: « non faccio il bene che vorrei, ma faccio il male che non vorrei » (Romani 7).
In che senso Gesù è il Salvatore? Per Matteo è colui che è venuto a rivelare la via da percorrere e sollecita a percorrerla salvando l’uomo, sottintendendo che l’uomo sia capace di camminare, ma ha bisogno di luce per individuare la strada e di sollecitazioni. Paolo invece ha una concezione altamente drammatica dell’uomo, dominato dalla « sarks ». La salvezza dell’uomo dipende dall’entrare nel campo magnetico di Gesù, cioè nelle dinamiche della donazione e dell’amore, in modo da venire investito da un nuovo dinamismo antitetico all’altro contro cui combattere. Nella storia il dinamismo dello Spirito di Cristo è capace di avere il sopravvento; la speranza ultima è che il dinamismo dello Spirito copra totalmente e perfettamente la persona umana come è avvenuto per Gesù che totalmente vive per Dio e per noi nella donazione più estrema.
Dio come fonte delle forze della vita
La salvezza unica per l’uomo dipende dalla donazione di un altro dinamismo che sappia vincere e trionfare totalmente nell’uomo ed intorno all’uomo. Dio per Paolo è la fonte delle forze della vita. Lo Spirito di Dio presiede alla creazione del mondo e alla risurrezione dei morti. Il testo di Ezechiele 37 racconta che il popolo nell’esilio era ridotto ad ossa aride sparse nella valle. La parola del profeta, che annuncia che c’è ancora un futuro, una speranza, fa sì che le ossa si ricompongano, che i corpi si riformino, ma ancora senza movimento e quindi senza vita (per l’ebreo la vita è movimento); a quel punto subentra lo Spirito, invocato dal profeta, e tutti si muovono e sono come un esercito marciante. Per Paolo l’importante è Dio come fonte delle forze della vita. Nella Bibbia lo Spirito è un concetto di forza, di energia creatrice e per Paolo si ha nell’uomo Gesù la concentrazione delle forze della vita che investono il credente. L’uomo è un essere autonomo, che non riceve direttive dall’alto, ma si muove secondo dinamiche sue positive o negative e la salvezza sta nell’accogliere la nuova creazione come evento della vita sulla morte. Per Paolo il credente non è una persona docile alle direttive, un sottomesso, un obbediente, ma è « kainè ktisis », una nuova creatura. « Se uno è in Cristo è nuova creatura » (2 Cor 5,17) ed i frutti dello Spirito sono « l’agape, la gioia, la condivisione, la benignità, la bontà » (Galati 5).
lasciarsi guidare dallo Spirito, dalle forze della vita

L’impressione che in Paolo vi siano molti comandamenti è errata, perché in realtà sono pochissimi, però ci sono molte esortazioni; le lettere hanno una prima parte dottrinale o dogmatica a cui segue una parte morale costituita da sollecitazioni, incoraggiamenti. Le sue comunità, che venivano dal mondo pagano, erano comunità giovani, ed avevano bisogno del sostegno di una parola esterna. Paolo esorta anche minutamente, ma il suo imperativo è « camminate secondo lo Spirito », siate docili al dinamismo che è in voi, lasciatevi guidare dalle forze della vita contro le forze della morte. Il verbo è « ago » al passivo, essere guidato, e noi potremmo dire « lasciarsi agire » e resistere al dinamismo della carne. « Se viviamo mediante lo Spirito, camminiamo per mezzo dello Spirito » (Gal 5,25). « Se voi siete guidati dallo Spirito non siete più sotto la legge » (Gal 5,18). « Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio » (Rom 8, 14) . « Noi che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo Spirito » (Rom 8, 4). « La legge dello Spirito della vita » (Rom 8,2): la legge per Paolo non è una norma, ma dinamismo dello Spirito fonte della vita. « Ti ha liberato dalla legge della carne » (Rom 8,9). « Il Dio della speranza vi riempia di gioia affinché abbondiate nella speranza col dinamismo dello Spirito » (Rom 15,13) . « Mandò Dio lo Spirito di suo Figlio, nei nostri cuori, nel quale Spirito possiamo gridare abbà » (Galati 4, 6). « La circoncisione del cuore è operata dallo Spirito » (Rom 2, 29): è il dinamismo nuovo che agisce sul centro decisionale dell’uomo e muove la persona. « L’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori mediante lo Spirito » (Rom 5, 5).
uomo autodiretto grazie al dono dello Spirito
La conclusione è che questo modello dinamico spirituale s’inquadra in una concezione dell’uomo come essere autodiretto, che ha dentro di sé la capacità di autodecidere che è poi la libertà. Però è una capacità di duplice segno perché sono presenti due dinamiche antitetiche: la dinamica della carne e la dinamica dello Spirito. Se ha la meglio la dinamica dell’egocentrismo l’uomo cammina verso la morte, il fallimento, se invece prevale la dinamica dello Spirito l’uomo si realizza in un essere che si dona nell’amore e cammina verso la sua piena realizzazione. Cristo per Paolo non è un maestro che indica la strada, che promulga la legge, come per Matteo, ma colui che è animato pienamente dallo Spirito e dona lo Spirito come dinamismo di vita a quanti gli si aprono nella fede. Dio per Paolo non è il sovrano, il parer familias, il re che impone, propone autorevolmente il suo potere come indicazione per arrivare ai porti della vita, ma Dio è (Romani 4, 17) « Il quale dà la vita ai morti e chiama all’esistenza ciò che non esiste ».
Dio per Paolo è la fonte delle forze della vita come Gesù a sua volta è il campo magnetico e l’uomo è l’essere agito da forze contrastanti, e, nella fede sceglie il campo delle forze della vita contro le forze della morte. La concezione del credente per Paolo è altamente drammatica perché l’io personale è conteso fra le due forze. Paolo dice: « Sento in me due leggi, la legge della vita e la legge della morte ». L’esortazione di Paolo è una chiamata alla responsabilità, l’uomo con la propria scelta si gioca la vita o morte: camminate secondo lo Spirito per avere la vita e non secondo la carne che vi porta alla morte.
Anche in Paolo il rapporto tra l’uomo e Dio è un problema di dipendenza, ma mentre per Matteo era nell’ordine dell’assoggettamento a un valore sovrano, qua è una dipendenza delle forze della vita, della creatura dal creatore da cui riceve le forze della vita per battere le forze della morte. Dio e Gesù per Paolo sono le fonti da cui noi traiamo il dinamismo positivo che è lo spirito dell’amore e della vita. Possiamo vedere quale immagine di Dio, di Cristo e dell’uomo diversa appare in Paolo rispetto a Matteo, eppure tutti e due sono ugualmente, legittimamente cristiani e sono testimoniati come modelli di fede per le generazioni cristiane di tutti i tempi. Il modello patriarcale di Matteo ed il modello dinamico pneumatico di Paolo sono completamente diversi, ma tutti e due hanno al centro della loro esperienza di fede Gesù.
discussione

la rottura di Paolo nei confronti del giudaismo nomistico
Paolo rappresenta una rottura radicale perché dice che è finita la legge, sono finiti i comandamenti; la sua critica è radicale: la nostra vita non è più governata dai comandamenti, ma dal dinamismo che Dio ci dona. Si tratta di una grande rottura nei confronti del giudaismo nomistico del tempo. Il giudaismo al tempo di Gesù, e ancora più al tempo di Paolo, è nomistico, tutto centrato attorno alla legge. La tendenza del fariseismo ha preso il sopravvento. Nella tradizione ebraica invece c’erano anche altri filoni, come quello apocalittico o quello profetico, a cui Paolo si avvicina, soprattutto nei modelli di Geremia e di Ezechiele.
Geremia era vicinissimo alla corrente deuteronomistica ma, similmente a Paolo, con un accentuato pessimismo sull’uomo. Geremia diceva che l’uomo ha smarrito il cammino dei suoi passi e non sa più dove andare. Nelle sue prediche diceva: « si può cambiare forse la pelle del leopardo? La pelle nera di un etiope? ». Anche Ezechiele dice che Israele ha cominciato a peccare contro Dio sin dall’inizio, già a partire dall’Egitto e poi ha continuato sulla stessa strada, e dice: « Gli idoli Israele li ha elevati nel suo cuore ». Geremia ed Ezechiele, così convinti dello spaesamento dell’uomo, si rivolgono al miracolo di Dio, allo Spirito: venga un nuovo raggio creatore, si scriva la legge nei cuori.
Paolo si collega a questi profeti e dice che l’invocato Spirito di Dio passa attraverso Gesù, operando una rottura molto decisa nei confronti del mondo autoritario. Matteo presenta il modello autoritario nel migliore dei modi perché il maestro Gesù non solo dà le leggi, ma le osserva per primo; però c’erano presentazioni ben peggiori di questo modello, in cui Dio spariva e quello che unicamente valeva era la norma scritta.
Nel mondo greco, al tempo di Paolo, le religioni classiche erano in grande crisi, perché lontane dai problemi esistenziali delle persone e tutte orientate a difendere il potere costituito. Quando sono apparse le religioni misteriche, che ponevano al centro il problema della salvezza dell’uomo, della sua vita e immortalità, hanno avuto grande successo.
Paolo ha risentito certamente di questa atmosfera tutta tesa a dare importanza al problema della vita nel senso più ampio e radicale del termine, e ha agganciato al tema dello Spirito, presente nel filone profetico di Geremia ed Ezechiele, Gesù risorto e quindi la speranza.
La chiesa cattolica invece rappresenta oggi il modello matteano imperniato sulla legge, sul comandamento, sull’obbedienza, sull’osservanza, sull’autorità, sul pater familias, sul sovrano, sul capo, sulla sottomissione. Questo modello è utile per i primi passi, per l’infanzia o per le stagioni in cui abbiamo bisogno delle siepi. Paolo dice però che il modello per la maturità cristiana è un altro, quello del lasciare agire lo Spirito. Il problema non è abbandonare lo schema matteano per assumere quello di Paolo, ma prendere, secondo le stagioni della nostra vita, secondo la cultura, le affinità elettive, il meglio dell’uomo e dell’altro. La maturità della vita cristiana però Paolo l’ha definita una volta per sempre: è vita nello Spirito.

3. il modello di Giovanni
Il modello giovanneo è caratterizzato dalla centralità data alla conoscenza. E’ un modello gnostico, anche se poi la gnosi è diventata un movimento ereticale a partire dal II secolo.
un modello conoscitivo-esperienziale
E’ un modello conoscitivo-esperienziale perché la conoscenza, nel solco della tradizione veterotestamentaria, non è puramente intellettuale o tanto meno cerebrale, ma è uno sperimentare, è un vivere.
I gruppi giovannei, anche se non si può attribuire l’intero filone all’apostolo Giovanni, nell’ambito del cristianesimo delle origini, erano abbastanza chiusi. Di origine giudaica, questi gruppi avevano rotto con il giudaismo. Con molta probabilità sono nati in Transgiordania a contatto con i gruppi battisti, ed hanno preso le distanze anche dagli altri cristiani. Inoltre hanno vissuto in contesti sociali ostili.
Dal punto di vista sociologico la configurazione tipologica di questi gruppi è quella della setta: sono chiusi in se stessi, con grande senso della propria identità e con rapporti molto intensi all’interno per poter sostenere l’ostilità esterna. Sono caratterizzati dalla contrapposizione: noi arroccati e tutti gli altri… Ciò che li divide dagli altri è la conoscenza. Il senso di identità dei gruppi giovannei è dato dalla convinzione di conoscere la verità su Dio, sul Figlio di Dio. Questi gruppi fanno equivalere la fede alla conoscenza. Nel Vangelo di Giovanni tante volte c’è questa coordinata: noi abbiamo creduto, noi abbiamo conosciuto. Il verbo « pisteuo » è inteso in senso equivalente al verbo « ghignosco ».
credere è conoscere
Nel Vangelo di Giovanni, nel prologo, (1,9-10) si dice: « la luce vera, che illumina ogni uomo venendo nel mondo, era nel mondo ed il mondo mediante essa (la luce Gesù) fu fatto e il mondo però non la conobbe ». Conoscere ha un senso molto pregnante, molto forte, vuol dire « non lo accoglie ». « Dio ha tanto amato l’umanità da mandare suo Figlio perché il mondo abbia la vita » (3, 16).
In Giovanni ci sono tre concetti di mondo: 1° il mondo in senso cosmologico, in quanto creato da Dio; 2° il mondo come universalità degli uomini che sono i destinatari dell’amore di Dio; 3° il mondo come l’insieme degli uomini che non hanno accolto, non hanno conosciuto.
Giovanni, a differenza degli gnostici, non ritiene che gli increduli siano destinati alla perdizione eterna, siano irrecuperabili. Il « noi » vuole esercitare una funzione positiva nei confronti del mondo che non crede, di testimonianza della verità. Noi conosciamo la verità, gli altri non la conoscono e costruiscono il mondo in termini negativi.
Dopo il discorso di Gesù sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue, il popolo reagisce con incredulità e molti suoi discepoli lo abbandonano. Gesù si rivolge al gruppo dei dodici e chiede: « anche voi ve ne volete andare? » e Pietro risponde « da chi dobbiamo andare? Tu solo hai parole di vita eterna », « noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6, 67-69), cioè noi abbiamo conosciuto la tua identità, la tua vera, nascosta identità.
In 8,31 Gesù dice: « se rimanete nella mia parola ». « Parola » è messa in correlazione a conoscenza perché il momento della conoscenza è la risposta positiva al momento fondamentale della rivelazione. Mentre in Paolo tutta l’interpretazione della fede è sotto il segno della creazione, delle forze della vita prodotte dallo Spirito, nei gruppi di Giovanni la fede ruota intorno al concetto della rivelazione, al venire alla luce di ciò che è nascosto. E’ una prospettiva di pensiero di tipo apocalittico (apocalupsis = disvelamento), a differenza del pensiero di Paolo che è creazionistico. Già il domenicano Pierre Benoit aveva notato questa differenza fra il giovannismo ed il paolinismo, uno incentrato sul motivo della rivelazione e l’altro della creazione.
conoscere attraverso la parola e gesti simbolici
Gesù è la parola, « o logos », il Verbo, perciò dice: « se rimanete nella mia parola voi sarete veramente miei discepoli » (Gv 8,31): conoscere è rimanere nella parola, nella parola comunicativa dei segreti della realtà. Continua al v. 32 « conoscerete la verità e la verità vi farà liberi ». La verità in Giovanni è l’oggetto della rivelazione: non è come nel mondo greco il togliere il velo che sta sopra le cose, ma è rivelazione del segreto, ed il velo lo toglie un altro, cioè Gesù. In 8,55, Gesù si rivolge ai giudei, suoi avversari, riguardo a Dio: « e voi non l’avete conosciuto (« egnòcate »: è un perfetto), e non lo conoscete; io invece l’ho conosciuto e lo conosco e se io dicessi che non lo conosco sarei simile a voi, un menzognero, ma lo conosco e osservo la sua parola ». E’ una conoscenza esoterica, propria gruppi elitari, e non dei giudei che pure sono monoteisti, tanto meno dei pagani politeisti. L’identità nascosta del Dio della tradizione giudaica viene rivelata da Gesù; è lo stesso Dio, ma i giudei non lo conoscono perché non conoscono quell’aspetto caratterizzante che è l’aver mandato il suo Figlio. In Giovanni Gesù definisce Dio: colui che mi ha mandato.
Nel cap. 10, 38 Gesù rivela l’identità nascosta di Dio attraverso la parola, ma compiendo anche gesti simbolici. Nel Vangelo di Giovanni vi sono solo cinque o sei miracoli, non chiamati però miracoli « terata », come li chiamano i sinottici, cioè opere potenti e straordinarie, ma « semeia », cioè segni che rivelano realtà nascoste. Dice in 10, 38: « credete alle opere, affinché sappiate e conosciate che il Padre è in me ed io nel Padre » cioè l’identità nascosta di Dio è il suo rapporto con Gesù.
In 14, 7: « se conoscete me – dice Gesù – conoscerete anche il Padre, fin da ora lo conoscete e lo avete visto », e più tardi a Filippo: « chi ha visto me ha visto il Padre ».
In 14, 17: « lo spirito di verità che il mondo non può ricevere poiché né lo vede né lo conosce, voi invece lo conoscete », e 14, 20: « in quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me ».
verso la verità piena

Questo spirito è donato al gruppo e diventa il principio di una vita di conoscenza progressiva che condurrà alla verità piena. Il gruppo giovanneo è consapevole del limite della conoscenza però dice: « in noi c’è lo spirito di verità e questo ci condurrà alla verità intera ».
Nel cap. 17, 3 si scopre chiaramente il mondo di Giovanni, si dice « questa è la vita eterna » « aiònios » (eterno che deriva da aion, cioè il secolo, il mondo dal punto di vista del tempo). Secondo la corrente apocalittica Dio ha fatto due aiones perciò aionios è la vita del mondo nuovo. Per Giovanni la vita del nuovo mondo c’è già adesso. Giovanni restringe enormemente il futuro. Per Giovanni la vita eterna è che gli uomini conoscano Dio e colui che ha mandato, Gesù Cristo, quindi la vita eterna equivale alla conoscenza. La conoscenza fa sì che l’uomo sia un cittadino del nuovo mondo.
Cap. 17, 7: « ora hanno conosciuto (i discepoli) che tutto quanto mi hai dato, viene da te » cioè l’identità di Gesù è una correlazione essenziale a Dio. Cap. 17, 8: « le parole che mi hai dato, o Dio, io le ho date a loro ed essi le hanno accolte e hanno conosciuto veramente che sono uscito da te e hanno creduto che mi hai mandato ». L’elemento nuovo che troviamo qui è la missione; ciò che unisce Gesù a Dio è che Dio è colui che manda e Gesù è colui che è mandato. Dio ha mandato il Figlio suo nel mondo: il mondo è il destinatario e la finalità è la vita eterna che consiste nella conoscenza.
Il passo successivo di Giovanni sta nel mettere in luce che la dinamica profonda di questa missione è l’amore; « Dio ha tanto amato il mondo da mandare il Figlio suo » (3, 16). Ciò che definisce l’identità nascosta di Dio, di Gesù e del mondo anche come destinatario, è un evento storico « Dio ha mandato ». Giovanni usa l’aoristo che è il tempo greco che indica un evento del passato puntuale, circoscritto in uno spazio di tempo. Ciò che definisce Dio non è la sua essenza eterna, ma è un gesto. La conoscenza è riconoscere questo gesto di amore, accettare. La teologia di Giovanni è meditativa, è una meditazione progressiva, non come quella di Paolo che è costituita da squarci improvvisi, contrastanti.
Dio è amore
In 17, 23 c’è la preghiera ultima, detta sacerdotale, di Gesù: « io prego affinché tutti gli uomini conoscano che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me ». Cap. 17, 25-26: « Padre santo, il mondo non ti ha conosciuto, ed essi i miei discepoli hanno conosciuto che mi hai mandato, e ho fatto conoscere ad essi il tuo nome e lo farò conoscere sempre di più affinché l’amore con cui mi hai amato sia in essi ed io in essi »; il tema della conoscenza sfocia spontaneamente nel tema dell’amore.
Prima lettera di Giovanni 2, 13-14: « scrivo a voi, o padri, perché avete conosciuto colui che è fin dal principio… ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il Padre ».
In 1Gv 2, 20 e 2, 27, appare un elemento nuovo, il tema della unzione, del crisma. La conoscenza proviene dalla parola di Gesù, ma ciò che la fa progredire è lo spirito di verità; da una parte c’è la parola, dall’altra lo spirito che è in funzione della rivelazione. I teologi medioevali dicevano « auditus externus » ed « auditus internus ». Gesù è il maestro esterno, lo Spirito il maestro interno. Mentre in Matteo Gesù era maestro in quanto insegnava le cose da fare, in Giovanni è un maestro esoterico, di sapienza. Il forte senso di identità che caratterizzava i gruppi giovannei derivava dalla conoscenza, dall’avere « lo spirito di verità » e « l’unzione. L’ unzione sarebbe l’influsso che il maestro interno esercita su di loro per condurli alla verità. 1 Gv 2, 20: « e voi avete Cristo dal Santo e tutti avete la conoscenza » e 2, 27: « l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno sia vostro maestro » ». Mentre Matteo diceva: « insegnate », per i gruppi giovannei non c’è magistero. Questi gruppi sono un po’ al margine dell’ortodossia cristiana: il principio interno è vero, ma senza verifiche esterne ci si può illudere. Il gruppo settario ha una certezza monolitica.
1 Gv 3, 1: « la ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui »; 1Gv 3, 16: « in questo abbiamo conosciuto l’amore ». Il passaggio è forte perché un conto è conoscere un gesto d’amore e un conto è conoscere l’amore. La giustificazione di Giovanni è che in questo gesto di amore Dio ha espresso tutto se stesso. Giovanni dice: nel gesto con cui Dio ha donato suo figlio li c’è tutto Dio, ed essendo un gesto di amore oblativo per il mondo, Dio è l’amore. C’è correlazione tra il gesto di Dio e Gesù, che non è strumento inanimato, perché a sua volta ha dato per il mondo la sua vita. Dio ha dato il Figlio e il Figlio ha dato se stesso. Sono due gesti d’amore che esprimono l’uno l’essere di Dio e l’altro l’essere di Gesù. Il gesto d’amore è cosi impegnativo e totalizzante che fa equivalere la persona che lo compie al gesto, in Dio e in Gesù. Prosegue « poiché egli ha posto la sua vita per noi », ma la meditazione procede ancora « e noi dobbiamo porre la nostra vita per i fratelli ».
In 1 Gv 4, 7-16: « amiamoci a vicenda perché l’amore viene da Dio e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio poiché Dio è amore ». Questa definizione esiste solo in questa lettera; non solo nel mondo biblico, ma in tutto il mondo di allora nessuno ha mai detto: Dio è amore, espressione che Giovanni ripete due volte (4, 8 e 4, 16). Giovanni ha capito che il gesto di Dio e anche di Gesù, è il gesto ultimo, definitivo, finale, escatologico. Altri, soprattutto Paolo hanno detto che il gesto di Dio è di amore, ma Giovanni fa un passo avanti e conclude: se questo è il gesto ultimo di Dio ed è un gesto di amore, Dio è amore perché in questo gesto c’è tutto Dio.
conoscere Dio è amare i fratelli
1 Gv 4, 16: « Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi ». 1 Gv 5, 20: « il Figlio di Dio ci ha dato l’intelligenza perché possiamo conoscere il verace ». 2 Gv 1: « tutti quelli che hanno conosciuto la verità ». Conoscere la verità, conoscere l’identità profonda di Dio e di Gesù: il modello di Giovanni è il modello della conoscenza dell’amore, conoscere e credere nell’amore. Conoscere l’amore vuoi dire lasciarsi coinvolgere nel dinamismo dell’amore, per cui conoscere Dio vuol dire amare i fratelli. La conseguenza del concetto: Dio ha amato noi, sembrerebbe: dunque noi dobbiamo amare Dio, ed invece la conseguenza di Giovanni è dobbiamo amare i fratelli, perché c’è sotto un altro pensiero. Noi che crediamo a questo Dio dal gesto di amore supremo crediamo all’amore e ci lasciamo coinvolgere, sperimentiamo questo amore nella nostra vita. Questo amore diventa il dinamismo della nostra vita e ci porta ad amare il prossimo. E’ un enorme cammino di riflessione che ha fatto il gruppo giovanneo per vivere un altro senso della propria identità e diversità nei confronti di quelli che sono fuori.
In tutti e tre questi modelli troviamo la centralità di Gesù: Gesù come maestro delle direttive di Dio, Gesù come il risorto campo magnetico delle forze della vita del nuovo mondo e Gesù rivelatore della verità suprema. Conoscere la verità è conoscere l’amore rivelato da Dio e da Gesù. Gesù è allo stesso tempo il rivelatore ed il rivelato. Anche la realtà dell’uomo è segreta per cui il gruppo di Giovanni è lanciato alla scoperta del segreto profondo che sta sotto le apparenze. E’ un modello apocalittico, del disvelamento dei segreti, che si attaglia a gruppi elitari, esoterici; gli altri vedono la superficie, ma ci sono gruppi interessati alla scoperta del senso profondo della realtà di Dio, di Cristo e dell’uomo.

discussione
un grande senso di accettazione dei diversi
Per Matteo l’ambito dell’amore per il fratello è il gruppo, mentre Paolo aveva un grande slancio missionario e diceva: amatevi tra di voi ed amate anche gli altri. Giovanni non ha comunicazione con il mondo ostile che li odia, ma dà testimonianza. Anche Paolo era stato emarginato dalla chiesa di Gerusalemme ed il suo grande avversario fu Giacomo. Quando Paolo torna a Gerusalemme portando una somma rilevante ottenuta con la colletta per sostenere i poveri, come segno di comunione delle sue nuove chiese con la chiesa madre di Gerusalemme, con molta probabilità non viene accolto da Giacomo. Paolo è morto non accettato. In un certo senso è stato il primo scomunicato. Gli avevano chiesto una dimostrazione di fedeltà giudaica pro bono pacis, ma Paolo è morto senza aver avuto la consolazione che tutto il suo sforzo di integrare il mondo pagano nella chiesa di Cristo fosse andato in porto. E’ morto rifiutato. La cosa strepitosa è che però i suoi scritti sono stati accettati; soltanto l’ala più oltranzista dei giudeo-cristiani, gli ebioniti, ha definito Paolo « inimicus homo », il nemico che ha seminato la zizzania nel campo dove Pietro ha seminato il buon grano. I suoi scritti sono stati accettati; ciò è avvenuto nel II secolo. Dopo che le diverse chiese hanno raccolto i vari scritti, quando si è trattato di fare la cernita, gli scritti di Paolo sono entrati nel canone ed hanno esercitato in alcuni momenti una grande influenza. In alcuni periodi la voce di Paolo è stata assolutamente muta, ma in altri momenti, con Agostino, Lutero, è suonata forte, come anche la voce giovannea. Non conosciamo bene i risvolti, però nella raccolta che è stata fatta c’è un grande senso di accettazione dei diversi. A favore di Paolo ci sono state due cose: il suo martirio ed il fatto che la scuola di Paolo ha prodotto anche le lettere pastorali, che sono nello schema del pater familias, e soprattutto gli Atti degli Apostoli. Anche le sue lettere più nuove, Galati, Romani, Corinzi sono passate. Lo spirito quindi era di grande accettazione, la discriminante era la visione gnostica. Hanno scartato tutti gli scritti gnostici, come per esempio il Vangelo di Tommaso di poco posteriore a quello di Giovanni e peraltro molto vicino, tenendo come discriminante l’incarnazione. Tutti gli scritti gnostici che negavano l’incarnazione vera sono stati esclusi. Il grande merito di aver salvato Paolo va ad Ireneo che ha scritto un’opera « Adversus haereses » in cui ha messo gli eretici da una parte ed ha rivendicato Paolo alla grande chiesa, perché Paolo rischiava, come dirà poi Tertulliano, di essere l’apostolo degli eretici.
a proposito dei diversi modelli: le intuizioni fondamentali
Modelli. Matteo, Paolo, Giovanni sono forti personalità letterarie e di pensiero. Il problema è se la loro opera è un affastellamento di elementi vari accostati l’uno all’altro, o se ha una intuizione fondamentale di base; questo è l’interrogativo a cui bisogna rispondere. Vi è la soluzione secondo cui è stato messo insieme molto materiale con un lavoro di tipo enciclopedico e c’è invece la soluzione secondo cui gli autori hanno costruito una sintesi unitaria su un’idea centrale. Chi ha scritto un Vangelo ha scritto un’opera unitaria mentre Paolo scriveva a seconda delle circostanze e l’elemento della farraginosità può essere presente. La maggior parte degli studiosi della catechesi paolina dicono che Paolo non è un teologo sistematico, ma è un teologo unitario e omogeneo, cioè Paolo ha alcune linee fondamentali attorno a cui costruisce il tutto, oltre ad elementi puramente marginali e contingenti.
Il modello è da intendersi in termini fluttuanti: 1° questi tre autori hanno un modo unitario di vedere la fede; 2° questo modo unitario di vedere la fede e di viverla si esprime in un quadro di affinità elettive; ad esempio il pensiero di Paolo gira attorno al punto focale della creazione, Giovanni attorno al rivelare la verità nascosta e Matteo intorno alla necessità dell’uomo di essere pedagogicamente istradato. Certamente cercando di definire l’intuizione base ed il quadro in cui viene espressa, si fa un’opera soggettiva di percezione e di interpretazione, ben sapendo che in questi autori ci sono tanti altri elementi periferici ed anche contraddittori. Ad esempio in Paolo compare anche una precettistica, ma non si tratta di comandamenti, bensì di esortazioni; è sintomatico che quando Paolo lascia una comunità non la affidi a qualcuno da lui scelto, proprio perché credeva molto alla capacità dello Spirito di suscitare un successore. Non metteva nessun capo, ma quando i leaders emergevano, li riconosceva; ai Corinti diceva: ciascuno ha qualcosa, chi l’esortazione, chi la preghiera.
Bisogna comunque avere coscienza della flessibilità dei modelli, ci sono altri elementi. Anche sui criteri di definizione sociologica della setta occorre distinguere: il gruppo giovanneo era una setta, ma diverso dalla setta qumramita che diceva di amare i figli della luce ed odiare i figli delle tenebre che erano non solo i goim, ma anche i giudei che non appartenevano alla loro setta. Il modello applicato a Matteo è sociologico, della famiglia. Questi modelli sociologici già sono stati applicati teologicamente in tutta la tradizione ebraica, infatti quando si chiama Dio padre nel senso dell’autorità si usa il concetto del pater familias e quando si dice re, il concetto del sovrano assoluto.
I modelli da noi usati sono poveri di articolazioni e vogliono solo cogliere l’anima, sono intuizioni fondamentali.

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO – GIOVANNI HELEWA OCD

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/helewa/itahel02.htm

GIOVANNI HELEWA OCD

II. PAOLO APOSTOLO ALLA SCUOLA DEL CRISTO CROCIFISSO

Avvicinare l’Apostolo Paolo a Gesù il Maestro è seducente ma problematico. A parte il fatto, di certo non casuale, che Paolo non chiama Gesù con questo titolo, un ampio silenzio sul Gesù storico caratterizza le lettere paoline. I fatti e le situazioni, i miracoli, le parabole, l’annuncio del vangelo del regno e la sua spiegazione, l’intimità con i Dodici, i contrasti con il giudaesimo ufficiale, gli spostamenti locali, la salita verso Gerusalemme, l’articolata vicenda della passione – elementi tutti che formano la trama narrativa di un ricordo e di una proposta e che sono il quadro in cui Gesù appare « maestro » – sembrano estranei alla prospettiva dell’Apostolo. Una cosa è certa: Paolo non è un « discepolo » di Gesù nel senso e nel modo in cui lo sono un Pietro o un Giovanni. La sua è una diversità che lo esclude dall’ambito storico di una parola come questa: <<Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l’udirono>> (Lc 10,23-24).
<<Ho veduto Gesù, Signore nostro>> (1Co 9,1). <<Apparve anche a me>> (15,8). Il suo incontro con Gesù, tuttavia, avvenne a cose fatte. Non essendo stato di quelli che furono <<con Gesù sin dal principio>> (cf Gv 15,27; At 1,21-22; Lc 1,2; Mc 3,13-14), non poteva fare propria la dichiarazione tipica dei testimoni diretti: <<Ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi>> (1Gv 1,3; cf At 10,39; 13,30-31). Valga globalmente questa differenza: anche se esortava i credenti a farsi imitatori di Cristo nell’amore (Ef 5,2), non poteva avvalersi dell’esemplarità magisteriale di un ricordo come quello della lavanda dei piedi (Gv 13,12-15). <<Rabbunì!>>, esclama Maria di Magdala al riconoscere Gesù (Gv 20,16). Tale privilegio non fu di Paolo.
È lecito allora parlare di Gesù il Maestro a proposito di Paolo? La risposta è affermativa, a condizione che si tenga presente la specificità del caso. (torna al sommario)

1. Dal Cristo Signore a Gesù di Nazaret
Confidava ai Corinzi: <<Siamo i vostri servitori per amore di Gesù>> (2Co 4,5; cf 5,14). Almeno questo dobbiamo riconoscere in partenza: non ha imparato alla scuola del Maestro come gli altri, ma l’amore che lo legava a Gesù non poteva non avere suscitato in lui il desiderio di conoscerlo il più possibile.
Del resto, quello che predicava ed insegnava era un vangelo che doveva orientare la sua mente e il suo cuore verso quel Gesù che non ebbe la fortuna d’incontrare personalmente. Diceva al mondo la « parola della fede » (Rm 10,8), la « parola di Cristo » (v. 17); e con ciò annunziava quale vangelo di Dio, insieme ed inseparabilmente, « Cristo Gesù Signore » (2Co 4,5) e « Gesù Cristo crocifisso » (1Co 2,2; cf 1,22). Non era un’astrazione la « parola della croce » che proclamava (1,18). Come poteva disinteressarsi della vicenda storica di Gesù o non informarsi per lo meno del modo in cui venne crocifisso il suo Signore e dell’itinerario che l’ha portato al Calvario? Ai Galati ricorda che <<ai loro occhi fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso>> (3,1). Paolo allude certamente alla sua catechesi orale mentre insegnava la morte di Gesù: non solo l’evento nella sua essenziale verità, ma un racconto più o meno circostanziato, comunque caldo e coinvolgente, della Passione così come l’aveva potuto sapere da fonti appropriate. Una storia concreta, un ritratto vivo; e con ciò stesso, un magistero insostituibile.
Certo, quel che conta decisivamente ormai è la fede nel vangelo di Dio, l’incontro personale con l’attuale Cristo della fede. Non già quindi il Cristo per sé accessibile all’occhio carnale e all’orecchio fisico (cf 2Co 5,16), ma il Cristo nel quale Dio opera e dice <<quelle cose che occhio non vide mai, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo>> (1Co 2,9), quelle cose che soltanto lo Spirito di Dio conosce e comunica alle persone (vv. 10ss). In tale prospettiva, la quale è tipicamente paolina, è la fede a dirigere lo sguardo verso il Gesù della storia, suscitando il desiderio di ascoltare la sua parola e di sostare ai piedi della sua croce; e questo cercare Gesù presuppone che si contempli nel suo volto l’attuale « Signore della gloria » (v. 8), il Cristo cioè che attualmente è il vangelo di Dio, attualmente vive nelle persone (Ga 2,20; Col 3,4) quale « sapienza e giustizia e santificazione e redenzione » (1Co 1,30), attualmente sta alla destra di Dio ed intercede per i credenti (Rm 8,34).
Detto ciò, ricordiamo l’originalità dell’approccio paolino: non ci sarebbe l’attuale Cristo della fede se non ci fosse il Gesù della storia; e non è possibile separare il « Signore della gloria » dall’individuo che portava il nome di Gesù di Nazaret, dal Maestro che diceva le cose di Dio ed è morto sulla croce a Gerusalemme. Dobbiamo insistere: tutto predisponeva Paolo ad avvicinarsi a quel Gesù che gli altri, più fortunati di lui, avevano personalmente conosciuto come il Maestro. Infatti, il vangelo a lui rivelato riguarda il Figlio di Dio (Ga 1,16; Rm 1,3; 1,9); ma questo Figlio, la cui identità divina è eterna, ha fatto irruzione nella sua coscienza rivestito di una identità umana e storica precisa: è « Gesù Cristo nostro Signore » (Rm 1,3-4). È il Figlio che, nella veste individuale di un Gesù, visse nel mondo degli uomini <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4), <<fatto della stirpe di Davide secondo la carne>> (Rm 1,3; cf Ga 3,16), in tutto simile agli uomini (cf Rm 8,3; 1Tm 2,4-6) sino ad avere voluto per sé la condizione di un « servo » (Fl 2,7), di un « povero » (2Co 8,9), di un « debole » (1Co 1,25; 2Co 13,4) – una kenosis che di umiltà in umiltà lo portò, obbediente a Dio, ad una morte come quella della croce (Fl 2,8). E se questo Figlio è contemplato adesso nella sua gloria celeste, Signore di tutti e sede viva di tutta la potenza dello Spirito (Rm 1,4; 1Co 15,45ss), tale sua esaltazione egli l’ha guadagnata per il modo in cui volle vivere e terminare la sua esistenza terrena (Fl 2,9). Non è questa la visione di un credente tanto affascinato dalla gloria del Signore da non avere il desiderio di fissare lo sguardo sul « servo » che fu Gesù.
Ad avere trasformato Paolo nel credente-apostolo che ammiriamo fu certamente la <<sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore>> (Fl 3,8), la quale gli fu donata per « rivelazione » (Ga 1,16) e pura grazia (1Co 15,10). Ma questa stessa « conoscenza », apocalisse del vangelo nel suo intimo, era tale che doveva per forza orientarlo anche verso il passato ed aprire la sua mente ad un magistero che sapeva insito alla vicenda storica che si era compiuta sul Calvario. E Paolo non viveva in una sfera astratta: aveva ampia possibilità di documentarsi, d’informarsi, sia alla fonte diretta dei testimoni storici (cf Ga 1,18-19; 2,1ss; 1Co 15,3ss; 11,23-25), sia a quella indiretta di una tradizione che già si formava nelle chiese. Perché pensare Paolo meno interessato di Luca a conoscere la storia di Gesù, anche nei particolari (cf Lc 1,1-4)? Proprio perché Gesù gli è ormai rivelato come il Figlio di Dio, dobbiamo pensarlo più che attento alla storia di Gesù, alle cose che gli vengono notificate come vissute e dette dal Maestro. Questo stesso titolo, anche se non appare nelle Lettere, Paolo non può averlo ignorato, dato che circolava già nella chiesa nascente; e Paolo era più che disposto ad imparare alla sua scuola e farsi discepolo di un tale Maestro.
Non è forse ciò che lui stesso suggerisce quando esorta: <<Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo>> (1Co 11,1)? Si imita un esempio di vita degno di essere preso a modello (2Ts 3,9; Tt 2,7; 1Pt 5,3), a scuola di comportamento (Gv 13,15), proprio nella linea tracciata in Fl 4,9: <<Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, questo dovete fare>>. In pratica, Paolo si augura che i fedeli vivano come discepoli suoi – appunto come egli sta vivendo, come un discepolo di Cristo! Nei due casi l’esempio è concreto e il modello è avvertibile; soltanto che nel secondo caso, l’esemplarità che ha « imparato e ricevuto » da Cristo, Paolo l’ha ascoltata e veduta indirettamente. Non è stato un discepolo del Maestro come un Pietro, un Giovanni, un Giacomo o un Andrea; ma lo divenne certamente quanto loro. (torna al sommario)

2. Presso la Croce con la mente e il cuore
A questo punto può sembrare strano il grande silenzio di Paolo sul Gesù storico, quel Gesù di cui deve avere acquisito ampie e dettagliate informazioni. A tale riguardo possiamo fare due precisazioni.
La prima è che le Lettere, anche se ricche di dati autobiografici e documentano a sufficienza una dottrina articolata e coerente, non dicono tutto di Paolo e della sua catechesi. In particolare, lasciano nell’ombra un settore che vorremmo conoscere meglio: la parola viva di Paolo quando predicava il vangelo ai non-credenti e, soprattutto, mentre, spiegando ai credenti il vangelo, comunicava loro la verità di Gesù Cristo <<per il progresso e la gioia della loro fede>> (Fl 1,25; cf 1Ts 3,10; 2Co 1,24). Non costretto allora dai limiti del mezzo epistolare, poteva dare libero corso ad una catechesi prolungata, didattica ed esortativa, dove i grandi temi del vangelo – quegli stessi che emergono nelle Lettere – venivano associati ad una evocazione amorosa delle cose che si sapevano di Gesù, del Gesù che Paolo stesso cercava già di imitare e di cui non poteva non desiderare che anche i credenti si facessero imitatori. Pure nella loro stringatezza, testi come Col 2,6-7 e Ef 4,20-21 aprono uno spiraglio di luce su un tipo di discorso, insieme dottrinale e pratico, dove il richiamo alla coerenza di un vivere nuovo in Cristo e secondo Cristo veniva rafforzato con il ricordo della figura supremamente esemplare di Gesù.
La seconda precisazione è attinente al carisma paolino. Anche se l’avesse voluto, Paolo non avrebbe potuto tessere una narrazione della vicenda storica di Gesù con l’autorevolezza del testimone. E sapeva che tale non era il carisma concessogli. <<Il vangelo da me annunziato… io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>> (Ga 1,11). <<Ha rivelato in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti…>> (1,16). La sua vita nella fede e il suo apostolato rimangono condizionati da questo incontro genetico con Cristo – il Cristo vivo rivelatogli come il vangelo vivo che deve annunziare. È di questo Cristo, il Figlio e il Signore, che Paolo ha conoscenza diremmo immediata; ed è questa medesima conoscenza ad abilitarlo, ai propri occhi, ad essere anch’egli, benché sia l’ultimo e come un aborto, un autentico apostolo di Cristo (1Co 9,1; 15,8). <<Subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia…>> (Ga 1,16.17). Gli è bastata l’apocalisse avvenuta nel suo intimo, la « sublime conoscenza di Cristo Gesù, suo Signore » (Fl 3,8), per sapersi apostolo e darsi alla predicazione del vangelo « in mezzo alle genti » (Ga 1,16). Maturerà la convinzione di dovere conoscere Gesù di Nazaret e avrà il tempo e la possibilità d’informarsi; ma il suo itinerario è tracciato: trasmettere il vangelo rivelatogli, irradiare la luce fatta splendere nel suo cuore (2Co 4,6), diffondere nel mondo il « profumo » del Cristo che vive in lui (2Co 2,14-16).
Comprendiamo pertanto la diversità di Paolo rispetto a coloro che erano apostoli prima di lui (Ga 1,17), ai testimoni cioè storici di Gesù: il suo non poteva essere il linguaggio narrativo del ricordo; e se il vangelo stesso lo orientava verso la vicenda storica di Gesù, di questa vicenda era portato a privilegiare, soprattutto nello spazio compresso delle Lettere, quegli elementi che più direttamente e strutturalmente appartenevano alla novità cristiana: chi era Gesù (la sua identità divina-eterna e umana-storica) e come egli divenne l’attuale Cristo-Signore, per sempre e per tutti il vangelo vivo di Dio (anzitutto il supremo e ricchissimo evento pasquale).
Bisogna infatti riconoscere che nelle Lettere la figura di Gesù di Nazaret è fatta presente con spiccata essenzialità. Spesso viene ricordata, perché ciò rientra nella verità del vangelo; ma l’approccio rimane molto selettivo. Paolo contemplava Gesù con l’ardore di un amore gratissimo, la penetrazione di un’intelligenza unica e la prontezza di un discepolo desideroso di seguirne le orme; ma è facile costatare, leggendolo, che per lui Gesù era soprattutto il crocifisso, il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (Ga 2,20), il servo che si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce (Fl 2,8).
Per la sua sublimità, la conoscenza di Cristo suo Signore ha fatto comprendere a Paolo, con l’impatto di una folgorazione, la vanità di tutto ciò che un tempo costituiva il suo vanto personale. È Cristo ormai il suo vanto e l’intera sua aspirazione. Tutto il resto è spazzatura (Fl 3,4-6.7-8). È « conquistato » come da un tesoro che ha calamitato il suo cuore staccandolo da tutto il resto (Fl 3,12; cf Lc 12,34). Questo suo tesoro ed unico vanto, però, lo interpellava di continuo ed egli se ne lasciava conquistare più e più ancora. Come? Mettendosi con la mente ai piedi della croce e fissando lo sguardo del cuore sul Signore mentre moriva per lui e per tutti. Come comprendere se non in tale senso Ga 6,14: <<Quanto a me… non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è crocifisso, come io per il mondo>>? È ricca la possibile esegesi di questa parola; ma la sua ispirazione profonda è lineare: un senso d’identità e di dignità, una libertà e un’appartenenza, un distacco totale e la sicurezza di un vanto ricchissimo; e tale visione di sé, riflesso di una religiosità meditata, Paolo la trae consapevolmente dal pensiero della croce, imparando alla scuola del Crocifisso la propria verità in Cristo e nello sguardo di Dio. Tutto permette di ritenere che Paolo, come gli altri apostoli anche se diversamente da loro, accoglieva in Gesù il suo Maestro (vedi sopra); ma tutto porta a precisare che il magistero che attingeva a tanta fonte era primariamente quella « parola della croce » che pure trasmetteva e spiegava come la verità del Cristo-vangelo (cf 1Co 1,18; 2,2). (torna al sommario)

3. Alla scuola del Crocifisso
Che cosa imparava Paolo da Gesù crocifisso? Basta ricordare che il vangelo stesso è da lui definito come la « parola della croce » per capire che la risposta potrebbe coinvolgere, direttamente o indirettamente, l’intera sua esperienza e l’intero suo messaggio. Ci atteniamo quindi ad una triplice linea, dove potremo cogliere con particolare chiarezza alcune delle sue certezze più personali ed apostolicamente più feconde: l’iniziativa del grande amore; il primato della grazia e della fede; la trascendenza di una sapienza e di una potenza degne di Dio. (torna al sommario)

a) L’iniziativa e la dimostrazione del grande amore
Del « Servo del Signore » è stato detto: <<Ha consegnato se stesso alla morte>> (Is 53,12); e del Cristo della passione Paolo ama dire: <<Ha dato se stesso>> (Ga 1,4; 2,20; Ef 5,2; 5,25; 1Tm 2,6; Tt 2,14). La formula esprime la volontarietà piena di un atto compiuto come un’offerta di sé (Ef 5,2). Si precisa che Gesù <<ha dato se stesso… secondo la volontà di Dio e Padre nostro>> (Ga 1,4): ciò che Dio ha voluto, Cristo ha compiuto nel momento in cui dava se stesso; l’offerta di sé, egli l’ha fatta nella consapevolezza e con il desiderio di aderire fino in fondo alla volontà divina come ad una norma che lo riguardava. Si allude così a quella « obbedienza » che ha portato il servo Gesù alla morte di croce (Fl 2,8), un « obbedire » che ha sovrabbondantemente compensato la colpa di Adamo ed ha aperto a tutti i tesori della grazia divina (Rm 5,18-19).
Infatti, era « per i nostri peccati » che Gesù dava se stesso (Ga 1,4), ossia « in riscatto per tutti » (1Tm 2,6), « per riscattarci da ogni iniquità » (Tt 2,14). Era questa oggettivamente la volontà di Dio; ed era questo il volere di Gesù stesso quando, fattosi servo obbediente ed offrendo se stesso, si è lasciato mettere a morte « per i nostri peccati » (Rm 4,25).
Proprio questa finalità redentiva, volontà di Dio a cui Gesù aderiva pienamente, attirava Paolo presso la croce per ascoltare la parola del grande amore. Anzitutto quella dell’amore di Gesù stesso: <<Mi ha amato e ha dato se stesso per me>> (Ga 2,20); <<vi ha amato e ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2); <<ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei>> (5,25). Ha amato noi dando se stesso; ha dato se stesso amando noi. Questo amore occupava totalmente Paolo e ne condizionava la via e l’apostolato (2Co 5,14); ed è un amore che non si finisce mai di scrutare e di comprendere, tanto vasto e profondo da « sorpassare ogni conoscenza » (Ef 3,17-19).
Alla scuola della croce Paolo imparava anche il mistero vivo dell’amore di Dio, di quella agápe toû Theoû che è l’anima eterna del vangelo (Ef 2,4; Tt 3,4-5) e la ricchezza stessa della grazia di Cristo riversata nei credenti (2Co 13,13; Rm 5,5). Infatti, la comunione di volontà tra Cristo Gesù e Dio Padre era insieme la comunione in una medesima agápe, la quale si è manifestata come una philantropia tutta misericordia e grazia e perfettamente degna di Dio (Tt 3,4-7). Alla croce vista come il documento storico del grande amore pensa Paolo quando dice che Cristo <<ha dato se stesso per noi>> (Ef 5,2; Ga 2,20; Ef 5,25); la stessa visione ispira quest’altra sua parola: Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi>> (Rm 8,32). Nel momento in cui Gesù <<dava se stesso per noi>>, Dio era coinvolto come colui che <<dava il proprio Figlio per tutti noi>>: una medesima agápe, un medesimo « amore di donazione »! L’agápe manifestata sul Calvario è il dinamismo di un amore che è di Cristo e di Dio, insieme e inscindibilmente (Rm 8,35.36.39).
Per sé, una speculazione teorica, adoperando categorie atemporali, può cogliere il concetto di un Dio che ama e quello di un amore che è divino. Ma non è questa la prospettiva del credente Paolo e del predicatore del vangelo. L’agápe toû Theoû in cui crede e che proclama non è astratta, ma la sostanza di una iniziativa divina storicamente compiuta. Colui che chiama il « Dio dell’amore » (2Co 13,11), Paolo lo conosce come il « Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (2Co 1,3; Ef 1,3; Rm 15,6; cf 1Pt 1,3); è il Dio che ama « in Cristo Gesù » (Rm 8,39), colui cioè che si è rivelato per sempre come il « Dio dell’amore » allorquando, non risparmiando il proprio Figlio, lo ha dato per tutti noi (v. 32), dando se stesso a tutti noi. Questa agápe, tutta donazione, è volontà e potenza di salvezza nell’attuale vangelo che è il Cristo Signore; riferirla però alla croce e morte di Gesù è un’esigenza di fede irrinunciabile. È l’eterna e presente agápe di Dio, ed insieme è <<il grande amore con il quale Dio ci ha amati>> (Ef 2,4). L’aoristo porta il pensiero ad un momento del passato, ad un evento della storia, a quel momento e a quell’evento in cui Dio <<non ha risparmiato il proprio Figlio>> ed ha compiuto per tutti noi la grande donazione (Rm 8,32). Quando il soggetto del verbo agapân è Dio o Cristo, Paolo adopera diremmo istintivamente l’aoristo, perché pensa direttamente al momento in cui Cristo ha dato se stesso e Dio ha dato il proprio Figlio. Questo momento può essere esteso all’intera missione del Figlio, <<nato da donna, nato sotto la legge>> (Ga 4,4); ma il linguaggio di Paolo fa capire che si tratta piuttosto della croce-morte di Gesù.
Presso la croce Paolo si lasciava compenetrare da quest’altra verità: la grandezza propriamente divina di quell’agápe. Si deve leggere insieme Ga 2,20 e 6,14. Il Paolo che si compiace di non avere <<altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo>> (6,14), è il credente che si accosta di continuo al <<Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui>> (2,20). Sapersi tanto amato da tanta vittima! Paolo vi attinge una sicurezza sempre più solida, liberandosi da ogni vanto che possa trovarsi altrove. A tale sicurezza l’Apostolo invita anche gli altri, parlando loro del <<grande amore con il quale Dio li ha amati>> (Ef 2,4). <<Ci vantiamo in Dio>> (Rm 5,11): non è sufficiente dire che il « vanto » dei credenti è il « Dio dell’amore »; per aderire al pensiero di Paolo bisogna aggiungere che è il Dio di quell’amore, grande oltre ogni misura, che splende nella luce rivelatrice della croce.
Per questo egli parla del Dio che <<dimostra il suo amore verso di noi>> (v. 8). Quella del Dio in cui ci vantiamo è un’agápe che si lascia « dimostrare » al credente che la voglia contemplare. Dove? La risposta, essendo paolina, è scontata: <<Mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi… quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo>> (vv. 8 e 10). La dignità della vittima e l’indegnità dei beneficati! È questo il documento storico, sempre aperto alla fede, del grande amore; ed è questa l’epifania di un’agápe come soltanto Dio può avere e che dice ai credenti, con una propria sua evidenza, quanto sia giustificato il loro vanto e fondata la loro speranza.
Infatti, un amore tanto grande, dimostrato in una morte come quella del Figlio stesso Dio, non può non essere solido e vincente: in esso il Dio del vangelo ha impegnato, una volta per sempre, la propria potenza e fedeltà a salvezza dei chiamati. Paolo l’insegna in Rm 8,31-39 dove, essendosi riferito alla croce nel v. 32, proclama che in mezzo a qualsiasi tribolazione e di fronte a qualsiasi ostilità abbiamo la fiducia di essere <<più che vincitori a motivo di colui che ci ha amati>> (v. 37) e che non esiste nel creato una potenza che ci possa <<separare dall’amore>> di Cristo e di Dio (vv. 35 e 38-39). Il tono sa di trionfo, tanto è certa la fede e sicura la speranza di chi si apre al magistero sempre attuale della croce. (torna al sommario)

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ I – II

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio – Monastero Suore Clarisse Cappuccine
Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – I E II IL III NEL POST SOTTO

I -II – CANTO, IL III SEPARATAMENTE PERCHÉ È TUTTO LO STUDIO È MOLTO LUNGO

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Premessa
Il tema di questo ritiro sono i canti del servo di Jahvè, cioè quattro canti che sono inseriti nel cosiddetto deutero-Isaia, dal capitolo 40 al 55 del libro del profeta Isaia.
Dentro a questo grande blocco ci sono quattro brani che in qualche modo emergono rispetto al contesto, e sono i quattro canti del servo di Jahvè.
Probabilmente anche questi sono opera del deutero-Isaia, però certamente con un messaggio, con delle prospettive particolari, in quanto tutte quattro queste poesie parlano di un personaggio misterioso, chiamato “il servo”, al quale viene affidata una missione importante e decisiva per la storia di Israele e per tutti gli uomini. Praticamente gli viene affidato il compito di fondare la religione autentica, l’atteggiamento corretto nei confronti di Dio e gli viene affidato l’incarico di rivelare la volontà di Dio.
Questo pone tutta una serie di problemi, per esempio l’identificazione di questo servo. A chi si riferiva l’autore? Le risposte degli esegeti sono diversissime, comunque tenete presente che per alcuni esegeti il servo è Israele stesso. Il popolo in esilio ha da Dio un compito, una vocazione di rinascita, di rigenerazione della vita religiosa, e questo compito fa di Israele il vero servo di Jahvè.
Per altri esegeti il servo è un personaggio simbolo o il deutero-Isaia stesso, o un profeta come Geremia, o un personaggio storico come Zorobabele.
Quello che a noi interessa principalmente è la fisionomia di questa figura, quale tipo di missione gli viene affidato.
Per certi aspetti il servo di Jahvè ha alcune caratteristiche regali: deve esercitare un potere che diventa anche universale; ma le sue caratteristiche sono principalmente profetiche perché deve- annunziare la parola di Dio, e per questo compito subisce derisione e persecuzione cioè paga l’annuncio della Parola di Dio con una serie di sofferenze che il servo accoglie in prospettiva positiva, come strumento di intercessione per i peccatori.
Il servo è uno che intercede, cioè cerca di ottenere la salvezza di tutto il popolo attraverso la sua preghiera, la sua persona e in particolare la sua sofferenza.
Proprio per questo motivo il servo di Jahvè assume delle caratteristiche che lo avvicinano a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento, anzi Gesù e il Nuovo Testamento hanno interpretato la missione del Signore alla luce di questi canti, in particolare la passione di Gesù.
Si potrebbe rileggere la passione di Gesù e notare tutta una serie di riferimenti impliciti ai canti del servo, in particolare al quarto canto dove viene descritta la sofferenza del servo di Jahvè.
Proprio per questo motivo i quattro canti vengono usati nella liturgia della settimana santa, e forse per questo don Davide mi ha chiesto di commentarli. Allora li riprendiamo insieme, li rileggiamo e tentiamo di vedere quali sono le cose più preziose.

Primo Canto
Il primo canto è nel capitolo 42 di Isaia, ed è un oracolo di investitura del servo: possiamo immaginare l’investitura di un vassallo da parte del grande re.
Il re vuole costituire un vassallo primo ministro; naturalmente si fa un’assemblea con tutti i vassalli del regno e davanti a tutti i suoi sottomessi l’imperatore presenta la figura che lui ha scelto. E’ questo il contesto immaginario del nostro brano.
“Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui;
egli porterà il diritto alle nazioni.
Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.
Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.
Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita
e l’alito a quanti camminano su di essa:
Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché, tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”.

Come dicevo è la presentazione del servo: il re, Dio stesso, lo presenta davanti a un’assemblea, all’assemblea del popolo, delle nazioni, dei grandi della terra: “Ecco il mio servo che io sostengo”.
Mio servo intendetelo come una dignità conferita a quest’uomo.
È vero che in italiano ‘servo’ vuole dire subordinato, ma quando si parla del servo di un re si intende il primo ministro, cioè quello che il re pone al di sopra degli altri.
Nell’Antico Testamento “servo di Dio” è per esempio Mosè, o Giosuè, o i profeti, cioè tutte quelle persone che hanno ricevuto da Dio una missione e con questa missione hanno ricevuto una dignità, un potere.
Quindi “mio servo” intendetelo come un titolo di onore.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”. “Mio eletto” vuole dire che Dio lo ha scelto in mezzo agli altri come unico, Dio dice a questo servo «tu sei per me unico» e non solo ma aggiunge «di te mi compiaccio» e vuole dire che Dio è contento della persona di questo servo, del compito che gli affida. In qualche modo il servo appare davanti a Dio come un sacrificio perfetto.
I sacrifici perfetti erano quelli che Dio guardava con piena benevolenza. Questo servo appare davanti a Dio come perfetto nella sua consacrazione, e Dio se ne compiace, Dio è contento di lui.
Questo compiacimento di Dio diventa l’affidamento di un incarico con equipaggiamento annesso: “Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
L’incarico è “portare il diritto” dove per diritto intendete quello che noi chiamiamo oggi la religione, quindi vuole dire rivelare la volontà di Dio, il progetto di Dio ai popoli, perché questi si sottomettano a questa volontà. Quindi non è il diritto in senso giuridico stretto, ma è il diritto nel senso della volontà globale di salvezza di Dio.
In altre parole: il servo deve condurre tutte le nazioni all’obbedienza a Dio.
Naturalmente questo è un compito molto grande e che supera le energie umane del servo. Per quanto sia intelligente o abile, un compito di questo genere supera ogni possibilità, allora “ho posto il mio spirito su di lui”.
Questo vuole dire che si compie per il servo quello che era stato detto nel capitolo 11 di Isaia a proposito del Messia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore. Si compiacerà del timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.
Il testo continua descrivendo l’attività di questo messia, di questo re, il quale stabilisce la giustizia, difende i poveri, decide le questioni non approssimativamente ma secondo una valutazione corretta.
Come può fare tutto questo? “Su di lui si poserà lo spirito del Signore”. Non solo è sceso lo Spirito, ma si è fermato, si è inserito nell’esistenza di questo servo tanto da riposarsi dentro di lui.
Allora questo spirito gli dona la sapienza e l’intelletto, cioè la capacità di conoscere oggettivamente le cose, come sono davanti a Dio.
Poi gli dona il consiglio e la fortezza cioè la capacità di scegliere, di decidere con coraggio. Dopo avere capito le cose sa prendere delle decisioni forti.
Poi gli dona lo spirito di conoscenza e del timore, cioè nello scegliere si lascia guidare non da interessi particolari, ma dalla volontà di Dio, dalla sottomissione al volere di Dio.
Quindi con lo Spirito quest’uomo è guidato, è orientato nei suoi pensieri e nei suoi desideri non dagli interessi privati, ma dalla rivelazione della volontà di Dio; ha assimilato il suo cuore al cuore di Dio.
“Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni”.
Questa è la missione. Poi si dice qualcosa sul metodo, sul come verrà svolta, come si realizzerà questa missione:
“Non griderà né alzerà il tono,
non farà udire in piazza la sua voce,
non spezzerà una canna incrinata,
non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta.”
Vuole dire che il suo metodo di azione è un metodo discreto, umile, rispettoso, capace di valorizzare quello che di positivo trova, anche se piccolo.
L’immagine della canna incrinata e dello stoppino dalla fiamma smorta, sembrano essere la fotografia dell’Israele dell’esilio.
Quando Israele si trova in Babilonia è un popolo nel quale è venuta meno la voglia di vivere, un popolo avvilito, deluso. schiacciato, che non ha un grande gusto di andare avanti.
Il servo viene mandato a questo popolo.
Come lo tratta? Lo giudicherà e lo eliminerà proprio per i suoi difetti? Spezzerà la canna incrinata? Spegnerà lo stoppino dalla canna smorta?
Al contrario. Questo servo è rispettoso di tutto quello che di positivo, anche piccolo, esiste nel popolo del Signore e lo valorizza. Con il suo intervento invece di umiliare valorizza. Invece di schiacciare, da energia e speranza.
Proprio per questo si presenta come un servo mite, che non grida, che non alza il tono, né fa udire in piazza la sua voce.
Vuole dire allora che è debole? Che non ha la capacità di imporsi?
È mite, ma tutt’altro che debole.
È, in realtà, deciso, costante, ostinato nelle sue scelte, per cui dice:
“Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà, finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra;
e per la sua dottrina saranno in attesa le isole.”
Quindi non si lascia abbattere da nessun ostacolo, non si lascia intimidire dalle minacce, ma una volta che si è proposto il suo compito (quello di stabilire la volontà di Dio) lo esegue senza deviare a destra o a sinistra.
Mite, ma perseverante. Si presenta come rispettoso ma anche deciso nell’esecuzione della volontà di Dio.
Questa presentazione viene completata da alcune parole che vengono rivolte direttamente al servo:
“Così dice il Signore Dio
che crea i cieli e li dispiega,
distende la terra con ciò che vi nasce,
dà il respiro alla gente che la abita”
Chi parla in questo modo è Dio, il creatore del mondo, che sta al di sopra di ogni cosa e la cui voce si afferma come invincibile. E’ quello che crea i cieli, che dispiega i cieli e la terra. L’universo intero è plasmato dalle sue mani, disposto dalla sua volontà.
È Lui che dà il respiro alla gente che vi la abita, quindi anche la vita ha la sua origine nella volontà di Dio.
Che cosa dice questo Signore dell’universo?
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia
e ti ho preso per mano;
ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo
e luce delle nazioni,
perché‚ tu apra gli occhi ai ciechi
e faccia uscire dal carcere i prigionieri,
dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre”
Richiama la missione che Lui stesso ha consegnato al servo: Io ti ho chiamato per la giustizia.
Questo compito è accompagnato dalla benevolenza di Dio: ti ho preso per mano, cioè il servo in tutta la sua opera è accompagnato dalla presenza premurosa e di difesa del Signore.
Inoltre ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo. Formato e stabilito vogliono dire che il servo è proprio una creazione di Dio, che Dio si è fatta con le sue mani. Così come all’inizio del mondo Dio ha creato l’uomo plasmandolo con la creta, così il Signore ha plasmato il servo.
Plasmato significa che gli ha dato una forma che corrisponde alla sua volontà, tanto che il servo possa diventare uno strumento docile di Dio.
Siccome diventa uno strumento docile di Dio, il servo in qualche modo diventa onnipotente. Cioè riesce ad agire con la stessa potenza misericordiosa di Dio, tanto che apre gli occhi ai ciechi, tanto che libera i prigionieri, tanto che porta la luce a chi abita nelle tenebre.
Tutte queste cose l’uomo non è capace di farle, solo Dio è capace, ma questo servo è diventato uno strumento docile, perché Dio lo ha formato secondo la sua volontà, e quindi attraverso questo servo passa, come attraverso un vetro trasparente, l’azione di Dio che è potente e misericordioso, che è forte e salvatrice. Quindi il servo diventa strumento di Dio.
Questo è il primo canto del servo.
Quando rileggete queste parole provate a rivederle in riferimento al Nuovo Testamento.
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”, questo è il Battesimo di Gesù.
“Ho posto il mio spirito su di lui”, è successo questo all’inizio del ministero di Gesù.
“egli porterà il diritto alle nazioni”, questo è il compito che Gesù ha realizzato in tutta la sua vita.
Come lo ha realizzato? Con mitezza: “Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta”.
Non c’è dubbio che l’atteggiamento del Signore sia stato di mitezza, ma è stato altrettanto fermo e deciso tanto da non venire meno finché, non avrà stabilito il diritto sulla terra, quindi tanto che non si è ritirato di fronte a nessun ostacolo nemmeno davanti alla minaccia della morte.
“Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni”, che Gesù sia luce delle nazioni questo era stato già detto da Simeone al momento della presentazione del Signore al tempio, ma lo si rivede in tutta la predicazione del Signore, in tutto quello che Gesù ha detto.
Che Gesù abbia riaperto gli occhi ai ciechi tutto il Nuovo Testamento lo dice.
Che “faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre” questo è tutto il significato della redenzione.
Quindi si può rileggere il canto in riferimento a Gesù.
Non vuole dire che il secondo Isaia abbia necessariamente pensato ad una figura messianica, però vuole dire che nel momento in cui Gesù è venuto per compiere la volontà del Padre, ha reso vere tutte le profezie, tutte le parole dell’Antico Testamento e le attese dei profeti.

Secondo Canto
Il secondo canto è al capitolo 49 del profeta Isaia.
Se il capitolo 42 era la presentazione del servo davanti ai vassalli del re, il capitolo 49 è una specie di racconto autobiografico: il servo racconta la sua esperienza, rilegge il passato:
“Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora disse il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele,
poiché, ero stato stimato dal Signore
e Dio era stato la mia forza
mi disse: «E’ troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti di Israele.
Ma io ti renderò luce delle nazioni
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra»“.

Il servo sta raccontando la sua esperienza, la sua vocazione, e dice una cosa fondamentale: la sua vocazione, la sua chiamata è avvenuta quando ancora era nel seno materno, prima di nascere.
L’idea è tipica di Geremia.
Quando parla della sua vocazione usa proprio questa espressione: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Vuole dire: quando Geremia incomincia a fare il profeta ha una certa età della sua vita, però in realtà Geremia era profeta da prima; quella vocazione non fa altro che manifestare, mettere in luce quella che era la struttura genetica spirituale di Geremia. Geremia non è mai esistito se non come profeta; Dio lo ha sempre sognato, voluto e pensato come profeta. La profezia non è un vestito che gli si è aggiunto in un momento della sua vita, ma è un gene che ha accompagnato il profeta fin dall’inizio e che ha dato forma a tutti i suoi pensieri, i suoi progetti, le sue speranze e ideali.
La vocazione nell’ottica di Geremia è così, e così dice anche il servo «il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome».
Pronunciato il mio nome vuole dire che mi ha conosciuto, ma vuole dire anche che mi ha amato, che mi ha dato un compito. Il nome contiene il compito della persona, contiene la sua vocazione.
Ciascuno di noi ha un nome, che Dio conosce, e che è il significato della nostra esistenza, quindi è quella che noi chiamiamo vocazione.
Il servo è stato scelto, amato e voluto fin dall’inizio del suo concepimento con una missione precisa da parte di Dio.
Ricordate che questa immagine verrà ripresa poi da san Paolo. Quando parla della sua vocazione riconosce che è venuta ad un certo punto della sua vita (sulla via di Damasco), è venuta in contrasto con molte cose precedenti, perché prima era un persecutore della chiesa e poi la vocazione ha capovolto la sua prospettiva e il suo modo di pensare, però san Paolo riconosce che Dio lo aveva scelto fin dal seno materno.
Quindi la vocazione è avvenuta concretamente se non dopo molto tempo, ma quella vocazione non faceva altro che innestarsi su una realtà profonda che Paolo portava sempre con sé.
Questo naturalmente vale per ciascuno di noi. La vocazione la scopriamo ad un certo punto della vita, delle volte la costruiamo pian piano, con fatica, con tensione.
Però in realtà quello che viene a galla è la parola con cui Dio ci ha chiamato fin dall’origine.
Continua il servo: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” e vuole dire che il servo di Jahvè è diventato uno strumento di Dio, uno strumento di cui Dio si serve per compiere la sua volontà, uno strumento soprattutto attraverso la parola, la predicazione. E’ un predicatore, un profeta, deve annunciare il diritto, proclamare la volontà di Dio; per questo Dio ha reso la sua bocca come spada affilata, quindi capace di colpire, capace di discernere, di distinguere, di dividere, di mettere in luce i pensieri del cuore.
“Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. La parola “Israele” sembra una glossa, cioè un’aggiunta di qualcuno che ha voluto interpretare il canto, per dire che questo servo su cui Dio manifesta la sua gloria è Israele stesso, il popolo stesso.
E ha ragione. Quando il servo di Dio si rivela è probabilmente una persona singola, ma è una persona che riassume in sé il mistero di tutto il popolo di Israele. Di quel popolo che Dio ha chiamato da sempre, che Dio ha plasmato con le sue mani, al quale ha affidato la missione di testimoniarlo in mezzo ai popoli, di essere quindi luce per le nazioni.
Tutte queste cose sono corrette se riferite a Israele, ma nello stesso tempo si riferiscono a qualcuno che incarna e realizza perfettamente il compito di Israele.
Quello che alla fine vale per Israele vale anche per noi. Noi siamo sì la chiesa del Signore ma a volte siamo una chiesa che non realizza la sua vocazione autentica di amore, di fede, di speranza. C’è quindi una specie di scalino tra la chiesa com’è nel progetto di Dio e la chiesa come riusciamo a viverla noi.
C’è uno scalino, una distanza tra Israele così come Dio lo sogna e Israele come storicamente si realizza.
Per questo c’è nella Chiesa una persona nella quale la chiesa viene espressa pienamente nel suo mistero di amore: Gesù Cristo, i santi che riassumono il mistero vero della Chiesa.
Lo stesso vale per Israele e per questo servo che riassume in sé l’esistenza, la vita e la missione del popolo.
“Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio”. Qui entra un altro tema che diventerà poi dominante, ed è la sofferenza, il fallimento, la delusione.
Vuole dire che questo servo ad un certo punto vede la sua missione fallire.
Si è impegnato per annunciare il diritto alle nazione, per portare la volontà di Dio in mezzo al mondo, per trasformare il mondo secondo il progetto di Dio. Che cosa ha ottenuto? Poco, tanto da essere ormai avvilito, privo di energia.
Vuol dire che ha perso la fiducia? No la fiducia gli rimane. Vede che il risultato è quasi nullo ma certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio. Non ha quindi paura del fallimento, dell’insuccesso; sa che siccome la missione gli è stata affidata da Dio è come al sicuro dentro alla volontà, al progetto di Dio. Qualunque sia il risultato che si vede, in realtà la sua missione non è inutile. Dio custodisce lui e i suoi meriti, il significato del suo compito, della sua missione.
“Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele, poiché, ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza mi disse: «è troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché, porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Vuole dire: questo servo che sembra non riuscire a realizzare la sua missione di ricostituzione del popolo di Israele, secondo il volere di Dio, questo servo riceve, stranamente, una missione infinitamente più grande: quella di ricondurre l’umanità intera alla fedeltà al Signore, quello di donare agli uomini la salvezza di Dio.
Questo è tipico del Nuovo Testamento:
Gesù è venuto come salvatore di Israele, e si può che ha fatto fallimento.
Gesù può dire al termine della sua vita: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze» perché quelli che hanno creduto non sono stati molti, e quelli che gli si sono opposti, invece, hanno apparentemente vinto.
Non c’è dubbio che le parole “ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio” sono parole che esprimono il mistero di Gesù, che non ha restituito male per male, che non ha oltraggiato gli oltraggiatori, ma ha affidato la sua causa a colui che giudica con giustizia.
Quindi si è consegnato nelle mani del Padre perché fosse Lui a difenderlo. Ma proprio questo è avvenuto, che in questo modo la missione di Gesù è passata da missione per Israele a missione universale, a missione per tutte le nazioni.
Proprio il rifiuto di Israele ha aperto la strada ai pagani, così dice san Paolo più volte. Ed è proprio questo che ha reso l’annuncio del Vangelo un annuncio di salvezza fino alle estremità della terra.
Fino all’estremità della terra, se ricordate, è il progetto che Luca pone alla base degli atti degli Apostoli; il compito della chiesa è fare sì che il Vangelo, partendo da Gerusalemme, arrivi fino agli estremi confini della terra, arrivi cioè ai pagani, a tutti gli uomini.
Entrano quindi due elementi nella vocazione del servo, che sono complementari:
da una parte la sofferenza, dall’altra la dilatazione della missione;
da una parte il fallimento, dall’altra il compito aperto a tutti e la salvezza offerta.

 

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÉ – III CANTO – ISAIA

http://www.cistercensi.info/monari/1994/m19940319b.htm

(ci sono delle lettere che vengono male nella copia, scusate, oggi ho molto lavoro e non ho tempo di correggerli)

Diocesi Reggio Emilia-Guastalla Correggio - Monastero Suore Clarisse Cappuccine

Ritiro spirituale di Quaresima per giovani

I CANTI DEL SERVO DI JAHVÈ – SEGUE DA SOPRA

(DAL LIBRO DEL PROFETA ISAIA)

III CANTO

19 MARZO 1994

Celebrazione Eucaristica
Liturgia solennità di San Giuseppe
Referenti del presente Documento: Vittorio Ciani e Marcello Copelli

Terzo Canto
Il terzo canto è al capitolo 50.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati,
perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
Perché, io ascolti come gli iniziati.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il dorso ai flagellatori,
la guancia a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto confuso,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare deluso.
È vicino chi mi rende giustizia;
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa?
Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Ecco, come una veste si logorano tutti,
la tignola li divora.
Chi tra di voi teme il Signore,
ascolti la voce del suo servo!
Colui che cammina nelle tenebre,
senza avere luce,
speri nel nome del Signore,
si appoggi al suo Dio”.
Vedete come il tema della sofferenza incomincia a venire in primo piano.
Questo terzo canto è un salmo di fiducia, di quelli che si trovano a volte nella profezia di Geremia.
Geremia è un profeta che parla al popolo, ma che delle volte esprime semplicemente le sue sofferenze, i suoi lamenti perché la sua missione è una missione che gli costa, gli pesa. Geremia avrebbe voluto potere fare cose diverse da quelle che è stato costretto a fare. Geremia avrebbe amato la vita di comunione con gli altri, di società, di dialogo e invece è costretto ad annunciare la desolazione, il giudizio, la sofferenza; anzi, non riesce ad annunciare altro che questo e proprio questo fa di lui un emarginato, perché nessuno ascolta volentieri profezie di sventura, e Geremia è il profeta di sventure per eccellenza.
Per questo motivo Geremia ha dovuto rinunciare alle amicizie, ha dovuto rinunciare a formare una famiglia, è diventato nella sua logica morto prima ancora di morire e per questo si lamenta, racconta il peso di questa condizione che lui non ha scelto e che non gli piace, che è costretto a sopportare per una specie di violenza del Signore: “mi hai fatto forza e hai prevalso”.
Il servo di Jahvè va collocato in questo contesto dei profeti che soffrono.
I profeti sono persone che annunciano la parola di Dio, e quindi sono dei messaggeri del Signore, ma sono messaggeri come coinvolti da quello che annunciano, sono trafitti dalla parola che dicono agli altri.
È una parola di giudizio? Questa parola di giudizio cade prima su di loro.
Annunciano la sofferenza? Ricade su di loro per primi.
Questo vale anche per il servo di Jahvè che viene trascinato dalla parola di Dio a essere una parola personale, una persona che è diventata parola, che è diventata manifestazione della volontà di Dio. Dio l’ha plasmata come persona tanto da essere la realizzazione di messaggio di giudizio, nel caso di Geremia, o di salvezza come vedremo nel quarto canto del servo di Jahvè.
“Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché, io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola”. Abbiamo detto che il secondo Isaia è un profeta di consolazione, che vuole riportare speranza agli esuli che si sentono abbandonati e avviliti, bene il servo di Jahvè ha una parola di speranza da rivolgere al popolo del Signore e questa parola il servo la può trasmettere perché prima di tutto l’ha ascoltata con perseveranza: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché, io ascolti come gli iniziati”.
Parla perché prima ha ascoltato. Trasmette consolazione perché prima ha ricevuto consolazione dal Signore.
Vale per questo servo quello che dice san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché, possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”, quindi consolati, consoliamo; abbiamo ricevuto dal Signore conforto per non tenerlo come una gioia privata ma per comunicarlo agli altri.
“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Però, questo compito positivo di consolazione il servo di Jahvè lo paga; è un consolatore, ma è un consolatore che proprio per potere consolare deve essere passato attraverso la sofferenza.
Se uno è consolato vuole dire che da una condizione di tribolazione viene portato a una condizione di speranza, ma deve partire dalla tribolazione altrimenti non c’è consolazione.
Il servo di Jahvè ha conosciuto la persecuzione, l’oppressione, la sofferenza: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Quindi ha conosciuto la sofferenza e l’umiliazione.
Eppure in mezzo alla sofferenza e all’umiliazione ha mantenuto la sua sicurezza e la sua speranza: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso. E’ vicino chi mi rende giustizia; chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”.
Tradotto vuole dire: in tutte le situazioni di tribolazione in cui mi trovo ho un difensore e un protettore: Dio. Mi basta. Non ho bisogno di altro che di questo. Se il Signore Dio mi assiste non resto confuso. L’opposizione degli uomini può fare male, anzi fisicamente fa molto male Ho presentato il dorso ai flagellatori, ma non riesce a spezzare la resistenza interiore di questo servo, anzi la protezione del Signore lo colloca di fronte agli altri come invincibile: “rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”.
Dura come pietra vuole dire che gli insulti o gli sputi non gli fanno cambiare scelta, non lo ripiegano dentro alla difesa di sé, non lo rendono impaurito e timido. Ha vicino il Signore che gli rende giustizia, ogni oppositore gli appare quindi insignificante: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?
Queste parole le potete rivedere nell’esperienza del Signore, in quel cammino di passione di fronte al quale Gesù non si è tirato indietro, ma è rimasto perseverante, fedele nel compimento della volontà del Padre.
Ma quelle medesime parole sono usate da san Paolo nella lettera ai Romani, in riferimento al credente: “Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?”. Sono proprio le parole del terzo canto del servo di Jahve: chi condannerà? Chi potrà condannare chi è stato redento e salvato e protetto dall’amore di Dio in Gesù Cristo. Allora ne deve scaturire una sicurezza grande che permette al servo di rimanere fedele alla sua missione e che permette al credente di rimanere fermo nell’obbedienza a Dio, nella fiducia in Dio.

Riassunto.
I capitoli 42 – 49 – 50 sono una specie di piccolo itinerario spirituale del servo di Jahvè che nasce dalla sua istituzione divina:
Dio lo stabilisce come suo servo di fronte al mondo intero, assegnandogli una missione e donandogli lo Spirito perché sia in grado di compiere questa missione.
Il servo opera la volontà di Dio con mitezza e decisione nello stesso tempo.
Il risultato sembra deludente, sembra che debba dire «ho faticano invano», ma in realtà siccome ha compiuto la volontà di Dio questo insuccesso è solo apparente; in realtà la missione di salvezza il servo l’ha ricevuta, anzi il Signore gliela dilata all’infinito in modo che il servo diventi strumento di salvezza per tutti gli uomini.
Che cosa vuole dire? Che deve portare una parola di consolazione al mondo intero.
Questo però costerà al servo una sofferenza grande: la flagellazione, gli sputi, le umiliazioni… e in tutte queste esperienze il servo dovrà mantenere la sua fermezza che viene dalla protezione del Signore. Gli deve bastare la protezione del Signore contro ogni sofferenza.
In questo si incomincia a intravedere che il servo compie la missione non solo predicando, ma anche soffrendo.
Nell’ultimo canto il servo avrà solo sofferenza. Tutto l’aspetto della predicazione, che era così importante all’inizio, scompare e rimane solo la sofferenza dell’obbedienza e dell’amore.
Quarto Canto

Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e molto innalzato.
Come molti si stupirono di lui
tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo
così si meraviglieranno di lui molte genti;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per provare in lui diletto.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori”.

Questo è il quarto e ultimo canto del servo del Signore. E’ il canto culminante perché presenta la sofferenza del servo che viene portata fino al limite: la persecuzione, il processo, l’esecuzione, la morte.
Insieme con questo annuncia la glorificazione del servo.
Quindi poema del servo sofferente e glorificato. Il tema è quello della salvezza attraverso la sofferenza, è quello della gloria attraverso la croce.
Notate che quelli che parlano in questo poema considerano questo messaggio della gloria attraverso la croce, come un messaggio inaudito, incredibile. Siamo davanti a qualcosa di paradossale che l’uomo non si sarebbe mai aspettato.
Notate anche che l’inizio e la conclusione del canto sono parola di Dio. E’ Dio che prende la parola e parla del suo servo.
Al centro invece c’è una narrazione messa sulla bocca di un gruppo di persone, non identificato, che racconta la storia del servo, racconta la sua vita come ha patito, come è morte e come alla fine lo hanno visto trionfante.
Quindi al centro c’è la narrazione; all’inizio e alla fine la proclamazione di Dio che annuncia quello che è avvenuto con il suo significato di salvezza.
Il canto incomincia con una proclamazione divina: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Ricordate il primo canto del servo, quell’istituzione in cui Dio, come re, costituiva il servo come suo rappresentante e lo presentava davanti a tutti gli uomini, a tutti i re della terrà; all’inizio del quarto canto c’è qualcosa di simile: Dio presenta il suo servo e lo presenta glorioso. Fin dall’inizio Dio proclama l’esito finale dell’avventura, ed è un esito di gloria e di esaltazione.
Tutto il resto è indirizzato a questo, va verso questo traguardo. C’è una parola di Dio che annuncia la gloria, il resto è necessario come cammino. La Parola di Dio è infallibile, quindi se annuncia la gloria in un modo o nell’altro la storia dovrà andare a finire lì. Per quanto si veda una storia di sofferenza e di umiliazioni il traguardo è fissato: la gloria.
Notate che questa immagine del servo glorioso è quella che domina il quarto Vangelo: il Vangelo di Giovanni quando presenta la passione del Signore insiste sul fatto che è una realtà di innalzamento e di esaltazione. Giovanni vuole che uno abbia sempre davanti l’immagine della croce dove uno muore per innalzamento. Quella piccola realtà che è l’innalzamento in croce per san Giovanni diventa il simbolo della glorificazione di Cristo, per cui il Cristo del quarto vangelo è certamente il Cristo che muore in croce, ma in realtà è più ancora il Re che sale sulla croce e si insedia nel suo potere sovrano.
Quindi il Cristo di Giovanni è il Cristo in croce come la croce di san Francesco o delle croci bizantine dove di dolore non c’è quasi nulla; c’è piuttosto l’espressione della gloria e della vittoria.
Da qui san Giovanni ha preso l’immagine dell’innalzamento: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”.
Poi il dolore del servo e la sua gloria vengono presentati indirettamente, guardando l’effetto che fanno sulle persone che stanno intorno, sulle persone che guardano: “Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”.
La sofferenza, prima di tutto, sfigura l’uomo: l’uomo è fatto a immagine di Dio, vuole dire che dovrebbe portare qualcosa della bellezza di Dio sul suo volto. Ora la sofferenza sfigura il volto dell’uomo, lo rende non guardabile, non oggetto di ammirazione, anzi un volto sfigurato può produrre quasi un terrore sacro.
Ripensato a Giobbe quando viene incontrato per la prima volta dagli amici che lo vedono in mezzo all’immondizia, in una condizione di desolazione e di avvilimento. Di fronte a questa condizione gli amici tacciono terrorizzati, in silenzio per una settimana. Quindi la condizione della sofferenza dell’uomo diventa motivo di paura, di terrore.
Ma non solo. Come crea stupore la sofferenza di quest’uomo, crea stupore anche l’esaltazione, anche la sua gloria. Perché dopo averlo visto in quella condizione di sfiguramento, i re della terra lo vedono nella condizione di gloria.
Se ricordate anche nei salmi succedeva che quando Dio libera un uomo giusto dalle sue angosce, la gente rimaneva a bocca aperta, stupita per quello che era avvenuto. Anche per il servo questa liberazione sarà qualcosa di inaudito, qualcosa di mai visto nella storia della salvezza: “vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”
Fino qui la proclamazione di Dio.
Dopo, invece, è un gruppo anonimo che inizia a parlare, un coro, un coro della tragedia greca o un gruppo di re, comunque un coro che comincia a raccontare la storia del servo sottolineando la novità di questa esperienza: “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
Il braccio del Signore si è manifestato molte volte nella storia di Israele: quando il Signore ha liberato il suo popolo dall’Egitto “con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto“.
Il braccio teso, potente è naturalmente il simbolo di una forza messa in attività: Dio attua, esercita tutto il suo potere. Quindi avevamo già visto il braccio del Signore.
Come pure lo abbiamo visto quando ha fatto entrare il suo popolo nella terra promessa; quando lo ha liberato dai nemici. La storia di Israele è una serie di avvenimenti in cui il braccio di Dio si è manifestato.
Ma adesso siamo davanti ad un’azione nuova e inconcepibile. “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore”? Siamo davanti a qualcosa di nuovo e inaccettabile. Questo nuovo mistero sembra superare tutte le esperienze che abbiamo avuto in precedenza.
Nonostante questo, nonostante sia incredibile, il coro racconta ugualmente. Per chi? Forse per il futuro perché ci possa essere qualcuno che arrivi a comprendere quello che per i nostri occhi e i nostri orecchi è rimasto troppo misterioso, troppo al di là delle nostre capacità di comprensione.
Il tema del messaggio non è una teoria, non è un contenuto di idee, ma una serie di fatti, una vita, la vita di un personaggio. Di questo personaggio viene raccontata la nascita, la passione, la morte, la sepoltura, la glorificazione. Non solo viene raccontata la vita, ma quelli che raccontano sono coinvolti personalmente, profondamente, sanno che quegli avvenimenti non riguardano altre persone, ma coinvolgono loro stessi.
E’ vero che io racconto la storia di un altro, ma quello che è capitato a questo personaggio ha delle ripercussioni sulla mia vita, mi riguarda da vicino.
Sarà bene che anche voi ascoltiate nello stesso modo.
Vi racconto la storia del servo di Jahvè, ma si parla della vostra vita, della vostra esperienza, del vostro peccato e della vostra salvezza. Quindi non potete ascoltare come se vi raccontassi di Alessandro Magno, con interesse ma con la distanza che c’è tra noi e lui. Questa è storia vostra, è la vostra vita che si rispecchia nell’esperienza di quest’uomo.
“È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.”
Così incomincia la storia del servo di Jahvè.
Ma chi è questo servo di Jahvè? Mistero! Anonimo.
E’ un re? E’ un profeta? E’ un sacerdote? Vive nella terra di Israele? Ha un nome nobile?
Non è detto niente. E’ cancellato tutto. Rimane solo la sua pura presenza segnata dal dolore, dall’umiliazione. L’unica immagine che ci viene messa davanti è quella del dolore e dell’umiliazione. Le altre caratteristiche, quelle umane, sono irrilevanti. Gli autori, i raccontatori non le tengono presente.
Quello che ci dicono: è un virgulto, quindi una vita che nasce, che vorrebbe fiorire; ma è un virgulto in una terra arida, quindi che non lo nutre, non gli da alimento; la sua vita è una vita di stenti e di povertà; l’ambiente nel quale vive non lo sostiene.
E’ naturalmente un uomo, ma è un uomo sfigurato: “Non ha apparenza né, bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. (…) come uno davanti al quale ci si copre la faccia” Sembra fare riferimento, con quest’ultima affermazione, ad un lebbroso.
Il lebbroso è un uomo sfigurato, in cui l’immagine umana è cancellata dalla malattia, e che proprio per questo suscita ribrezzo, rifiuto. Il lebbroso non ha rapporto con la convivenza sociale degli uomini, deve vivere emarginato e rifiutato: è uno davanti al quale ci si copre la faccia.
Quindi quest’uomo vive in una società ma è rifiutato ed emarginato. Ai dolori e alle sofferenze fisiche si unisce quindi l’abbandono degli altri, l’emarginazione sociale. La gente lo abbandona perché interpreta la sua sofferenza come un castigo di Dio, quindi ha paura di avvicinarsi. Guai avvicinarsi a chi è castigato da Dio perché potrebbe contagiarti. Se è sotto una potenza negativa, quella potenza potrebbe attaccarsi alla tua carne. Allora meglio rimanere lontani, meglio interrompere qualunque rapporto, fosse anche il solo rapporto del guardare.
Questo tema, quest’immagine dell’uomo sofferente e rifiutato la trovate in numerosi salmi: il quarto canto del servo di Jahvè è vicino, per molti aspetti, ai salmi di supplica individuale.
Per esempio il salmo 31:
“Sono l’obbrobrio dei miei nemici,
il disgusto dei miei vicini,
l’orrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono caduto in oblio come un morto,
sono divenuto un rifiuto.
Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.”

Oppure il salmo 69:
Per te io sopporto l’insulto
e la vergogna mi copre la faccia;
sono un estraneo per i miei fratelli,
un forestiero per i figli di mia madre”.

Quindi l’esperienza non è nuova, anzi è presente in molti sofferenti dell’antico testamento. Ma c’è una differenza. Nei salmi di supplica è il sofferente che parla e descrive la sua condizione di sofferenza ed umiliazione. In questo testo, quello che viene chiamato da Isaia l’uomo dei dolori non parla, sono gli altri che descrivono la sua condizione, la sua miseria. Lui tace, è l’uomo del silenzio.
“Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
In alcuni salmi di lamento, come quelli appena citati, il salmista confessa il suo peccato, e chiede a Dio perdono e grazia:
“Signore, non castigarmi nel tuo sdegno,
non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto,
su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo,
come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe
a causa della mia stoltezza”.
Il Salmista confessa il suo peccato e chiede la grazia di Dio. Uguale atteggiamento lo troviamo nel salmo successivo.
Anche nel quarto canto del servo di Jahvè c’è la confessione del peccato, ma non è il servo che confessa il suo peccato, ma sono gli spettatori, il coro degli uomini: egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori.
Ci sono dolori e sofferenze, e questi sono il segno che siamo di fronte ad una realtà di peccato, ma non al peccato di colui che soffre, ma siamo di fronte al peccato di coloro che lo vedono soffrire, al peccato degli altri.
Il peccato c’è, ma viene portato da un’innocente.
All’inizio della storia, quando la gente ha visto quest’uomo sfigurato, disprezzato ed emarginato ha pensato che fosse colpito da Dio, come avevano pensato gli amici di Giobbe quando lo vedono in mezzo alla sofferenza e gli dicono: «Dio ti ha castigato, devi avere compiuto dei peccati, chiedi perdono a Dio».
La sofferenza, tradizionalmente, è vista come la conseguenza di peccato e di crimini.
In realtà il servo accetta sì, nella sofferenza, la conseguenza del peccato, ma del peccato degli altri. Questo è l’unico caso, dell’antico testamento, in cui ci sia l’idea di una sofferenza di carne, di qualcuno che soffre al posto di un altro, soffre per quello che toccherebbe all’altro come conseguenza del peccato commesso. In questo modo, soffrendo innocentemente, il servo apre gli occhi ai peccatori, perché gli uomini vedendo la sua sofferenza si rendano conto del loro peccato; vedendo l’angoscia del servo riconoscano la propria colpa.
Dolore e castigo sono normalmente legati tra loro nell’ottica dell’antico testamento. Adesso, nell’esperienza del servo, sono separati: il castigo è nostro, il dolore è suo; il castigo toccava a noi, ce lo siamo meritati noi, il dolore invece lo sopporta lui. Il dolore che il Servo sopporta è il dolore che porta alla salvezza, perché procura pentimento e perdono. Quindi il testo gioca sul contrasto: “noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità”. C’è il paradosso di un castigo che dovrebbe creare angoscia e che invece procura pace: il castigo che il servo sopporta produce la pace degli uomini, dei peccatori. C’è il paradosso delle cicatrici che curano: le cicatrici delle sofferenze del servo diventano cura, guarigione per noi, “per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.
A questo punto il coro confessa ancora più esplicitamente il proprio peccato: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.” Nuova confessione di peccato, quindi, con l’immagine tradizionale del gregge che fa riferimento al popolo di Dio traviato e disperso. E’ l’immagine di una divisione, di un venir meno di quel legame di fraternità e comunione che dovrebbe tenere compatto il popolo del Signore.
Quell’immagine che riprenderà san Pietro nella sua prima lettera:
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore,
ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”.
San Pietro ha praticamente descritto la passione del Signore con le parole del quarto canto del Servo: ha portato i nostri peccati, siamo stati guariti dalle sue piaghe, eravamo erranti come pecore.
Notate ancora quell’espressione significativa con cui termina il versetto: “il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Vuole dire che la sofferenza del servo è opera del Signore, è opera di Dio. Non soffre per caso, per un maleficio di potenze negative; soffre per un disegno di Dio. Misteriosamente il Signore ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti, ed è fondamentale per riuscire a dare, a questa sofferenza, un valore positivo. Fosse per caso, sarebbe senza significato; fosse il segno delle potenze del male, sarebbe negativo: vorrebbe dire che il bene è radicalmente sconfitto. Invece è opera del Signore e questo apre la possibilità di una speranza, di un esito positivo per questo dramma.
“Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Viene ricordato esplicitamente il silenzio del servo che non è per caso. E’ a sua volta, a modo suo, un discorso eloquente. E’ un’azione simbolica: ha scelto il silenzio, e lo ha scelto non perché non abbia niente da dire a sua discolpa, ma proprio perché questo silenzio esprime l’atteggiamento di perdono che il servo ha scelto nei confronti degli uomini.
“(…) Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché, ne seguiate le orme:
egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca,
oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta”.
Cristo non ha risposto al male con il male, ha piuttosto coperto il male con una capacità più grande di perdono.
Quando san Paolo, nell’inno alla carità, dice tra le altre cose che la carità copre tutto, dice esattamente questo, dice del servo che tace di fronte alla sofferenza che sta portando per i peccati degli altri.
In questo siamo davanti a qualcosa di sorprendente.
Potete fare il confronto con Giobbe; Giobbe soffre anche lui e soffre da innocente, ma non tace. E’ diventato eloquente, ha tutta una serie di parole con le quali esprime la sua ribellione alla sofferenza e difende la sua innocenza.
Il servo, invece, tace; la pecora muta si contrappone al gregge traviato. Siamo di fronte a qualcosa che misteriosamente sposta il giudizio di Dio: l’agnello condotto al macello, la pecora muta portano sopra di sé il giudizio e la condanna.
“Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte.”
Siamo davanti ad un tema nuovo; fino ad ora si era parlato di sofferenze fisiche, di disprezzo, ora si parla di giudizio e di una condanna ingiusta.
La condanna ingiusta è uno dei grandi temi dei salmi di lamentazione. I salmisti si lamentano molto spesso della degradazione della giustizia, di giudici che si sono lasciati comperare ed hanno emesso sentenze false schiacciando l’innocente. Questo è un tema fondamentale nell’antico testamento.
Il servo ha subito proprio questo: una condanna ingiusta, con l’unica differenza che il servo non si difende, non invoca il castigo di Dio contro i nemici; quello che invece succede frequentemente nei salmi.
Nei Salmi chi è ingiustamente condannato rivendica l’intervento di Dio, ha diritto che Dio intervenga perché Dio è l’ultima istanza della giustizia, nel popolo del Signore, quindi deve intervenire per riportare le cose alla verità, alla giustizia.
Il servo NON chiede nessun intervento di Dio. La sua storia dunque termina con la condanna e l’esecuzione: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte?”. Nessuno lo ha difeso, nessuno si è preoccupato di proclamare la giustizia del servo, anzi, “gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Quindi la sepoltura sigilla tutta la vita del servo come vita di dolore e di disprezzo, ed è una vita che termina in una fossa comune, nella fossa dei giustiziati.
Ora, quelli che raccontano la storia, ne possono dire il significato vero, possono dire che era innocente quell’uomo: “sebbene non avesse commesso violenza né‚ vi fosse inganno nella sua bocca”. Questa è una dicitura che rimane come sigillo della sua sepoltura, è scritta sulla sua lapide; sulla lapide c’è scritto che era innocente nelle parole e nelle opere, non ha commesso violenza, non ha detto inganno o falsità.
Ma non è stato il servo a dire questo, non è stato il servo a proclamare la sua innocenza, come di solito avviene nei salmi di un accusato ingiustamente. Nemmeno questa proclamazione di innocenza è stata fatta durante la sua vita, non c’è nessuno che durante il processo si sia alzato a difenderlo, o che di fronte alla esecuzione abbia protestato. Sono altre persone che invece proclamano il servo innocente, ma dopo la sua morte; quando orami è troppo tardi, quando orami non c’è più niente da fare; a quel punto il servo è proclamato dal coro innocente e giusto.
Non è vero che non c’è più niente da fare, non è vero che è troppo tardi. E’ troppo tardi per gli uomini, per la giustizia degli uomini, ma non è troppo tardi per l’intervento di Dio.
Sembrava che anche Dio lo avesse abbandonato e che non si fosse preso cura della sorte del servo. Quando dice: “chi si affligge per la sua sorte?” sembra che la risposta sia proprio nessuno: né gli uomini, né Dio.
“Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;” Viene proclamata la glorificazione del servo; la storia finisce adesso nella glorificazione del servo.
Nei salmi di azione di grazie il protagonista racconta, di solito, la sua disgrazia e poi la liberazione ottenuta meravigliosamente dal Signore. Quando proclama questa liberazione invita tutti gli altri a fare festa con lui, a lodare Dio insieme con lui, ed invita tutti ad avere fiducia nel Signore.
Ma in tutti questi salmi la narrazione riguarda un pezzo della vita: «ho sperimentato una malattia grave, una lotta grave e mi sentivo ormai spacciato, ma il Signore è intervenuto e mi ha liberato»; questa è l’esperienza che ho fatto un mese fà, quindi c’è stato un periodo, nella mia vita, in cui ho conosciuto l’angoscia e al termine di questa ho conosciuto la liberazione del Signore.
Ma per quanto riguarda il servo non è solo un pezzo della sua vita che è stato segnato dalla sofferenza. Nel suo caso la disgrazia è stata integra, dalla nascita fino alla sepoltura; fin dall’inizio è cresciuto come un virgulto in terra arida, fin dall’inizio non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, quindi tutta la sua vita è stata di sofferenza, nella quale ha portato il peso dei peccati degli uomini.
Per questo la liberazione non può essere solo la guarigione da una malattia mortale, o la protezione da un nemico ostile; la liberazione deve riscattare tutta l’esistenza, deve superare la morte stessa, perché solo una liberazione totale può salvare da una disgrazia che è stata totale, radicale e piena.
Tutta la vita di dolore di questo servo è stato un piano di Dio nascosto nel mistero, ma già attivo come salvezza. Il Signore aveva voluto questo piano, lo accettava, e per questo la vita del servo ha avuto un valore grande. Ma ci si accorge di questo solo adesso, dopo la morte, nella glorificazione del Signore: “quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo”. Vuol dire che la sua vita e la sua morte sono state feconde; sembrava un germoglio arido, senza vita, senza pienezza, la sua vita era stata segnata da una morte violenta, ma il Signore lo ha salvato e “vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”. Quindi c’era un progetto positivo, un progetto di salvezza che il servo ha portato a compimento.
“Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità”. La sua passione diventa sorgente di vita e di salvezza per gli uomini. Si è addossato l’iniquità degli uomini e giustificherà molti. “Giustificherà” non vuole dire che scuserà, ma vuole dire che renderà giusti, che trasforma gli uomini, e da egoisti li trasforma in autentici nell’amore, in giusti, in veri, in sinceri. Opera questa trasformazione meravigliosa dell’uomo. “Molti” vuol dire la moltitudine, molta gente, un popolo immenso, che scaturisce, che riceve vita dalla sua passione e dalla sua morte.
“Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché‚ ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Quindi Dio conferma il messaggio con il suo oracolo ed annulla il giudizio umano.
Il giudizio umano ha condannato a morte quest’uomo come colpevole; Dio annulla il giudizio degli uomini dichiarando il servo innocente, anzi l’innocenza del servo renderà innocenti molti uomini. Questi uomini che vengono giustificati, liberati dalla condanna che si sono meritati saranno la preda della sua vittoria, cioè li conquisterà come bottino con il dono della sua vita. Vuole dire che la vita, la passione e la morte di questo servo sono state un intercessione che Dio ha accettato: il suo silenzio è stato in realtà una preghiera accolta da Dio.
Tra i vari compiti del profeta uno dei più significativi è quello di intercedere per il popolo.
E’ il compito che ha esercitato molto bene Mosè: quando il libro dell’Esodo racconta il peccato del vitello d’oro, dell’idolatria al vitello, dice che Dio aveva reagito al peccato di Israele con la volontà di annientare il suo popolo, e rivela questo a Mosè:
“Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché, il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione».
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché, dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre». Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo.”

L’espressione “Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio” è nel testo ebraico tradotta diversamente: Mosè allora accarezzo il Signore suo Dio. E’ un modo un po’ umano di parlare però contiene questa immagine di intimità di Mosè con il Signore, e che lo conduce ad un atteggiamento diverso.
Questa è l’intercessione di Mosè. Proprio perché è amico del Signore si può accostare a Lui, può “accarezzare” il Signore, e può ottenere che Dio cambi il suo atteggiamento.
E’ sempre un modo umano di parlare, però è essenziale per capire come è fatto Dio.
Sempre nel libro dell’Esodo, qualche paragrafo più avanti, c’è una seconda preghiera di Mosè:
“Mosè ritornò dal Signore e disse: «Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Il Signore disse a Mosè: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me. Ora va’, conduci il popolo là dove io ti ho detto. Ecco il mio angelo ti precederà; ma nel giorno della mia visita li punirò per il loro peccato»“.
Vuole dire che Mosè dice al Signore: «E’ vero il popolo ha peccato, ma tu perdonalo; o se non te la senti di perdonarlo annulla, distruggi anche me con il popolo». Allora il Signore si trova davanti a questa scelta: se vuole punire il popolo deve distruggere anche Mosè; se vuole salvare Mosè deve perdonare al popolo. E il Signore scegli di perdonare per amore di Mosè, perché è giusto, perché è un amico docile, obbediente. Questa è l’intercessione.
Il servo di Jahvè intercede. Vuole dire che vive una piena solidarietà con gli uomini e con il loro peccato, e siccome è innocente ottiene la giustificazione di molti, della moltitudine.
Capite che questo quarto canto è importante per l’antico testamento, ma lo è anche per noi perché è una delle chiavi per comprendere la passione del Signore.
Anche la passione del Signore è qualcosa di misterioso e di sorprendente, eppure in questa sofferenza c’è un disegno di grazia, di salvezza.
Ricordate quelle espressioni del Vangelo:
“Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, oppure le parole dell’ultima cena:
“«Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti»“
vengono proprio dal quarto canto del servo di Jahve e sono essenziali per capire la passione del Signore dove Egli porta sopra di sé il peccato degli altri e lo annulla con il suo silenzio, con la sua non-ribellione, con la capacità di coprire il peccato degli uomini con un amore più grande, con una sopportazione più grande.
I discorsi dell’istituzione dell’Eucaristia vengono rapportati al quarto canto;
l’inno della prima lettera a Pietro al capitolo 2° cita varie volte il quarto canto;
i racconti della passione sono anch’essi intrecciati di espressioni che fanno riferimento alla sofferenza del servo.
Vuol dire che quando la comunità cristiana si è interrogata sulla morte di Gesù e si è chiesta il perché, si è chiesta come fosse possibile che Dio abbandonasse il Suo servo, ha cercato la risposta nel quarto canto del servo di Jahvè.
Naturalmente vuole collegato agli altri tre, ma certamente il quarto canto è il principale.
La sofferenza si era già manifestata nel secondo canto, era diventata ampia nel terzo, ma diventa il tema unico del quarto canto.
Costruito in questo modo:
si parte dalla gloria, quindi dalla conclusione;
poi c’è una specie di flashback dove si racconta tutta la storia, dalla nascita alla sepoltura, e anche dopo, alla glorificazione;
ma bisogna arrivare lì perché la Parola di Dio fin dall’inizio ha pronunciato la glorificazione del servo: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”, il resto deve condurre a questo punto.
È evidente che il quarto canto del servo di Jahvè sia un’ottima chiave per capire e comprendere il mistero pasquale.
* Documento non rivisto dall’autore, ma rilevato come amanuense dal registratore, con l’aggiunta dei riferimenti biblici.

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