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IN PRINCIPIO ERA L’ACQUA

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IN PRINCIPIO ERA L’ACQUA

DI ANNA POZZI

Cambiamenti climatici, privatizzazioni, disastri ambientali stanno trasformando un bene primario come l’acqua in una merce contesa e redditizia. Eppure in tutte le grandi religioni essa mantiene una valenza sacra e un forte valore simbolico. Lo stesso papa Benedetto XVI associa l’acqua al diritto primario alla vita. Viaggio ai quattro angoli del pianeta, dove «l’oro blu» sta diventando una risorsa sempre più scarsa e preziosa. E per la cui salvaguardia si mobilitano anche le Chiese.

«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Cielo, terra, acqua. Nel primo versetto della Genesi, Dio crea ciò che sta in principio. Terra informe e deserta, cielo e acqua.
Non diversamente, in molte altre civiltà e religioni, l’acqua sta all’inizio. È principio generatore, origine della vita, elemento primigenio. Per il filosofo greco Talete è all’origine di tutte le cose; nella lingua sumera «a» significa sia «acqua» che «generazione». Per gli indù, il Gange è una dea, mentre per le religioni afroamericane molte divinità sono acquatiche. In Cina l’acqua è all’origine del caos da cui si è generato l’universo, nello scintoismo giapponese viene usata per i riti di purificazione di persone o luoghi. Non diversamente, in molte altre religioni l’acqua è utilizzata nelle abluzioni rituali (ebraismo, islam…) o è simbolo di purificazione e benedizione di Dio (cristianesimo).
«Insieme con tutte le religioni», evidenzia monsignor Karl Golser, vescovo di Bolzano-Bressanone, presidente dei Teologi moralisti italiani, molto sensibile ai problemi ambientali, «la Chiesa cattolica è chiamata a evidenziare e testimoniare attraverso la propria teologia e liturgia i ricchi significati dell’acqua, che è collegata con la vita stessa. D’altra parte, deve poter offrire nella propria dottrina sociale dei principi e dei valori che si rifanno alla natura stessa della persona umana e della società». Nelle Sacre Scritture, fa notare monsignor Golser, «l’acqua è vista come elemento che permette la vita, ma anche come minaccia per ogni vivente. È dono prezioso e scarso in terra arida: purifica e guarisce, disseta l’uomo ed è immagine di Dio che disseta la sete dell’anima. L’acqua ha la forza di spegnere il fuoco, sia in senso materiale che spirituale, ed è simbolo per la vita eterna. Infine, nella liturgia cristiana, l’acqua ha fondamentale importanza, soprattutto per il battesimo. Il battesimo con l’acqua e lo Spirito Santo redime dai peccati e unisce al mistero di Cristo morto e risorto».
L’acqua, dunque, conserva un grande valore simbolico per i cristiani, così come per molte altre culture, religioni e civiltà, ma essa rappresenta anche un bene primario fondamentale e irrinunciabile per la sopravvivenza. Sopravvivenza di popolazioni sempre più numerose, di società sempre più complesse, di ecosistemi sempre più messi a dura prova. Le acque dolci presenti sul pianeta rappresentano solo il 3 per cento del totale (e due terzi sono costituite da ghiacciai e nevi perenni). E la distribuzione non è propriamente uniforme, anzi. Una decina di Paesi concentrano il grosso della disponibilità idrica planetaria: dal Brasile alla Russia, dal Canada al Congo, dagli Stati Uniti all’Indonesia, solo per fare alcuni esempi. L’utilizzo riguarda soprattutto l’uso agricolo (60 per cento), quello industriale (25 per cento) e quello domestico (15 per cento). Ma anche in questo caso non siamo tutti uguali: mediamente una persona avrebbe bisogno di 50 litri di acqua al giorno, ma un abitante degli Stati Uniti ne consuma 425 (un italiano 237), mentre un cittadino del Mali o del Madagascar arriva a mala pena a 10.
Attualmente 1,4 miliardi di persone vivono in una situazione critica per quanto riguarda l’accesso all’acqua potabile, mentre altri 2 miliardi sono al limite della sufficienza. A ciò si aggiunga che 2,4 miliardi di persone non ha accesso ad alcun tipo di intervento in ambito di sanità essenziale e che circa 5 milioni di persone – soprattutto bambini con meno di 5 anni – muoiono ogni anno a causa di queste mancanze. Le più colpite sono inevitabilmente le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, dove persistono condizioni di estrema povertà, con grosse difficoltà di accesso all’acqua. E le previsioni non sono ottimistiche: si stima, infatti, che nell’arco di un ventennio la percentuale degli assetati potrebbe passare dal 25 al 40 per cento della popolazione mondiale.
Persino Benedetto XVI nella recente enciclica Caritas in Veritate ha fatto un preciso riferimento al problema, riconducendo la questione del mancato accesso a cibo e acqua a una dimensione più generale e « alta » di diritto primario alla vita. «Il diritto all’alimentazione così come all’acqua», si legge nell’enciclica, «rivestono un ruolo importante per il perseguimento di altri diritti, a iniziare dal diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni» (n. 66).
«La dottrina sociale della Chiesa», fa notare monsignor Golser, «parla di « ipoteca sociale » che grava su ogni proprietà. Il che vuol dire che la proprietà privata è condizionata dal principio superiore della destinazione universale dei beni della terra e che quindi deve cedere davanti al diritto primario di ognuno di potersi nutrire e dissetare».
Nel caso dell’acqua, non si tratta, tuttavia, solo di un problema di scarsità di risorse idriche. Interessi, speculazioni, sperequazioni stanno spesso dietro alla mancanza di accesso all’acqua o alla cattiva gestione di questo bene. Problemi che si associano alla scarsità di risorse economiche – specialmente nei Paesi in via di sviluppo –, all’incapacità di fornire servizi in ambito sanitario, alla cattiva igiene anche in luoghi pubblici come scuole e ospedali e a una mancanza di educazione e formazione della popolazione. Molte malattie, ad esempio, potrebbero essere evitate se venisse fornito un accesso su vasta scala ad acqua sicura e a servizi sanitari adeguati.
Questa situazione stride fortemente con quello che era stato identificato come uno degli obiettivi prioritari del Millennio: «Dimezzare entro il 2015 il numero delle persone che non hanno accesso a una fonte d’acqua potabile e a servizi igienici adeguati». Obiettivo che, come altri, verrà certamente disatteso. E, infatti, da quando la Dichiarazione del Millennio dell’assemblea generale delle Nazioni Unite venne promulgata nel 2000, la situazione non ha fatto che peggiorare. Anche perché nelle logiche di mercato, l’acqua ha perso via via la sua connotazione di bene primario e fondamentale per essere considerata alla stregua di una merce preziosa e redditizia.
Oggi la situazione è alquanto complessa e molte sono le problematiche legate all’acqua, riconducibili in parte ai cambiamenti climatici, in parte agli interventi dell’uomo. Privatizzazioni, inquinamento dell’acqua e dell’ambiente, industrie e agricoltura intensiva, moltiplicazione delle dighe, aumento del consumo domestico: tutti fattori che hanno ripercussioni sull’ambiente (moltiplicarsi di cicloni e alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, prolungate siccità, innalzamento dei mari…) e aggravano i problemi idrici in molte parti del mondo. Problemi che, sempre più spesso, sono all’origine di conflitti.
Già dieci anni fa, le Nazioni Unite avevano lanciato l’allarme: se il XX secolo è stato quello delle guerre per l’«oro nero» (il petrolio), il XXI sarà il secolo delle guerre per l’«oro blu» (l’acqua). Attualmente, si calcola che nel mondo siano sono in corso una cinquantina di conflitti per il controllo dell’acqua. Inoltre, molti governi « usano » l’acqua come risorsa strategica a supporto dei loro interessi geo-politici ed economici. Da più parti, invece, si chiede che i Paesi approvino una «legge nazionale sull’acqua», ispirata a principi di solidarietà e sostenibilità, affinché una parte non prevalga sull’altra. Ma i concetti di solidarietà e sostenibilità spesso non si coniugano con gli interessi di mercato o con quelli della politica.
Il conflitto tra principi e interessi viene affrontato anche dal Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che afferma: «L’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale» (n. 485). «Il progresso tecnologico e la globalizzazione economica», commenta monsignor Golser, «hanno fatto sì che tutto sembra poter diventare merce, da cui trarre profitto. Per questo, oggi bisogna recuperare il ruolo della politica, al di sopra dell’economia, come servizio al bene comune, guidato da regole di giustizia. E dobbiamo ispirarci agli atteggiamenti del tutto diversi presenti, ad esempio, nei popoli indigeni, che mai hanno cercato di acquistare diritti di proprietà sulle loro terre e acque».
In passato molti popoli, in contesti, culture e religioni diverse, hanno sviluppato tecnologie e stratagemmi per la salvaguardia e la conservazione idrica e hanno fatto dell’acqua uno strumento di pacificazione reale e simbolico in molte situazioni di conflitto. Oggi, invece, l’acqua è sempre più spesso oggetto di contese e di violenze. Lo denuncia con forza anche la scienziata indiana Vandana Shiva, che vi ha dedicato un libro intitolato Le guerre dell’acqua (Feltrinelli 2004). Vi si evidenzia come l’economia globalizzata stia cambiando la definizione di acqua da bene pubblico a proprietà privata. «Più di qualsiasi altra risorsa», sostiene la Shiva, «l’acqua deve rimanere un bene pubblico. L’acqua può essere utilizzata ma non posseduta e in tutta la storia dell’umanità e in culture diversissime è stata gestita come bene pubblico condiviso. Anche in condizioni di scarsità sono nati sistemi sostenibili di gestione dell’acqua con l’impegno per la conservazione di generazione in generazione».
Ecco perché essa rientra tra le tematiche più sensibili e preoccupanti di questo millennio. Anche il vertice del G8 a L’Aquila, lo scorso luglio, ha individuato alcune priorità: gestione delle risorse idriche, investimenti nel settore, piani regolatori internazionali per gli interventi sull’acqua. «Non è possibile negoziare il futuro dell’umanità senza mettere in conto l’acqua», ribadisce con forza Riccardo Petrella, segretario generale del Comitato internazionale per il Contratto mondiale sull’acqua. «Sembra che alcuni Paesi si orientino a proporre che l’acqua faccia parte dell’agenda per il nuovo trattato mondiale. Ne va della pace nel mondo e della sacralità della vita».
In quest’ottica si inserisce anche il missionario comboniano Alex Zanotelli, che ha lanciato un appello a tutte le comunità cristiane e alla Conferenza episcopale italiana, in occasione della quarta Giornata mondiale del Creato, del primo settembre scorso. La Giornata quest’anno era dedicata al tema dell’aria e invitava a riflettere sui danni e le conseguenze dei gas serra e sulla prossima conferenza di Copenaghen del 7 e 8 dicembre. «Non possiamo però dimenticare», scrive padre Zanotelli, «che le conseguenze più serie e devastanti dei cambiamenti climatici concerneranno l’acqua sul piano della disponibilità sia quantitativa che qualitativa».
La critica e la mobilitazione hanno di mira in particolare la legge 133, approvata in sordina dal Parlamento con l’appoggio dell’opposizione, il 6 agosto 2008; l’articolo 23bis del decreto Tremonti 112 stabilisce «il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica». L’obiettivo è quello di «favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici interessati alla gestione di servizi di interesse generale in ambito locale». In sostanza, il decreto obbliga i Comuni a mettere all’asta la gestione delle loro reti idriche e a ridurre la quota del pubblico nella gestione dell’acqua al 30 per cento entro il 2012, spalancando di fatto la strada alla privatizzazione dell’acqua. Peccato che in Italia, già nel 2007, i comitati locali per l’acqua pubblica avessero raccolto 400 mila firme e presentato in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare che tuttavia non ha trovato alcun relatore. Emilio Molinari, presidente del Comitato italiano per il Contratto mondiale sull’acqua, ha chiesto al ministro Tremonti di «scorporare il servizio idrico dalla legge 133 e di aprire una discussione sui servizi di interesse generale (art. 43 della Costituzione) e sulla legge di iniziativa popolare del movimento e inoltre di intervenire con un piano di investimenti pubblici per rinnovare l’intera rete idrica italiana che disperde il 35 per cento dell’acqua».
Il nostro Paese ha un altro primato negativo, quello di essere il maggior consumatore di acqua imbottigliata al mondo, il 65 per cento della quale viene venduta in contenitori di plastica; questo si traduce in ben 9 miliardi di bottiglie all’anno da smaltire. «La Chiesa italiana», ricorda monsignor Golser, «è già intervenuta in più occasioni sul problema dell’acqua, dedicando, ad esempio, la Giornata per la salvaguardia del Creato del 2007 a questo tema. C’è una commissione presso la Cei che si occupa di questi problemi ed è stata creata una Rete interdiocesana nuovi stili di vita, cui aderiscono 24 diocesi, che lavora su tali questioni, cercando di creare una coscienza più diffusa su tutte le tematiche che riguardano l’ambiente e la salvaguardia del Creato».
Anche a livello ecumenico, non mancano le iniziative. Tra i più attivi, ormai dagli anni Ottanta, è il patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, che è proprio all’origine della Giornata mondiale del Creato, cui aderisce anche il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee). I membri del Ccee e della Conferenza della Chiese europee (la Kek, che raccoglie ortodossi, protestanti, anglicani) hanno pubblicato un documento comune al termine del Comitato congiunto di Esztergom, in Ungheria, lo scorso febbraio, in cui si ribadisce che «come europei, abbiamo bisogno di condividere un senso di solidarietà con i più poveri del mondo, che sono le vittime primarie del nostro atteggiamento irresponsabile nei confronti del Creato». Anche nella preparazione della terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu, un paragrafo specifico era stato dedicato al tema «Acqua, fonte di vita», in cui si ribadiva che «l’acqua è un bene comune, non deve essere trasformato in bene commerciabile».
A livello europeo questa sensibilità si è concretizzata nell’Environmental Christian European Network (Ecen), mentre in termini di cooperazione ecclesiale Nord-Sud è particolarmente significativa la Dichiarazione ecumenica sull’acqua come diritto umano e bene pubblico, sottoscritta il 22 aprile 2005 a Friburgo, in Svizzera. Tra i firmatari, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb), il Consiglio nazionale delle Chiese cristiane (Conic) – che riunisce, oltre alla Chiesa cattolica, le principali denominazioni protestanti e ortodosse del Paese sudamericano –, la Conferenza dei vescovi della Svizzera e la Confederazione svizzera delle Chiese evangeliche, il che ne fa un documento di convergenza non solo tra diverse confessioni cristiane, ma anche tra Chiese del Nord e del Sud del mondo.
Un altro esempio positivo in termini di cooperazione tra le Chiese del Nord e del Sud è proprio della scorsa estate: una sorta di gemellaggio all’insegna dell’acqua tra un nutrito gruppo di associazioni francesi di ispirazione cattolica e le popolazioni del bacino del fiume Niger. Grazie a questa iniziativa molti francesi hanno potuto «vivere un’estate in maniera diversa», come recitava lo slogan, con percorsi di sensibilizzazione per «non sprecare questo bene comune fondamentale» e dare una mano a chi è all’asciutto, attraverso la realizzazione di un progetto idrico solidale in Niger. Insomma, anche quando manca, l’acqua continua a far bene.

Giuseppe Altamore

LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

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LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI

DI GIANFRANCO RAVASI

Maestri nella lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si rapportano alla Parola di Dio.
Il 21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in 1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più « giudaico » sia per rimandi a situazioni concrete (anche polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63 sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca anche la memoria del « biblista » san Girolamo che non solo si dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro versione in latino la missione principale della propria vita, andando persino a lezione di ebraico da un rabbino.
Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo naturalmente ricorrere a una terminologia « tecnica » piuttosto specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.
Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti» alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle « pericopi », cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità giudaica.
Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico, quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi» ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’, «lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm, cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene, quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).
La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però «muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.
L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah, «narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).
A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso» (in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo, quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».
Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca medievale.
Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima densità spirituale della pagina scritta.
Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu dato da un movimento « laico » come quello sionista, ma è presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico, abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su queste stesse pagine, parlando degli « Ebrei messianici »).
Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare « Nostra Aetate n. 4″, proposti nel 1974 dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa».

 

IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE (anche Paolo)

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IL VANGELO DELLA PACE NELLE SCRITTURE EBRAICO-CRISTIANE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 17 GENNAIO 2004

L’espressione « vangelo della pace » si trova in Paolo nella lettera agli Efesini: è la lieta notizia della pace, annunciata e realizzata da Dio stesso.
La parola pace ha molti significati, sia nel mondo biblico che in quello greco-romano.
Può anzitutto indicare una condizione in cui il popolo si trova, negativamente la condizione in cui non c’è guerra, positivamente la condizione di benessere, soprattutto materiale.
Può avere un significato collettivo, indicando rapporti buoni tra i popoli e tra i gruppi.
Nella tradizione biblica è presente la concezione della pace come rapporti buoni tra l’umanità e Dio e della pace come salvezza.
Meno presente è la concezione di pace come serenità d’animo, o come rapporti interpersonali buoni.
ubi desertum faciunt pacem appellant
L’anelito alla pace emerge anche nel mondo greco romano. Nel 9 a.C. Augusto, sconfitti i nemici, inaugura un’era di pace e fa costruire l’Ara pacis, l’altare alla dea della pace. Era una svolta per una città, Roma, la cui divinità principale era Marte, il dio della guerra.
Nel frattempo, Tacito, molto critico nei confronti della politica imperiale afferma con ironia che i romani fanno deserto della terra e la chiamano pace (ubi desertum faciunt pacem appellant).
pace e sicurezza
Stupefacente la modernità di alcuni testi scritturistici antichi. Paolo, nel più antico scritto neotestamentario, chiama figli della luce i membri della piccola comunità di Tessalonica che vivevano in un contesto molto ostile, mentre sostiene che per la stragrande maggioranza, che si illude di vivere nella pace e nella sicurezza, sarà la rovina: Quando dicono pace e sicurezza allora all’improvviso verrà su di loro la rovina…
la pace nella bibbia ebraica

Verranno presi in esami alcuni testi profetici.
Geremia
È un profeta dalla parola molto libera, osteggiato dal potere politico, ma anche da altri profeti, suoi avversari, che dicevano pace: dicono pace, pace, ma pace non è (8,11). Pace è utilizzato in senso negativo, come legittimazione di una situazione esistente ingiusta. O si cambia o non ci sarà pace, dice il profeta. In un altro brano Geremia afferma che Dio coltiva pensieri di pace (29,11).
Isaia
In Isaia 52,7 appare la categoria del vangelo della pace, del lieto annuncio da parte del profeta dell’esilio (l’attuale libro di Isaia è composto di almeno tre distinti testi di diversi autori): Come sono belli i passi dell’evangelista, del lieto annunciatore, che proclama la pace.
In Isaia 9,1-5, nel libro dell’Emmanuele che contiene gli oracoli del grande Isaia, si presenta l’ideologia regale del principe di pace. Dio dona la pace attraverso l’azione umana del principe, che instaura una pace senza fine, fondata sulla giustizia. La giustizia del re è una giustizia molto particolare, diversa da quella dei tribunali, ed è volta a rendere giustizia a chi giustizia non ha, a prendere le difese dei deboli.
L’anelito alla giustizia è il grande portato di Israele all’umanità.
Questa azione giusta del re è ampiamente descritta al capitolo 11: giudicherà con giustizia i poveri e emetterà sentenze giuste a favore dei miseri del paese.
Questa pace fondata sulla giustizia si estende a tutto il cosmo, a tutto il mondo creato: il lupo dimorerà presso l’agnello / e la tigre si accovaccerà accanto al capretto / il vitello e il leone pascoleranno insieme / e un bambino piccolo li condurrà…
Sulla stessa linea è il testo di Isaia 2,1-5, in cui si sogna il grande pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. La pace diventa pace universale.
Zaccaria
Un testo famoso di Zaccaria, utilizzato anche da Matteo per illustrare Gesù messia pacifico, indica il re che entra a Gerusalemme cavalcando un asino. È la cavalcatura utilizzata in occasioni di pace.
la pace nel nuovo testamento

Nelle lettere di Paolo il saluto è: « grazia e pace », cioè vi auguro il dono della pace.
Romani 5,1: pace come salvezza
« …abbiamo pace nei confronti di Dio… » Paolo dopo aver detto che la lieta notizia è che Dio accoglie in modo indiscriminato tutti sulla base della fede, afferma che, sempre come dono di grazia, abbiamo un buon rapporto con Dio.
Romani 5,11: pace come riconciliazione
Paolo usa il termine riconciliazione in senso religioso: Dio ci ha riconciliato.
Dio non ha bisogno di essere riconciliato, al contrario di quanto sosteneva la religione romana tutta intenta a placare la ira Deum (l’ira degli dei) con riti e preghiere. C’era una concezione minacciosa del divino, che appare anche nella tradizione ebraica recente, come nel libro dei Maccabei. Paolo dice che è Dio a vincere la nostra distanza da lui.
Giovanni e Luca: pace come dono
Il Pace a voi del Cristo risorto nel vangelo di Giovanni, come il pace in terra agli uomini che sono oggetto della benevolenza divina di Luca (2,14) indicano la pace come dono di Dio. Dio ha donato la pace agli uomini sulla terra.
Matteo: la pace interpersonale
La beatitudine in Matteo 5,9: beati i creatori di pace, saranno chiamati figli di Dio. Nel rabbinismo, a cui Matteo è vicino, emerge il significato di pace interpersonale, di pace come riconciliazione tra persone.
Anche in Matteo 5,23: Se ti avviene di presentare il tuo dono all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti…La comunione con Dio, espressa nel culto che si celebra, non avviene se due persone non sono in comunione tra loro.
Efesini 2: nella croce crollano i muri di separazione
È una lettera della scuola di Paolo, in cui si afferma che la chiesa universale è il luogo dove gli opposti si sono riconciliati. Nel mondo di allora c’erano molte divisioni. I greci distinguevano le persone tra greci e barbari (quelli che non parlavano greco). I romani tra romani, greci e tutti i barbari.
Anche nel mondo ebraico c’era una grande divisione di tipo religioso dell’umanità: gli incirconcisi (la maggioranza, 70 milioni di persone) e i circoncisi (la consistente minoranza di ebrei, 6 milioni di persone). Queste due parti si disprezzavano cordialmente (anche Gesù parla di « cagnolini » riferendosi alla Cananea). I non ebrei disprezzavano gli ebrei, accusati di ogni tipo di nefandezze (uccisioni rituali…)
…Ma ora in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini mediante la morte violenta di Cristo. Egli infatti è la pace. Lui che ha fatto le due parti le ha ridotte ad unità. Ha sbriciolato questa parete che sta in mezzo e che separa. Cioè l’inimicizia l’ha distrutta mediante la sua carne, ha reso inoperante la legge mosaica dei comandamenti che si esprime nei precetti.
Gesù toglie le radici del conflitto, cioè la legge mosaica. La legge mosaica era il segno della separatezza: privilegio per chi la possedeva e handicap per gli altri.
Paolo dice che gli ebrei possono tenersi la legge, ma questa non può essere il motivo della identità del credente.
Le diversità non sono annullate, ma sono depotenziate. Le diversità (essere circoncisi o incirconcisi) non sono più elemento separatore. Il muro è abbattuto.
Egli è venuto ad annunciare, a dare la lieta notizia della pace, a voi che eravate lontani e pace a voi che eravate i vicini, perché mediante lui noi abbiamo questa entratura in un solo Spirito presso l’unico Padre.
La legge non è più la carta di identità dell’uomo.
Dietro questo testo c’è la teologia di Paolo, cioè la grazia incondizionata di Dio verso gli uni e verso gli altri e la giustificazione sulla base della sola fede, senza la legge. Giudei e non giudei sono su di un piede di parità nei confronti del vangelo della pace, del vangelo della riconciliazione.
Mentre la comunità di Gerusalemme, capitanata da Giacomo, il fratello di Gesù, era aperta al mondo pagano, a patto che si giudaizzasse, accettando la circoncisione, e mentre la comunità di Antriochia era composta anche da gentili a cui si chiedeva di osservare i precetti della legge, Paolo proclama la libertà dalla legge, non solo nella pratica ma anche attraverso una giustificazione, una riflessione.
i muri di separazione oggi
Anche oggi occorre saper far risuonare l’antica lieta notizia del vangelo di pace individuando quali sono i muri di separazione di cui annunciare l’abbattimento. Oggi la grande divisione non è più tra circoncisi e incirconcisi, ma tra nord e sud del mondo.
La lieta notizia per i deprivati, per gli esclusi, per i lontani di oggi ha come punto di riferimento remoto il Cristo in croce che viene a chiamare su di un piede di parità alla salvezza, e come punto di riferimento prossimo Paolo che ha annunciato e operato l’abbattimento del muro di separazione tra circoncisi e incirconcisi.
A noi spetta il compito di individuare il muro di separazione di oggi e di annunciarne anche fattivamente l’abbattimento, proclamando così la lieta notizia, il vangelo della pace.

LA GIOIA CRISTIANA (anche Paolo)

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LA GIOIA CRISTIANA

(Pedron Lino)

Indice:
Dobbiamo rivestirci della gioia cristiana
Dov’è e che cosa è la gioia cristiana
Dio è la nostra gioia
La gioia cristiana
La gioia cristiana dono dello Spirito
Conclusione

DOBBIAMO RIVESTIRCI DELLA GIOIA CRISTIANA
La gioia è il dono che il cristianesimo ha fatto al mondo. Tutto il nostro essere è fatto per la gioia. « Non si può trovare uno che non voglia essere felice » (s. Agostino). « Norma suprema di condotta, criterio discriminante del bene e del male è la felicità: uno fa bene quando tende alla felicità, fa male quando tende a metterla in pericolo; ha diritto a tutto ciò che è necessario per arrivare alla felicità ed ha il dovere di fare tutto quello che occorre a tale scopo » (G. B. Guzzetti). Ma c’è anche un falso modo di intendere la gioia. « Non è certo che tutti vogliano essere felici; poiché chi non vuole avere gioia di Te, che sei la sola felicità, non vuole la felicità » (s. Agostino).
Nonostante le deviazioni possibili e facili per l’uomo storico, la gioia è richiesta dalla natura stessa dell’uomo, è un suo bisogno, è un suo diritto.
Quel che è vero per ogni uomo lo è a maggior ragione per il cristiano. Egli deve avere la sua tipica gioia, ed essa è per lui un dovere. Deve cercarla con impegno senza darsi per vinto finché non l’abbia trovata.
Il dovere della gioia nelle Scritture
« Possa tu avere molta gioia! » è il saluto rivolto dall’angelo a Tobia (Tb 5,11). E il Siracide aggiunge: « Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri. La gioia del cuore è la vita per l’uomo, l’allegria di un uomo è lunga vita! (Sir 30,22-23). « Dio ama chi dona con gioia » (Sir 35,11; 2Cor 9,7).
Gesù insiste molto sulla gioia: « Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » (Gv 15,11). Prega per i suoi discepoli « perché abbiano in se stessi la pienezza della sua gioia » (Gv 17,13). Si premura di assicurarli che la loro tristezza per la sua passione e morte si cambierà in gioia quando lo vedranno risuscitato e glorioso: « Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia… Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia » (Gv 16,20-23). Li esorta a pregare il Padre per provare la gioia di essere esauditi: « Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena » (Gv 16,24). Gesù si esprime con tenerezza e con forza perché chi lo segue comprenda che la proposta di vita cristiana, che passa attraverso la croce, ha come sfondo e traguardo la gioia. È terribilmente falsa la presentazione del cristianesimo come « nemico della gioia » (Anatole France) o « maledizione della vita » (Nietzsche). San Paolo esorta i cristiani a conservare sempre e ovunque la gioia: « Fratelli miei, state lieti nel Signore » (Fil 3,1); « Rallegratevi nel Signore; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini » (Fil 4,4-5); « Il regno di Dio… è giustizia, pace, e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17), E l’apostolo giustifica questa sua insistenza sulla gioia del cristiano appellandosi proprio alla volontà di Dio: « State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
Il cristiano deve essere gioioso perché lo Spirito di Dio produce in lui la gioia: « Il frutto dello Spirito è amore, gioia… » (Gal 5,22). Illuminata dalla parola di Dio e dalla sua grazia, la vita dei cristiani diventa una festa: essi sono davvero la Pasqua del mondo.
La tradizione del pensiero cristiano
Gli Atti degli apostoli descrivono così i primi cristiani: « Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo » (At 2,46-47).
Tra i primi testi cristiani, il Pastore di Erma ci regala questa stupenda pagina: « Caccia da te la tristezza perché è sorella del dubbio e dell’ira. Tu sei un uomo senza discernimento se non giungi a capire che la tristezza è la più malvagia di tutte le passioni e dannosissima ai servi di Dio: essa rovina l’uomo e caccia da lui lo Spirito Santo… Armati di gioia, che è sempre grata ed accetta a Dio, e deliziati in essa. L’uomo allegro fa il bene, pensa il bene ed evita più che può la tristezza. L’uomo triste, invece, opera sempre il male, prima di tutto perché contrista lo Spirito Santo, fonte all’uomo non di mestizia ma di gioia: in secondo luogo perché tralasciando di pregare e di lodare il Signore, commette una colpa… Purificati, dunque da questa nefanda tristezza e vivrai in Dio. E vivranno in Dio quanti allontanano la tristezza e si rivestono di ogni gioia » (Pastore di Erma. Decimo precetto).
San’Ignazio di Antiochia in viaggio verso Roma dove morì martire nel 107 d. C. scrive ai Romani: « È bello tramontare al mondo per il Signore e risorgere in Lui… Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio… Potessi gioire delle bestie per me preparate e mi auguro che mi si avventino subito ».
Il vescovo san Policarpo (+155) nell’affrontare il martirio « era pieno di coraggio e allegrezza e il suo volto splendeva di gioia » (Martirio di Policarpo. XII, 1).
I Padri del deserto e i dottori della Chiesa d’Oriente ponevano come ottavo vizio capitale la tristezza peccaminosa che è l’opposto della gioia cristiana.
San Nilo l’Antico scriveva: « La dolcezza dello spirito nasce dalla gioia mentre la tristezza è come la bocca del leone che divora l’uomo malinconico » (Detti dei padri del deserto).
La gioia è dunque un dovere per il cristiano: « È necessario che chiunque voglia progredire abbia la gioia spirituale » (s. Tommaso d’Aquino). Perciò è certo che il cristiano deve cercare la sua gioia, deve possederla. Nel fare questo non solo non pecca, ma compie giustamente la volontà di Dio. E appare nel mondo come l’uomo veramente realizzato mentre egli stesso si accorge quanto sia beata la sua condizione paragonata a quella di coloro che si dibattono disperatamente nella condizione del non-senso della vita.

DOV’È E CHE COS’È LA GIOIA CRISTIANA
La gioia dell’amore di Dio
« La gioia è causata dall’amore » (s. Tommaso d’Aquino). Gioia e amore camminano insieme. Chi non ama non può essere gioioso. La gioia è assente dove sono presenti l’egoismo e l’odio. La disperazione nasce dall’assenza dell’amore.
La gioia cristiana è una ridondanza dell’amore di Dio: non è una virtù distinta dall’amore, ma è un’effetto dell’amore. Questa precisazione non è inutile, ma indispensabile e fondamentale perché ci svela il motivo del fatto che molti cercano la gioia e non la trovano. Essi la cercano invano perché pensano che essa sia reperibile per se stessa. La gioia non ha consistenza in se stessa: ha la sua sorgente nell’amore, è un raggio dell’amore. E la sorgente dell’amore è Dio: « Dio è amore » (1Gv 4,8).
La gioia spirituale
« La gioia piena non è carnale, ma spirituale » (s. Agostino). Tutto ciò è verissimo perché la gioia cristiana è una gioia di Dio, una gioia che è frutto dello Spirito di Dio che abita in noi (Gal 5,22). Tuttavia la gioia cristiana afferra, promuove, illumina e intensifica le diverse gioie dell’uomo. Così si hanno le gioie della verità, del cuore, della bellezza, dei ricordi, delle attese, ecc. La gioia spirituale ha un riverbero esteriore che illumina tutto l’essere umano, lo rende amabile e affascinante. Fa del cristiano un bagliore visibile della Bellezza invisibile, una manifestazione concreta dell’uomo risolto in positiva armonia, e una attrazione sicura per tutti coloro che ancora camminano nel buio della tristezza e dell’inquietudine.

DIO È LA NOSTRA GIOIA
La gioia di Dio nell’Antico Testamento
L’AT è un preludio alla gioia cristiana. « Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio » (Is 61,10). Il pio israelita ha motivi molteplici per esultare nel suo Dio.
1 – Il primo motivo viene dall’alleanza per cui Israele è popolo eletto, scelto per un amore singolare, sicché sente Dio come il « suo Dio » e si sente popolo appartenente a Lui: « Tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (Dt 7,6-8). « Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi, e non vi respingerò. Camminerò in mezzo a voi, sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta » (Lv 26,11-13). Dio ama il suo popolo « di un amore eterno » (Ger 31,3) di un amore « forte come la morte » (Ct 8,6), di un amore tenerissimo come quello di una madre per il suo bambino (Is 49,15) e come quello di un padre verso il proprio figlio primogenito (Es 4,22). Da questa alleanza e da questo rapporto d’amore scaturisce la gioia. « Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano » (Sal 40,17). « Acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza… Varcate le sue porte con inni di grazie, e i suoi atri con canti di lode, lodatelo, benedite il suo nome; poiché buono è il Signore, eterna la sua misericordia, la sua fedeltà per ogni generazione » (Sal 100). Dio stesso chiede al suo popolo di essere gioioso: « Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza » (Ne 8,10). Il pio Israelita sente di conseguenza l’enorme gioia che gli viene dal suo Signore e prova un’estatica allegrezza, frutto della gioia di sentirsi amato.
2 – Un secondo motivo della gioia d’Israele è la potenza del suo Dio: « Tu sei il Signore, il Dio d’ogni potere e d’ogni forza e non c’è altri fuori di te, che possa proteggere la stirpe d’Israele » (Gdt 9,14). Questa potenza si manifesta in tutta la storia del popolo eletto ed esso vi si abbandona, liberato da ogni paura e sicuro dell’aiuto divino. Perciò ne gioisce (Es 15; Sal 126).
La potenza di Dio creatore fa esultare di gioia le sue creature: « Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie, esulto per l’opera delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! » (Sal 92,5-6). I cantori ispirati del popolo eletto invitano tutta la creazione a partecipare al loro stato d’animo: « Gioiscano i cieli, esulti la terra, frema il mare e quanto racchiude; esultino i campi e quanto contengono, si rallegrino gli alberi della foresta davanti al Signore che viene » (Sal 96,11-13).
La potenza del Signore è anche potenza che protegge il suo popolo e provvede alle sue necessità: « Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero. Lo fece montare sulle alture della terra e lo nutrì con i prodotti della campagna; gli fece succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia; crema di mucca e latte di pecora insieme al grasso di agnelli, arieti di Basan e capri, fior di farina di frumento e sangue di uva, che bevvero spumeggiante » (Dt 32,10-14). Per questo motivo Israele deve avere la gioia che Dio esige come segno dell’amore corrisposto; altrimenti Dio metterà il suo popolo alla prova: « Poiché non avrai servito il Signore tuo Dio con gioia e di buon cuore in mezzo all’abbondanza di ogni cosa, servirai i tuoi nemici che il Signore manderà contro di te, in mezzo alla fame, alla sete, alla nudità e alla mancanza di ogni cosa » (Dt 28,47-48).
La potenza di Dio è anche una potenza che salva dalla schiavitù d’Egitto e in tutti i momenti della storia successiva. L’amore salvante diviene un nuovo incitamento a gioire: « Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio mio salvatore » (Ab 3,18). Una salvezza che non solo afferra la storia, ma il cuore dell’uomo. Dio trasforma il loro cuore di pietra in un cuore di carne (Ez 36,26) e così una nuova gioia nascerà in loro: « Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento » (Sal 4,8).
Infine la potenza di Dio è una potenza che perdona con innamorata longanimità: « Egli perdona tutte le tue colpe… Non ci tratta secondo i nostri peccati… Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di chi lo teme. Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Sal 103,3-14).
E la commozione di questa misericordia che perdona è nuovo motivo di gioia per Israele: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato… Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve. Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato… Rendimi la gioia di essere salvato » (Sal 51,1-14).
3 – Un terzo motivo di gioia per Israele è la presenza di Dio nel tempio e la sua legge. Dio stesso dice a Isaia: « Si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, e farò di Gerusalemme una gioia, e del suo popolo un gaudio » (Is 65,18). Gerusalemme infatti « è la gioia di tutta la terra » (Sal 48,3), è la città dell’arca dell’alleanza e del tempio, casa dell’Eterno, santa dimora di Dio che fa trasalire di gioia quanti la amano: « Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate. Sfavillate di gioia con essa voi tutti che avete partecipato al suo lutto. Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni; succhierete, deliziandovi, all’abbondanza del suo seno. Poiché così dice il Signore: « Ecco io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la prosperità; come un torrente in piena la ricchezza dei popoli; i suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come erba fresca » (Is 66,10-14). Per gli ebrei non ci sarà più gioia senza Gerusalemme. E la tristezza della lontananza da essa è espressa meravigliosamente nel salmo 137.
Insieme con la gioia della città santa di Dio, scaturisce la gioia delle feste che in essa si celebrano (Sal 100). La festività religiosa che mette il popolo eletto in comunicazione particolare col suo Dio, sarà sempre tripudio di gioia: « Gioirai davanti al Signore tuo Dio tu, tuo figlio, tua figlia, il levita che sarà nelle tue città e l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te » (Dt 16,11).
Israele canta la sua gioia per la legge del Signore: « Beato l’uomo… che si compiace della legge del Signore e la sua legge medita giorno e notte » (Sal 1,2). Il salmo 119 è un grandioso elogio della legge divina: « Nel seguire i tuoi ordini è la mia gioia più che in ogni altro bene » (v. 14); « Mia eredità per sempre i tuoi comandamenti, sono essi la gioia del mio cuore » (v. 111); « Io gioisco per la tua promessa, come uno che trova un grande tesoro » (v. 162); « Desidero la tua salvezza, Signore, e la tua legge è tutta la mia gioia » (v. 174).
Abbiamo accennati alcuni temi della gioia di Dio nell’AT. Giustamente il salmista parla del « Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4) e canta: « Con voci di gioia ti loderà la mia bocca… Esulto di gioia all’ombra delle tue ali » (Sal 63,6-8). Veramente davanti al volto di questo Dio il nostro gaudio deve risuonare costantemente: « Beato il popolo che ti sa acclamare e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto: esulta tutto il giorno nel tuo nome, nella tua giustizia trova la sua gloria » (Sal 89,16-17). È il Signore che ci indica la via della gioia piena e della dolcezza senza fine: « Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sal 16,11). Il timorato amante di Dio esorta tutti a lanciare grida di gioia all’Eterno: « Acclami al Signore tutta la terra, gridate, esultate con canti di gioia. Cantate inni al Signore con l’arpa, con l’arpa e con suono del corno acclamate davanti al re, il Signore. Frema il mare e quanto racchiude, il mondo e i suoi abitanti. I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne davanti al Signore che viene » (Sal 98,4-9).
Mirabile estasi di tutto Israele, del mondo e dei suoi abitanti per il Dio della gioia!
La gioia di Dio nel Nuovo Testamento
Quello che abbiamo contemplato nella storia d’Israele riguardo alla gioia, non è che l’ombra di ciò che è la gioia di Dio nella vita cristiana.
Questa nuova gioia di Dio ha questi luminosi capisaldi:
1 – L’alleanza dell’AT cede il posto alla nuova alleanza nel sangue di Cristo per cui Dio non stringe con noi solo un patto esterno, ma viene ad abitare dentro di noi. E questo Dio è ormai, con esplicita e piena rivelazione, il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, la Trinità che inabita nel cristiano. « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui » (Gv 14,23). « Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di Dio è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito… Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio… Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1Gv 4,12-16). « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? » (1Cor 6,19). « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16).
La nuova alleanza raggiunge così il più mirabile scambio dell’amore fra Dio e noi sulla terra, la più intensa presenza di Colui che amiamo in noi. In questa singolare presenza del nostro Bene infinito, l’esperienza dell’amore raggiunge termini meravigliosi e la gioia nuova che ne scaturisce è inesprimibile. A maggior ragione per il cristiano, rispetto al pio israelita, Dio è più decisamente il « suo Dio ». L’amore di Dio raggiunge la sua pienezza nel farci « partecipi della natura divina » (2Pt 1,4) e suoi figli adottivi (Gal 4,5) così che siamo chiamati e siamo veramente figli di Dio (1Gv 3,1). Nessuno più di noi ha conosciuto il cuore del Padre chino amorevolmente su di noi. Nessuno più di noi può conoscere la gioia profonda che nasce da un simile patto nuovo per cui Dio è in noi e noi in Dio. Perciò molto più a ragione che tutti i profeti e gli amici del Dio dell’AT, san Paolo può dirci: « Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi » (Fil 4,4).
L’immagine gioiosa del matrimonio usata nell’AT per esprimere la delicatezza e l’intimità d’amore fra Israele e Dio, acquista nel NT un valore più significativo e più consistente e introduce in forme impensate di intimità che fanno scaturire gioie inimmaginabili. Così si esprimono i mistici feriti dalla piaga d’amore del loro Dio che li abita e li trasforma. Quell’alleanza inaugurata nell’AT che dava tanta gioia a Israele, approda, nel NT, al suo termine definitivo. « Lo sposalizio di Dio con il genere umano si realizza nello stesso essere di Gesù allorché, incarnandosi, il Verbo si fa capo dell’umanità redenta… Il mistero dell’alleanza entrato nella storia imperfettamente attraverso l’AT, diventa perfetto con l’Incarnazione e la sua ultima conseguenza, la Croce » (Grelot).
2 – La gioia cristiana è ancora appoggiata alla potenza di Dio che nel NT manifesta le sue opere più meravigliose. La potenza divina, che ha assistito tutta la storia d’Israele, si manifesta maggiormente « nella pienezza dei tempi » quando la « liberazione » acquisisce il senso interiore e soprannaturale della redenzione attuata. Qui la nostra gioia scaturisce dal senso della trasformazione operata in noi da Dio per Cristo, con Cristo e in Cristo. Con tale trasformazione acquistiamo un modo nuovo di intendere e di sperimentare la potenza di Dio. Siamo diventati in Cristo una nuova creatura (2Cor 5,17), abbiamo rivestito l’uomo nuovo (Col 3,10): Dio che ci aveva così mirabilmente creati, ci ha « ricreati » ancora più mirabilmente. Di conseguenza abbiamo anche una nuova visione di tutta la creazione: « La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rm 8,19-21). In tale visione delle cose c’è una nuova ragione per essere sempre pieni di gioia. La potenza di Dio attua il disegno di salvezza in Cristo e così il cristiano ha la gioia di sperimentare un amore che si piega verso di lui fino a risolvere il dramma doloroso e triste della solitudine dell’uomo: « È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati » (Col 1,13). Dio non ci libera solo da schiavitù esterne e da nemici esteriori, ma dal Maligno e dal peccato. E il Padre compie tutto questo mandando il Figlio, espressione massima dell’amore di Dio per noi: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui » (Gv 3,16-17). Non c’è motivo più grande di questo per la nostra gioia: scoprire la tenerezza dell’amore di Dio rivelatosi a noi in Cristo.
Dio manifesta la sua onnipotenza soprattutto nel perdonare e nell’usare misericordia. L’incarnazione del Verbo è la misura più impensabile della volontà di perdono da parte di Dio. Il nome Gesù è un programma; significa « Dio salva »: « Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21).
3 – La gioia del NT ha infine la sua beatificante novità nella nuova presenza di Dio-Amore in noi. Il tempio di Dio non è più Gerusalemme, ma l’uomo dove Egli abita, in comunione di amore con lui. La nostra gioia è più reale, più intima, più estasiante: « Noi siamo il tempio del Dio vivente » (2Cor 6,16). La prova più alta dell’amore di Dio sulla terra sta in questa misteriosa, ma reale inabitazione. Dice s. Agostino, commentando la Scrittura: « Siate giocondi, o giusti. Già, forse, i fedeli udendo: siate giocondi, pensando ai conviti, preparano i bicchieri, aspettano il momento di coronarsi di rose… Stai attento a quel che segue: nel Signore… Tu aspetti la primavera per far allegria; la tua gioia è nel Signore, egli è sempre con te, e non in una sola stagione; lo hai di notte, lo hai di giorno… da lui ti verrà sempre la gioia ». E ancora: « E la nostra società sia con Dio Padre, e in Gesù Cristo Figlio di Lui. E questo, dice san Giovanni, ve lo scriviamo, affinché la vostra gioia sia piena. Dice che la gioia sia piena in quella società, in quella carità, in quella unità ». E infine: La vita beata è proprio questa: godere tendendo a Te, godere di Te, godere a causa di Te; questo e non altro. Quelli che credono che ce ne sia un’altra, vanno dietro ad un’altra gioia e non a quella vera. Ed anche allora la loro volontà sta attaccata ad una certa immagine di gioia ».
Sull’antica legge perfezionata, spunta come culmine della novità cristiana, il comandamento nuovo: « Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34). Il NT è tutto investito dall’amore, respira nell’amore e nell’amore si risolve. Il frutto immediato della presenza di Dio nei giusti è, insieme all’amore, la gioia (Gal 5,22). Di conseguenza si capisce la novità della gioia della festa nel nuovo culto di Dio dopo la redenzione. La gioia non nasce più da un tempio di pietre, ma nel comunicare con l’innamorante mistero della morte e risurrezione di Cristo, con la Pasqua eucaristica, con il giubilo universale per la salvezza, con Dio Trinità, tutto amore, beatitudine e sollecitudine per l’uomo, contemplato in terra attraverso la fede. Dio è veramente « il Dio della mia gioia e del mio giubilo » (Sal 43,4). Lo cercheremo allora, costantemente, con l’atteggiamento dei salmi: « Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo » (Sal 9,3). « Esulterò di gioia per la tua grazia » (Sal 31,8).

LA GIOIA CRISTIANA
La gioia attraverso Cristo
La gioia cristiana, per essere tale, deve passare attraverso Gesù Cristo. La gioia di Dio si ottiene per la mediazione del Verbo incarnato: egli è la strada della nostra gioia. È lui che ci fa conoscere più pienamente Dio; è lui che ci permette di gioire della verità; è lui che ci comunica la vita divina. L’incarnazione è la più grande rivelazione del mistero di Dio nascosto e invisibile. Così la gioia dell’invisibile Dio passa per la gioia di Cristo, Dio fatto uomo e visibile ai nostri occhi. « Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14); « Noi abbiamo udito, noi abbiamo veduto con i nostri occhi, noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita, » (1Gv 1,1). È attraverso l’umanità del Verbo incarnato che proviamo il giubilo della gloria divina manifestata a noi. Per arrivare alla contemplazione di Dio-Trinità dobbiamo passare attraverso la contemplazione insistente dell’umanità di Gesù salvatore e delle sue santissime piaghe.
Gesù Cristo è veramente la strada obbligata della gioia cristiana.
a nostra gioia da Cristo
È veramente meraviglioso vedere come Cristo genera in noi la sua gioia e come questa si espande dentro di noi: essa è immediatamente sentita come qualcosa che promana da Lui. Ricordiamo alcune testimonianze esplicite per capirlo. La prima epifania gioiosa del Cristo la si ha quando il saluto di Maria, che porta il Salvatore nel suo seno, raggiunge Elisabetta: Giovanni Battista esulta di gioia nel seno di lei (Lc 1,44).
Alla natività di Cristo l’angelo annunzia ai pastori « una grande gioia » (Lc 2,10). Quando i Magi vedono nuovamente la stella che li conduce a Cristo « provano una grandissima gioia » (Mt 2,10). Zaccheo riceve Gesù nella sua casa « pieno di gioia » (Lc 19,6). Nel giorno dell’ingresso messianico in Gerusalemme « tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto » (Lc 19,37). E questi sono solamente alcuni degli episodi di gioia suscitata dalla presenza di Cristo nel vangelo. Ma vogliamo segnalare distintamente le principali ragioni che costituiscono la trama essenziale della nostra gioia riguardo al Redentore divino, seguendo i misteri della sua vita sul dettato della rivelazione.
1 – C’è la gioia dell’attesa. Gli annunzi profetici del Salvatore sono carichi di parole gioiose e di trasalimenti di felicità. « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda… Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine » (Is 9,1-6; cfr. Mt 4,14-15 e liturgia del Natale). « Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro di asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra » (Zc 9,9-10; cfr Mt 21,1-7). Ma la gioia profetica è stata preceduta già dalla gioia dei patriarchi. E lo dirà Gesù stesso: « Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò » (Gv 8,56).
2 – C’è la gioia dell’Incarnazione e del Natale. Annunziata dall’angelo (Lc 2,10), scoperta dai pastori (Lc 2, 20) e dai magi (Mt 2,10), manifestata dal vecchio Simeone e dalla profetessa Anna (Lc 2,25-38). La gioia per la venuta di Cristo ha una molteplice motivazione. È innanzitutto la gioia per l’opera più grande compiuta da Dio: l’unione della natura divina e della natura umana nell’unica persona del Figlio di Dio. Per questo mirabile mistero san Giovanni Crisostomo ha detto: « Colui che è, viene nel mondo, colui che è, diventa ciò che non era: essendo Dio, infatti, ecco che si fa uomo, ma non cessa per questo di essere Dio, si fa uomo senza che la divinità subisca mutamento, né è da credere che egli essendo uomo, sia diventato Dio per successive approssimazioni. Si è fatto carne restando ciò che era: il Verbo, e senza che la sua propria natura si sia modificata ». Come non essere nella gioia profonda considerando questo singolarissimo avvenimento a cui ha preso parte tutta la santissima Trinità, mostrando un amore infinito? Questo avvenimento è il centro di tutta l’opera di Dio, ci fa vedere Dio con noi, che diventa uno di noi; rende visibile l’Amore e la Verità; esso realizza le nozze del Verbo con la natura umana, con l’umanità. Dice sant’Agostino: « Nel seno della Vergine si sono uniti lo sposo e la sposa, il Verbo e la carne, perché il Verbo è lo sposo e la carne umana la sposa, e queste nature formano un solo Figlio di Dio, un solo e medesimo figlio dell’uomo… Quando il Figlio di Dio è uscito come uno sposo dal letto nuziale, ossia dal seno verginale di Maria, era già unito con una ineffabile alleanza alla natura umana ». Per questo i Padri della Chiesa dicono che nell’incarnazione « c’era in Cristo Gesù tutta l’umanità » (s. Cirillo di Alessandria) e che egli « assume in sé tutta la natura umana » (s. Ilario) per portarla tutta al Calvario (s. Cipriano), risuscitarla (s. Gregorio di Nissa) e salvarla. L’incarnazione del Verbo è una specie di concorporazione di tutti gli uomini in Cristo (s. Ilario): l’inizio del corpo mistico di Cristo nel quale tutti gli uomini sono invitati ad entrare come membra vive. Il tema dello sposalizio, già espresso nell’AT tra Dio-sposo e Israele-sposa, nell’Incarnazione diventa una realtà piena e definitiva: Dio si unisce in modo indissolubile ed eterno all’umanità. Dio e gli uomini si uniscono per sempre nella buona e nella cattiva sorte, nella morte e nella vita. È avvenuto un mirabile scambio: « Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio » (s. Agostino). In questo ammirabile scambio avvenuto nell’incarnazione noi vi troviamo l’enorme nostro bene realizzato nella esaltazione della natura umana. La gioia del Natale scaturisce dalla contemplazione dell’inizio del nostro stupendo destino di redenti e del nostro ritorno al paradiso. « In questo giorno è stata piantata sulla terra la condizione dei cittadini celesti, gli angeli entrano in comunione con gli uomini, i quali si intrattengono senza timore con gli angeli. Ciò perché Dio è sceso sulla terra e l’uomo è salito al cielo. Ormai non c’è più separazione fra cielo e terra, tra angeli ed esseri umani » (s. Giovanni Crisostomo). La liturgia bizantina esclama: « O mondo, alla notizia (del parto verginale di Maria) canta e danza: con gli angeli e i pastori glorifica Colui che ha voluto mostrarsi bambino, il Dio di prima dei secoli ».
Gioia dell’amore, gioia dell’unione, altissime tenerezze del gaudio sovrabbondante e luminosissimo!
3 – C’è la gioia pasquale. Essa tocca i vertici più alti e scoppia definitivamente nella risurrezione, completamento indispensabile alla morte del Signore e alla nostra salvezza. I vangeli sprizzano il fuoco beatificante della gioia che passa dagli angeli a Maria Maddalena, agli apostoli, ai discepoli di Emmaus. Sulla fede sconcertata di tutti i suoi, Gesù getta la luce della sua vita gloriosa, li illumina e li rallegra. « Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annunzio ai suoi discepoli » (Mt 28,8). « I discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20).
La risurrezione dimostra la divinità di Cristo ed è spiegazione luminosa e fondamento incrollabile della nostra fede in lui e della nostra novità cristiana. Questo è il Cristo di cui siamo testimoni nel nostro tempo.
Nella notte di pasqua la chiesa esprime la sua gioia con il canto dell’ « Exultet », dove cielo e terra, angeli e uomini, sono chiamati ad esultare per la vittoria del re: « Esultino i cori degli angeli del cielo; si celebrino nel gaudio i misteri divini e la tromba della salvezza annunci la vittoria del re. Si rallegri anche la terra… goda pure la madre Chiesa… » È l’impeto del gaudio pasquale.
4 – C’è la gioia dell’Ascensione e della Pentecoste. Dopo il fatto dell’ascensione « essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia » (Lc 24,52). Salendo al cielo e sedendo alla destra del Padre, Cristo è costituito Signore degli angeli, degli uomini e dell’universo intero. Un uomo, uno di noi è assiso alla destra del Padre, in piena uguaglianza con lui ed è Signore come lui. Gesù prima di lasciarci ci ha fatto una promessa: « Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi porterò con me, perché siate anche voi dove sono io » (Gv 14,2-3). Scrive Paolo: « Dio ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù » (Ef 2,4-7).
A quale altezza e perfezione Dio ha condotto l’uomo e il mondo intero! Quanto è avvenuto al Redentore è modello e premessa di quanto accadrà a noi e all’universo.
La gioia dell’Ascensione si fa preludio della gioia della Pentecoste. Gesù aveva detto: « È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò » (Gv 16,7). Ci soffermeremo subito nelle pagine seguenti a parlare più diffusamente della gioia cristiana, dono dello Spirito. Qui ci basta ricordare che la Pentecoste, che è la pienezza della pasqua, inaugura nella chiesa e in noi, la gioia dello Spirito Santo.
La gioia cristiana
La radice della gioia di Cristo è entrata in noi col battesimo e la confermazione e cresce quanto più viviamo del suo amore e cresciamo in Lui. L’apostolo Paolo ci ammaestra a fare tutto con Gesù: « Tutto quello che fate in parole e opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre » (Col 3,17). Dobbiamo compenetrarci in Lui fino a poter dire con tutta verità: « Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20); « Per me vivere è Cristo e morire un guadagno » (Fil 1,21). Perché questo accada bisogna fare le scelte coraggiose dell’apostolo: « Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocefisso » (1Cor 2,2); « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui… E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti » (Fil 3,7-11). E quando né tribolazione, né angoscia, né fame, né nudità, né spada, né morte, né vita, né alcunché di creato ci separeranno dall’amore di Cristo (Rm 8,35-38), allora la gioia sarà perfetta.
Così il cristiano si espande in Gesù e canta la tenerezza gioiosa di sentirsi posseduto da lui.
Di conseguenza si comprende come il motivo più profondo della tristezza dell’uomo è non conoscere Cristo, e soprattutto separarsi da lui e combatterlo. Nel vangelo c’è una dimostrazione violenta della tenebra amara di chi non vuole riconoscere il Redentore. È quella dei farisei che sono una terra d’ombra, un punto di oscurità, un cumulo di livore, di amarezza, di disperato affanno. Come per essi, così per tutti i contraddittori di Gesù, uscire da Lui « Luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9) è trovare sempre tristissima notte, senza alba e senza sole.

LA GIOIA CRISTIANA DONO DELLO SPIRITO
Gioia e amore sono due termini che si richiamano sempre. Ed è perciò che nella gioia cristiana ha parte determinante lo Spirito Santo, lo Spirito dell’Amore. Essa è un dono di Lui: « Frutto dello Spirito è… la gioia » (Gal 5,22). Per questo gli Atti dicono che « i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo » (At 13,52), e san Paolo scrive che i Tessalonicesi « avevano accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione » (1Ts 1,6), perché « il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo » (Rm 14,17). Tutto questo non è parola sonante, ma esatta realtà. « Lo Spirito Santo non è oscuro o mesto: Egli è la gioia dell’amore. L’esistenza stessa dello Spirito Santo proclama la forza della gioia d’amore e l’inesauribile eternità di questa gioia » (Galot). Lo Spirito Santo Amore ha in sé la fonte della gioia. E siccome ci è stato dato come dono supremo dell’amore del Padre e del Figlio, è sempre attraverso di lui che, in definitiva, passa la gioia di Cristo e di Dio.
Lo Spirito d’amore e di santificazione
L’AT ci annunzia la promessa di Dio che vuole espandere il suo Spirito: « Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio » (Ez 36,26-28).
« L’ equivalenza che la profezia mette tra Spirito e cuore ci fa capire meglio ciò che è l’effusione dello Spirito divino. Quando Dio vuol mettere il suo Spirito negli uomini, si può dire che Egli vuol donare loro il suo proprio cuore, rimpiazzare il loro cuore con il Suo, o rifare loro un cuore ad immagine del Suo. Lo Spirito Santo è il cuore di Dio. Il cuore divino del Padre e del Figlio che comunicandosi agli uomini forma in essi un cuore nuovo » (Galot). Lo Spirito Santo è il cuore di Dio che diventa il cuore dell’uomo. È l’Amore che ci investe, ci trasforma e ci fa amare come Lui ama: da questa sinfonia di amore nasce la gioia. Lo Spirito Santo è l’anello di congiunzione dello straordinario scambio d’amore fra Dio e noi. La gioia cristiana dell’amore è perciò marcata dall’azione dello Spirito Santo. « L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5). Di conseguenza lo Spirito Santo ci rende « spirituali » e « santi ». È l’ospite divino che opera in noi affinché « Dio sia tutto in tutti » (1Cor 15,28). È l’ospite dolce dell’anima che la unisce sempre più a Cristo. È Lui « che attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio » (Rm 8,16) perché « tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio » (Rm 8, 14). Noi siamo il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in noi (1Cor 3,17). Dio ci ha scelti per la salvezza attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità (2Ts 2,13). Lo Spirito è il principio della nostra vita divina: siamo stati generati da Dio (Gv 1,13) nascendo dall’acqua e dallo Spirito (Gv 3,5). Siamo stati lavati, santificati e giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio (1Cor 6,11). È infatti lo Spirito che trasforma le nostre persone e produce in noi la risurrezione e la vita eterna. « Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo dello Spirito che abita in voi » (Rm 8,11). È Lui « che viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili; e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio » (Rm 8,26-27).
Diceva Origene: « Se chi crede è munito della forza dello Spirito Santo, è certo che ha sempre la pienezza della gioia e della pace ».

Conclusione
« State sempre lieti…: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi » (1Ts 5,18).
La gioia è un nostro dovere di uomini e di cristiani.
È la testimonianza più credibile e avvincente. La gioia che emana dal cristiano non può essere un fatto eccezionale, come un abito che si indossa nelle feste solenni: deve essere un fatto quotidiano, feriale, perché Dio, nostra gioia, è con noi e dentro di noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).

IL PANTEISMO ALLA LUCE DELLA SCRITTURA

http://camcris.altervista.org/butpanteis.html

Il cammino cristiano

IL PANTEISMO ALLA LUCE DELLA SCRITTURA

a cura di G. Butindaro

Il panteismo (parola che deriva dal greco pan ‘tutto’, e theòs ‘Dio’) è la dottrina che identifica Dio con il tutto ed è una dottrina che si è fatta molta strada grazie al New Age, il super-movimento che in questi ultimi decenni si è divulgato per tutto il mondo e che attira al suo interno soprattutto i giovani.
Ecco come Benjamin Crème, un esponente del New Age, esprime questa dottrina: « In un senso non esiste un qualcosa che si possa chiamare Dio; Dio non esiste. Eppure, in un altro senso, non esiste niente che non sia Dio – esiste solo Dio (…) Tutto è Dio. E, siccome tutto è Dio, non c’è Dio » (Benjamin Crème, The Reappearance of the Christ [La riapparizione del Cristo], London 1980, pag. 110). Da ciò deriva che Dio non è più il Creatore dell’universo ma bensì l’universo stesso. E l’uomo non è più una creatura distinta nettamente da Dio, ma uno con Dio e perciò Dio stesso (ma l’uomo lo ignora o lo ha dimenticato, e perciò deve scoprirlo). Ecco infatti come si esprime Ruth Montgomery, anche lei esponente del New Age, sull’uomo: « Noi siamo tanto Dio come Dio è parte di noi … ciascuno di noi è Dio … assieme noi siamo Dio… » (Ruth Montgomery, A World Beyond [Un mondo lontano], New York 1972, pag. 12).
La Sacra Scrittura afferma invece che esiste un Dio solo – dotato di personalità, per cui è una Persona – che ha creato dal nulla, mediante la sua Parola, tutte le cose visibili come anche quelle invisibili, « cosicché le cose che si vedono non sono state tratte da cose apparenti » (Ebr. 11:3); ed esse sussistono secondo che è scritto: « Tutto sussiste anche oggi secondo i tuoi ordini, perché ogni cosa è al tuo servigio » (Sal. 119:91). Quindi l’universo che noi vediamo non è Dio ma è l’opera sua; è vero che Egli lo riempie, dice infatti Dio: « Non riempio io il cielo e la terra? » (Ger. 23:24), ma rimane sempre distinto da esso essendone il Creatore.
Gesù Cristo, il Figlio di Dio che discese dal cielo per rivelarci Dio, in tutti i suoi insegnamenti non accennò mai al panteismo. Lui, prima di venire in questo mondo, era presso Dio nel cielo, ed era presso Dio ancora prima che ogni cosa fosse fatta. Egli conosceva appieno Dio, ma non identificò mai Dio con l’universo o con il mondo. Difatti quando Egli disse di non giurare disse di non giurare per il cielo « perché è il trono di Dio » (Matt. 5:34), e neppure per la terra « perché è lo sgabello dei suoi piedi » (Matt. 5:35). Come potete vedere Gesù chiamò il cielo il trono di Dio e la terra lo sgabello dei suoi piedi, e naturalmente c’è una grande differenza tra chi siede su un trono e il trono su cui siede, tra lui e lo sgabello dei suoi piedi.
Per questo noi credenti non facciamo della natura una divinità, perché crediamo che la natura rimanga sempre distinta dal suo Creatore e subordinata a Lui. La natura non è la Divinità ma porta solo l’impronta della Divinità che l’ha fatta; come dice infatti Paolo « le perfezioni invisibili di lui, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente sin dalla creazione del mondo, essendo intese per mezzo delle opere sue » (Rom. 1:20). Dunque, la terra e tutte le piante e tutti gli animali che essa contiene, il sole, il cielo, le stelle, i pianeti, sono parte della creazione di Dio e ne dimostrano la potenza e la perfezione, ma non sono parte del Creatore. E con questo Iddio così grande, separato dalla creazione ma presente in ogni luogo, gli uomini possono instaurare una relazione tramite il suo Figlio Gesù Cristo che è alla sua destra nei luoghi altissimi; lo possono conoscere come Persona vivente nella loro vita e possono lodarlo. Noi lo abbiamo conosciuto e attestiamo ciò per esperienza personale.
Diciamo adesso qualcosa sull’uomo perché il panteismo porta l’uomo a cercare la Divinità in se stesso e a credersi Dio. L’uomo non è altro che una creatura di Dio, fatta di polvere, quindi la sua esistenza ha avuto un inizio, che possiede una natura umana con molti e molti limiti (cfr. Giob. cap. 38,39,40,41; Matt. 5:36; Luca 12:25,26), a differenza del suo Creatore, cioè Dio, che esiste da sempre, è spirito e non possiede limiti di nessun genere appunto perché Dio (cfr. Matt. 19:26; Luca 18:27). Oltre a ciò l’uomo pecca perché il peccato abita in lui (cfr. Eccl. 7:20), mentre Dio non pecca e non può peccare perché santo, giusto e puro (cfr. Sal. 99:9). Dunque c’è una netta e grande (direi abissale) differenza tra l’uomo e Dio; l’uomo è una debole creatura che sbaglia in molte cose, mentre Dio è l’eterno e onnipotente Creatore che non sbaglia mai. Dobbiamo quindi dire assieme al saggio Elihu: « Dio è più grande dell’uomo » (Giob. 33:12).
Il panteismo induce l’uomo a cercare Dio in se stesso, perché in base a questa credenza, la Divinità è in lui e non fuori di lui; egli « deve risvegliare » la sua natura divina nascosta al suo interno e non deve affatto cercare con tutto il suo cuore il Creatore di tutte le cose che è fuori di Lui il cui trono è il cielo e il cui sgabello è la terra. Avviene così che l’uomo che crede nel panteismo pensa di possedere un potenziale al suo interno che se risvegliato e scoperto riuscirà a risolvere tutti i suoi problemi, fisici e spirituali, e materiali, perché lui diventerà il padrone della sua vita, colui che crea la realtà attorno a lui (si vedano in proposito: 1 e 2). E quindi sarà portato a confidare in se stesso (il che avviene di fatto), nel suo cuore ingannevole, nella sua impotenza anziché in Dio, il vero Dio, che ha fatto tutte le cose e a cui ci si arriva soltanto per mezzo di Gesù Cristo il suo Figliuolo. Questa è chiaramente una opera di Satana, il Seduttore di tutto il mondo, che cerca in tutte le maniere di distogliere le persone dal mettersi a cercare l’Iddio personale di cui parla la Scrittura e dal confidare nella sua illimitata e reale potenza. Il frutto dunque del panteismo è l’insuperbimento dell’uomo; l’uomo è trascinato inesorabilmente ad innalzarsi sfacciatamente contro Dio innanzi tutto perché, pensando di essere per natura divino, egli si mette a cercare Dio in lui e poi perché giunge alla errata conclusione di essere Dio, di essere perciò lui sul trono a governare la sua vita, lui il conduttore della sua vita, lui il salvatore di se stesso e quindi che non ci sia il benché minimo bisogno di mettersi a cercare fuori di lui l’Iddio e Padre del Signore Gesù Cristo, di cui parla la Scrittura, per sperimentare la sua salvezza e la sua misericordia. Possiamo dire che la dottrina panteista porta l’uomo ad adorare se stesso; ecco una eloquente affermazione di Shirley MacLaine (nota attrice americana che da anni divulga idee del New Age) che conferma questo: « Tu non devi mai adorare nessuno o nessun’altra cosa al di fuori di te stesso. Poiché tu sei Dio » (Shirley MacLaine, Dancing in the Light [Danzando nella Luce] pag. 358).
In realtà questo modo di vedere l’uomo come Dio o parte di Dio non è altro che una delle svariate forme in cui si manifesta la superbia della vita che come dice l’apostolo Giovanni « non è dal Padre ma è dal mondo » (1 Giov. 2:16). Ma Dio resiste a chi si insuperbisce in cuore suo e si innalza su di Lui, infatti « Dio resiste ai superbi » (1 Piet. 5:5; Prov. 3:34), e Gesù disse che « chiunque s’innalzerà sarà abbassato » (Matt. 23:12). Un esempio scritturale di come Dio umilia coloro che s’innalzano contro di lui dicendosi « Dio » lo abbiamo nel libro del profeta Ezechiele dove si legge: « Figliuol d’uomo, dì al principe di Tiro: Così parla il Signore, l’Eterno: Il tuo cuore s’è fatto altero, e tu dici: Io sono un dio! Io sto assiso sopra un trono di Dio nel cuore dei mari! mentre sei un uomo e non un Dio, quantunque tu ti faccia un cuore simile al cuore d’un Dio …. Poiché tu ti sei fatto un cuore come un cuore di Dio, ecco, io fo venire contro di te degli stranieri, i più violenti di fra le nazioni; ed essi sguaineranno le loro spade contro lo splendore della tua saviezza, e contamineranno la tua bellezza; ti trarranno giù nella fossa, e tu morrai della morte di quelli che sono trafitti nel cuore dei mari » (Ez. 28:2,6-8).
Per confermare ciò con un esempio dei nostri giorni voglio citare la testimonianza di Rabindranath R. Maharaj che prima di convertirsi era uno yoghi (cioè, chi ha raggiunto un buon livello nell’esercizio dello yoga) che nella sua ignoranza riteneva di essere Dio:
« Accarezzando una grande, profumata ghirlanda di fiori che pendeva dal mio collo, mi ero sistemato accanto all’altare e salutavo gli intervenuti che uscivano alla fine della cerimonia. Una vicina di casa depose ai miei piedi diverse monete, una dopo l’altra, e s’inchinò per ricevere la mia benedizione, il colpetto d’incoraggiamento shakti che ogni adoratore brama di ricevere, a causa dei suoi effetti soprannaturali. Sapevo che si trattava di una povera vedova che guadagnava pochissimo per le lunghe ore di duro lavoro che svolgeva. … Gli dèi avevano decretato che questo doveva essere il sistema dei doni da farsi ai bramini, ed i Veda pure avevano dichiarato che questa pratica sarebbe stata di grande beneficio per il donatore. …
Mentre stavo allungando la mano per toccarle la fronte quale conferma della mia benedizione, trasalii udendo una voce piena di indubbia, onnipotente autorità: ‘Rabi, tu non sei Dio!’. Il mio braccio si arrestò a mezz’aria. ‘Tu… non… sei… Dio!’ Queste parole mi colpirono come il fendente di un machete che taglia ed abbatte le alte canne verdi. Mi resi istintivamente conto che era stato il vero Dio, il Creatore di ogni cosa, che aveva pronunciato queste parole e cominciai a tremare. Volere pretendere di benedire quella donna che si era inchinata, era un inganno, una frode manifesta. Ritrassi la mano … mi trovavo completamente abbattuto, sotto la riprensione del vero Dio, scosso nella coscienza per avere osato di accettare l’adorazione che solo a lui era dovuta » (Rabindranath R. Maharaj, Morte di un guru, Isola del Gran Sasso (TE) 1994, pag. 137-138).
Quindi, fratelli, badate a voi stessi e riprovate questa dottrina. A coloro che pensano di essere Dio o magari stanno cercando di scoprire la loro presunta divinità dico questo: lasciate i vostri peccati e credete nel Signore Gesù Cristo per ricevere la salvezza, e la vita eterna. Conoscerete così Dio, il Creatore di tutte le cose, e il suo Figliuolo che dopo aver dato la sua vita per noi è risorto ed è alla destra del Padre nei luoghi altissimi.

LA BATTAGLIA SPIRITUALE (anche Paolo)

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LA BATTAGLIA SPIRITUALE

Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio. (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes)

Preferiremmo forse pensare altre cose, circa la vita. Ma pare proprio che, chi ne sa più di noi, non l’abbia chiamata “parco divertimenti”, ma valle di lacrime. Pare proprio che non si sia quaggiù – terzo pianeta di questo sistema solare – per chiacchierare e invecchiare bene. Il fatto d’essere nati, non da noi voluto né programmato, è una evidenza. Che ci piaccia o meno siamo imbarcati, e non si tratta di una crociera.
Che uno se ne accorga o meno, siamo tutti dentro una Battaglia, cominciata talmente tanto tempo fa da parere quasi una fiaba.
Una Battaglia che altro non è che il vero volto della Storia (quella universale e quella personale, quella del mondo e quella di ognuno), come ha impareggiabilmente raccontato J.R.R. Tolkien ne “Il Signore degli Anelli”.

Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall’origine del mondo, destinata a durare, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l’aiuto della grazia di Dio” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes).
La storia del nostro pianeta, delle civiltà, di ogni uomo – la stessa vita di ognuno di noi, dunque – è pervasa da una “lotta tremenda contro le potenze delle tenebre”. Non possiamo starne fuori, perché cercare di starne fuori significa rinunciare a combattere, significa soccombere.
La Battaglia nella quale siamo coinvolti ogni giorno è quindi parte di una Battaglia più grande, che coinvolge l’intero Universo, e che avrà termine solo con la Parusia, il glorioso Ritorno del Re.
Chi non crede a tutto questo, chi pensa che sia solo una bella fiaba …stile Tolkien, chi non accoglie la verità che Cristo è venuto a rivelare, se non chiude volutamente gli occhi o volutamente distolga lo sguardo – e creda quindi che la battaglia che infuria nella storia e nella società abbia cause materiali ed economiche (per cui vincendo la povertà, l’ignoranza e l’ingiustizia il mondo diverrebbe un paradiso…) – prenderà atto almeno della Battaglia che infuria nel proprio cuore. Almeno chi sia stato pellegrino verso Santiago o Roma o Gerusalemme, o altri santuari della cristianità – entrando nello spazio e tempo misteriosi che il pellegrinaggio a piedi spalanca, avrà preso consapevolezza della Battaglia che infuria nel proprio cuore, la santa inquietudine, la ricerca del vero. A meno che uno non goda della quiete letale, il falso armistizio che il Nemico concede per portarti dove vuole lui – l’abilità e finezza sue sono tali che nel mentre ti sembra di andare… “dove ti porta il cuore”.

San Paolo e la battaglia

Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. (Timoteo 2 cap.4)

(…) Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere”. (Efesini cap.6)

(…) In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo”. (Corinzi 2, cap. 10)

(…) Questo è l’avvertimento che ti do, figlio mio Timòteo, in accordo con le profezie che sono state fatte a tuo riguardo, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede; tra essi Imenèo e Alessandro, che ho consegnato a satana perché imparino a non più bestemmiare.” (Timoteo 1 cap.1)

(…) Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni. Al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo, che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. A lui onore e potenza per sempre. Amen.” (Timoteo 1 cap.6)

San Pietro e la Battaglia

Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un pò afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime. (Prima lettera di Pietro 1, 6-9)

E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. E’ meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male. (Prima lettera di Pietro 3, 13-17)

Poiché dunque Cristo soffrì nella carne, anche voi armatevi degli stessi sentimenti; chi ha sofferto nel suo corpo ha rotto definitivamente col peccato, per non servire più alle passioni umane ma alla volontà di Dio, nel tempo che gli rimane in questa vita mortale. Basta col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti. (Prima lettera di Pietro 4, 1-5)

Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome. E’ giunto infatti il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio; e se inizia da noi, quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al vangelo di Dio?
E se il giusto a stento si salverà,
che ne sarà dell’empio e del peccatore?
Perciò anche quelli che soffrono secondo il volere di Dio, si mettano nelle mani del loro Creatore fedele e continuino a fare il bene. (Prima lettera di Pietro 4, 12-19)

Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi. A lui la potenza nei secoli. Amen! Vi ho scritto, come io ritengo, brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio. In essa state saldi! Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio. Salutatevi l’un l’altro con bacio di carità. Pace a voi tutti che siete in Cristo! (Prima lettera di Pietro 5, 6-14)

Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori. (Seconda lettera di Pietro 1, 16-19)

Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno, serbandoli per il giudizio; non risparmiò il mondo antico, ma tuttavia con altri sette salvò Noè, banditore di giustizia, mentre faceva piombare il diluvio su un mondo di empi; condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, ponendo un esempio a quanti sarebbero vissuti empiamente. Liberò invece il giusto Lot, angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie. Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio, soprattutto coloro che nelle loro impure passioni vanno dietro alla carne e disprezzano il Signore. Temerari, arroganti, non temono d’insultare gli esseri gloriosi decaduti, mentre gli angeli, a loro superiori per forza e potenza, non portano contro di essi alcun giudizio offensivo davanti al Signore. Ma costoro, come animali irragionevoli nati per natura a essere presi e distrutti, mentre bestemmiano quel che ignorano, saranno distrutti nella loro corruzione, subendo il castigo come salario dell’iniquità. Essi stimano felicità il piacere d’un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi; han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili, hanno il cuore rotto alla cupidigia, figli di maledizione! Abbandonata la retta via, si sono smarriti seguendo la via di Balaàm di Bosòr, che amò un salario di iniquità, ma fu ripreso per la sua malvagità: un muto giumento, parlando con voce umana, impedì la demenza del profeta. Costoro sono come fonti senz’acqua e come nuvole sospinte dal vento: a loro è riserbata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto. Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore e salvatore Gesù Cristo, ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio:
Il cane è tornato al suo vomito
e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel
brago. (Seconda lettera di Pietro 2, 4-22)

Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: «Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione». Ma costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano gia da lungo tempo e che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e che per queste stesse cause il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì. Ora, i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi.
Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.
Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. (Seconda lettera di Pietro 3, 3-14)

IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

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IL PARADISO COME LUOGO E COME STATO

Novembre 2012

Nel Nuovo Testamento la parola “paradiso” compare 276 volte e da quello che riferisce san Paolo, in merito al fatto che sarebbe stato “rapito nel terzo cielo” (2 Cor 12, 1-9), si deduce che il paradiso sia costituito da tre cieli. Posto che il terzo cielo, di cui non viene rivelata la collocazione, sia il luogo in cui abita Dio e in cui esistono “molti posti” che oltre che essere destinati ai santi dell’Antico Testamento Gesù ha promesso di voler preparare per i suoi veri seguaci (Gv 14,2), il primo cielo dovrebbe corrispondere probabilmente al firmamento ancora interno alla realtà o all’orbita terrestri, entro cui si formano le nuvole e volano gli uccelli, mentre il secondo cielo dovrebbe corrispondere all’intero universo extraterrestre regolato da leggi fisiche diverse da quelle che valgono per la terra, ovvero lo spazio interstellare e interplanetario ancora in gran parte sconosciuto (Gn 1, 14-18).
Ora, il terzo cielo o luogo dove abita Dio nel suo massimo splendore è anche il luogo in cui ha per cosí dire sede la vita eterna della quale potranno godere tutti coloro che, con la parola e con le opere, avranno creduto in Cristo (Gv 3, 16). L’apostolo Giovanni descrive in qualche modo la città di Dio che gli apparve in una visione (Apocalisse 21, 10-27) e parla di “nuovi cieli e nuova terra” in cui tutto sarebbe stato pieno della presenza stessa e della gloria di Dio (Apocalisse 21, 11) e dove quindi non ci sarebbe più stato né il sole né la luna né la notte ma una luce eterna quale quella di Dio (Apocalisse 22, 5). Il paradiso, dunque, in aderenza a quanto chiaramente si legge in questi testi, non è nulla di metaforico, nulla di puramente simbolico, nulla di vagamente spirituale, ma una nuova e concreta realtà fisica, dotata di un nuovo “spazio” e di una “temporalità” non più coincidente con quella da noi conosciuta, e infine di leggi psico-biologiche potenziate o integrate (o, al limite, semplificate) rispetto a quelle terrene. Dopo gli ultimi tempi, quelli che precederanno e preannunceranno la fine del mondo, i cieli e la terra attuali si dissolveranno per essere sostituiti dai nuovi cieli e dalla nuova terra sotto i quali e sulla quale abiterà la nuova e rigenerata umanità tra le mura della nuova Gerusalemme, la città di Dio, una città senza confini e solo delimitata da mura funzionali a tenerla separata dalla città del diavolo o inferno in cui saranno precipitati i dannati. Questa città avrà porte di perla e strade d’oro come scrive l’apostolo Giovanni e sarà proprio un luogo fisico ben preciso in cui dimoreranno i corpi fisici glorificati, a cominciare da quello di nostro Signore Gesù Cristo e di sua Madre Maria, di tutti coloro che riceveranno in premio la vita eterna.
Ovviamente sia il concetto di un “cielo” che sarebbe “tra le nuvole” sia quello per cui noi saremo “spiriti fluttuanti nel cielo” non ha alcun fondamento biblico. Il cielo, il paradiso celeste, che i credenti potranno sperimentare sarà invece un nuovo, bellissimo e perfetto pianeta, dove non ci sarà più spazio per il peccato, per il male, per le malattie, per le sofferenze e per la morte. E’ probabile che la nuova terra di Dio sarà molto simile alla nostra terra attuale oppure una nuova creazione del nostro attuale pianeta su cui però non incomberà più la maledizione del peccato e di cui saranno conservate e valorizzate solo le realtà umane e spirituali che saranno state gradite a Dio
Nella mentalità ebraica, la parola “cieli” denotava sia lo spazio cosmico che la dimensione propria della dimora divina. Perciò, quando Giovanni in Apocalisse 21, 1, parla di “nuovi cieli”, probabilmente vuole significare che l’intero universo sarà ricreato. Certo, per quanto la descrizione giovannea sia piuttosto eloquente e significativa, la realtà paradisiaca resta molto al di sopra delle umane capacità di descrizione e immaginazione (1 Cor 2, 9). Ma da tale descrizione emerge come dato certo il fatto che la realtà paradisiaca – che subentrerà allorquando, come scrive san Pietro nella sua seconda lettera al capitolo 3, «i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta» –, è un luogo e non solo uno stato spirituale, stato spirituale che sarebbe peraltro non solo soggettivamente impensabile ma anche oggettivamente insussistente senza una qualche spazialità e una qualche corporeità; che in questo luogo non ci saranno più lacrime, dolore e morte, e che infine la cosa più grandiosa che gli esseri umani potranno gustare in esso sarà la possibilità di essere “faccia a faccia con Dio” e di vivere per l’eternità in compagnia dell’Agnello di Dio che ci ha amati da sempre con e per il Padre immolandosi per la nostra salvezza (Apocalisse 20, 6; Apocalisse 21, 4; 1 Giovanni 3, 2).
Pertanto, il credere che esista una casa celeste nel paradiso, una casa vera, reale, fisica, materiale, non astratta e meramente “spirituale”, si basa su concetti biblici e più segnatamente neotestamentari assolutamente inequivocabili e irriducibili ad interpretazioni cosí puramente spiritualistiche da implicare di fatto una dissoluzione della nostra vita corporea, psichica, sensoriale, della nostra stessa identità personale, nel nulla. Che noi vivremo, con questo corpo e con questa anima che ci ritroviamo adesso in questo mondo, sia pure sapientemente rinnovati dalla nuova creazione di Dio, è una promessa esplicita di Gesù. Il paradiso, di cui egli stesso ha parlato, è certamente un posto vero, non puramente simbolico, anche perché se non fosse un posto, un luogo, una realtà dotati di una loro concreta e specifica materialità, non si capirebbe più il senso della risurrezione di Cristo, il suo apparire a Maddalena, la sua presenza tra gli apostoli chiusi in una casa e una presenza che Egli voleva talmente affermare nella sua non illusorietà e nella sua effettiva veridicità da chiedere esplicitamente a Tommaso di toccare il suo corpo e di verificare che le sue ferite fossero proprio quelle riportate a causa della crocifissione.
Il Signore ha detto al malfattore pentito: oggi stesso sarai con me in paradiso, e non gli ha certo detto cosí semplicemente per dargli ad intendere che da lí a poco sarebbe cambiata solo la sua condizione spirituale! Il Signore, che appare da risorto agli apostoli sulla riva del lago, chiede di voler mangiare del pesce con loro, per fare loro capire che chi risorge, come lui e con lui, non è “un fantasma”, ovvero uno spettro, un’immagine spirituale priva di consistenza vitale, ma è una persona fisica vera benché tutte le sue qualità fisico-corporee, psichiche e mentali, sussistano ormai “glorificate” ovvero esaltate ulteriormente rispetto alla loro forma terrena.
Le promesse di Gesù devono essere interpretate per quello che sono, ovvero nel loro estremo realismo, e non per quello che vorrebbe un certo sapere teologico, tendenzialmente intellettualistico e apparentemente umile ma sostanzialmente incredulo o dubbioso, che è sempre tentato di trasformare le cose più semplici ed elementari della Parola di Dio in fumisterie metafisiche assolutamente irrealistiche e inattendibili. Gesù non ci ha chiesto di servirlo con fedeltà e zelo per niente, per illuderci circa una vita futura veramente e sensibilmente diversa da quella attuale. Avere paura di sostenere ed affermare apertamente l’esistenza fisica, corporea, materiale del paradiso che ci attende, significa semplicemente dimostrare di non credere sul serio né nella promessa di Cristo né in Cristo stesso.
Ecco perché vale davvero la pena di coltivare quaggiù una fede quanto più possibile coerente e solerte secondo le esortazioni della “Lettera agli ebrei”: «Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso. Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone. Non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore» (10, 19-25). Ecco perché faremmo bene quaggiù a non far finta di non capire e ad eseguire i veri comandi di Dio: perché il mondo di là da venire ma che è già in mezzo a noi non è un mondo ideale, immaginario, irreale, immaginario, metaforico, simbolico, incorporeo, astratto, spiritualmente evanescente, ma è un mondo di perfetta spiritualità in quanto tutte le esigenze del corpo, della psiche, della carne potranno essere finalmente e gioiosamente soddisfatte nei modi originari decretati dal Padre celeste non per l’infelicità ma per la felicità più piena e abbondante possibile delle sue creature.
Né, d’altra parte, si dovrà credere nel paradiso solo in via scaramantica. Come dire: conviene crederci perché non si sa mai…Se non si è capaci di amare con tutte le forze gli insegnamenti di Gesù, di seguirne con tutto il cuore l’esempio, addossandosi le proprie croci per amore e non per semplice rassegnazione, è impossibile credere realmente in lui e nelle sue promesse tra cui quella relativa alla nostra eterna felicità in un luogo delizioso perché perennemente e totalmente inondato della luce di Dio. San Paolo incoraggiò i Corinzi a sperare in una loro dimora celeste e quindi ad avere radicalmente fede in Cristo per dare loro la necessaria prospettiva in cui fosse loro possibile sopportare difficoltà, amarezze e delusioni di questa vita (2 Cor 5, 1-4): «Perché la nostra momentanea, leggera afflizione», egli spiega, «ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne» (2 Cor 4, 17-18).
Certo, la via o la porta che introduce nel paradiso è “stretta”, proprio nel senso delle ristrettezze esistenziali che la fede in Gesù viene implicando, proprio nel senso di una lotta necessaria da intraprendere cristianamente ogni giorno contro ogni forma e ogni genere di peccato, come la smania di possesso, di ricchezza, di grandezza, o contro il vizio della lussuria e di ogni perversione che vi sia connessa. Su quella via si può procedere e da quella porta si potrà passare solo credendo in Cristo e implorandone sinceramente e costantemente il perdono dei peccati non solamente per mezzo di un pentimento interiore e della riconciliazione sacramentale ma anche e soprattutto per mezzo di un reiterato sforzo di compiere opere buone verso i fratelli nel comune vincolo della fede e dell’amore a Dio.
E’ importante chiarire che, se il paradiso cristiano non è un paradiso “materialistico” come quello islamico e musulmano, esso non è neppure cosí immateriale ed etereo come immaginava Dante Alighieri, il quale peraltro parlava dell’inferno e del purgatorio come di realtà fisiche concrete. Da quali specifici passaggi biblici i cristiani in genere si siano sentiti autorizzati nel corso dei secoli a ritenere rispettivamente l’inferno e il purgatorio anche dei luoghi fisici di sofferenza e di purificazione e a considerare invece il paradiso prevalentemente o esclusivamente come una condizione spirituale in cui i sensi e la stessa sensibilità intellettiva e morale dei risorti in Cristo tenderebbero a non sussistere più come tali perché ormai assorbiti e annullati in una visione estatica puramente spirituale di Dio e non invece ad essere semplicemente e sia pure profondamente cambiati e rinnovati nella e dalla gloriosa trasfigurazione paradisiaca cui sono destinati gli stessi risorti in Cristo, è veramente un mistero.
Innanzitutto, non si capisce perché inferno e purgatorio possano essere riconosciuti nella loro condizione di luoghi oltre che di spirito, mentre il paradiso dovrebbe sussistere solo in termini di stato spirituale. Ma, in realtà, ancora oggi si tende ad equivocare, tra i cattolici, sul senso di quella incorporeità o immaterialità dell’essere stesso di Dio e sul senso eminentemente spirituale della risurrezione e quindi della nostra vita eterna in cielo. Dio non è incorporeo e immateriale nel senso che non si possa manifestare anche come materia ma nel senso che, pur potendo assumere una forma umana e quindi anche biologica e materiale come paradigmaticamente è accaduto nella persona storica di Gesù, Egli non può essere ridotto a materia in quanto la materia per essere ha bisogno del suo Spirito, cosí come il principio vitale di tutto ciò che è materia o ha forma materiale è un principio di natura spirituale, e cosí come infine è o deve essere di natura eminentemente spirituale il fine o lo scopo di tutte le nostre attività fisiche e materiali, quali sono quelle che si riferiscono ai cinque sensi e all’attività intellettiva e contemplativa. Non si comprende perché il Signore, che ci ha creato con cinque sensi, nella nostra seconda, ultima e vera vita dovrebbe privarci di essi. E’ sensato pensare che quegli stessi uomini che hanno lottato per tutta la vita terrena contro il peccato ma nel senso di voler liberare i loro stessi organi di senso dalla zavorra del peccato, una volta giunti in paradiso si scoprano mutilati e non semmai potenziati rispetto a quei doni che, anche in termini fisico-sensoriali, avevano potuto sperimentare nel mondo terreno?
Ma Gesù risorto e trasfigurato è o non è una persona che parla, che ragiona regolarmente, che pur essendo ormai “puro spirito” è tuttavia ancora presente “in carne ed ossa” e capace anzi di rivendicare la sua corporeità davanti allo sguardo turbato e commosso di Tommaso, che è capace di mangiare e gustare un pezzo di pesce arrostito per far capire tra l’altro che i risorti in Cristo possano ancora mangiare, che ha gli stessi sentimenti di amore verso tutti coloro che lo avevano seguito (e lo avrebbero seguito anche successivamente) sia pure in una dimensione umana ora letteralmente impregnata di potenza e gloria divine? Questo Cristo è lo stesso che oggi e per l’eternità dimora in paradiso. Lo stesso ragionamento vale per la sua santissima Madre e per tutti i beati dei nuovi cieli e della nuova terra di Dio. E’ vero o non è vero tutto questo? E se è vero perché, nel nome di una malintesa spiritualità, si continua a parlare ambiguamente del cielo, del paradiso, come di una bellissima e meravigliosa condizione di vita ma di natura puramente spirituale?
Certo che la vita dei risorti sarà una vita eminentemente spirituale! Ma nel senso che essi sono “corpi spirituali o pneumatici”, come dice san Paolo, e non più “corpi carnali” abituati sulla terra ad essere soddisfatti in modo spesso carnale per l’appunto ovvero in modo peccaminoso oppure parziale oppure imperfetto; non certo nel senso che adesso la vista o visione contemplativa di Dio non possa avere più nulla di fisico, o che il banchetto celeste con “i cibi succulenti e i vini raffinati”, di cui parla la bibbia e a cui si ripromise di partecipare Gesù stesso poco prima di essere crocifisso, debba essere inteso in senso puramente simbolico. Quel che non si vuole capire, forse anche o proprio per mancanza di fede, è che la gioia del paradiso, promessa da Cristo, è una gioia piena, integrale, e che la felicità della vita eterna che lí sarà concessa è una felicità da intendersi come godimento dell’anima e del corpo, dello spirito e dei sensi, naturalmente all’interno di un mondo regolato dalla perfetta giustizia di Dio secondo la quale tale godimento non possa più degenerare negli eccessi, negli abusi, nelle deformazioni e nei vizi propri di una esistenza puramente terrena.
Si deve poi precisare che tutti in cielo saranno felici ma ognuno lo sarà in modo e in grado diversi, a seconda dei meriti che a ciascuno Dio vorrà riconoscere in base alle opere compiute sulla terra. E, siccome sulla questione in oggetto si continua oggi a polemizzare, sia all’interno della Chiesa (vedi, ad esempio, i seguaci di monsignor Lefebvre) sia all’interno di taluni ambienti intellettuali laici (vedi, ad esempio, il professor Odifreddi), nei confronti di papa Giovanni Paolo II, reo secondo costoro di aver negato il paradiso come luogo per affermarlo come semplice stato spirituale, è forse opportuno ricordare le parole del pontefice polacco: «Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell’Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5, 24) e di Elia (cfr 2 Re 2, 11). Il cielo diventa cosí figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6, 20; cfr 19, 21)» (G. P. II, Udienza Generale del 21 luglio 1999).
E’ anche vero che lo stesso pontefice, parlando dell’inferno, afferma che esso «sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia» (Udienza Generale del 28 luglio 1999), ma l’espressione “più che un luogo” non può essere interpretata come negazione del fatto che l’inferno sia anche un luogo, significando essa semplicemente che, per quanto riguarda l’inferno, deve preoccupare non tanto il luogo in cui si sarà costretti a scontare per l’eternità la propria condanna quanto la condizione spirituale di assoluta lontananza da Dio. Che, mi pare, è una posizione del tutto condivisibile e legittima.

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