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(DOTTRINA PAOLINA) – estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA »

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CAPITOLO NONO

IL NUOVO ADAMO

(DOTTRINA PAOLINA) – estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA »

estratto da  » L’UOMO SECONDO LA BIBBIA » – A. Gelin – Edizioni Ligel 1968

(Libera traduzione del testo francese)

Il personaggio di Adamo è collegato dalla Bibbia a tutta la storia della salvezza. Ne è come la bozza. Ma non sarebbe dare ad Adamo tutto il suo valore se lo si considerasse soltanto come un inizio; è un “tipo„ normativo, colui che ci presenta, realizzato in sé, ciò che il Signore attende da noi tutti: essere realmente la sua immagine. “Tipo„ normativo anche in un’altra direzione di pensiero che San Paolo ci rivelerà. Questo capitolo sarà una meditazione di san Paolo: è lui che ci ha detto chiaramente che il primo Adamo era il “tipo„ di un nuovo Adamo. Il Cristo Gesù è il “tipo„ dell’uomo biblico nella sua perfezione: c’è soltanto un uomo biblico, il Cristo. Adamo è il “tipo„ imperfetto di Cristo. Studiamo dunque il messaggio lasciato da san Paolo. E poiché questo originale teologo è come un genio assimilatore, all’ascolto di tutte le correnti e di tutte le vibrazioni dei mondi religiosi in cui si è formato e riformato (1), occorre riflettere inizialmente su ciò che ha potuto preparare nel pensiero di Paolo questa dottrina dei due Adamo.
I. GLI ANTECEDENTI DELLA DOTTRINA DEL NUOVO ADAMO
1. Attenzione accordata al personaggio Adamo nei circoli apocalittici.
I circoli apocalittici hanno molto riflettuto su Adamo. Ed è proprio nel loro ambiente che Paolo si è formato. La sua teologia, così come la si può riconoscere nei suoi scritti, è una teologia “apocalittica„. I circoli apocalittici avevano studiato il peccato di Adamo: era uno dei loro centri d’interesse. Essi hanno ribadito in termini a volte patetici un legame tra l’errore del primo padre e la situazione spirituale dell’umanità. Adamo, per loro, è un esempio, un cattivo esempio: è la facilità a lasciarsi trascinare da questo istinto malvagio che è in noi ed al quale egli stesso per primo ha ceduto poiché, dicono i rabbini, c’era un istinto malvagio in Adamo prima della sua colpa. È lui che ha introdotto la morte in questo mondo.
Ecco un testo ben caratteristico tratto dell’Apocalisse di Esdra (2) sulla conseguenza di Adamo: “Se il primo uomo Adamo ha peccato e ha fatto venire la morte su tutti in modo inopportuno, purtroppo anche su quelli che sono nati da lui, ogni uomo prepara per la sua anima la punizione futura ed a sua volta ciascuno sceglie per sé le glorie future „. Di conseguenza, Adamo fu causa soltanto per la sua anima; quanto a noi, ciascuno è a sua volta Adamo per sé.
C’è una presa di posizione molto netta: Adamo ha precipitato l’umanità in una cascata di disgrazie, con il fatto di avere peccato, con il fatto che è un esempio e che, per la sua colpa, l’umanità si trova indebolita. Queste disgrazie sono principalmente la morte ed altri mali che vengono elencati: non si parla più l’ebraico come all’inizio (L’Apocalisse di Esdra è scritta in greco. Ndt), si sanno meno cose rispetto all’inizio, ecc.… In fondo, nulla di più di quanto ci dica la Genesi.
Un’altra apocalisse di quei tempi, quella di Baruc, ci parla allo stesso modo. C’è dunque un’attenzione speciale rivolta ad Adamo nei cerchi apocalittici, nel momento in cui scrive Paolo: in particolare un chiarimento ed una riflessione sulla sua colpa. Da osservare del resto che il mistero del male è toccato soltanto superficialmente e che la dottrina del peccato non è per niente nella linea del nostro dogma cattolico del peccato originale, così come lo intendiamo partendo da San Paolo: ciascuno, secondo queste apocalissi, deve “giocare le sue carte„. “Ciascuno è Adamo per sé „. Adamo è soltanto un esempio che trascina ed una causa di debolezza per l’umanità.
2. L’idea dei “due Adamo„ nella speculazione di Filone.
Filone è un pensatore ebraico della “Dispersione„ che vive ad Alessandria. La sua speculazione si situa 40 anni prima della nostra era, quindi mentre Gesù è a Nazareth. Filone speculerà sui due resoconti della Genesi. Per introdurci al suo pensiero è curioso ricordare che uno scienziato come Lecomte du Noüy (1883-1947) (che nulla ha a che fare, ovviamente, con la critica biblica) ci ha presentato nel suo libro L’Avenir de l’esprit (Il futuro dello spirito), una distinzione simile a quella di Filone. Rileggiamo inizialmente la Bibbia: un primo testo della Genesi (quello che abbiamo collegato alla fonte P, fonte sacerdotale) ci trasmette solennemente la creazione del mondo intero, in un ordine qualitativo, in modo da presentarci alla fine la nascita di Adamo ed Eva come il vertice, l’apogeo della creazione: il suo re è introdotto per ultimo. Egli ci è presentato come immagine di Dio, tra Dio al quale non è identico e gli animali su cui deve predominare. E poi un secondo racconto molto psicologico, ma anche per certi versi molto ingenuo, ci rappresenta, al capitolo 2, Adamo creato, modellato da Dio e che poi prende moglie (la donna tratta del suo fianco): noi diciamo in modo critico che questo racconto appartiene al ciclo J, al ciclo jahvista, cioè alla prima sintesi storica trasmessa dalla Bibbia.
Ecco ora le “spiegazioni„ di Lecomte du Noüy a questa lettura. Il “primo Adamo„ era soltanto un abbozzo: era un essere inferiore creato soltanto per gli istinti di procreazione e di conservazione; non era ancora un uomo. Il “secondo Adamo„ al contrario, a cui Yahvé mette a disposizione un’opzione morale, è l’uomo capace di responsabilità, l’uomo vero.
Filone diceva già qualcosa d’analogo, ma in senso inverso. “Il primo Adamo„ (l’Adamo del capitolo primo), è l’uomo ad immagine di Dio, il “secondo Adamo„ (quello del capitolo due), è l’uomo modellato dalla terra. Il primo è l’uomo celeste (“ouranios„), il secondo è l’uomo terrestre. Filone ha comunque abbastanza diversificato le sue spiegazioni. Ma si vede bene che c’era una speculazione adamologica che affermava: il primo è l’uomo celeste, l’ideale dell’uomo, una specie di “idea platonica„ dell’uomo, che è stato creato; ed il secondo, l’uomo empirico, meno perfetto, terrestre, è creato in seguito come padre degli uomini. C’è dunque in Filone una distanza “cronologica„ tra il primo uomo, l’uomo celeste ed il secondo uomo, l’uomo terrestre. Forse troveremo qualcosa di ciò in San Paolo.
3. Il Vecchio Testamento ci presenta un’escatologia dell’uomo?
Il Vecchio Testamento ci ha fatto attendere un personaggio concepito come rappresentante ideale dell’umanità, l’Uomo con la U maiuscola? Sembra proprio che all’epoca di san Paolo l’espressione “l’Uomo„ fosse una designazione messianica.
Ecco un testo chiaramente contemporaneo di Paolo, quello di Ebrei 2,6 e seguenti. Noi sappiamo come l’autore rifletta sul famoso Salmo 8: “Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio (un « élohim »), … tutto hai posto sotto i suoi piedi “(in particolare le bestie). Si riconoscono del resto là i commentari di Genesi 1,26. Ma questo salmo è citato da Ebrei 2, per applicarlo a Cristo:
Anzi, in un passo della Scrittura qualcuno ha dichiarato: Che cos’è l’uomo perché di lui ti ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne curi? Di poco l’hai fatto inferiore agli angeli, di gloria e di onore l’hai coronato e hai messo ogni cosa sotto i suoi piedi. Avendo sottomesso a lui tutte le cose, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso. Al momento presente però non vediamo ancora che ogni cosa sia a lui sottomessa. Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza.
(Eb 2,6-10).
È Gesù, l’Uomo per eccellenza. Ma nel Vecchio Testamento troviamo anche questo stesso titolo come messianico. La traduzione dei Settanta parla dell’arrivo di un uomo: “Una stella spunta da Giacobbe e un Uomo sorge da Israele„ (Nm 24,7 e 17) (3). “Un uomo„: designazione messianica! Si ricollegherebbe a Genesi 1, 26, 27? al Salmo 8? Non ci sarebbero in questo Salmo 8, considerato come un salmo reale, le tracce di un’attesa, ovvero: un giorno sarà realizzato questo Uomo che attendiamo e che sarà il re perfetto di tutta la creazione?
Alcuni esegeti contemporanei, come Bentzen, hanno pensato che il Figlio dell’uomo di Daniele (7, 13) sarebbe come una rinascita dell’antica figura di questo dominatore della creazione (delle bestie in particolare). Non è anche lui vincitore delle bestie che simbolizzano i quattro imperi? (Impero di Babilonia, regno dei Medi, regno dei Persiani, regno di Alessandro Magno. Ndt). Questa figura, perlomeno, si prestava ammirevolmente a diventare una figura messianica personale e questa interpretazione è stata ratificata da Gesù che si è chiamato “il figlio dell’uomo„. Figlio dell’uomo, designazione misteriosa che corrispondeva ad Uomo (con la U maiuscola): ovvero, un membro dell’umanità, un figlio di Adamo, che avrebbe realizzato con un’eccellenza particolare, ciò che ci si attendeva fin dall’origine di questo Adamo, re del paradiso.
4. Il tema “dei due Adamo„ nella tradizione sinottica.
Ultima constatazione, probabilmente più pratica: il tema dei “due Adamo„ non è stato inventato da San Paolo; lo vediamo emergere chiaramente dalla primissima tradizione sinottica.
È Marco 1,13 che ci ricorda che Gesù visse fra le bestie selvagge, gli stessi che rispettavano Adamo, secondo le apocalissi. Vivere fra le bestie selvagge è una caratteristica messianica (in riferimento del resto al tema del Paradiso). Il capitolo 11 di Isaia ci garantisce che nei tempi messianici sarà come nel Paradiso: le bestie saranno tutte addomesticate, esse si capiranno tutte tra di loro:
Il lupo dimorerà insieme con l’agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà (4).
La mucca e l’orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue (5).
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano
nel covo del serpente velenoso (6).
(Is 11,6-8).
Così si presenta Cristo in san Marco: è fra le bestie selvagge, a seguito di una prova da cui, a differenza di Adamo, egli è uscito vittorioso. È così che apre una nuova era, è così che riprende vittoriosamente l’avventura del primo uomo.
In san Luca è da osservare che la tentazione messianica descritta al capitolo 4 segue immediatamente la genealogia di Gesù che si conclude così: “Gesù era figlio di Giuseppe…, figlio di Adamo, figlio di Dio„ (Lc 3,23;38). “Figlio di Adamo, figlio di Dio„: questa giustapposizione della tentazione e di questa denominazione è estremamente suggestiva. Il Padre Lagrange ha detto: “Si dovrebbe capire, da ciò che precede, che Gesù era un secondo Adamo, ben superiore al primo (7). „ Forse san Luca, che ha tanto ricevuto da San Paolo, a sua volta gli ha trasmesso qualcosa: non soltanto una specie di conciliazione che derivava dal suo carattere così umanistico, ma anche alcune caratteristiche teologiche primitive. D’altronde tutto ciò non deve per niente per ridurre al minimo ciò che la presentazione paolina del nuovo Adamo avrà di originale: poiché san Paolo non ci presenterà il Cristo “nuovo Adamo„ soltanto in questo quadro simbolico (ed anche un po’ mitologico) della vittoria sulle bestie.
II. PRINCIPALI TESTI PAOLINI SUL TEMA DEL NUOVO ADAMO
1. La prima epistola ai Corinzi (15, 21-22, 45-49).
a) L’occasione dell’epistola. Prima di abbordare questo passaggio per il nostro scopo, proviamo ad indicare l’occasione. Si tratta di una controversia sulla resurrezione. Ma a partire da una situazione molto concreta (del resto ci sono soltanto situazioni concrete in 1 Cor). La cristianità di Corinto era molto toccata, intorno al 55, dal numero di decessi verificatisi. A seguito di questi decessi giudicati prematuri si introdussero un certo numero di pratiche e si manifestò fra i Corinzi una certa mentalità. Alcuni, ricordandosi che il battesimo introduceva alla vita risuscitata, come dice Paolo (Rm 6), ricevevano il battesimo a beneficio delle loro morti. Altri, ricordandosi di essere greci e ragionando come gli Ateniesi il giorno in cui Paolo aveva parlato loro di “resurrezione dai morti„ (At 17,18), facevano fatica ad ammettere, sebbene cristiani, l’idea biblica di resurrezione: che ci si parli d’immortalità, bene! ma non di resurrezione (8). Era davanti al loro ellenismo impenitente che Paolo si trovava: “Come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? „ (1 Cor 15,12). Ci si immagina abbastanza bene nelle opinioni dei Corinzi questa punta di fiera ironia che noi troveremo negli gnostici, gli intellettuali. E si comprende la risposta di Paolo.
b) La solidarietà con Cristo. La risposta di Paolo consisterà nell’affermare vigorosamente la solidarietà totale del cristiano con Cristo. C’è soltanto un valore assoluto nel mondo spirituale, è Cristo Gesù. Noi siamo partecipi del suo destino. Il suo destino è allo stesso tempo esempio e fonte: noi vi dobbiamo partecipare. Il cristianesimo si definisce in termini di “koinonia„ (— di comunione): ecco perché la formula “in Christo„ basta per Paolo a designare l’associazione più intima concepibile del cristiano con Cristo spirituale che vivifica. Di conseguenza occorre passare per dove Cristo è passato. E’ risuscitato sì o no? È la sola questione che importa poiché condiziona tutto: la nostra fede ed il nostro destino; ciò che spiega l’insistenza di Paolo in questo capitolo 15: Cristo è risuscitato, noi risusciteremo. Se noi risuscitiamo, è poiché Cristo è risuscitato, se pensiamo che Cristo non sia risuscitato, la nostra fede è senza contenuto, essa è vuota (versetto 14). Negare il fatto fondamentale della Pasqua, è pretendere di conservare un’apparenza di fede, una fede senza contenuto.
Il capitolo 15 è di un’importanza eccezionale. Si tratta di eliminare con vigore una certa interpretazione platonica del nostro destino personale, una certa mentalità pre-gnostica. Paolo ha visto Cristo risuscitato: la sua testimonianza e la sua catechesi non sono inferiori a quelle degli altri Apostoli. Egli lo ha visto, sul cammino di Damasco, egli ha realizzato questo contatto inaudito con il Cristo glorioso. Lo ha visto e si serve, per descrivere questa visione, delle espressioni correnti nella tradizione farisaica (che non è senza legame con il libro di Daniele 12): i risorti hanno una specie di corpo che non è più il corpo terrestre (1 Cor 15,35;44).
c) Il parallelismo Adamo-Cristo. Ma Paolo supererà questa fase della semplice risposta alle difficoltà concrete per allargare la sua visione in una vasta antitesi. Ammiriamo qui questo doppio – genio di Paolo: genio storico e genio antitetico armoniosamente associati. Con lui non si resta mai fermi ad una piccola idea episodica: immediatamente la situa in una grandiosa visione storica e, per collegarla meglio, si serve del sua genio antitetico di “professore„. Ed ecco questa costruzione paolina.
Cristo ricomincia tutto, rinnova tutto: egli è la grande svolta della storia universale, è “l’una volta per tutte„ della storia della salvezza. L’umanità è per strada verso il suo destino e, durante il percorso, si ricollega a due uomini di cui porta l’immagine. Intendiamoci bene: un’immagine che non è semplicemente una copia limitata, bensì una forza che deriva dall’originale e che spinge a riprodurlo. Noi portiamo dentro di noi l’immagine dell’uomo terrestre e portiamo dentro di noi l’immagine dell’uomo celeste, come un dinamismo che trasforma. Noi non portiamo queste due immagini in sovrimpressione, bensì ci sottoponiamo al dinamismo vincitore della più forte. Il primo uomo, il secondo uomo: il primo introduce la morte nel mondo; il secondo vince la morte con la sua resurrezione. Adamo è incapace per sua natura di farci accedere ad una “economia„ di resurrezione: questa è caratteristica del secondo Adamo. Ma leggiamo il testo:
“Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita “(1 Cor 15,21-22).
Sta scritto infatti (Cfr. Gn 2,7) che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente (psyché), ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita (pneuma). Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste (1 Cor 15,45-49).
Riprendiamo più chiaramente questo parallelo: un uomo — un altro uomo; Adamo — Cristo; il primo Adamo — l’ultimo Adamo; un “essere vivente„ — uno “spirito datore di vita„. Il primo uomo che appartiene alla terra, che è di sostanza terrestre, fatto di terra, “di fango„ — il secondo uomo che appartiene al mondo celeste; il primo uomo che ha per caratteristica la carne, il sangue, la corruzione, tutto ciò che non è adatto al regno celeste — il secondo che è adatto e ci adatta a quel Regno. Questo passaggio traduce dunque, in modo ammirevolmente concentrato, il potere che ha il Cristo di conformare i credenti al suo corpo glorioso.
d) Le intenzioni profonde di Paolo. Quali sono, riassumendo, le intenzioni profonde di Paolo?
- Questo parallelismo risponde inizialmente alla tendenza innata del genio di Paolo verso l’universale. Quando i Giudei attendevano il Messia, lo hanno salutato come figlio di Davide. È esatto e Paolo lo sa bene, proprio lui che dirà ai Romani: “Cristo Gesù è nato dalla discendenza di Davide„ (Rm 1,3). Ma, parlando così, si rischiava di rappresentare in modo troppo ristretto l’opera di Gesù. Gesù nel mondo non prende origine soltanto da questo piccolo popolo giudaico, egli non è semplicemente il figlio di Davide. L’epistola agli Ebrei ha detto, forse fin da quel tempo (poiché questa epistola è molto vecchia), che Cristo è una replica di Melchìsedek. Ma Melchìsedek era un pagano: egli viveva prima che fosse organizzata l’istituzione teocratica e levitica di Israele; era il rappresentante di un sacerdozio umano, naturale. Ed è sorprendente constatare che si sia collegato Cristo, più che al sacerdozio aaronico, più che ad Israele, ad una figura pagana (monoteistico del resto). Paolo fa ancora meglio: tramite Davide, tramite Melchìsedek, egli si ricollega al primo uomo, risale fino ad Adamo. E’ quello un modo di coinvolgere l’universalismo: ci sono due poli nell’umanità, Adamo ed il nuovo Adamo. Ed ecco d’un tratto i titoli messianici tradizionali non aboliti, ma allargati, approfonditi e Cristo messo al suo posto unico.
- Seconda intenzione, accessoria a quella: forse un’intenzione polemica contro una speculazione del genere filoniano. Se non mira in modo particolare a Filone, per lo meno ad una mentalità simile. Ricordiamo l’essenziale della speculazione del filosofo giudeo di Alessandria: c’è il primo Adamo, Adamo ideale, immagine di Dio; dopo viene l’Adamo empirico di cui conosciamo le avventure grazie ai capitoli 2 e 3 della Genesi. Dice san Paolo: “Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale „ (1 Cor 15,46), è l’Adamo terrestre, l’Adamo “di fango„ e colui che viene per secondo, è l’Adamo spirituale, l’Adamo vivente immagine di Dio (eikôn), il Cristo. Viene cronologicamente per secondo, dopo alcune migliaia di anni (9) di una storia umana della salvezza. La speculazione filoniana è capovolta.
- Terza intenzione di Paolo: sottolineare l’importanza della resurrezione in questo parallelo: il nuovo Adamo è il risuscitato. Ed è perché è risuscitato che è diventato il nuovo Adamo. Egli appartiene di conseguenza al mondo celeste dove può attirarci. Il versetto 47: “Il secondo uomo viene dal cielo„, non è un’allusione all’Incarnazione. Questo versetto deve leggersi nella prospettiva di Rm 8,11: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi „. La resurrezione ed il dono dello Spirito che è collegato ad essa, fonti di vita nuova per l’umanità: ecco la verità che San Paolo ha intenzione di sottolineare.
- La quarta intenzione di Paolo è un’intenzione spirituale pratica. Noi non porteremo soltanto l’immagine dell’Adamo celeste alla Parusia, ma possiamo già, come anticipazione, essere gente sublime, abitanti del cielo. Poiché la vita della grazia è già la gloria del cielo: la Parusia sarà soltanto la rivelazione di questo stato invisibile ma reale: “E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste „ (1 Cor 15,49.
Ecco le quattro intenzioni principali di San Paolo: intenzione di rimettere Cristo al suo posto, in un universalismo straordinario, connotato del resto da questo titolo “Adamo„; intenzione secondaria di polemica contro Filone; intenzione di ribadire che, se Cristo è questo “pneuma„ che vivifica, capace di conformarci a lui, lo è in quanto risuscitato; intenzione morale infine: stimolarci a vivere fin d’ora nello stato portato dal secondo Adamo, ad abitare il cielo.
2. L’epistola ai Romani (5, 12-21).
Riguardo al testo precedente, ricordiamo che l’occasione era una controversia sulla resurrezione, ma, parlandoci, Paolo (che fa una ricapitolazione, come osserva san Giovanni Crisostomo) non aveva potuto impedire di evocare “per vie traverse„ tutta l’economia cristiana. In Romani 5, quest’economia cristiana è abbordata per sé stessa, nella sua ampiezza. Paolo vuole intraprendere una sintesi, una vasta relazione globale. Egli ne ha il tempo; è in un periodo di tranquillità. La seconda epistola ai Corinzi è stata appena scritta e, a Corinto, si sta godendo tre mesi di pace. Egli fa dei piani di viaggio (gli Atti ce ne parlano) e fa anche una messa a punto dottrinale: ci darà il quadro panoramico della storia della salvezza, un quadro che è in sostanza una meditazione sulla Scrittura. E, ciò che è notevole, non si vede emergere nessun testo preciso, tanto la Scrittura è diventata la sua carne ed il suo sangue (come sarà il caso di san Bernardo). Lui la conosce a memoria ed è capace di svelare il senso profondo della storia della salvezza.
È un teologo geniale che ci dà nella lettera ai Romani la sua sintesi di soteriologia, la sua sintesi sul mistero della nostra salvezza:
Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosé anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. (Rm 5,12-19).
Non voglio “disquisire„ su questo testo, ma semplicemente indicarne il movimento:
a) Il “peso„ e lo “slancio„. Si tratta di confrontare due economie, l’economia che chiamerei “del peso„ e quella che chiamerei “dello slancio„? L’economia del “peso„, quella di Adamo; l’economia dello “slancio„, quella di Cristo. Esse sono tutte e due caratterizzate da una solidarietà e da una sorta di fecondità ecumeniche: voglio dire che tutti vi partecipano. Ma in senso opposto. La fecondità di Adamo è, se si può dire, la “fecondità „ del peccato (occorrerebbe quasi mettere: Peccato): noi assistiamo allo scatenarsi della potenza “Peccato„, che è dotata di un tipo d’esistenza reale, come nel Vecchio Testamento. Questa potenza è all’opera nell’umanità, è un orribile “peso„ che trascina tutti gli uomini e che è iniziato e messo in circolazione dal peccato primordiale di uno solo che ci costituisce tutti in modo misterioso solidali della sua colpa: il Peccato prende origine in Adamo.
A lato c’è l’economia dello “slancio„, rispetto alla quale l’altra era tipica in senso opposto. Anche là c’è una fecondità che deriva da un’unica fonte e fecondità “ecumenica„. Ma questo parallelismo è in realtà un parallelismo di superiorità perché la grazia è un contributo divino, mentre il peccato era di contributo diabolico. C’era il polo negativo, ecco ora l’umanità polarizzata positivamente. Il punto di partenza della ricostruzione era certamente più difficoltoso di quello della decadenza. Ma la grazia è un contributo divino: accanto ai numerosi peccati, c’è Dio all’opera in Cristo.
Ecco lo straordinario talento antitetico di Paolo che vuole elaborare uno schema di questo parallelismo il più perfetto possibile: Adamo fonte — Cristo fonte. Per lasciare ad Adamo il suo ruolo di fonte, egli non ha esaminato da dove venisse la potenza Peccato, ha depurato completamente la “fonte„, perché Adamo deve essere in contrasto perfetto e in esatto “repoussoir„ (9 bis) con Cristo: l’ombra di Adamo è su Cristo e la luce di Cristo illumina per contrasto la figura primitiva di Adamo. Non ci si sorprenda più di tanto: Paolo sapeva bene che Adamo non era solo, che il demonio era all’opera nel suo peccato (Cfr. “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo„ Sap 2,24); ci sono anche presso di lui allusioni al ruolo di Eva (2 Cor 11,3): lui sapeva bene che lei era lì per qualche motivo (10). Lui sa il ruolo del demonio e sa il ruolo di Eva. Ma c’è nel suo parallelismo che sembra ignorare queste “pressioni„ subite da Adamo, qualcosa di arduo e di spontaneo che appartiene al “genere letterario„ che Paolo ha adottato: voleva presentarci in vigoroso contrasto queste due fonti, feconde diversamente, feconde in senso opposto, ma feconde per tutta la razza umana.
b) L’obbedienza di Cristo. Seconda caratteristica essenziale (si dovrebbe piuttosto dire esistenziale) è la definizione del nuovo Adamo (sempre in contrasto con il vecchio Adamo), partendo dal suo atteggiamento; ciò viene alla fine del resoconto (Rm 5,19). Il nuovo Adamo si definisce tramite la sua obbedienza e si oppone con ciò alla disobbedienza del suo “tipo„. Il cristianesimo primitivo è stato unanime nel vedere nell’obbedienza l’atteggiamento costante di Cristo a partire dalla sua entrata nel mondo (Eb 10,9). Egli viene per obbedire ed Eb 5,8 è particolarmente suggestivo in questo senso: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì „. La sua missione è una missione d’obbedienza: il quarto Vangelo ripete costantemente che Cristo è venuto a compiere gli ordini di suo Padre. Obbedienza di Cristo nell’agonia: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu„ (Mc 14,36). Obbedienza di Cristo sulla Croce: “Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!» „ (Gv 19,30).
Paolo coglie volentieri l’obbedienza di Cristo al suo più alto grado di perfezione, cioè sulla Croce (il testo seguente lo mostrerà): la Croce è il massimo dell’obbedienza, un momento in cui Cristo si manifesta interamente. Noi conosciamo questi momenti nelle nostre vite. Le occasioni d’eroismo non sono di tutti i giorni, ma ci sono dei momenti in cui ci si dona ed in cui ci si rivela a fondo. Per San Paolo, la vita di Cristo è centrata su quest’atto d’obbedienza della Croce. La vita di Adamo, secondo la Scrittura, è centrata sulla sua disobbedienza.
San Paolo aveva dunque due intenzioni: sottolineare ed illustrare con un contrasto la fecondità ecumenica di Cristo, fonte unica della salvezza, insistere in seguito sul segno distintivo della sua vita quaggiù, ricondotto all’unità dell’atto della Croce che è un atto d’obbedienza.
3. Filippesi 2,6-11.
Questo testo famoso è in tutte le testimonianze: “Si è umiliato, si è annientato, “svuotò„ sé stesso… Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome “. È l’epopea di Cristo: dal cielo all’annientamento; dell’annientamento all’esaltazione. L’epopea di Adamo la si indovina in filigrana, è come sottostante. Adamo, al contrario di Cristo, ha voluto elevarsi indebitamente, mentre era soltanto un uomo; di conseguenza è stato precipitato nella disgrazia. Questa prospettiva è quella di san Tommaso e di questo grande esegeta cattolico, di supposta simpatia giansenista del XVII° secolo, Estio (Willem Hessels van Est, 1542-1613. Ndt), che non si è molto impegnato come commentatore di San Paolo.
Cosa si può prendere in considerazione di questo testo? Il processo di auto-glorificazione del primo Adamo è opposto al processo di “povertà„ del secondo: “egli ha impoverito sé stesso„. Da ricco si è fatto “povero„. È tutta quest’idea dello “anawa„, della povertà spirituale, dell’apertura a Dio e dell’umiltà che trova là il suo significato. Ho quasi voglia di dire: è tutto il subconscio di Paolo che vi affiora. La sua vita non è stata forse una lotta per l’umiltà contro l’auto-glorificazione? Una parola ritorna continuamente presso di lui, è “glorificarsi„; la ripete incessantemente: “Non occorre glorificarsi, occorre glorificarsi nella Croce di Cristo„. Si direbbe un’ossessione presso di lui, un’ossessione da cui vuole liberarsi dispiegandola a gran giorno: non glorificarsi! È la testimonianza di un dramma… e di una vittoria, grazie a Cristo!
III. IL TEMA DEL “NUOVO UOMO„
Il tema del “nuovo uomo„ è una designazione concreta della natura umana rinnovata dall’influenza di Cristo che vivifica: noi siamo uniformati a Cristo risuscitato, siamo uomini nuovi. Mons. Cerfaux ha detto in modo splendido: “L’espressione uomo nuovo è una metamorfosi (In francese un “avatar”. Ndt) dell’espressione nuovo Adamo„. Cristo non è chiamato da nessuna parte in San Paolo il “nuovo uomo„: la prima volta che è nominato così è nelle epistole di sant’Ignazio d’Antiochia, non molto tempo dopo, è vero. Ma infine, Adamo vuole dire uomo. Questo tema del “nuovo uomo„ si colloca in tre sfere:
a) La sfera sacramentale. Il “nuovo uomo„ è formato nel battesimo
(Rm 6,6; Gal 6,15).
b) La sfera etica. La vera rinascita dell’uomo è ora garantita grazie a Cristo: questa rifusione messianica dell’uomo annunciata dai profeti che doveva consistere nell’infusione di un cuore nuovo, di uno spirito nuovo (Geremia — Ezechiele — Salmo 51). È l’influenza di Cristo che si spiegherà nell’uomo nuovo, o piuttosto che farà dispiegare nell’uomo nuovo l’immagine di Dio: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo (uomo), che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato „ (Col 3,9-10) (11).
L’essenziale è di coincidere con il nuovo uomo che è in noi, con il Cristo in procinto di trasformarci. Come? L’epistola al Colossesi ce lo dice, come pure l’epistola agli Efesini: “Ora invece gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni… vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo …„. (Col 3,8-11) (12). È il programma cristiano, il programma di questo Adamo ad immagine di Dio che noi realizziamo.
c) La sfera ecclesiastica. L’epistola agli Efesini (2, 14 ss) presenta bene quest’aspetto comunitario: le due parti dell’umanità, Giudei e pagani, formano un Uomo nuovo collettivo.
Così è tutto un programma di rinnovamento profondo che sta alla base dell’espressione “Nuovo Adamo„, “Nuovo uomo„. L’uomo biblico ha trovato in Cristo il suo modello, il suo appoggio, la sua perfezione.

NOTE SUL SITO

LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

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LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

biblista – Presidente del Pontificio consiglio della cultura

Maestri nella lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si rapportano alla Parola di Dio.
Il 21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in 1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più « giudaico » sia per rimandi a situazioni concrete (anche polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63 sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca anche la memoria del « biblista » san Girolamo che non solo si dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro versione in latino la missione principale della propria vita, andando persino a lezione di ebraico da un rabbino.
Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo naturalmente ricorrere a una terminologia « tecnica » piuttosto specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.
Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti» alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle « pericopi », cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità giudaica.
Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico, quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi» ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’, «lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm, cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene, quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).
La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però «muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.
L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah, «narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).
A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso» (in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo, quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».
Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca medievale.
Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima densità spirituale della pagina scritta.
Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu dato da un movimento « laico » come quello sionista, ma è presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico, abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su queste stesse pagine, parlando degli « Ebrei messianici »).
Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare « Nostra Aetate n. 4″, proposti nel 1974 dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa».

Gianfranco Ravasi

 

IL VIAGGIO A GERUSALEMME (biblica )

https://letterepaoline.net/2015/10/18/il-viaggio-a-gerusalemme/

IL VIAGGIO A GERUSALEMME

This entry was posted on 18 ottobre, 2015, in Sillabario.

di Michele Ranchetti (*)

Ranchetti

1. «Se il cristianesimo è la verità, allora tutta la filosofia al riguardo è falsa». Questa proposizione di Wittgenstein del 1949, contenuta fra i suoi pensieri diversi, ha costituito per me un nuovo inizio. E si connette con un’altra sua osservazione, di alcuni anni prima, nella stessa raccolta di pensieri, arbitraria ma utile: «Il cristianesimo non è una dottrina, ossia non è una teoria su quanto è accaduto o accadrà all’anima dell’uomo, quanto una descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Per me, che ero andato «a dottrina», come si diceva allora per indicare l’istruzione religiosa al di fuori della scuola, in parrocchia, queste due asserzioni hanno favorito nella loro semplice formulazione, non autorevole, non iscritta in un contesto disciplinare appropriato, la ripresa, a distanza di anni, appunto, da quella «dottrina» ricevuta passivamente come forma per eccellenza della verità, di una diversa intelligenza della riflessione religiosa, in un certo senso libera, o almeno non protetta da una struttura di riferimento, da un’ortodossia di ricerca e di esperienza.
Scrive Wittgenstein: «tutta la filosofia al riguardo». Non scrive, come si potrebbe intendere a una lettura superficiale: «tutta la filosofia». Ossia traccia un limite, non libera il campo religioso dalla speculazione filosofica. Che sarebbe tanto promettente, quanto insensato, letteralmente.
Più rilevante, comunque, la seconda asserzione: la prima in ordine di tempo. «Non è una dottrina». Ma, come mi è subito apparso chiaro, era proprio come dottrina che il cristianesimo mi era stato fatto presente: la dottrina della fede, i sacramenti, il loro ordine, il loro numero limitato, come se questi elementi, articuli fidei non avessero, né potessero avere, per loro natura e carattere, alcun contesto, non facessero appunto parte della storia dell’uomo. Mentre io ne facevo parte.
Le due frasi di Wittgenstein non sono frasi ispirate, non hanno niente di esclamativo o di perentorio: sono «parti di un discorso», e di una sorta di diario che accompagna e si inserisce nel diario teoretico che costituisce il «tipo» della sua filosofia. Ed è proprio per questo loro carattere discorsivo (più evidente se le si ricolloca nel contesto da cui sono state estratte arbitrariamente) che hanno avuto e hanno su di me una così straordinaria rilevanza. Wittgenstein è un uomo che si interroga e che incontra (non importa per ora in quale fonte, ma probabilmente nel vangelo di Tolstoj, ritrovato per caso durante la guerra in un luogo improbabile) il fatto della vita di Cristo, il fatto della sua morte e della sua resurrezione. Appunto, «un evento reale nella vita dell’uomo».
Sono ripartito da qui. E ho iniziato un percorso non compiuto e certo non terminabile (come l’analisi di cui scrive Freud) per rintracciare l’origine di questa «dottrina» nella quale ero stato introdotto, direi quasi a mia insaputa, o meglio all’insaputa della mia coscienza vigile. Ho iniziato cioè un percorso a ritroso: dal dato di fatto della mia appartenenza storica alla chiesa cattolica apostolica romana (ossia dalla mia vita di uomo del mio tempo) per ripercorrere «storicamente» e per interrogare «storicamente» gli elementi costitutivi della mia formazione e le ragioni della mia appartenenza. La prospettiva in cui mi sono posto non mi consentiva alcuna «protezione» teoretica o «religiosa»; volevo pormi di fronte ai «dati di fatto».
Ho trovato, per così dire, alcuni oggetti: il catechismo, il Nuovo Testamento, l’Antico Testamento e ho provato a esaminarli come oggetti appunto, strumenti, utensili per il mio «vivere». Sapevo che, per obbedire alle asserzioni di Wittgenstein, dovevo partire da questi strumenti e non altri. Il resto apparteneva alla «letteratura sull’argomento», e io credevo a questa «differenza» o almeno mi sembrava naturale e originaria. Del resto, le asserzioni di Wittgenstein, per essere vere, dovevano essere «provate» su questi testi, e non altri. Ed essi così mi sono apparsi come tre scogli affioranti su un mare, residui visibili di una marea che si era accanita su tutto il resto, erodendolo sino a sommergerne i detriti.
2. Ma erano oggetti singoli, autonomi, indipendenti fra loro, oppure essi si trovavano in una relazione particolare, o in una dipendenza? Stavano l’uno senza l’altro, era cioè possibile esaminarli singolarmente, oppure vi era una connessione non eliminabile? E ancora. Erano oggetti «compiuti», delimitati, finiti? Immobili, o in movimento? Mi sono posto tutte queste domande e ancora continuo a pormele. Ma per farlo, ho dovuto disconoscere una grande massa di «informazioni» che si erano depositate in me e che mi impedivano, in certo modo, di guardare agli oggetti nella loro singolarità e che condizionavano, quasi fossero evidenze non eliminabili, il rapporto fra di essi. Ed erano i modi di intenderli e di valersi di essi, la storia e la leggenda del loro uso che, da giustificato e ricostruibile, era divenuto un abito mentale, se non una verità naturale. E mi sono accorto che stavo procedendo a demolire una sorta di «storia aggiunta», quasi di incrostazione che si era depositata su quegli oggetti semplici, per poter ripartire dalla loro storia.
La prima domanda che mi sono posto riguardava la loro forma. Io vedevo due oggetti limitati. In ordine cronologico: un insieme di scritti, denominati di solito Antico Testamento, un altro insieme di scritti, denominato di solito Nuovo Testamento, e un insieme di scritti detti catechismo. Inoltre, i primi due insiemi ricevevano, soprattutto in tempi recenti, il nome comune di Bibbia. Il terzo insieme non era un insieme fisso, a differenza dei primi due: presentava un’infinità di varianti, per cui, sino dalle mie prime nuove osservazioni, si caratterizzava come un insieme mobile e non omogeneo.
In realtà, ciascuna delle domande che mi ponevo, presupponeva o conduceva alla domanda seguente: non erano, in certo modo, domande singole, nel senso che non si poteva affrontare l’una senza affrontare o aver risolto l’altra. Ma era possibile definire, sia pure provvisoriamente, il carattere dei singoli insiemi? Ho provato a farlo. Il primo insieme, il cosiddetto Antico Testamento, riceve il suo nome (la sua designazione tradizionale) solo in relazione al secondo elemento. Dunque il nome, che lo designa, è anche il segno di una relazione. Al di fuori di questa relazione, l’insieme degli scritti che lo compongono non ha il carattere di premessa, ma piuttosto di descrizione narrativa di un’alleanza: l’alleanza fra Dio e il popolo da lui eletto.
Gli scritti, tuttavia, non hanno un ordinamento cronologico; neppure sono ordinati secondo la data di composizione, né appartengono a un unico genere letterario. I loro autori non si conoscono: e dunque l’autorevolezza dello scrittore non ha alcuna rilevanza. Detto semplicisticamente: essi sono esecutori, scribi. Il dettante è al di fuori (al di sopra) dello scritto. Quindi si pone con essi l’esempio di una scrittura che non si misura (non si intende) con l’autore, ma con il supposto dettante. Una scissione non ricomponibile. E tuttavia gli scritti che compongono il corpus che viene comunemente designato come Antico Testamento sono un corpus compiuto. Non tutti gli scritti composti durante i secoli sono confluiti in esso, ma solo alcuni cui viene attribuito il carattere di «autenticità» non rispetto all’autore ma al dettante. Il criterio di discriminazione è però vago, ed è vaga o almeno difficilmente ricostruibile e fissabile l’autorità, anzi il tipo di autorità, che ha presieduto alla scelta. E la ratio che l’ha ispirata. L’unica certezza relativa è una certezza «storica». Ossia, che vi è stato un momento in cui si è deciso o sì è accertato che «da allora in poi» non era più possibile riconoscere ad alcuno scritto quel carattere esecutivo, di trascrizione di una parola prima ascrivibile ad alcuni componimenti letterari di genere diverso. La trasmissione si era interrotta. Ora toccava al commento.
Non vi è una linea netta di demarcazione, né una cesura nettamente visibile, e fra testo e commento si instaura un singolare rapporto che si potrebbe definire di esegesi aggiuntiva. Tuttavia il segno di una differenza permane. Ma qual è il tempo del racconto, e qual è l’evento di cui i libri riferiscono? L’evento è uno solo: è la parola di Dio; il resto è la narrazione dell’ascolto di questa parola da parte di un popolo: la sua obbedienza, il suo rifiuto e il suo uso.
3. Del tutto diverso, direi radicalmente diverso, il carattere del secondo insieme di testi. Questi tutti derivano da un fatto: l’incarnazione, la morte e la resurrezione di Gesù di Nazareth. Non altro. Sono, cioè, la narrazione dei fatti e delle parole di un singolo (Cristo), e la narrazione degli atti e delle parole dei suoi discepoli. In più, un testo diverso, di altro carattere e genere letterario, l’Apocalisse, attribuita a uno dei discepoli e forse soprattutto per questo inserita alla fine. Qui, a differenza che nell’insieme precedente, l’evento è un Patto storico, inserito nella storia. E il tempo è un tempo storico, nel quale l’evento si è verificato. Gli scribi sono dei testimoni, la trasmissione si rifà a una parola pronunciata da qualcuno che è stato visto da molti, che hanno assistito alla sua morte, e che l’hanno visto risorto. Negli scritti del Nuovo Testamento è riferita la parola di Gesù di Nazareth (la parola di un singolo) e in seguito le parole e gli atti di un gruppo: vi è cioè il principio e il carattere di un’assemblea che si costituisce e si riconosce in un’alleanza di uomini ordinata a un fine: la predicazione di una verità, dove la verità è un fatto che si è verificato sotto i loro occhi, nel tempo della loro esistenza terrena.
È un insieme compiuto secondo il principio della testimonianza. Ma l’ordinamento non è cronologico. Sappiamo che il primo scritto che vi figura, quanto a data di composizione non è il primo scritto che si riferisca all’evento, anzi, è già un documento di predicazione che presuppone relativamente diffusa la conoscenza dell’evento e ha già la struttura di una riflessione: per così dire di un secondo momento, di un’elaborazione dottrinale. La lettera paolina ai tessalonicesi (se non è un’altra lettera paolina a precederla, secondo esegeti recenti) è già relativa a un’attesa, a un futuro, a una fine. Ma nell’ordinamento dell’insieme figura dopo i Vangeli e gli Atti. I primi testi, poi, non compaiono secondo la data della loro stesura o almeno secondo la data dell’arrangiamento in cui li conosciamo. Per solito, poi, i Vangeli subiscono una distinzione fra sinottici, i primi tre, e un quarto, cui si attribuisce un diverso carattere di testimonianza. Ma forse non è così, se alcuni recenti esegeti anticipano la redazione del testo giovanneo sino a fissarla prima dei testi di Marco e di Matteo. Gradualmente, cioè, veniamo a riconoscere che l’insieme cui diamo il nome di Nuovo Testamento è il risultato di un processo di selezione e di ordinamento che si è compiuto nei primi secoli dell’era cristiana. Sappiamo che sono molti i testi esclusi, che le testimonianze sulla vita e i detti di Gesù erano molto numerose, così come numerosi sono i testi ascritti al genere apocalittico (un genere che non ha precise connotazioni). Ma si è operata una scelta, e si è imposto un ordinamento: si è fissato un canone. Ma secondo quali criteri? e da parte di chi? Sappiamo che l’autorità che ha presieduto alla scelta e all’ordinamento è la chiesa, e che è la chiesa che ha definito apocrifi alcuni vangeli e ha così istituito un criterio di «autenticità» e conseguentemente di esclusione rispetto alle testimonianze. Così come sarà la chiesa in tempi molto recenti a dichiarare solennemente conclusa la rivelazione, in riferimento a fonti paoline di discutibile pertinenza. Ma chi è la chiesa?
4. Abbiamo dovuto renderci conto, quindi, che i due primi insiemi, l’Antico e il Nuovo Testamento, non sono due grandi massi erratici depositati intatti sulla riva della nostra storia. Che essi sono due costruzioni, e che sul secondo di essi è intervenuta a forgiarlo un’autorità non astratta, ma concreta, storica, visibile.
Cercando di rispondere a un’altra delle mie domande, e ricordando che per solito il primo e il secondo insieme sono indicati con il nome comune di Bibbia (un significativo singolare majestatis) mi sono interrogato sul carattere e il senso di questa connessione. È certamente un’indicazione di tempo: gli scritti che compongono il canone veterotestamentario precedono quelli del secondo canone. Tra i primi e i secondi vi è un tempo acanonico, ma non vuoto di scritti, che infatti ora si raccolgono con il nome di scritti intertestamentari, a sottolineare ancora una volta la presenza direi quasi coercitiva dei due insiemi maggiori.
Ma non è solo una successione temporale: la designazione di un primo e di un secondo testamento pregiudica il carattere della connessione suggerendo un’idea di premessa e di conferma, in una sorta di sviluppo necessario e insieme naturale, come da un seme a un albero. In ogni caso così era la modalità di lettura nell’istruzione religiosa delle scuole cattoliche. L’Antico Testamento tendeva al nuovo come al suo unico fine: in esso si contenevano le profezie avverate nel Nuovo, da un tempo astorico, più ancora che preistorico, al tempo storico dell’era, appunto, storica, il nostro tempo cristiano. Soprattutto non era possibile, direi anzi insensato, proporre una lettura dei testi veterotestamentari senza «il senno di poi» degli altri testi. Ma questa, diversamente da altre «presupposizioni», non era affatto una forzatura. Il Nuovo Testamento è la storia della nascita, della morte e della resurrezione di Gesù, figlio di Dio. Non è una premessa, né una profezia, né la forma scritta, o la testimonianza di un’attesa messianica: è la narrazione di un evento e dei primi tempi storici della predicazione di esso da parte dei discepoli e della costruzione da parte di essi della forma «istituzionale» della chiesa visibile e invisibile.
In un certo senso, la connessione vale solo a partire dalla verità dell’evento narrato dal secondo insieme: per così dire, a ritroso. Non ha senso, o piuttosto non ha «verità», a partire dal primo insieme se esso non ha conferma nel secondo, se disconosce nel secondo la sua prosecuzione inverante. Non solo: in questo caso, fra il primo e il secondo testamento (ma la denominazione, come si sa, non è adottata dalla cultura ebraica) vi è un conflitto, una contrapposizione radicale. Per questo la lettura della Bibbia come unità mi è sempre sembrata qualcosa di improprio, in un certo senso una prevaricazione o una appropriazione non esplicita. Per questo ancora, le tesi di «eretici» come Marcione che intendevano separare se non contrapporre i due testamenti, mi sono sempre apparse degne di considerazione, in particolare nella loro interrogazione sulla natura dei due canoni.
5. Rimane da interrogare il terzo insieme: il catechismo. Non è un insieme omogeneo: i catechismi sono moltissimi, di diversa origine, struttura, lingua, ordinamento. Ma sono fra di loro connessi dal proposito comune che li ispira, così da consentire l’uso di un singolare, anche qui, majestatico. Il proposito è quello di raggruppare in un testo breve (Summa brevis) tutto ciò che all’uomo è necessario sapere per salvarsi. Ma non un riassunto, piuttosto solo gli elementi (pezzi, Stucke, articuli, talvolta articuli fidei) tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, e solo da essi.
Non esiste però un catechismo ebraico: l’idea della Summa brevis non è presente nell’ebraismo, credo. Ma è presente dai primi secoli del cristianesimo e si può ripercorrerne la storia (e la fortuna) sino all’apparire dei primi esempi verso la fine del ’400 già nella forma poi ripetuta sino a oggi.
Questi «elementi» che non mancano mai in tutti gli esempi di catechismo sono: il Credo, il Decalogo, il Pater noster, i sacramenti, alcune preghiere. Varia il loro ordinamento, non è mai presente «il contesto», ossia le fonti che, come si vede, sono tutte neotestamentarie, tranne il Decalogo. Quasi a suggerire che dell’Antico Testamento, degli scritti dell’alleanza e della profezia, delle narrazioni e degli esempi rimane solo la legge; anche se è vero che in molti catechismi la legge è il primo degli articoli, ha, cioè, un carattere inaugurale.
Ma anche il proposito stesso è neotestamentario: il nesso sapere-salvezza non corrisponde immediatamente all’invito all’ascolto della parola: introduce, mi sembra, nella forma stessa dei «momenti» isolati di verità, l’abbandono di una lettura non ordinata e soprattutto si oppone all’idea di verità nella storia. È frutto, a me pare, di quel graduale processo esegetico di intervento sul testo, di interpretazione secondo griglie conoscitive, criteri di comprensione comunque esterni al testo, per facilitarne la lettura. In alcuni casi, si avverte anche l’eco delle regole di Ticonio e di Agostino: appaiono il genere e la specie, le categorie aristoteliche, i topici che risulteranno, per così dire, vincenti nella ripresa della retorica nei Loci di Melantone.
Inoltre, risulta evidente che il catechismo implica una scelta, che richiama la scelta operata fra le diverse scritture per comporre i due canoni vetero e neotestamentario. Qui, la scelta è ancora più radicale: non singoli libri, ma pezzi di libro, elementi, nell’ipotesi che proprio questi elementi e non altri, e non i libri da cui erano tratti, bastassero al sapere e alla salvezza o al sapere per la salvezza. Ed è anche evidente, infine, che il proposito riduttivo, comunque ispirato, finiva per esimere il credente dalla lettura dei testi sacri. La Summa brevis, il Verbum abbreviatum di fatto sostituiva la Bibbia, così come le sentenze di Pietro Lombardo sostituiranno la lettura dei padri.
Ma chi ha operato la scelta? Chi ha compiuto il processo riduttivo del corpus degli scritti a un numero esiguo di testi ai quali si riconosce il potere di verità, cui ci si affida per la salvezza, a cui si deve ricorrere per orientarsi nel vivere e nel credere? E ancora, se il primo canone risulta inutile, perché confluisce nel secondo, e il secondo è compendiato nel catechismo, perché ricominciare da capo, come se questo percorso non fosse esauriente, oppure non fosse compiuto, come se si fossero trascurati momenti di conoscenza o di esperienza apparsi necessari in un secondo tempo, che non è quello dell’attesa o della conferma, ma ancora di attesa? La chiesa è il maggiore artefice di questo processo, e ha anche operato di conseguenza, in particolare vietando per due secoli della sua storia la lettura della Bibbia in lingua volgare e frapponendo se stessa fra la lettura dei testi e la loro intelligenza.
Come nel gioco che in tedesco si chiama «il viaggio a Gerusalemme» (è il gioco di girare attorno ad alcune sedie una accanto all’altra ma con gli schienali opposti, una in meno rispetto al numero dei partecipanti, al suono di una musica che si interrompe improvvisamente, e chi non riesce a sedersi esce dal gioco) potrebbe sembrare che il pontefice, solo, sieda sulla sola cattedra di Pietro. Ma forse non è così. Sono state aggiunte alcune sedie e la musica ha ripreso a suonare. Si possono di nuovo formulare tutte le domande.

***

(*) Intervento pronunciato al Convegno di «Biblia», Firenze, novembre 2002. Testo tratto da M. Ranchetti, Non c’è più religione. Istituzione e verità nel cattolicesimo italiano del Novecento, Garzanti, Milano 2003, pp. 105-113.

 

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

http://disf.org/simbologia-luce-sacra-scrittura

FIAT LUX: LA SIMBOLOGIA DELLA LUCE NELLA SACRA SCRITTURA

Gennaio 2015 Filippo Serafini, docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma   È difficile sottovalutare l’importanza della luce nella Bibbia, dato che essa compare fin dalla sua pagina iniziale, essendo la prima delle opere create (Gen 1,3: «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»), e si ritrova anche nella pagina conclusiva (Ap 22,5: «Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli»). Nella Bibbia l’uso concreto dei termini legati al campo semantico della luce (oltre al sostantivo «luce», in ebraico ’ôr e in greco phôs, pensiamo a vocaboli come «lampada», «lucerna», «lucernario», «illuminare», «brillare», «splendere», «rischiarare», ecc.) si intreccia con quello metaforico. Il nostro intendimento è di presentare soltanto alcuni punti fondamentali legati all’esperienza della luce così come viene esposta agli autori biblici. La luce nel Primo Testamento Conviene precisare fin dall’inizio che la concezione ebraica antica, che soggiace per lo meno ai testi dell’Antico Testamento, è diversa dalla nostra: mentre noi riconduciamo l’esperienza della luce sulla terra al ruolo fondamentale del sole, l’israelita sembra presupporre una certa indipendenza della luce. Certo il sole era considerato una fonte di luce, ma non l’unica perché anche le stelle e la luna lo sono (cfr. Gen 1,14-16; Is 30,26; 60,19; Ger 31,35; Ez 32,8; Sal 136,7-9) né si percepisce una maggiore importanza del sole nei confronti di luna e stelle (non si aveva idea che in realtà la luna riflette la luce solare, come noi ben sappiamo). A tale concezione soggiace forse l’esperienza della presenza di luce anche quando il sole non si vede (come con il cielo nuvoloso o all’aurora, nel momento in cui un chiarore compare al’orizzonte prima che il sole sorga). Questo spiega perché l’autore biblico possa immaginare in Gen 1 la creazione della luce, narrata nei vv. 3-5, come precedente la creazione degli astri, narrata nei vv. 14-19. Inoltre in questo testo la luce è associata primariamente al «giorno» («Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte», Gen 1,5) e l’idea fondamentale è appunto quella dell’alternarsi di giorno e notte, come ritmo ordinato del tempo all’interno del quale si inserisce la vita. La separazione tra luce e tenebre crea quindi l’«ordine» basilare e si contrappone alla situazione negativa descritta al v. 2, con il dominio delle tenebre (per un approfondimento su come vada interpretato il racconto di Gen 1 si veda P. Benvenuti – F. Serafini, Genesi e Big Bang, Assisi 2013). L’ordinato alternarsi di luce e tenebre non le mette comunque sullo stesso piano: rimane la superiorità della luce, per la quale vale il giudizio di «bontà» formulato da Dio stesso (Gen 1,4). D’altra parte, non c’è nemmeno, nella Bibbia, un dualismo ontologico tra luce e tenebre: è vero che le tenebre sono un simbolo negativo, associato al caos e alla desolazione (realtà che l’antico israelita percepiva come antitetiche alla creazione, cfr. Ger 4,23), ma poste entro i loro limiti e controllate dalle leggi volute dal creatore fanno parte dell’ordinamento del mondo (per questo Is 45,7 può mettere in bocca al Signore l’affermazione: «Io formo la luce e creo le tenebre»). Il racconto di Gen 1 propone quindi come scansione temporale fondamentale il giorno, nell’alternanza di luce e tenebre, dando priorità a questo aspetto rispetto alle suddivisioni del calendario basate sul corso della luna e del sole, come i mesi e le stagioni. La prima pagina della Bibbia si conclude con la «consacrazione» (Gen 2,3) del settimo giorno, che ha così un particolare legame con Dio: lo scopo del narratore e ricordare che la separazione fondamentale tra luce e tenebre non crea soltanto la possibilità per la vita, ma anche per la relazione fra l’uomo e Dio che è essenziale per la vita stessa. Nella predicazione profetica questo tema ritorna con l’evocazione del «giorno del Signore», come momento decisivo per la storia di Israele. Esso è collegato al giudizio e quindi appare come giorno di tenebra e ira per i peccatori (cfr., p. es., Gl 2,2; Am 5,18.20), un giorno in cui la luce degli astri si oscurerà (cfr., p. es., Is 13,9-10; Am 8,9); d’altra parte, poiché in esso si realizza la pienezza della presenza divina in mezzo agli uomini, è anche giorno di luce più intensa (cfr. Is 30,26) o un giorno senza tenebra (Zc 14,6-7: «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte, e verso sera risplenderà la luce»). L’immagine, quindi, assume i toni escatologici, fa riferimento, cioè, alla fine dei tempi, in cui Dio ristabilirà la pienezza e il suo splendore dominerà (cfr. Is 60,19 e il versetto di Apocalisse citato all’inizio). Si impone quindi l’associazione tra luce e vita che trova espressione in diversi passi ma sopratutto nella formula «luce della vita» (o «luce dei viventi»), che ricorre in Gb 33,30 e Sal 56,14 in contesti che richiamano la liberazione divina dal pericolo di morte. Per contrasto chi è morto non vede la luce (cfr., p. es., Sal 49,20) e gli inferi (še’ol in ebraico) sono concepiti come «la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di oscurità e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,21-22). Dal punto di vista antropologico questo ha un riflesso nell’idea che la «luce degli occhi» sia associata alla salute e/o alla forza vitale dell’individuo, come appare in 1Sam 14,27: «Giònata… allungò la punta del bastone che teneva in mano e la intinse nel favo di miele, poi riportò la mano alla bocca e i suoi occhi si rischiararono» (cfr., in senso contrario, Sal 38,11). Su questo sfondo si comprendono i passi in cui il benessere rappresentato dalla luce degli occhi è associato alla legge divina (Sal 19,9) o alla sapienza (Qo 8,1). In senso ampio, quindi, la luce è simbolo della salvezza che è evidentemente, nella prospettiva biblica, un dono divino (cfr., p. es., Sal 18,29: «Signore, tu dai luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre»; Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse»). In questo ambito va compreso l’uso dell’espressione «luce del volto» di Dio (cfr. Sal 4,7; 44,4) e di quella analoga, secondo cui Dio «fa risplendere il suo volto» (cfr., p. es., Nm 6,25; Sal 31,7), che indicano il favore e la benedizione divina accordata ai suoi fedeli. La luce di Dio ha anche un risvolto etico, in quanto consente all’uomo di «camminare» (verbo che è una metafora della condotta morale) secondo la sua volontà e quindi in rettitudine (Is 2,5 usa l’espressione «camminiamo alla luce del Signore» per riprendere il concetto espresso al v. 3 con la frase «camminare per i suoi sentieri»). Non sorprende che quindi le tenebre notturne siano concepite come il momento favorevole per le opere dei malvagi (cfr., p. es., Gb 24,14-16), ma anche come la situazione in cui si trova il peccatore che, riconoscendo la sua colpa, confida nel riscatto da parte del Signore (Mi 7,8-9 «Non gioire di me, o mia nemica! Se sono caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce. Sopporterò lo sdegno del Signore perché ho peccato contro di lui, finché egli tratti la mia causa e ristabilisca il mio diritto, finché mi faccia uscire alla luce e io veda la sua giustizia»). Quest’idea del possibile riscatto dalla situazione di tenebra, accentua la colpevolezza di chi si vuole sottrarre alla luce, avvitandosi in una situazione negativa descritta magistralmente in Sap 17, che rilegge il racconto degli Egiziani avvolti dalle tenebre (una delle “piaghe” inviate da Dio per convincere il Faraone a liberare Israele) considerandoli il “tipo” degli avversari di Dio. Si noti come, essendo nell’Antico Testamento l’idea della giustizia divina strettamente connessa con quella della salvezza, anche a essa si applichi al metafora della luce; addirittura l’apparire della luce può essere poeticamente legato alla scomparsa di iniquità e ingiustizie (cfr. il bel passo poetico di Gb 38,12-15). Da tutto quanto appena si detto si comprende come la Legge, in quanto espressione della volontà divina e della sua giustizia, sia anch’essa «luce» per l’uomo (Is 51,4; Sal 119,105). Più direttamente è la presenza stessa di Dio che è luce, come appare nei racconti del Pentateuco che parlano della colonna di fuoco che guida il popolo (Es 13,21-22; 14,20) e in Is 60,1: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te». La straordinarietà della figura di Mosè è segnata anche dal fatto che la luce divina si riflette in qualche modo sul suo volto (cfr. Es 34,29-30.35). Va rilevato che in questi casi si fa sempre riferimento alla percezione umana della vicinanza di Dio, non compare nell’Antico Testamento una descrizione della realtà divina come «luce» (anche Sal 104,2, che descrive il Signore «avvolto di luce come di un manto», si colloca in un contesto che descrive la gloriosa manifestazione di Dio nel creato). La luce che viene nel mondo: il messaggio del Nuovo Testamento Nel Nuovo Testamento si ritrovano i valori simbolici della luce già individuati nell’Antico Testamento, ma con sottolineature peculiari e aspetti innovativi. Notiamo dapprima, però, un uso più concreto del termine: l’apparizione di una «luce dal cielo» (At 9,3; 22,6; 26,13) è legata all’epifania di Gesù Cristo a Paolo, così come l’apparizione di un angelo illumina la cella in cui Pietro è imprigionato (At 12,7); analogamente l’evento della trasfigurazione di Gesù è descritto facendo riferimento alla luce (cfr. Mt 17,2.5). Questa descrizione di particolari manifestazioni del divino come apparizioni di una «luce» si discosta dall’Antico Testamento che preferisce parlare del fuoco (cfr., p. es., Es 3,2; 19,18; 24,17). Probabilmente il riferimento alla luce, senza precisazione della sua fonte, veniva percepito dagli autori del Nuovo Testamento come rimando più adeguato alla trascendenza divina. Dal punto di vista antropologico, interessante è il detto di Mt 6,22-23, che paragona l’occhio umano a una lampada, secondo un’immagine comune sia nel mondo greco che in quello giudaico: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!». Si faccia attenzione che il riferimento finale alla «luce» è probabilmente sempre un immagine dell’occhio: come organo della vista è ciò che consente che ci sia luce nella persona. Il detto, quindi, non fa tanto riferimento a una “illuminazione interiore”, ma al valore dello sguardo sulla realtà che si vive e sui rapporti con gli altri, che può essere «semplice» (cioè retto, limpido, mite) o «cattivo» (cioè, malizioso, invidioso, cupido). L’occhio esprime l’intenzionalità fondamentale che il soggetto applica alla realtà e questa si riflette sulla sua situazione complessiva di vita (rappresentata dal «corpo»), descritta come luminosa o tenebrosa. Nel brano parallelo l’evangelista Luca aggiunge un versetto («Se dunque il tuo corpo è tutto luminoso, senza avere alcuna parte nelle tenebre, sarà tutto nella luce, come quando la lampada ti illumina con il suo fulgore», Lc 11,36) che sembra suggerire che la vita di colui che ha lo sguardo «semplice» sia capace di diffondere luce; con ciò ci si ricollega all’interpretazione matteana del detto sulla lampada che non va nascosta (Mt 5,14-16 «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli»). Come si vede il fine della testimonianza, data dalle opere buone che sgorgano dallo sguardo semplice sulla realtà, è la glorificazione di Dio, il riconoscimento della sua paternità e del suo operare nella storia. Infatti diversi detti collegano l’immagine della luce al processo del pubblico manifestarsi e quindi della rivelazione: così è per il detto sulla lampada che non si può nascondere in Mc 4,21-22 («Diceva loro: “Viene forse la lampada per essere messa sotto il moggio o sotto il letto? O non invece per essere messa sul candelabro? Non vi è infatti nulla di segreto che non debba essere manifestato e nulla di nascosto che non debba essere messo in luce”»; cfr. Lc 8,16; 11,33) e per Mt 10,27 («Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze»; cfr. Lc 8,17; 12,2-3). Quello che Gesù annuncia, infatti, è di per se stesso destinato a diventare manifesto, in quanto espressione del disegno divino di salvezza che chiede all’uomo di essere accolto. Ma ciò significa, ovviamente, che Gesù stesso (o meglio: il Messia atteso) può essere definito «luce» (così in Mt 4,16, nella ripresa di Is 9,1; e in Lc 2,32): questo non tanto in relazione alla sua natura, ma piuttosto alla sua missione, che è quella di donare la salvezza divina (riprendendo quindi il valore simbolico della luce che si trova in diversi passi dell’Antico Testamento). La connessione fra luce e offerta della salvezza si può trovare anche nella parola apostolica (cfr At 13,47, dove Paolo e Barnaba applicano alla loro attività l’oracolo di Is 4,6, e Ef 3,8-9), ovviamente in quanto proclamazione del Vangelo di Gesù. Collegando questo a Mt 5,14-16 si vede come la vita dell’apostolo e discepolo debba essere improntata all’assoluta trasparenza luminosa del suo parlare e del suo agire in riferimento all’annuncio del Cristo. La rappresentazione della rivelazione divina con la metafora della luce viene ripresa nelle lettere paoline, con alcuni tratti caratteristici. Anzitutto sottolinea la possibilità per il credente di conoscere o comprendere la realtà salvifica che gli viene donata (2Cor 4,6: «Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo»; cfr. anche Ef 1,17-18: «Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi»). In questa stessa prospettiva il momento iniziale della vita cristiana, la conversione alla fede in Gesù Cristo può essere definita come «illuminazione» (cfr. Eb 6,4; Eb 10,32; secondo alcuni autori questi passi farebbero riferimento al battesimo, ma non è certo; l’uso del termine «illuminazione» per indicare il battesimo si trova però nel II secolo d.C, negli scritti di Giustino). In secondo luogo la manifestazione del Cristo è anche svelamento di ciò che si trova nella profondità del cuore umano (1Cor 4,5 «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode»; cfr. Ef 5,13 dove l’accento è però sulla condanna) e quindi vale come giudizio. In questo la prospettiva escatologica (cioè quella della fine dei tempi) e quella etica (relativa alla prassi quotidiana) si intrecciano. Infatti il cristiano, accogliendo la salvezza di Cristo, è reso già ora «capace di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (Col 1,12): in questo versetto si deve evidentemente intendere la «luce» come una metafora della comunione con la divinità. D’altra parte sono ripetuti gli inviti a vivere nella luce e a rifiutare le opere delle tenebre, dove l’immagine si riferisce senz’altro alla rettitudine dell’agire (cfr Rm 13,12; Ef 5,8-9); anzi il richiamo alla separazione primordiale fra luce e tenebre (2Cor 4,6) spiega anche la calda esortazione a uno stile di vita chiaramente distinto da quello dei non-credenti (2Cor 6,14 «Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre?»). L’idea della separazione e della distinzione rispetto ai non credenti, sia dal punto di vista etico sia da quello della speranza nella vita futura, soggiace probabilmente anche all’uso dell’espressione «figli della luce» (cfr. Lc 16,8; Gv 12,36; Ef 5,8; 1Ts 5,5) che non si trova nell’Antico Testamento, ma è frequente nei testi di Qumran. Nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso a definirsi «luce del mondo» (Gv 8,12; 9,5; cfr. 12,35-36.46) e il significato dell’immagine è duplice: da una parte, infatti, sottolinea il ruolo di Gesù nella Rivelazione, anzi il suo essere la Rivelazione stessa (la «verità» nel linguaggio giovanneo) che va accolta con fede (non a caso la definizione di Gv 9,5 apre il racconto del miracolo di guarigione del cieco nato che non solo riacquista la vista, ma giunge alla fede); dall’altra la connessione fra luce e vita riprende il tema della salvezza, ovvero della pienezza di vita, offerta da Dio agli uomini in Gesù. La connessione tra luce e vita, che risale all’esperienza basilare dell’essere umano e che veniva affermata dal racconto di Gen 1, viene ripresa in forma marcatamente cristologica, affermando che tale connessione dipende dal “Verbo” sin dal «principio» (cfr. Gv 1,4 «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini») e va accolta dall’uomo credendo in Gesù di Nazareth. Chi rifiuta la sua persona si trova di fatto nelle «tenebre» (Gv 3,19-21; cfr. 11,9-10): in tal senso la rivelazione e l’offerta di salvezza sono anche giudizio, perché smascherano alcune situazioni o posizioni esistenziali come radicalmente opposte alla volontà divina di vita e quindi apportatrici di morte. Nella prima lettera di Giovanni la «luce» non è posta come predicato di Gesù, ma di Dio (1Gv 1,5: «Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna»). Questo non va inteso come una pura definizione dell’essenza divina, cosa che tra l’altro comporterebbe di intendere il vocabolo «luce» in senso concreto e non metaforico, perché il contesto immediatamente seguente mette in rapporto tale affermazione con la condotta concreta dei credenti, che devono «camminare nella luce» (1Gv 1,7). L’immagine serve quindi anzitutto a ricordare la relazione costante che il cristiano deve avere con Dio, riproducendo nella sua esistenza quotidiana ciò che ha accolto credendo alla rivelazione (cfr. 1Gv 2,9-10: «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo»), inoltre richiama innegabilmente il fatto che Dio è fonte, per il credente, di ogni bene, di vita e di salvezza, secondo l’abituale significato della metafora nel Nuovo Testamento. Si può dire che l’affermazione di 1Gv 1,5 presupponga che la pienezza e la potenza di vita stiano anzitutto (o forse “soltanto”) in Dio. Per concludere… Al termine di questo breve percorso possiamo tornare a prendere in considerazione la prima e l’ultima pagina della Bibbia, che abbiamo evocato all’inizio. Se Gen 1 ci ricorda che la nostra vita è resa possibile dall’alternanza di luce e tenebre e scorre attraverso entrambe (anche a livello simbolico, visto che ogni esistenza umana ha luci e ombre), la grandiosa visione della Gerusalemme celeste in Ap 21,9–22,5 ci fa intravvedere il destino a cui l’umanità è chiamata in Cristo, quella pienezza di luce e di vita il cui desiderio è iscritto nell’intimo di ciascuno di noi.  

ABISSALE DISCESA DI DIO (anche Paolo)

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ABISSALE DISCESA DI DIO

Molti pensano che l’umiltà significhi una menomazione della nostra umanità, rinuncia a progetti e traguardi professionali, soffocamento di ogni genialità; virtù di persone socialmente emarginate, e quindi tristi. Niente di più falso. La vita di Gesù, figlio unigenito di Dio, narrata nei Vangeli, è una lezione di umiltà; chiunque voglia seguirlo deve impararla: «Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore» (Mt 11, 29). A san Paolo il compito di spiegare tale lezione: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo della condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 5-8). Molti pensano che l’umiltà significhi una menomazione della nostra umanità, rinuncia a progetti e traguardi professionali, soffocamento di ogni genialità; virtù di persone socialmente emarginate, e quindi tristi. Niente di più falso. L’umiltà è una virtù squisitamente cristiana propria di chi è cosciente della sua connaturale debolezza umana e della sua condizione di peccatore, difficile da comprendere quando non si ha un corretto rapporto con Dio Creatore. La consapevolezza di essere creatura implica il non poter sussistere se non nella relazione con il Creatore. Non a caso nei peccati contro la fede si nasconde tanta superbia. L’uomo ha assecondato la tentazione del serpente, ha voluto diventare come Dio; ha peccato di superbia. Per rialzarsi dalla sua caduta avrebbe bisogno di riconoscere e di amare la sua condizione di creatura, nonché le gravi conseguenze del peccato nella sua vita personale e nel mondo, uscito buono e bello dalle mani di Dio. Ed ecco che Dio si umilia, diventa simile agli uomini e guarisce la nostra superbia: mistero dell’Incarnazione redentrice. «Imparate da me», «Vi ho dato un esempio» (Gv 13, 15), ci dice Gesù dalla singolare cattedra di Betlemme e dal Cenacolo. «Da me», che mi son fatto creatura indigente, sottomesso a Giuseppe e Maria, che mi sono abbassato per lavare le vostre impudicizie e fatto carico di tutte le conseguenze dei vostri peccati consegnandomi liberamente all’umiliazione della passione e morte di croce. Gesù ci parla con la sua vita. Più che parlare preferisce agire, consegnarsi totalmente a noi. San Pietro lo esprime bene quando dice di Gesù che passò in mezzo agli uomini facendo del bene (At 10, 38), dando la precedenza al fare sull’insegnare, leggiamo negli Atti (1, 1). Nessuna distanza si dà in Lui tra ciò che dice e ciò che è e fa. Il suo linguaggio semplice, diretto e per niente ricercato, è verace, suscettibile di essere compreso in tutte le lingue e culture. Gesù non formula teorie, non si perde in sofismi, viene a trasformare il mondo con il suo abbassamento, a redimerci e innalzarci.

La mangiatoia & il Cenacolo La mangiatoia e le fasce di Betlemme, che l’eretico Marcione giudicava «vergognose» e indegne di un Dio da adorare, come i bacili e gli asciugatoi, ugualmente vergognosi, del Cenacolo, costituiscono per ogni cristiano un forte richiamo alla pratica dell’umiltà. Nella stalla di Betlemme sono ammessi soltanto gli umili pastori che nelle vicinanze custodivano i loro greggi. Per riconoscere nel Bambino il Figlio di Dio, umiltà chiama umiltà. Non ci lasciamo ingannare da considerazioni bucoliche; essere pastori, per il loro tipo di vita errabonda, poco igienica e solitaria, non rende particolarmente attraenti; semmai suscitano diffidenza e disprezzo. Questo tipo di gente ha adorato per primo il Dio Bambino al posto di tutti noi. E non si sono limitati ad adorarlo, sono stati i primi testimoni del mistero dell’Incarnazione. La celebrazione cristiana del Natale ci faccia gioiosi banditori con la parola e con l’esempio della presenza di Dio in mezzo a noi. San Josemaría, nella sua meditazione natalizia dal titolo significativo Il trionfo di Cristo nell’umiltà, può servire di guida per comprendere ciò che significa per noi il modo di presentarsi di Dio al mondo: «Mi piace contemplare le immagini di Gesù Bambino che rappresentano il Signore nel suo annientamento, mi ricordano che Dio ci chiama, che l’Onnipotente ha voluto presentarsi a noi indifeso, come bisognoso degli uomini. Dalla culla di Betlemme Gesù dice a me e a te che ha bisogno di noi; ci sollecita a una vita cristiana senza compromessi, a una vita di donazione, di lavoro, di gioia; non imitiamo davvero Gesù Cristo se non lo seguiamo nell’umiltà. La forza redentrice della nostra vita sarà efficace, pertanto, se c’è umiltà, solo quando smetteremo di pensare a noi stessi e sentiremo la responsabilità di aiutare gli altri» (cfr È Gesù che passa, n. 18). Se fossimo umili come i pastori, riconosceremmo nel bambino adagiato nella mangiatoia il nostro Salvatore, e arriveremmo a conoscerci meglio fino a scoprire tante forme di superbia che san Josemaría non manca di esemplificare: «Sentirsi al centro dell’attenzione degli altri, la preoccupazione di fare bella figura, il non rassegnarsi a fare il bene senza farlo vedere, l’ansia per la propria sicurezza». Dio ci viene incontro nell’umiltà perché ci sia possibile avvicinarlo e seguirlo. Il racconto di san Luca che ascoltiamo nella Messa di Natale non si può scambiare per una bella favola, ma nemmeno rimpicciolire e fraintendere a forza di considerazioni sdolcinate che tolgono incisività e vigore al racconto evangelico. Il Dio umile nasce in una stalla, in una grotta, in luoghi luridi, che forse Giuseppe avrà avuto bisogno di ripulire per bene. E noi, invece, tanto schizzinosi e sofisticati! Il Natale di Gesù ci dà la capacità di diventare bambini e di incominciare umilmente a realizzare tutte le possibilità di un figlio di Dio, la pienezza di umanità immaginata da Dio Creatore e Redentore per ognuno di noi. La vita di infanzia che Gesù ci propone non toglie nulla alla nostra umanità, ma anzi la innalza e la divinizza. È stato detto: se Dio si è fatto uomo, essere uomo è la cosa più grande che ci sia. Adesso, come ai tempi di Gesù, abbondano potenza, dominio, violenza. Gli apostoli ne sono lambiti, proprio nel Cenacolo. Gesù non si limita a denunciare e a premunire dall’orgoglio tutti i suoi discepoli fino alla fine dei tempi: «Fonda», come dice Romano Guardini, «la possibilità di essere cristiani; mostra che cosa ciò significa, e ne dà la forza per praticarlo». Gesù ammonisce amichevolmente gli apostoli nell’intimità dell’ultima cena: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno potere su di esse sono chiamati benefattori. Voi però non fate così; ma chi tra di voi è più grande diventi come il più giovane, e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22, 25-28). Dal dire al fare. Gesù compie un lavoro da schiavi: lava i piedi dei commensali e dà la totale spiegazione del suo gesto: «Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 12-15). La lavanda dei piedi degli apostoli è un’anticipazione di tutto ciò che sarà l’imminente umiliazione della passione e morte redentrice di Gesù. Gesù evidenzia con tale gesto, diceva Benedetto XVI in un’omelia del Giovedì Santo, ciò che descrive l’inno cristologico di san Paolo nella Lettera ai Filippesi già citata. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge con il panno dell’umanità e si fa schiavo. Ascoltiamo ancora Guardini: «L’umiltà non scaturisce nell’uomo. La sua via non decorre dal basso all’alto, ma dall’altezza discende. Umile si fa solo il grande che si china di fronte al piccolo. Agli occhi di tale persona, la “piccolezza” ha una misteriosa dignità. Il fatto che la veda, la innalzi e si pieghi di fronte a essa, è umiltà. Essa scaturisce in Dio e si dirige alla creatura. Mistero grande! L’Incarnazione è fondamentale umiltà».

L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

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L’IMITAZIONE DI CRISTO SOFFERENTE – DI TOMÁŠ ŠPIDLÍK

“Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano… Nelle scuole dell’antico impero romano c’era anche un programma di insegnamento morale. Lo si faceva in modo molto concreto. Si proponevano ai giovani esempi da seguire: dei saggi, degli eroi morti per la patria, dei grandi strateghi, e degli uomini di governo. Quando dopo la pace di Costantino l’impero divenne ufficialmente cristiano, questo programma non corrispondeva più alle esigenze dei tempi. Si cercarono quindi di sostituire questi esempi pagani con esempi cristiani, cioè con i santi  sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, dei martiri e dei cristiani perfetti apparsi nella storia della Chiesa. Essi furono commemorati anche nella liturgia. Si è formato anche un calendario che propone l’esempio di un determinato santo quel giorno o quell’altro dell’anno. Nello stesso tempo i fedeli furono convinti che i santi sono come “un riflesso del sole e dell’acqua”. Qui si può osservare la luce senza essere accecati dallo splendore. Ma resta pur vero che il primo esempio ad essere contemplato e seguito è  lo stesso Gesù Cristo.I suoi primi discepoli non avevano altro libro da imparare che tenere davanti ai loro occhi ciò che avevano veduto nel loro Maestro. Perciò nella storia della spiritualità il tema della imitazione di Cristo occupa un posto importante. “Un cristiano – dice San Giovanni Climaco – è uno che imita Cristo nella misura possibile all’uomo, in parole, in azioni, e in pensieri”. Eppure ogni tanto venne qualche dubbio e qualche obiezione contro questo ideale. Lo espresse presempio Martin Lutero. Pensava che uno che imita un altro finisce per vederlo davanti a sè, separato da sè. In tal modo Cristo appare un ideale così sublime che l’uomo non può pretendere di essere capace imitarlo. Bisogna quindi che Cristo sia non “davanti a noi”, ma “dentro di noi”. In altre parole si dice, dobbiamo vivere non “secondo Cristo”, ma “in Cristo”, identificarci con Lui. Così si esprime già San Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). La risposta a queste obiezioni è facile. E’ certo che Cristo non si può imitare come qualche eroe umano. Non ne abbiamo la forza. Ma i cristiani sono consapevoli che Cristo vive in loro per mezzo del suo Spirito ricevuto nel battesimo ed è in forza di questo Spirito che possiamo imitarlo secondo le nostre possibilità, lasciando che Lui stesso compia la sua opera in noi. I predicatori amano illustrare questo aspetto con un esempio. Si racconta che un giovane pittore sia stato un grande ammiratore del famoso maestro Domenichino. Decise di imitare uno dei suoi quadri in una chiesa. Lavorava con successo fino a quando doveva riprodurre il volto della persona. Per quanti sforzi facesse, il risultato era sempre negativo, usciva fuori sempre un volto differente. Disperato, buttò il pannello per terra. In quel momento si avvicinò un vecchio signore che già da lungo lo osservava, prese il pennello e con poca fatica finì il quadro. E questa volta era la vera riproduzione del grande maestro. Il giovane lo gurdò sbalordito: “Signore, lei è un angelo!”. Il vecchio sorrise: “No non sono un angelo, sono Domenichino”. I santi hanno una simile esperienza. Dopo tanti fallimenti e dopo tante debolezze, sentono che Cristo vive in loro e che Lui stesso dipinge la sua immagine nel loro cuore. I pittori umani insegnano ai loro discepoli il metodo da seguire, il Mestro divino comunica a loro anche il suo talento. Allora la via della imitazione di Cristo diventa facile. Lo si può illustrare con un altro esempio. La leggenda racconta che il santo principe Venceslao portava ai poveri legna e cibo nel duro inverno e in questa occasione andava a piedi nudi attraverso la neve. Il paggio che lo seguiva non sopportava il freddo e si lamentava. Allora il santo gli consigliò di mettere i suoi piedi accuratamente nelle sue tracce, nelle impronte sulla neve. Facendo così il paggio si sentì meravigliosamente riscaldato. Frequentemente nei luoghi di pellegrinaggio è costruita una Via Crucis in forma vistosa. Ad ogni “stazione”  è consacrata una cappella speciale. Le preghiere cor­rispondenti esortano i fedeli a meditare sui diversi mo­menti della passione del Salvatore e a riflettere sulla pro­pria vita, perché anch’essa è un cammino doloroso, ad imitazione di Gesù. Del resto una Via crucis si osserva in tutte le chiese cattoliche di rito latino. Ma si sentono anche voci contrarie. Alcuni fanno obiezioni contro questo ‘dolorismo’ medievale e porta­no l’esempio delle icone delle Chiese orientali dove Cri­sto è rappresentato come glorioso, cioè come colui che ha vinto il male e tutte le sue conseguenze. Vederlo so­lo nella nella sua sofferenza diminuisce il suo valore e dissua­de dalla gioia di seguirlo. Inoltre vi si nota un modo di pensare troppo analitico che separa due aspetti di per sé indivisibili. Nella vita di Cristo vi è una “umiliazione fino alla morte’ e insieme la ‘glorificazione’ infinita. Sa­rebbero una ‘dopo’ l’altra, o vanno piuttosto insieme? Nella prima metà di questo secolo il teologo orien­tale Sergej Bulgakov propose la sua spiegazione della ke­nosi di Cristo interpretando il testo fondamentale di San Paolo ai Filippesi: «Cristo Gesù, pur essendo di na­tura divina… spogliò se stesso (in greco ekenosen, lette­ralmente: evacuò se stesso), facendosi obbediente fino alla morte e alla morte della croce; per questo Dio l’ha esaltato…» (Fil 2,5 ss). L’autore non vuol negare 1′inse­gnamento tradizionale secondo il quale Cristo ha sof­ferto eroicamente come uomo. Tuttavia, per compren­dere la sofferenza dell’uomo, si deve partire da Cristo Dio, non vi può essere una incoerenza fra l’atteggiamento umano e l’atteggiamento divino. Anche nella vita divina in seno alla SS. Trinità il Fi­glio si ‘spoglia’, non tiene niente come proprio, rice­vendo tutto il pensiero, tutta la volontà dal Padre. Ma questa ‘umiliazione celeste’ costituisce la sua gloria e la sua beatitudine infinita, senza qualsiasi traccia di sof­ferenza. Incarnandosi, facendosi uomo, Cristo trasferi­sce questo stesso atteggiamento nella realtà del mondo peccaminoso che si ribella al Padre.  Ed a causa di que­sta resistenza del mondo peccaminoso, l’umiliazione del Figlio di Dio comporta la sofferenza che è insepara­bile da ogni situazione peccaminosa. Ma con questo non dobbiamo immaginarci che la beatitudine di Cristo Dio non esista più. In modo misterioso, la sofferenza e la beatitudine sono unite. La beatitudine è come un fuo­co che progressivamente brucia la sofferenza per arri­vare allo stato glorioso anche nell’umanità. Questo vale solo per il Cristo individuale o anche per il Cristo mistico, per i suoi santi? I diari dei mistici ci insegnano che anche nella loro vita le grandi sofferen­ze si trasformavano in una gioia indicibile. Solo così poteva scrivere santa Teresa d’Avila: «O patire o mori­re», cioè senza la sofferenza la vita non mi interessa più. In altro luogo attesta che soffriva molto, ma che Dio non l’ha mai lasciata patire senza una consolazione particolare. I semplici cristiani non devono credere facilmente di essere capaci di stati mistici. Ma una cosa è certa. La me­ditazione di Cristo sofferente non deve degenerare in qualche ‘dolorismo’ non naturale. Deve, al contrario, aiutarci a scoprire il senso positivo del dolore umano con la ferma convinzione che questo viene progressivamente superato dal fuoco divino, dalla luce splendente dello Spirito che risiede nei nostri cuori.  

P. Tomáš Špidlík, insigne gesuita,cardinale dal 2003, nasce il 17 dicembre 1919 a Boskovice, in Moravia. I suoi studi vengono più volte interrotti a causa del lavoro giovanile forzato, imposto prima dai soldati tedeschi, poi dai soldati romeni, quindi dai russi.Nel 1949 Špidlík è ordinato sacerdote a Maastricht. Nel 1951 viene chiamato a Roma alla Radio Vaticana. I programmi di quella emittente, specie per i Paesi d’oltre cortina, erano un prezioso aiuto ad una libertà in pericolo di essere soffocata lentamente ma inesorabilmente. Dal suo impegno alla Radio Vaticana scaturirà una speciale missione che l’accompagnerà sempre e che lo farà conoscere in patria nonostante il dominio comunista. Le prediche domenicali in lingua ceca di p. Špidlík hanno suscitato un tale interesse da essere pubblicate e tradotte in varie lingue dell’Europa dell’Est, come in ceco, polacco, romeno., ma anche in italiano. L’opera di p. Špidlík è frutto di anni e anni di diligente ricerca e riflessione, insieme ad una grande, artistica sensibilità per la cultura contemporanea.Riportiamo una meditazione che parla del giusto rapporto con il Dio di Gesù Cristo che rifugge da ogni tipo di dolorismo, e non si accontenta di imitare la santità, ma cerca di viverla con la forza dello Spirito che opera dentro ognuno di noi.  

FONTE: Tomas Spidlik, Conosci il Padre,Cristo e lo Spirito?, Edizioni Lipa, Roma, 2005, pp. 106-110. (L’autore) Špidlík, scritti vari – autore: Tomáš Špidlík

LE DOMANDE DELL’UOMO -DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/228q05a1.html

LE DOMANDE DELL’UOMO -DI GIANFRANCO RAVASI

« Alla radice della domanda sta la ricerca di senso che è strutturale allo stesso esistere umano, come diceva il celebre protagonista dell’Apologia di Socrate di Platone:  « Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta ». È proprio per questo che il bambino è implacabile coi suoi « Perché? »". A partire da queste premesse illustrate nell’introduzione l’arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura ha sintetizzato alcune riflessioni nel libro Questioni di Fede. 150 risposte ai perché di chi crede e di chi non crede (Milano, Mondadori, 2010, pagine 336, euro 19,50). Anticipiamo alcuni stralci del volume che il 5 ottobre uscirà nelle librerie.

La domanda è l’anima della religione, non solo perché la preghiera è supplica, richiesta, invocazione di aiuto o di rivelazione:  si pensi ai Salmi biblici o alla prassi arcaica dell’interrogazione oracolare della divinità, anche nel caso di richieste molto concrete, come una guerra da intraprendere (1 Samuele, 14, 37) o l’esito di una malattia (2 Re, 8, 8). C’è un’altra e più profonda motivazione nella domanda religiosa ed è quella di sondare il mistero di Dio, la sua trascendenza e « incomprensibilità ». Mi è stato chiesto:  Dio padre e madre? Giovanni Paolo i disse che Dio è madre. Le femministe americane cancellano dalla Bibbia le forme « maschiliste ». D’altra parte la Bibbia forse non è così radicale nella supremazia maschile, e Giovanni Paolo II ha parlato di « reciprocità e complementarità » dei sessi, partendo proprio dalle Sacre Scritture. Perché, allora, temere di dire che Dio è papà e mamma? La studiosa tedesca Hanna-Barbara Gerl, in un saggio dal titolo significativo, Gott – Vater und Mutter (Dio, Padre e Madre), elencava, accanto a un’ottantina di immagini maschili di Dio offerte dalla Bibbia, almeno una ventina di rappresentazioni femminili. Ecco solo due esempi dal libro di Isaia:  « Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai » (49, 15); « Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò » (66, 13). Ripetutamente nell’Antico Testamento sono attribuite a Dio « viscere materne » (rahamim), segno di amore spontaneo, istintivo, assoluto. È quindi legittimo parlare di una dimensione « materna » di Dio, ricordando però che si tratta sempre di un antropomorfismo, di un simbolo, come quello paterno, per esprimere l’ineffabile mistero divino e per raffigurare la realtà dell’Inconoscibile. La Bibbia, essendo parola di Dio incarnata, privilegia il volto paterno di Dio anche per i condizionamenti culturali dell’orizzonte in cui si è manifestata. È lecito, perciò, ridimensionare certe letture troppo letterali della « maschilità » di Dio, senza però negare i valori che essa esprime, come è necessario collocare Gesù nel suo tempo storico senza per questo negare la sua « maschilità », e come è giusto trascrivere un certo linguaggio ecclesiale eccessivamente legato a moduli e forme « maschiliste ». La moderna sensibilità sulla « reciprocità e complementarità » dei sessi, esaltata a più riprese soprattutto da Papa Giovanni Paolo II, ha stimolato questa operazione di interpretazione dei testi biblici. Naturalmente non potevano mancare le degenerazioni, specialmente nei Paesi anglosassoni, ove si è consolidato un femminismo cristiano piuttosto aggressivo. Alcune studiose sono giunte fino al rifiuto totale della Bibbia come testo « fallocratico »; altre hanno imboccato strade di ribaltamento radicale, arrivando a banalità come la trascrizione della Trinità in « Madre-Figlio-Nipote » (!); altre hanno introdotto un processo, non sempre sereno, di « depatriarcalizzazione » della tradizione ebraico-cristiana. Emblematica in questo senso è l’opera In memoria di lei (pubblicata nel 1983) della teologa Elisabeth Schüssler Fiorenza. D’altronde, già nel 1895 negli Usa era apparsa The Woman’s Bible (« La Bibbia della donna ») di taglio polemico. L’Antico Testamento, comunque, riguardo alla femminilità offre un insegnamento molto più aperto di quanto s’immagini. Certo, l’ »incarnazione » della parola di Dio fa emergere il contesto socioculturale dell’antico Israele, come quando il Siracide, sapiente del II secolo prima dell’era cristiana, scrive che è « meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna » (42, 14). Ma si pensi anche all’incidenza di figure femminili come Sara, Rachele, Debora, Rut, Anna, Giuditta, Ester, la donna del capitolo 31 dei Proverbi, o la straordinaria protagonista del Cantico dei Cantici, o Maria e la Sposa dell’Apocalisse nel Nuovo Testamento. Anche la bipolarità sessuale è celebrata nella sua pienezza, soprattutto nella Genesi. La famosa « costola » di Adamo non è il segno di una dipendenza, ma di un’identità di natura, tanto che in sumerico un unico vocabolo, ti, significa contemporaneamente « costola » e « femminilità » e, d’altra parte, il canto finale di Adamo è:  « Essa è carne dalla mia carne, ossa dalle mie ossa (…) I due saranno una carne sola », espressione appunto di identità strutturale. Non per nulla si ricorrerà a un libero gioco etimologico per spiegare i due termini ebraici che indicano « uomo » e « donna »:  essi sono ‘ish e ‘isshah, in pratica la stessa parola al maschile e al femminile (Genesi, 2, 23-24). Altrettanto suggestivo è l’altro celebre asserto della Genesi:  « Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (1, 27). La costruzione del testo secondo le regole stilistiche ebraiche identifica l’ »immagine » divina che c’è in noi con l’essere « maschio e femmina », non perché Dio sia sessuato, ma per il valore simbolico della sessualità, cioè la sua capacità d’amare e di procreare (la generazione) attraverso la comunione tra uomo e donna, capacità che la rende un’analogia del Dio creatore. A questo proposito è significativo quanto Giovanni Paolo II affermava nella Mulieris dignitatem (1988):  « L’immagine e somiglianza di Dio nell’uomo, creato come uomo e donna (per l’analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime anche l’unità dei due nella comune umanità. Questa unità dei due, che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell’uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina ». Concludendo, possiamo affermare la legittimità di una nuova interpretazione della Bibbia e della Tradizione, che semplifichi le incrostazioni socioculturali, ma che conservi il valore teologico della paternità e della maternità di Dio, della maschilità e della femminilità umana e della loro unità e diversità. Goethe molto acutamente affermava che « noi possiamo parlare di Dio antropomorficamente (in modo umano) perché noi stessi siamo teomorfi (fatti in forma divina) ».

(©L’Osservatore Romano 3 ottobre 2010)

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