Archive pour la catégorie 'BIBLICA (studi di biblica temi vari)'

SAN PAOLO RAPITO IN ESTASI

dal sito:

http://gesucristosalvatore.ilcannocchiale.it/2010/06/30/san_paolo_rapito_in_estasi.html

SAN PAOLO RAPITO IN ESTASI
 
Riflessione di Simone Oren, esperto nelle Sacre Scritture
 
San Paolo era pieno di fede, aveva ricevuto lo Spirito Santo, ma anche aveva visioni mistiche. Chi non vede non crede, ma chi vede deve credere per forza,ora San Paolo vedeva, aveva queste visioni mistiche  e quindi credeva ancora di più. San Paolo stesso ci racconta la sua storia nelle sue lettere, ci parla della sua lotta contro i seguaci di Gesù, poi la sua conversione e la sua missione. Ecco un bellissimo brano che si trova negli Atti degli Apostoli, dove vediamo San Paolo che si rivolge al suo popolo, a Gerusalemme, durante il suo arresto.
 
Atti degli Apostoli; 22: 1-21
 
22
1″Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi ». 2Quando sentirono che parlava loro in lingua ebraica, fecero silenzio ancora di più. 3Ed egli continuò: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamalièle nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, 5come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.
6Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. 9Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. 10Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco.
12Un certo Ananìa, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, 13venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. 14Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. 16E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome.
17Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; 20quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch’io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21Allora mi disse: Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani ».

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San Paolo ci parla ancora di questo rapimento mistico nel tempio, e ci fa capire che per lui è stato un esperienza straordinaria, questo racconto lo troviamo nella  Seconda Lettera ai Corinzi.
 
Seconda Lettera ai Corinzi; 12: 1-5
 
12
1Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze.

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San Paolo ha queste visioni e crede davvero, grande e la sua fede, egli è certo di morire e andare presso il Signore Gesù. Ecco come dice nella Lettera ai Filippesi.
 
Lettera ai Filippesi; 1: 19-26
 
1
19So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20secondo la mia ardente attesa speranza che in nulla rimarrò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. 23Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. 25Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi.

- Apostolo delle genti ci insegna che esiste il mondo celete e spirituale dove regna il Signore Altissimo con il suo Unigenito Figlio Gesù il Cristo,

mondo celeste dove vanno a stabilirsi le anime dei Santi e dei Giusti dopo la loro morte terrena

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/n%2036-boxBarbaglio.pdf

Barbaglio: “Il pensare di Paolo”

Paolo è il vero fondatore del cristianesimo? È un pastore o un teologo? Dove ha trovato gli elementi fondamentali del suo pensiero? A Damasco o nella comunità di Antiochia? Che senso hanno le sue lettere? Il suo è un pensiero sistematico, o improvvisato e casuale? È possibile rinvenire un centro del suo argomentare? Non sono poche e di poco conto le domande che si impongono ad un cristiano che desidera approfondire un corpus letterario e teologico così importante del Nuovo Testamento. A tutto ciò aiuta a rispondere un bel libro di Giuseppe Barbaglio, un profondo conoscitore della figura e del pensiero dell’apostolo delle genti.1 In una prima parte del suo lavoro egli studia le caratteristiche formali del pensare di Paolo (pp. 15-100). Esso non si presenta come un pensiero strutturato filosoficamente, ma come un pensare teologico, un « fare teologia » non in vista di una dottrina ben definita (magari incentrata sulla sola fide, gabbia ermeneutica che da secoli imprigiona i suoi scritti), ma dinamicamente inserita in un processo dialogico, una strategia argomentativa, che lo vede interloquire con varie comunità. A partire non da una tabula rasa, ma da una ricca tradizione biblico-giudaica, messa a confronto con le ricchezze culturali del mondo greco-romano e con la vivacità teologica della comunità
di Antiochia, Paolo offre un pensare teologico espresso in forma epistolare. Questa è la forma più adatta con la quale interagire con i destinatari per rispondere alle loro domande e problematiche, e per indurli a un cambiamento di posizioni. « Provocato » e « occasionale » (ma non casuale o incidentale), il pensare di Paolo è « provocatorio » e dialogico, un pensare sempre motivante e argomentante. Paolo non è il fondatore del cristianesimo, ma colui che ha elaborato un pensare ermeneutico o interpretativo. L’unità del suo fare teologia non è dovuta a un tema (sola fide, escatologia ecc.) ma ad un fattore formale, il processo con cui egli pensa Dio e Cristo. La sua è un’ermenutica del vangelo. Paolo rilegge e ridefinisce razionalmente i punti fondamentali del vangelo nelle sue valenze più varie. Esso è predicazione cristiana, cioè polarità di parola efficace e di provocato ascolto di fede; è narrazione dell’evento Cristo, incentrato sul mistero della sua morte, risurrezione e parusia; è potenza divina di salvezza attiva nella predicazione degli evangelizzatori, rivelazione della indiscriminante giustizia di Dio. Il pensare di Paolo è occasionale e non sistematico, ma sempre coerente. Cristo è l’unico ed esclusivo mediatore salvifico per tutti, su un piede di pari dignità e condizioni d’accesso. In quanto crocifisso e risorto egli rappresenta l’intera umanità, rinnovata nel mistero pasquale. L’indicativo della grazia comporta l’imperativo di una risposta da persona viva perché libera nello Spirito. Tutto si realizza secondo le Scritture e si rende presente nell’evangelizzatore conformato al Cristo. Solus Christus, sola fides, sola gratia Christi. Nella seconda parte del libro (pp. 101-318) Barbaglio illustra in concreto, a partire da numerosi blocchi letterari delle sette lettere paoline indisputate, in che modo Paolo pensa e interpreta il vangelo di Cristo. Il cantus firmus del vangelo viene modellato sulle concrete necessità e situazioni delle comunità con le quali egli interloquisce. Una piccola summa del « fare teologia » proprio di Paolo, un vangelo vivo e attuale anche per oggi. (R. Mela)
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1 Barbaglio G., Il pensare di Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004, € 24,00. Il libro si pone in ideale continuità con il poderoso
volume che lo ha preceduto, sempre dello stesso autore: La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1999 (22001),
pp. 784, € 50,50.

Corpo di Cristo siamo anche noi

dal sito:

http://www.lavoce.it/articoli/20110624231.asp

SS. CORPO E SANGUE DI CRISTO

Corpo di Cristo siamo anche noi

Bruno Pennacchini  Esegeta, già docente all’Ita di Assisi

Nella festa del Corpus Domini, la liturgia celebra quell’avvenimento che il mondo non può credere: la presenza reale di Dio fra gli uomini. Dio è presente nel mondo in mille modi. San Paolo, parlando agli intellettuali ateniesi, radunati sull’areopago, disse: “In lui viviamo, ci moviamo, e siamo” (At 17,28). L’eucaristica tuttavia rende tale presenza talmente “concreta” da potercene perfino cibare. Sant’Agostino, in quella straordinaria autobiografia che sono le Confessioni, prova a descrivere il momento della svolta decisiva della propria vita. Tra l’altra scrive: “Cresci – sentì come una voce dall’alto che gli diceva – e mi mangerai; ma non mi trasformerai in te, come avviene con il cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me” (Conf. VII,16). L’ascolto delle tre letture della messa ci condurrà al cuore di quella misteriosa pienezza.
La prima lettura ruota attorno ad una parola-chiave: “manna”, simbolo di tutto il nutrimento provvidenziale con cui Dio sostentò il popolo che aveva tratto con potenza dalla schiavitù dell’Egitto. Il libro dell’Esodo parla di un cammino di quarant’anni, pari a due generazioni, durante le quali Dio educò il popolo, insegnandogli due cose fondamentali: conoscere la realtà di se stessi e sperimentare che Dio agisce come un saggio pedagogo. Ha fatto provare loro la fame, ma non ha lasciato che ne morissero, anzi li ha nutriti di manna, cibo sconosciuto a loro e ai loro padri. Ugualmente con la sete, con la malattia e gli incidenti della marcia nel deserto. Tutto avveniva in modo inaspettato e insospettabile. Profezia di un’altra manna, cibo incorruttibile, con cui Gesù condurrà nei secoli la Chiesa; e profezia di come Dio educa noi, alternando sapientemente disagio e gratificazione; nella stessa maniera, ogni genitore saggio fa con suo figlio.
La seconda lettura è formata da due soli versetti della Prima lettera ai Corinzi di san Paolo apostolo. La parola “comunione” vi compare due volte. Parola che ci rimanda al sacramento a cui molti di noi partecipano spesso. Paolo mette in relazione il calice e il pane con il sangue ed il corpo di Cristo; e l’uno e l’altro con noi, che siamo un solo corpo in Lui. Ossia: il vino e il pane consacrati sono corpo e sangue del Signore; e noi, l’assemblea dei credenti in Gesù, siamo il suo Corpo. Pensavo: quando andiamo alla comunione, il celebrante ci presenta l’ostia consacrata e dichiara autorevolmente: “Corpo di Cristo!”. Noi rispondiamo: “Amen”, ossia è certo, lo confermo, ne sono convinto. Ma se lo stesso celebrante, anziché presentarci l’ostia consacrata, ci indicasse l’assemblea, dichiarando con uguale autorevolezza: “Corpo di Cristo!”, risponderemmo “Amen” con uguale convinzione? Sinceramente mi rimane qualche dubbio. Eppure per Paolo c’è equivalenza fra il pane eucaristico, il Corpo di Cristo e la Chiesa. I tre sono dinamicamente collegati: attraverso il mistero eucaristico si realizza e vive il mistero della Chiesa, che è il corpo di Cristo. Lo Spirito santo circola in tutto il corpo come soffio che tutto vivifica: il Capo, che è Cristo, e le membra, che siamo noi. (Ricordiamo le parole della liturgia di Pentecoste: “Lo Spirito del Signore riempie l’universo”). Quando comunicano al pane e al vino, i fedeli diventano Corpo di Cristo, cioè Chiesa. Paolo ribadisce con forza questa certezza, un poco più avanti nella stessa lettera (1Cor 11,17-29), quando rimprovera violentemente i cristiani di quella città, perché nello loro assemblee si fanno discriminazioni tra chi è benestante e chi è povero. E conclude che chi mangia il pane e beve al calice del Signore indegnamente, ossia disconoscendo le esigenze di fraternità, di solidarietà, che comporta il ricevere il Corpo di Cristo, “mangia e beve la propria condanna”; entra cioè, in contraddizione con se stesso. Se, infatti, uno è il Corpo di Cristo/eucaristia, uno deve anche essere il Corpo di Cristo/assemblea cristiana.
Il Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,51-58) sottolinea l’altro aspetto dell’eucaristia: il nutrimento. Gesù è esplicito “Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. I due temi sono inseparabili: la comunione fraterna e il nutrimento spirituale. Ad analogia con il nutrimento quotidiano che ci permette di vivere fisicamente, il Corpo di Cristo, ricevuto nell’eucaristia, ci dà un supplemento di vita. Quando ci comunichiamo si compie in noi l’unione fra Dio e l’uomo; siamo quindi responsabili, in certo senso, della presenza di Dio nel mondo. E si compie anche l’unione dei credenti in Gesù Cristo.

« IO SONO IL BUON PASTORE »

dal sito:

http://www.stpauls.it/coopera/0804cp/0804cp10.htmhttp://www.stpauls.it/coopera/0804cp/0804cp10.htm

« IO SONO IL BUON PASTORE »

di PRIMO GIRONI

« Io sono il buon pastore »  

L’immagine biblica del « pastore » contribuisce a illuminare la figura di Gesù e a caratterizzare la sua missione 

L’immagine del pastore che nel Vangelo secondo Giovanni contribuisce a una comprensione più profonda e intensa della persona e della missione di Gesù, va collocata innanzi tutto nell’orizzonte della Bibbia. Questo orizzonte delimita il piccolo mondo dell’uomo biblico, che si restringe attorno alla tenda del pastore, al pozzo, al pascolo e al gregge.

«Abele pastore di greggi»
La Bibbia apre la narrazione della storia della nostra salvezza con la figura di Abele « pastore di greggi » (Genesi 4,2). Con questa immagine viene delineata la presenza dell’uomo nel mondo creato da Dio, come « custode/pastore » della creazione e chiamato a prendersi cura di quanto Dio gli ha affidato. Pensiamo allo stupore dell’orante del Salmo 8 di fronte a questo suo ruolo di « pastore » della creazione: «Tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare» (Salmo 8,7-9). Nel Vangelo secondo Giovanni è Gesù a ricevere tutto nelle « sue mani », per non « perdere » nulla di quanto il Padre gli ha affidato (vedi Giovanni 6,39; 13,5).
La prima immagine che la Bibbia ci offre dell’uomo/pastore è perciò quella che descrive la cura amorevole con cui egli custodisce il creato e quanto esso contiene.
Anche i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe vengono presentati con i tratti del « pastore »: la storia della salvezza affonda le radici accanto ai loro greggi, nei loro incontri presso i pozzi dell’acqua e sotto le tende che li riparano dal caldo torrido del deserto e dal freddo pungente delle lunghe notti stellate.
Lo stesso Mosè, prima di estendere la sua custodia e la sua opera in favore del popolo di Israele schiavo in Egitto, ha vissuto l’esperienza del « pastore »: «Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero» (Esodo 3,1).

«Il popolo che è il suo gregge»
L’immagine del pastore, custode di quel microcosmo che è l’ambiente vitale dell’uomo della Bibbia, conosce un successivo sviluppo nella predicazione dei profeti. Sono i profeti a cogliere nel gregge e nel pastore uno dei modi di parlare del Dio di Israele e del suo popolo. Nella loro predicazione il gregge è diventato il popolo della Bibbia e il pastore è ora il Dio di Israele. I capitoli 34-37 del libro del profeta Ezechiele scorrono sotto i nostri occhi con un alternarsi continuo tra la cura amorevole di Dio/Pastore e la situazione di sofferenza e di abbandono del gregge che è il suo popolo: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare… andrò in cerca della pecora perduta… fascerò quella ferita e curerò quella malata» (vedi Ezechiele 34,13-16).
All’orizzonte di questa promessa si delinea già la predicazione di Gesù, che alla predicazione dei profeti attinge le immagini, le parole, i gesti, le azioni che lo caratterizzano come « pastore » dell’uomo del vangelo e dell’uomo di ogni tempo.

«II Signore è il mio pastore»
La tenda, il gregge, il pozzo, i pascoli, l’acqua, il pastore e il suo bastone, il cammino nel deserto tra i pericoli e i gli animali feroci hanno fornito all’orante dei Salmi le parole e le immagini per la sua preghiera e il suo canto. Infatti anche il libro dei Salmi contiene l’immagine del pastore che, mentre guida il suo gregge camminandogli avanti per aprirgli la strada, diventa anche l’immagine dello stesso orante che compie il proprio cammino interiore, spirituale verso Dio.
Tutti conosciamo la ricchezza compositiva del Salmo 23 (« Il Signore è il mio pastore ») e il suo radicamento nell’esperienza quotidiana del pastore con il suo gregge. Ma ciò che va maggiormente conosciuto è il messaggio che questo Salmo ci trasmette: come il ritmare del bastone del pastore sul terreno rassicura il gregge e gli fa sentire la presenza del pastore (e tutta la sua cura, il suo amore, la sua premura e la sua protezione) lungo il suo cammino o durante la sosta presso il pozzo o al pascolo, così l’orante dei Salmi lungo il suo cammino interiore sente il ritmare della Parola di Dio e da essa riceve guida, orientamento, nutrimento, sicurezza.

«Io sono il buon pastore»
Giungiamo così al capitolo 10 del Vangelo secondo Giovanni, dove l’immagine del pastore confluisce nella persona e nella missione di Gesù. È stato molto lungo e complesso il percorso tracciato dalla figura del pastore, tanto che al tempo di Gesù (sia al momento della sua nascita sia durante il suo ministero) i pastori erano esclusi dalla società e considerati ai margini della vita sociale e religiosa, quasi esseri deformi, degradati, privi di bellezza. Questo potrebbe spiegare perché l’evangelista Giovanni superi una simile concezione negativa del pastore, dichiarando che Gesù è il pastore « quello bello » (come indica il termine greco kalòs, « bello », che noi traduciamo abitualmente con « buono »).
Definendosi « pastore bello/buono », Gesù si riallaccia all’immagine originaria che del pastore la Bibbia aveva fornito. In lui riaffiora Abele, perché Gesù esprime una grande cura e un grande amore per il creato e per l’uomo che in esso vive. Nel suo Vangelo, Giovanni ama chiamare il creato con il termine « mondo », sul quale Dio, mediante Gesù, riversa tutta l’intensità del suo amore di pastore: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Giovanni 3,16).
In Gesù il popolo di Israele è il gregge che ritorna alle origini, quando erano Abramo, Isacco e Giacobbe a guidarlo e a radunarlo attorno al pozzo, alla tenda, all’ovile e al pascolo. L’acqua della vita e il pane e il vino eucaristici sono ora il nuovo pozzo e il nuovo pascolo, la nuova tenda e il nuovo ovile dove il pastore Gesù riunisce i figli dispersi di Israele e l’umanità di ogni tempo (vedi Giovanni 11,51-52: «Gesù doveva morire per la nazione e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi»).
In Gesù che guida e conduce al pascolo le sue pecore, che le strappa dalla rapacità del predatore e dalla mano del ladro, riaffiora la preghiera dell’orante dei Salmi che, guidato dal ritmare del bastone/Parola di Dio Pastore, ha la certezza di non mancare ormai di nulla («Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla», Salmo 23,1).
Infine in Gesù che nutre e conduce al pascolo le sue pecore e per esse offre la vita, la figura del Pastore si fonde con quella dell’Agnello che, con le sue carni immolate, diventa il nutrimento definitivo dell’umanità.

Primo Gironi

Bibbia e cultura greca : Tra sapienza e stoltezza

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/281q04a1.html

Bibbia e cultura greca

Tra sapienza e stoltezza

Con una tavola rotonda sul tema « Trasmettere il messaggio della Bibbia nella cultura di oggi » si è concluso sabato 4 dicembre alla Pontificia Università Urbaniana il congresso internazionale « La Sacra Scrittura nella vita e nella missione della Chiesa » dedicato all’Esortazione Apostolica Verbum Domini. La tavola rotonda è stata presieduta dal cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, in occasione dei lavori del congresso, ha scritto per il nostro giornale il seguente articolo. Pubblichiamo anche ampi stralci della relazione del direttore della rivista « Servizio della Parola ».

di Gianfranco Ravasi

La recente esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini ha un intero capitolo dedicato alla « Parola di Dio e culture ». È, questa, un’ulteriore declinazione della categoria teologica centrale cristiana, quella dell’Incarnazione. Essa – afferma Benedetto XVI – « rivela anche il legame indissolubile che esiste tra la Parola divina e le parole umane, mediante le quali si comunica a noi(…) Dio non si rivela all’uomo in astratto, ma assumendo linguaggi, immagini ed espressioni legati alle diverse culture » (109).
Che la Bibbia non sia un aerolito piombato dal cielo della trascendenza, ma sia piuttosto un seme deposto nel terreno della storia è ormai un dato storico-critico e teologico rigettato solo dal fondamentalismo. Il cuore del cristianesimo è nell’Incarnazione, cioè nel Lògos eterno e infinito che s’innesta, s’intreccia e intride la sàrx, cioè la temporalità, la spazialità, l’esistenza, la cultura dell’umanità (Giovanni 1, 14). Riannodandosi a un filo tradizionale, che ebbe nell’enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII uno dei suoi nodi decisivi, Giovanni Paolo ii, rivolgendosi il 27 aprile 1979 alla Pontificia Commissione Biblica, affermava che ancor prima di farsi sàrx, « carne » in senso stretto, « la stessa Parola divina s’era fatta linguaggio umano, assumendo i modi di esprimersi delle diverse culture, che da Abramo al Veggente dell’Apocalisse hanno offerto al mistero adorabile dell’amore salvifico di Dio la possibilità di rendersi accessibile e comprensibile nelle varie generazioni, malgrado la molteplice diversità delle loro situazioni ». Detto in termini sintetici, la Bibbia si presenta anche come un modello di inculturazione o acculturazione sia a livello linguistico, sia in ambito letterario (si pensi ai generi letterari), sia nell’orizzonte tematico e la Verbum Domini ribadisce tale aspetto.
Ovviamente sono innanzitutto le culture dell’antico Vicino Oriente il referente primario, ma non è certo lieve anche l’apporto dell’ellenismo.
Molti sono convinti che Qohelet, l’autore anticotestamentario che incarna la crisi della sapienza tradizionale di Israele, abbia respirato l’atmosfera filosofica greca, in particolare quella dello stoicismo, dell’epicureismo e dello scetticismo dei secoli iv-iii antecedenti all’era cristiana. Si sono, così, infittite le analisi dei contatti tra certe affermazioni sorprendenti dell’autore biblico col pensiero greco. Un esempio per tutti. In Qohelet 1, 9 (cfr. 2, 12; 3, 15) si legge:  « Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole ». Ora nella Vita di Pitagora (19) di Porfirio si legge questo detto del celebre filosofo:  tà ghinòmena pòte pàlin ghìnetai, nèon d’oudèn haplòs estin, « ciò che accadde un tempo di nuovo accade, niente di nuovo avviene semplicemente ». Paolo Sacchi nel suo commento a Qohelet intuiva, invece, in quello scritto biblico il balenare dell’aurea mediocritas, ossia di una morale della « via di mezzo ». Infatti in 7, 16-18 si legge:  « Non esagerare con la giustizia, né esser troppo sapiente:  perché rovinarti? Non esagerare, però, neppure con la malvagità o con la stupidità:  perché morire prima del tempo?! È bene aggrapparsi a una cosa senza però staccare la mano dall’altra:  chi rispetta Dio riesce in entrambe ».
Certo che, se pure non è possibile ricondurre Qohelet nell’alveo del pensiero greco, è però molto probabile che il clima culturale ellenistico abbia varcato anche le frontiere abbastanza blindate del mondo giudaico-palestinese, come è attestato un secolo dopo (nel ii secolo antecedente all’era cristiana) anche da un altro sapiente biblico, il « conservatore illuminato » Ben Sira o Siracide (si legga il capitolo 38 sul medico e sulla medicina). Tuttavia, ben più intenso fu il dialogo stabilito dalla Diaspora, soprattutto alessandrina. Suggestivo è il caso del filosofo giudaico Filone ma anche quello di un libro deuterocanonico come la Sapienza, composto in un greco eccellente probabilmente ad Alessandria d’Egitto forse attorno al 30 prima dell’era cristiana.
In particolare, nei capitoli 1-5 dell’opera, brilla la tesi dell’athanasìa/aftharsìa della psychè:  l’immortalità/incorruttibilità dell’anima è certamente formulata e formalizzata attraverso il ricorso al platonismo popolare, anche se il retroterra teologico e antropologico permane saldamente ancorato alla tradizione biblica. Infatti, questa immortalità beata non è tanto una conseguenza metafisica della natura dell’anima spirituale, come si ha nell’argomentazione platonica, bensì dono e grazia essendo comunione trascendente di vita con la stessa divinità. Tuttavia l’autore, che  conosce  anche  Se- nofonte,  offre un testo che è grondante di ammiccamenti alla cultura greca.
In 8, 7 introduce le quattro virtù cardinali di origine platonica (Repubblica iv, 427e-433e):  temperanza, prudenza, giustizia e fortezza. In 11, 17 evoca l’àmorfos hyle, la materia informe, ispirandosi al Timeo (51A) di Platone, mentre in 11, 20 esalta l’opera divina che « tutto dispone con misura, calcolo e peso », formula riscontrabile nelle Leggi platoniche (vi, 757B). In 13, 5 si esalta la conoscenza « analogica » di Dio procedendo dal creato al Creatore secondo una modalità molto affine al De mundo dello Pseudo-Aristotele (vi, 399b, 19 e seguenti). In 8, 17-20 si adotta il « sorite », cioè il sillogismo concatenato progressivo, mentre le componenti della Sapienza divina sono modellate in 7, 17-21 sulla base della didattica scientifico-filosofica ellenistica, quasi « canonizzando » l’insegnamento delle scienze naturali impartito nel Museon di Alessandria. Nella celebrazione che l’autore fa della Sapienza divina (7, 22-24), basata su ventuno attributi, si intuiscono rimandi alla filosofia stoica, mentre nel canto intonato dagli empi nel capitolo 2 occhieggiano concezioni epicuree e persino « materialistiche » (2, 2-3).
L’antropologia a più riprese riflette echi della concezione greca classica. In 9, 15, ad esempio, si afferma che « il corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri », parole che sembrano alludere a un passo del Fedone (81C). In 8, 19-20 si mette in scena Salomone che parrebbe accogliere la tesi della preesistenza delle anime, anche se il contesto ridimensiona l’idea riconducendola a una semplice esaltazione della preminenza dell’anima sul corpo:  « Ero un fanciullo di nobile natura e avevo ricevuto in sorte un’anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia ». In 17, 11 si ricorre al concetto greco di « coscienza » (synèidesis), mentre in 14, 3 e 17, 2 si celebra la provvidenza (prónoia) divina, con tonalità stoiche, come principio che penetra e regge l’universo. In pratica, senza conoscere la cultura greca è quasi impossibile leggere con frutto questo gioiello della saggezza biblica della Diaspora.
Giungiamo, così, al contributo della cultura ellenistica nei confronti dell’esperienza cristiana. Basti solo pensare all’opera missionaria di san Paolo che ha al suo interno un vero e proprio programma di « inculturazione » teologica, elaborata attraverso una strumentazione che ricorre al contributo greco, applicata però in forma molto originale. I grandi centri di Antiochia, Efeso, Corinto e Roma costituiscono l’areopago in cui il cristianesimo, uscito dal grembo giudaico gerosolimitano, si confronta col mondo ellenistico ed entra in dibattito con esso. La sfida che già il giudaismo della Diaspora aveva dovuto raccogliere si ripropone con maggior forza e con esiti decisivi per la nuova fede cristiana ma anche per la stessa civiltà greco-romana.
Se stiamo ai rimandi diretti all’interno del Nuovo Testamento, il bilancio materiale è magro perché i testi di riferimento rimangono ovviamente sempre le Scritture ebraiche. Tre sole sono, infatti, le citazioni dirette:  i Fenomeni di Arato in Atti 17, 28 (« Di Lui noi siamo stirpe »), la Taide frammento 218 di Menandro in 1 Corinzi 15, 33 (« Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi »), il frammento 1 di Epimenide di Creta in Tito 1, 12 (« I cretesi sono sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri »). In realtà la messe è ben più copiosa quando si lavora sulla filigrana dei testi neotestamentari.
Pensiamo, ad esempio, all’influenza delle speculazioni ellenistico-giudaiche circa la Sofìa e il Lògos divino all’interno della cristologia paolina e giovannea. Il Lògos del prologo del quarto vangelo, se si àncora alla categoria biblica Davar-Parola, è però segnato da qualche ammiccamento greco a partire da Eraclito fino allo stoicismo. Pensiamo anche alla riflessione sulla preesistenza e sulla missione di Cristo (Romani 1, 3; 8, 3; Galati 4, 4; Giovanni 1, 1.14):  è facile intuire in sottofondo contributi elaborati dal giudaismo che più si era aperto all’ellenismo, cioè a Filone di Alessandria e alle sue concezioni ipostatiche della Sapienza e della Parola divina (De opificio mundi 139; De confusione linguarum 146).
Ma, fuori della mediazione giudeo-ellenistica, il cristianesimo s’inoltra in prima persona nell’orizzonte culturale greco-romano. Vorremmo indicare al riguardo tre modelli. Il primo è quello « etico-filosofico » ove è d’obbligo il nesso con la filosofia stoica allora dominante, soprattutto la Nuova Stoà (basti accennare all’epistolario apocrifo tra san Paolo e Seneca). La dignità della persona, anche se femminile o servile (Galati 3, 28), la relazione intima con l’eterno (2 Corinzi 4, 17-18), il contesto globale unitario in cui l’uomo è collocato e vive (Efesini 4, 4-6), il celibato per  ragioni  superiori  e  trascendenti (1 Corinzi 7, 35), lo stesso perdono delle offese (Luca 23, 44), il bastare a se stessi col proprio impegno (Filippesi 4, 1) sono alcuni esempi di questa osmosi o almeno di contatti culturali.
C’è, poi, il modello « misterico ». Si tratta di un settore ove bisogna procedere con molto rigore e cautela, considerata anche la fluidità degli stessi culti misterici. Così, sulla morte e risurrezione di Cristo è molto arduo voler scovare paralleli nella ritualità mitica dei misteri:  se è certa la morte del dio (Persefone, Osiride, Adone, Attis), molto più problematica è la sua risurrezione che non è mai definita in termini netti e nitidi e soprattutto non secondo le caratteristiche di un evento storico, ma piuttosto seguendo la scansione stagionale della natura. Inoltre, spesso gli scritti misterici profani sono molto tardivi, di probabile impronta cristiana. Diverso è, invece, il caso della comunione e della partecipazione alla vicenda della divinità adorata:  il linguaggio misterico potrebbe aver offerto a Paolo un supporto espressivo per la formulazione della concezione del « con-morire » e « con-risorgere » del fedele con Cristo (Romani 6, 1-5; Colossesi 2, 18). Così, la koinonìa « sacramentale » col corpo  di  Cristo nel pane e nel calice (1 Corinzi 10, 14-22) può aver ricevuto qualche spunto espressivo dal tema della koinonìa con la divinità nel pasto sacro presente nel culto dionisiaco.
Infine, potremo parlare di un modello « politico ». Il punto di partenza è remotissimo a livello ideale rispetto alla visione cristiana ed è quello del culto ellenistico dei sovrani che approda all’ »apoteosi » imperiale del i secolo. Ora, una serie di titoli come Kyrios, Theòs, Sotèr, tipici di quell’ambito, vengono riproposti – ovviamente secondo coordinate del tutto differenti – dalla cristologia soprattutto paolina che nell’uomo Gesù Cristo confessa la pienezza della divinità. La stessa categoria parousìa per indicare la futura « venuta » finale di Cristo attinge alla tipologia delle visite imperiali « graziose » (Ateneo, Deipnosofia 6, 253 c-d) e persino il termine euanghèlion appare in chiave imperiale nella famosa iscrizione di Priene.
Concludendo questa carrellata essenziale sul dialogo tra Bibbia ed ellenismo, il contrappunto proprio di ogni confronto interculturale è ben espresso da due dichiarazioni paoline che ci invitano a evitare i due estremi insiti in ogni comparazione:  il fondamentalismo esclusivista e il sincretismo dissolutore dell’identità propria:  « Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono/bello » (1 Tessalonicesi 5, 21); « I Greci cercano la sapienza(…) noi predichiamo Cristo crocifisso (…) stoltezza per i pagani » (1 Corinzi 1, 22-23).

(L’Osservatore Romano 5 dicembre 2010)

Identità ministeriale e pastorale vocazionale : «Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

dal sito:

http://www.vocazioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=1476:nelle-lettere-a-timoteo-e-tito-lidentikit-del-sacro-ministro&catid=28:articoli-e-studi-di-esperti&Itemid=128

Identità ministeriale e pastorale vocazionale

«Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

Di Rinaldo Fabris, Presidente dell’Associazione Biblica Italiana

L’invito di Paolo al suo amato discepolo e fedele collaboratore, Timoteo, nella seconda Lettera: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani», sta all’origine del sacramento dell’ordinazione al ministero nella tradizione della Chiesa (2Tm 1,6). Un rimando allo stesso rito si trova nella prima Lettera a Timoteo, dove si riportano le istruzioni dell’apostolo circa i compiti propri di Timoteo, proposto come modello dei pastori: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Il rapporto tra l’imposizione delle mani e il dono di Dio, che viene conferito come dono spirituale permanente, sono gli elementi costitutivi del sacramento dell’ordinazione ministeriale. Questo richiamo al rito dell’ordinazione al ministero si colloca nella cornice delle istruzioni ed esortazioni che l’apostolo invia a Timoteo perché sappia come comportarsi «nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). L’analisi dei testi, nel rispettivo contesto, consente di tracciare il profilo ideale del ministro del Vangelo e del pastore, chiamato a prolungare il ruolo dell’apostolo Paolo nella Chiesa di Dio (1).

1. L’imposizione delle mani e il dono dello Spirito di Dio

Il testo più chiaro ed esplicito sul rapporto tra imposizione delle mani e dono dello Spirito di Dio si trova nella seconda Lettera a Timoteo (2Tm 1,6). Nell’intestazione della Lettera, Paolo si presenta come «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù» (2Tm 1,1). La Lettera è indirizzata a «Timoteo, figlio carissimo» (2Tm 1,1). Nella breve preghiera di ringraziamento, Paolo rende grazie a Dio, ricordando Timoteo nelle sue preghiere «sempre, notte e giorno» (2Tm 1,3). In questo caso l’apostolo aggiunge un tocco che rivela il rapporto profondo e affettuoso con il suo collaboratore: «Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia» (2Tm 1,4). Paolo ricorda in particolare la famiglia di Timoteo, dalla quale ha ricevuto la fede cristiana e una solida formazione religiosa: «Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2Tm 1,5).
Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la mamma di Timoteo, residente a Listra, nell’Anatolia, era una credente cristiana di origine ebraica, mentre il padre era greco. Durante il viaggio missionario, che intraprende dopo il Concilio di Gerusalemme, Paolo ripassa nella comunità cristiana di Listra e prende con sé Timoteo che «era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio» (At 16,2). Questa nota dell’autore degli Atti fa capire che Timoteo svolge già un’attività pastorale nelle comunità cristiane della regione anatolica.
Sullo sfondo del ricordo personale della famiglia cristiana di Timoteo si colloca l’invito pressante che Paolo gli rivolge all’inizio delle istruzioni pastorali: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Il tenore del testo fa capire che il gesto dell’imposizione delle mani da parte di Paolo per trasmettere il dono di Dio, s’innesta sulla fede familiare di Timoteo. L’apostolo ora lo esorta a «ravvivare il dono di Dio». Il verbo adoperato da Paolo, tradotto in italiano con « ravvivare », evoca l’immagine delle braci sotto la cenere. Perché si sprigioni la fiamma, che illumina e riscalda, il fuoco del focolare deve essere riattizzato. In realtà si tratta del chàrisma toù Theoù, dono che proviene da Dio e che ora è presente in Timoteo, grazie al gesto di imposizione delle mani da parte dell’apostolo.
Nella seconda Lettera a Timoteo, il chàrisma coincide con il dono dello Spirito, che viene da Dio e che ora dimora nell’apostolo e nel suo discepolo. Per incoraggiare Timoteo a condividere la sua testimonianza al Signore e le sue sofferenze nell’annuncio del Vangelo, Paolo rimanda allo Spirito che Dio «ci ha dato», non «uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2Tm 1,7). Egli risale alla chiamata di Dio – klèsis hàgia, « santa chiamata » – che ha come scopo e risultato la salvezza dei credenti. Questa si fonda sull’iniziativa gratuita ed efficace di Dio, che in Cristo Gesù porta a compimento il suo progetto. La grazia di Dio che «ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro» (2Tm 1,9-10). Mediante il dono dello Spirito di Dio, ricevuto con l’imposizione delle mani, Timoteo partecipa e prolunga il ministero di Paolo nella proclamazione e testimonianza del Vangelo di Dio. L’apostolo lo esorta a condividere la sua fede e fiducia nel Signore che è «capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato» (2Tm 1,12).
L’espressione « quel giorno » indica l’incontro finale con il Signore, che, come giusto giudice, gli darà la corona di giustizia, assieme a tutti quelli che ne attendono con amore la manifestazione (2Tm 4,8). Quello che è stato affidato a Paolo, e che egli ha trasmesso a Timoteo, è he kalè parathèke, « il bel/buon deposito », il Vangelo o la sana dottrina della fede. Perciò lo invita a tenere come punto di riferimento ideale «i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,12). Alla fine rimanda esplicitamente alla presenza e all’azione dello Spirito Santo, che dona la forza di conservare il deposito: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1,14).
Il termine chàrisma, connesso con il gesto di imposizione delle mani, ricorre anche nella prima Lettera a Timoteo, dove Paolo prescrive al discepolo di presentarsi ai fratelli come «un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina» (1Tm 4,6). Egli paragona l’esercizio della « vera fede », a quello che fanno gli atleti per conseguire un premio di poco conto, «mentre la fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura» (1Tm 4,8). Il contenuto della fede, da accogliere e proporre a tutti, è la «speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini» (1Tm 4,10). Paolo invita Timoteo a trasmettere con forza e autorevolezza queste cose ai fedeli, sia con l’insegnamento sia con l’esempio «nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza» (1Tm 4,12). In attesa della venuta dell’apostolo, Timoteo deve dedicarsi «alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento», tre aspetti o diversi momenti del ministero della parola (1Tm 4,13). Le esortazioni che seguono fanno leva su questo evento della « ordinazione » presbiterale. Timoteo deve avere cura di queste cose, dedicarsi ad esse interamente, vigilare costantemente su se stesso e sul suo insegnamento, perché questa è la condizione per salvarsi e salvare quelli lo ascoltano (1Tm 4,15-16).
Sullo sfondo di questo ritratto ideale del « ministro di Cristo » e dei suoi compiti, si colloca il richiamo al chàrisma, che gli è stato conferito mediante l’imposizione delle mani: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Qui la novità è rappresentata dal riferimento alla « parola profetica » e al gruppo dei « presbiteri », coinvolti nel gesto di imposizione delle mani. L’espressione dia prophetéias, tradotta « mediante una parola profetica », può indicare sia la preghiera ispirata, che accompagna il gesto di imporre le mani – preghiera liturgica – sia l’intervento dei « profeti » – persone ispirate – che depongono a favore del candidato all’ordinazione (cf 1Tm 1,18; 6,12b). Nella traduzione della CEI (2008) si suppone che i presbiteri come gruppo impongano le mani sul candidato al ministero. Il testo originale greco toù presbyteriou, può essere interpretato diversamente: «Con l’imposizione delle mani per far parte del presbiterio». In ogni caso, con queste espressioni si allude ad un contesto comunitario, dove si fanno preghiere, o si ascoltano le testimonianze ispirate, e i presbiteri, che formano un collegio autorevole, sono partecipi.
L’autore delle Lettere pastorali suppone che i suoi lettori o i destinatari conoscano il significato e la valenza religiosa del gesto di imposizione delle mani. Nella tradizione biblica il gesto di imporre le mani accompagna la preghiera di benedizione o di guarigione, ma è utilizzato anche per trasmettere un incarico. Dio comunica lo spirito di Mose a settanta collaboratori, scelti tra gli anziani di Israele. Nel testo biblico si dice che Dio pone lo spirito su di essi (Nm 11,25.30). Di Giosuè, che prende il posto di Mose nella guida del popolo di Dio, si dice che «era pieno di spirito di saggezza, perché Mose aveva imposto le mani su di lui» (Dt 34,9). Nel Libro dei Numeri si racconta il passaggio dalla guida di Mose a quella del suo successore, Giosuè, mediante il gesto dell’imposizione delle mani. Il Signore ordina a Mose di prendere Giosuè, figlio di Nun, «uomo in cui è lo spirito» (Nm 27,18). Egli deve porre la mano su di lui, farlo comparire davanti al sacerdote Eleazaro e a tutta la comunità e, alla presenza di tutti, deve trasmettergli i suoi ordini e la sua autorità «perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca» (Nm 27,19-20). Mose fa come il Signore gli ha ordinato: «Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini» (Nm 27,23). A questo rito, chiamato in ebraico semikah, si ispira la tradizione giudaica per l’ordinazione dei rabbini.
Tenendo presente la tradizione biblica, si può interpretare il rito di imposizione delle mani nelle lettere pastorali non solo nel senso della trasmissione di un incarico – dall’apostolo al suo successore Timoteo, e da questi ai presbiteri – ma come comunicazione, in un contesto di preghiera, del dono dello Spirito di Dio, corrispondente al compito affidato. Non è casuale che l’autore delle lettere pastorali, per parlare di questo dono, ricorra al termine greco chàrisma, che, nelle lettere autentiche di Paolo, designa sia i doni suscitati dallo Spirito, sia i ministeri disposti da Dio per la nascita e crescita della Chiesa, corpo di Cristo (1Cor 12,4-6.28). Cesare Marcheselli-Casale, nel suo commento, riassume molto bene il significato del gesto di imposizione delle mani quando scrive: «Dio ha dato dunque a Timoteo, attraverso l’imposizione delle mani, un dono speciale che lo ha segnato per l’intero corso della sua vita… Questo dono è lo Spirito di Cristo, fattore funzionale essenziale del e nel ministero di Timoteo. Il compito di guidare la comunità, inoltre, chiede a Timoteo di saper trovare i mezzi e le vie per rendere visibile e concreta la presenza dello Spirito» (2).

2. L’identità del presbitero al servizio del Vangelo

L’apostolo Paolo, che scrive ai suoi discepoli e collaboratori Timoteo e Tito, traccia il profilo del ministro di Cristo, chiamato a servire il Vangelo nella Chiesa. I responsabili della Chiesa in Asia e a Creta devono affrontare una situazione di crisi, provocata dai falsi maestri, che propongono speculazioni sul destino degli uomini genealogie – definite « miti » e favole (1Tm 1,4; 4,7; 2Tm 4,4; Tt 1,14). Il loro insegnamento intacca il patrimonio della fede e minaccia la coesione delle comunità. Il compito del responsabile della comunità è di garantire la trasmissione della fede, richiamandosi alla figura autorevole dell’apostolo Paolo, maestro della verità e araldo del Vangelo. Nel servizio della Parola Dio, identificata con il Vangelo, i responsabili di comunità devono conservare la « sana dottrina » e custodire il « deposito » della fede. Come fedeli discepoli di Paolo, Timoteo e Tito devono scegliere persone fidate, capaci di insegnare la sana dottrina. Paolo esorta Timoteo ad attingere forza dalla grazia che è in Cristo Gesù, per trasmettere le cose che ha udito da lui davanti a molti testimoni, «a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri» (2Tm 2,1-2). Due esempi di istruzioni per il servizio della Parola si trovano nella prima e seconda Lettera a Timoteo (1Tm 4,8-16; 2Tm 3,10-4,6).
La sezione di 1Tm 4,8-16 è un piccolo manuale di ciò che deve fare il delegato di Paolo, che ha ricevuto un’investitura mediante l’imposizione delle mani. Egli deve esercitarsi nella « pietà », che riassume i doveri dell’uomo di Dio. Come responsabile della comunità deve combattere, con la speranza, fondata nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti. La sua autorevolezza non dipende dall’età, ma dall’incarico e dal carisma ricevuti dall’apostolo. In sua assenza deve dedicarsi « alla lettura » – proclamazione liturgica della Parola del Signore – alla paràklèsis, « esortazione », interpretazione e applicazione della Sacra Scrittura, e alla didaskalia, « insegnamento », catechesi, istruzione, cui si attualizza la Parola di Dio. I compiti specifici di Timoteo – prototipo dei pastori – nella guida della comunità sono concentrati nel ministero della Parola. Per fare questo il discepolo di Paolo può contare sul carisma ricevuto per l’imposizione delle mani dell’apostolo (1Tm 4,14b).
La seconda Lettera a Timoteo è un discorso di addio dell’apostolo, il suo testamento prima di morire come testimone del Vangelo. Timoteo, che lo ha seguito fedelmente nelle sue peregrinazioni e sofferenze, ha imparato come si serve il Vangelo e ha visto chi sono i falsi maestri e quale sarà la loro fine (2Tm 3,10-13). Fin da piccolo ha imparato a conoscere le Sacre Scritture. L’apostolo lo esorta a rimanere fedele e saldo in quello che ha imparato dalla madre e dalla nonna (cf 2Tm 1,5). Le Sacre Scritture offrono la sapienza per la salvezza, che si ottiene «per mezzo della fede in Cristo» (2Tm 3,14-15). Infatti «tutta la Scrittura», in quanto scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio – theópneustos – è utile per l’intera opera pastorale, che consiste nell’insegnare, convincere, correggere, formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio – il cristiano – sia preparato ad ogni opera buona. Questo è lo scopo dell’azione pastorale (2Tm 3,16-17). La Parola di Dio, attestata nella Sacra Scrittura, è adatta ed efficace per tutti i compiti pastorali nella comunità dei fedeli (3).
Dato il ruolo preminente della Parola di Dio per la guida e la vita pastorale della comunità cristiana, si comprende il pressante invito di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,1-2). Sulla base dell’autorità di Dio e di Gesù Cristo, giudice universale, con cinque imperativi si definisce il compito di Timoteo « evangelizzatore », in un contesto dove imperversano i « miti » che rispondono ai gusti e ai capricci degli ascoltatori. Timoteo, prototipo del responsabile della comunità, deve annunciare la Parola di Dio in tutte le forme e in ogni circostanza, poiché è necessario contrastare i falsi maestri. Come modello dei pastori, egli deve vigilare attentamente e svolgere il suo ministero – diakonia – che consiste nell’annuncio del Vangelo (2Tm 4,5).

3. La vocazione del pastore

Nelle Lettere pastorali, che si richiamano alla tradizione dell’apostolo Paolo, si ha un ritratto ideale del pastore, modello e guida della comunità cristiana. Il pastore è l’uomo di Dio, posto al servizio della comunità mediante il « dono spirituale », fonte e fondamento del compito pastorale. Il rito di imposizione delle mani, ripreso dalla tradizione biblica e giudaica, trasmette il chàrisma, « dono » spirituale, corrispondente al compito e al ruolo autorevole dei pastori nella Chiesa (1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Paolo incarica i discepoli, Timoteo e Tito di scegliere e stabilire i responsabili nelle singole chiese: episkopos, presbyteroi, diàkonoi (4).
L’episkopos è il sovrintendente o « amministratore di Dio », che deve garantire il buon ordine e l’ortodossia nella chiesa locale. La sua autorità, tramite il discepolo, risale all’apostolo, che traccia il modello del suo compito e del suo stile pastorale. Dato che nelle Lettere pastorali si parla di episkopos al singolare, si pensa che egli sia il rappresentante o presidente del collegio dei presbyteroi. Almeno in un testo si fa riferimento al presbytérion e si menziona anche il ruolo di presidenza dei presbiteri (1Tm 4,14; 5,17). Il modello per questa struttura dell’ordinamento ecclesiale è quello del « consiglio degli anziani » dell’ambiente giudaico.
Anche i diàkonoi, nell’ordinamento ecclesiale delle Lettere pastorali, hanno un ruolo autorevole, perché ai candidati alla diakonia si richiedono qualità analoghe a quelle del candidato all’episokpè e al compito di presbiteri ( 1Tm 3,8-13). La qualifica di « diacono di Gesù Cristo » è data a Timoteo, proposto come modello di tutti i pastori nella Chiesa (1Tm 4,6). La sua attività, come quella dell’apostolo, è presentata come diakonia (1Tm 1,12; 2Tm 4,5.11). Dal momento che si parla di « diaconi » e di « diaconia » solo nella prima e seconda Lettera a Timoteo, si può pensare che questa forma di ministero sia propria di alcuni centri ecclesiali più importanti, con strutture più articolate.
I requisiti del pastore sono quelli di un cristiano maturo, capace di stabilire relazioni positive tra tutti i componenti della comunità. Il candidato all’episokpè deve essere «irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» (1Tm 3,2-3). Le qualità elencate per il responsabile della comunità cristiana sono quelle che, nell’ambiente greco-romano, si richiedono a quanti svolgono una funzione pubblica. L’episkopos-presbyteros, come capo della comunità cristiana, non solo dà il tono allo stile di vita dei suoi membri, ma la rappresenta all’esterno. Un tratto distintivo dell’episkopos-presbyteros, come quello dei diàkonoi, è di essere uno sposo fedele e un padre di famiglia, che sa educare i propri figli: «Perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tm 3,5; cf 3,12; Tt 1,7-9). Il modello dei rapporti di comunità è quello della famiglia – óikos – perché la Chiesa è la « casa-famiglia di Dio » (1Tm 3,15) . I rapporti del pastore della comunità con le varie categorie di persone si ispirano al modello delle relazioni familiari: «Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza» (1Tm 5,1-2; cf Tt 2,3). A tutti i cristiani si propone un ideale di vita spirituale, dove si coniugano insieme i valori umani – saggio equilibrio – e la coerenza tra fede e prassi per una testimonianza credibile.

4. Conclusioni

Come la chiamata alla fede, mediante l’annuncio del Vangelo, risale alla libera e gratuita iniziativa di Dio – chàris -, così il ruolo e il compito di guida responsabile della comunità dei credenti si fondano su un dono, il chàrisma, comunicato mediante l’imposizione delle mani. Nel gruppo delle Lettere pastorali, dove un paio di volte si fa riferimento a questo evento – chàrisma trasmesso con l’imposizione delle mani – si definisce l’identità del responsabile della Chiesa come servizio alla Parola di Dio, adatta ed efficace per ogni attività pastorale. Il pastore, chiamato a guidare la comunità, deve essere una persona capace di relazioni positive, in grado di dare buona testimonianza anche nell’ambiente esterno. Nella Chiesa, « famiglia di Dio », le relazioni si ispirano al modello familiare. Perciò il pastore responsabile deve essere uno sposo fedele e un buon padre, capace di trasmettere il Vangelo di Dio e di educare alla fede.

Note

1. Il gruppo delle Lettere pastorali – due a Timoteo e una a Tito – sostanzialmente omogenee per stile e contenuto, sono state scritte da un discepolo di Paolo, dopo la sua morte, per attualizzare e applicare il messaggio dell’apostolo in un nuovo contesto e in una diversa situazione vitale delle comunità cristiane (R. FABRIS, La tradizione paolina, Dehoniane, Bologna 1995; R. FABRIS – S. ROMANBXO, Introduzione alla lettura di Paolo, Boria, Roma 2006; 22009, pp. 169-173.
2. C. MARCHESELLI-CASALE, Le Lettere pastorali, Dehoniane, Bologna 1995, p. 650; cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, Paoline, Milano 2005, pp. 116.184.
3. R. FABRIS, « LO Spirito santo e le Scritture in 2Tm e 2P ». in E. MANICARDI – A. POTA (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nelVautotestimonianza della Bibbia. XXXVSettimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche 12,1-2 (2000), pp. 297-320.
4. G. DE VIRGILIO (ed.), Chiesa e ministeri in Paolo, Dehoniane, Bologna 2003.

(Rinaldo Fabris, «Ravviva il DONO di DIO» (2Tm 1), Identità ministeriale e pastorale vocazionale, in « Vocazioni », n. 1, Gennaio/Febbraio 2010, pp. 5-14)
 

Brani di difficile interpretazione della Bibbia (Pino Pulcinelli)

dal sito:

http://www.gliscritti.it/approf/2005/papers/pulcinelli02.htm

Brani di difficile interpretazione della Bibbia, XX,

 [1] (tpfs*)
di Pino Pulcinelli
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Introduzione

  »L’etimologia di mystérion è un mistero essa stessa ». Così esordiva G. Bornkamm nella voce omonima del Grande Lessico del Nuovo Testamento (nel volume che in originale tedesco risale ormai al lontano 1942). Al di là della sua validità attuale, questa frase ci permette di fare un’osservazione preliminare, se si vuole banale, di notare cioè che la parola italiana, così come la troviamo nel titolo del presente articolo, non è una traduzione dell’originale greco, ma una sua traslitterazione (anche in francese, spagnolo, spesso in inglese, le bibbie usano la traslitterazione; il tedesco invece traduce con « Geheimnis »). Di qui la domanda: quello che almeno gran parte degli europei intendono comunemente quando sentono o pronunciano la parola « mistero », coincide o no con quello che intendevano gli antichi scrittori greci e in particolare gli autori del NT?
Per rispondere con una prima approssimazione, che forse però ci aiuta ad inquadrare il tema, possiamo dire che se ci si limita all’uso che se ne fa nell’ambito profano, come semplice sinonimo di enigma, di qualcosa di oscuro, di nascosto, di cui si ignora la natura o la causa, allora non si coglie pienamente nel segno. Ci si avvicina al senso originario di « mistero » invece quando lo si usa in ambito religioso, per esempio nell’espressione generica « misteri della fede »; teniamo presente inoltre che la tradizione cristiana ha usato abbastanza spesso il termine, impiegato sia per indicare l’inaccessibilità alla sola logica naturale dei dati fondamentali della rivelazione divina, che per designare a livello cultuale la celebrazione liturgica e sacramentale. Se però Bibbia alla mano confrontiamo questo uso cristiano successivo, possiamo accorgerci che mentre il primo senso è riscontrabile nei testi, pur se non tanto frequentemente, il secondo (uso cultuale) è praticamente assente. È quindi utile soffermarsi a considerare specialmente l’uso specifico e in gran parte originale che ne fa il NT e in particolare san Paolo.
 
Origine del termine
Si accennava all’etimologia: ormai sembra accertato che l’origine sia da ricercare nella radice verbale my- (verbo myé?), che di per sé significa « chiudere », e che specificamente usato in campo esoterico-rituale indicava il chiudere le labbra o gli occhi (di qui i nostri aggettivi derivati, « muto » e « miope ») in presenza di cose percepite che non era possibile trasmettere ad altri; segnalava quindi l’inesprimibile. Questo concetto è collegato a quello espresso dall’altro senso del verbo descritto dai dizionari di greco classico, e cioè « iniziare » o, al passivo, « essere iniziato » (sottinteso, « ai riti misterici, ai misteri »); così lo troviamo nell’unica ricorrenza del NT in Fil 4,12: « sono iniziato a tutte le cose »; anche se in questo caso è usato in senso estenuato (infatti nel contesto si riferisce a circostanze materiali).
Nel greco classico è usato per lo più al plurale, come ad esempio in opere intitolate appunto, De Mysteriis, a partire dall’orazione di Andocide (V-IV sec. a. C.) fino al trattato di Giamblico (III-IV sec. d. C.). Lo si usava nella descrizione delle celebrazioni di culti rivolti a divinità benefiche (cf. il più famoso è quello dei « misteri » Eleusi, ampiamente attestati nelle fonti letterarie). In questi contesti si parla anche per l’appunto di « iniziazione ai misteri », di obbligo di tacere sulle cose viste e udite nei riti sacri, di una sopravvivenza oltre la morte.
Questa terminologia si diffonde anche nella filosofia e nel linguaggio profano (dove viene ad indicare semplicemente qualcosa di segreto). Soprattutto significativo è l’uso frequente che se ne fa nella letteratura gnostica (II-III sec. d.C.), nel senso specifico di « misteri arcani dello spirito, che conosciamo noi soli » (cf. Sermone dei Naasseni, in Ippolito Romano, Ref. 5,8,27).
 
Nell’AT e nell’apocalittica giudaica
Nei LXX mystérion ricorre una ventina di volte[2], e soltanto negli scritti più tardivi, di epoca ellenistica. Mentre in Sap. 14,15.23 è un termine tecnico per indicare un rito cultuale pagano da rigettare, in altri testi designa solamente dei « segreti » profani che non vanno rivelati (cf. Gdt 2,2; Sir 22,22; 2Mac 13,21; ecc.). In Sap 2,22; 6,22 i mysteria sono intesi in senso teologico, riferiti all’attività creatrice di Dio, essi vanno riconosciuti e annunciati.
Un apporto nuovo alla semantica del termine deriva dalla traduzione dell’aramaico di origine persiana raz che troviamo nel libro di Daniele al cap. 2 (vv. 18.19.27.28.29.30.47bis), dove si tratta della spiegazione del sogno di Nabucodonosor; Dio viene presentato come « il rivelatore dei misteri », di cose enigmatiche che riguardano il futuro.
Nella letteratura apocalittica (ad es. nell’Enoch etiopico, 4 Esdra, Apocalisse di Baruc, ed anche nei manoscritti di Qumran) il termine assume una dimensione temporale-storica in vista di un compimento promesso; la prospettiva è quella di un piano salvifico (pur se con dei risvolti catastrofici) che sta per realizzarsi. Da notare che in questa accezione è assente ogni riferimento cultuale.
 
Nel NT: soprattutto negli scritti paolini
Il vocabolo ricorre 28 volte in tutto nel NT, di cui 23 al singolare. Nei vangeli compare una sola volta nel brano parallelo ai tre sinottici (cf. Mc 4,11: « A voi è dato il mistero del regno dei cieli »; in Mt e Lc compare al plurale, e si aggiunge: « a voi [discepoli] è dato conoscere… »). Il regno di Dio è mistero in quanto viene dato a conoscere soltanto a chi è discepolo, cioè a chi dispone della fede.
Di tutte le altre ricorrenze, è nell’epistolario paolino che si usa con maggior frequenza (6 volte in 1Cor, 2 volte in Rm; 6 volte in Ef, 4 volte in Col; 1 volta in 2Ts; 2 volte nella 1Tm); le restanti 4 volte lo troviamo in Ap[3].
 
Prima di focalizzarci sull’uso specifico paolino menzioniamo le altre ricorrenze nel NT.
Nel libro dell’Apocalisse si tratta semplicemente del suo significato profano, un sinonimo di enigma, di qualcosa di occulto, senza una particolare rilevanza teologica (cf. 1,20: « il mistero delle sette stelle »).
Nei restanti due libri (2Ts e 1Tm), considerati tardivi dalla maggioranza dei commentatori, troviamo l’espressione « mistero dell’iniquità » (2Ts 2,7), da intendersi in senso epesegetico, cioè esplicativo, « l’iniquità è un mistero »; e le due espressioni parallele e praticamente sinonime, « mistero della fede » e « mistero della pietà » nella 1Tm (3,9.16), indicanti molto probabilmente il contenuto oggettivo della fede (cf. la confessione cristologica che segue in 3,16b).
 
Esaminiamo dunque più da vicino l’uso più prettamente paolino. Quando Paolo in 1Cor 2,1 descrive il contenuto della sua predicazione di Cristo crocifisso come mystérion to? Theo? intende dire che esso risulta inaccessibile alla sapienza umana, di fronte alla quale anzi questo evento salvifico appare come follia. Continua infatti poi ai vv. 6-7: « annunciamo, sì, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma una sapienza non di questo mondo… una sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo nascosta e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la nostra gloria ».
Questo mistero della sapienza di Dio ha una connotazione apocalittica, come un bene salvifico tenuto nascosto da Dio e rivelato ora per mezzo dello Spirito. Si intravede qui lo schema di rivelazione che come vedremo si riscontrerà poi specialmente in Col / Ef.
In 1Cor 4,1 troviamo la più rara ricorrenza al plurale (così anche in 13,2 e 14,2): « Ciascuno ci consideri come servitori di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio »; il contesto precedente spinge a vedervi i contenuti della predicazione, di cui fanno parte appunto i vari aspetti della misteriosa sapienza divina di cui ha parlato al cap. 2; il plurale va visto quindi nell’intento di esprimere le varie sfaccettature dell’unico mistero. In 1Cor 13,2 (siamo nel celebre « inno alla carità ») il vocabolo compare dove si esprime il primato assoluto dell’agape, superiore perfino alla conoscenza dei misteri intesi come la pienezza della penetrazione delle cose di Dio; qui è usato quasi in senso negativo, in tono polemico e iperbolico (tutti i misteri), proprio per esaltare l’assoluto dell’amore. Anche in 14,2 siamo in contesto polemico; qui infatti Paolo si trova ad avversare le derive spiritualiste e entusiastiche presenti nella comunità, che in questo caso si manifestavano nell’esaltazione della glossolalia: « Colui che parla in lingua non parla agli uomini, ma a Dio; infatti nessuno capisce, perché dice cose misteriose nello Spirito (concluderà poi dando la preferenza al dono intelligibile della profezia).
Nell’ultima ricorrenza in questa lettera, nel capitolo dedicato alla questione della resurrezione, il mistero indica la modalità della trasformazione di coloro che saranno ancora in vita al momento della parusia.
Nella stessa veste di apocalittico, in Rm 11,25, Paolo parla di un altro mistero, altrettanto intricato, quello cioè della salvezza d’Israele che ha opposto il rifiuto al messia: « Non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non fondiate su voi stessi la vostra sapienza: l’indurimento di Israele è parziale, fino a che sia entrata la pienezza delle genti, e così tutto Israele sarà salvato ». Paolo risolve questo immenso dilemma vedendovi un piano misterioso di Dio che in questo modo dà spazio alla conversione dei gentili, fino al momento della parusia, quando appunto tutto Israele sarà salvato.
L’unica altra ricorrenza in Rm (16,25), ci permette di trattare dell’uso specifico del termine mistero così come lo troviamo diffuso (ben 10 volte) nelle due lettere di scuola paolina, Col e Ef. Ecco il testo completo della dossologia finale di Rm:
A Colui che ha il potere di rafforzarvi secondo il mio vangelo e l’annuncio di Gesù Cristo -
secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni,
26 e ora manifestato per mezzo delle Scritture profetiche,
secondo la disposizione del Dio eterno, in vista dell’ obbedienza della fede di tutte le genti -
27 a Dio unico e sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, a lui la gloria per tutti i secoli! Amen.
In questo testo e poi in Col / Ef troviamo chiaramente sviluppato lo schema di rivelazione, che diviene un vero e proprio tema teologico: ciò che un tempo era nascosto (o taciuto) / è ora manifestato.
Il denominatore comune di questi testi è quindi il passaggio da una situazione ad un altra, nella distinzione di due periodi di tempo caratterizzati dall’azione salvifica di Dio, secondo un suo piano appunto nascosto prima e ora rivelato in Cristo ai credenti in lui (cf. Col 1,26: « il mistero nascosto da secoli eterni e da generazioni passate, ora è svelato ai suoi santi »; cf. anche Ef 3,9-10).
Più specificamente in Col il mystérion in definitiva è il Cristo stesso annunciato tra i popoli, come fondamento della speranza della gloria che sarà manifesta nel compimento finale (cf. 1,27; 2,2; 3,4; 4,3).
In Ef manca in mystérion la prospettiva escatologica: si tratta di una realtà compiuta da Dio già presente e operante; più che di due epoche temporali, lo schema di rivelazione riguarda la distinzione tra due ambiti, quello dell’ignoranza e quello della conoscenza. In 1,9 il mystérion è la realizzazione del piano salvifico di Dio nella intestazione di tutte le cose in Cristo: « Egli ci ha manifestato il mistero della sua volontà secondo il suo benevolo disegno che aveva in lui formato, per realizzarlo nella pienezza dei tempi: intestare nel Cristo tutti gli esseri, quelli celesti e quelli terrestri ». In 3,3s il mistero si riferisce all’inserimento dei gentili nel corpo di Cristo che è la chiesa (cf. 3,6), esso è stato rivelato agli apostoli e ai profeti (3,5), dato per la predicazione (3.8), manifestato attraverso la chiesa (3,10).
In 6,19 troviamo il binomio « mistero del vangelo », cioè il mistero divino come contenuto specifico dell’evangelo. Una menzione speciale merita l’unica altra ricorrenza in Ef, il passo del « grande mistero » di cui si parla in riferimento all’amore tra marito e moglie (5,32): « il mistero del matrimonio naturale trapassa a qualificare il rapporto di Cristo con la chiesa, e di qui il mistero, ingrandito in termini nuovi si riverbera di nuovo sulla coppia umana, che si dirà cristiana proprio nella misura in cui rivive in se stessa lo straordinario rapporto esistente fra Cristo e la chiesa » (R. Penna, commento ad Ef).
 
Conclusione
Come si è potuto costatare, anche limitandoci al campo paolino (e perfino all’interno degli scritti che sicuramente hanno Paolo come autore diretto, e cioè 1Cor e Rm), il vocabolo « mistero » assume vari significati a seconda del contesto in cui viene usato.
Se volessimo elencare le varie componenti del mistero così come compare nel NT[4] e specialmente nel corpus paolino, dobbiamo innanzitutto vedervi quella prettamente « teo-logica », esso cioè è « di Dio », è un mistero della sua volontà, del suo disegno, di ciò che egli ha deliberato in ordine alla salvezza dell’uomo. E allo stesso tempo è presente una componente cristologica; Cristo è al centro del mistero; il piano salvifico di Dio passa attraverso la croce di Cristo, che è una nuova e inaudita manifestazione – percepita come scandalo e stoltezza – della potenza e sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,24); inoltre, come abbiamo visto, il mistero della volontà di Dio è volto al raggiungimento del fine di « intestare tutte le cose nel Cristo » (Ef 1,9-10): è il Risorto in cui si concentrano e a cui si sottomettono sia la realtà cosmica che quella storica.
C’è inoltre anche una componente ecclesiologica del mistero, evidenziata soprattutto dal testo di Ef 2,11-3,13, dove l’autore presenta la compartecipazione dei gentili alla stessa promessa dei giudei, per formare un solo corpo; questa componente è presente anche nel testo di Ef 5,32, dove si legge l’amore sponsale uomo-donna alla luce di quello tra Cristo e la chiesa (e viceversa).
C’è infine una componente antropologica che fa capolino soprattutto nel tema dell’ « uomo nuovo » (cf. Col 3,9-10; Ef 4,22-24), capace in Cristo di stabilire rapporti fraterni con tutti.
 
Tutto sommato la portata teologica più rilevante – ed anche la più diffusa – del mystérion paolino va rintracciata nello schema di rivelazione presente specialmente in Col / Ef di cui abbiamo detto sopra: l’ora dello svelamento del piano salvifico di Dio che si realizza in Gesù Cristo per mezzo della chiesa, è il tempo attuale in cui l’uomo viene ammesso ad una straordinaria e inimmaginabile familiarità con Dio; i destinatari di questa rivelazione sono i credenti (variamente denominati, « a noi », « ai suoi santi », « ai suoi santi apostoli e profeti », « a me Paolo »). Va anche sottolineata la portata missionaria della rivelazione del mistero. Ciò che era nascosto e che è stato rivelato non deve restare confinato nell’ambito dei suoi primi destinatari, ma deve essere annunciato perché sia reso noto in tutto il mondo per la salvezza di tutti. E qui va notata la differenza con il mistero così come veniva concepito nei culti misterici dell’antica Grecia e nel mondo dell’esoterismo, dove era invece sostanzialmente riservato al gruppo ristretto degli iniziati.
Nonostante la sua rivelazione storica, il piano salvifico di Dio non cessa di essere il mistero per eccellenza: la sua inesauribilità – testimoniata anche dal vocabolario di sovrabbondanza che accompagna i testi sopra citati – è per sua natura eccedente e trascendente la portata meramente umana, ed è destinato a compiersi pienamente soltanto alla fine dei tempi, oltre la storia attuale.
 
 Pino Pulcinelli – Roma 2005

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