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La legge e la grazia (un bellissimo studio, molto di Paolo, naturalmente)

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La legge e la grazia

(un bellissimo studio, molto di Paolo, naturalmente)

due riflessioni

ANTICO O NUOVO TESTAMENTO?

La Bibbia dice che dobbiamo « dividere rettamente » la Parola di Dio, ma molto spesso tanti sono in disaccordo su come farlo. Tante volte finiscono col dire: si prende quel che ci piace e si lascia quel che non ci piace. Ma questo non è dividere rettamente le Scritture!
Ecco il principio per dividere rettamente la Parola di Verità: Ogni principio presente nell’Antico Testamento che viene ripetuto nel Nuovo Testamento è per noi oggi.
Come esempio, prendiamo in esame uno dei libri del Nuovo Testamento: la prima epistola ai Corinzi. Essa fu scritta dall’apostolo Paolo, che era un predicatore della grazia; egli predicava che non siamo sotto la legge mosaica ma sotto la grazia, e di questo egli ha scritto in continuazione. Senza dubbio egli è un predicatore del Nuovo Testamento.
Notiamo però che nell’intero capitolo di 1 Corinzi 10 egli, per dimostrare qualcosa, usa costantemente le Scritture dell’Antico Testamento. Osserviamo i versi 1 e 2: « Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, passarono tutti attraverso il mare, furono tutti battezzati nella nuvola e nel mare… »
Questo brano fa riferimento a Esodo 13 e 14, dove leggiamo della nuvola, della divisione del Mar Rosso e di come gli Israeliti vi passarono attraverso sulla terra asciutta, cosa che simboleggiava il battesimo. Erano praticamente ricoperti d’acqua, sebbene non una goccia li sfiorò. Paolo sta facendo riferimento all’Antico Testamento. Guardiamo anche il verso 3: « E tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale. » Si riferisce a Esodo 16, quando Dio diede la manna dal Cielo. Essa venne chiamata cibo spirituale. Verso 3: « E tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: perché bevvero dalla Roccia spirituale che li seguiva: a quella Roccia era Cristo. » Questo si riferisce a Esodo 17, quando Mosè prese il suo bastone e colpí la roccia, e Dio fece zampillare l’acqua dalla dura pietra. Notate come Paolo fa riferimento a parecchi fatti del Vecchio Testamento. Verso 5: « Ma con molti di loro Dio non si compiacque: poiché furono abbattuti nel deserto ». Si riferisce a Numeri 13 e 14. Essi si rifiutarono di andare nella terra di Israele per ereditarla, e dubitando di Dio dissero, « non riusciremo a prenderla », cosí molti di loro morirono. Ora guardiamo il verso 6: « Or queste cose avvennero per servire da esempio a noi, affinché non siamo bramosi di cose cattive, come lo furono costoro ». Dunque, non è sbagliato usare l’Antico Testamento per insegnare ai Cristiani del Nuovo Testamento a fare cose giuste. Paolo lo ha usato, al pari degli altri apostoli.

Ma continuiamo. Verso 7: « Neppure siate idolatri, come furono alcuni di loro, come è scritto: Il popolo si sedette per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi ». Qui si riferisce a Esodo 22:6. L’Apostolo dice « non siate cosí ». Verso 8: « Neppure commettiamo fornicazione, come alcuni di loro commisero, e ne caddero in un giorno ventitremila. » Sta parlando di Numeri 25. Verso 9: « Neppure tentiamo Cristo, come anche alcuni di loro tentarono, e furono distrutti dai serpenti ». Si parla di Esodo 17 (ricordiamo il serpente di rame innalzato in mezzo al campo). Guardiamo il verso 10: « Neppure mormorate, come alcuni di loro mormorarono, e furono distrutti dal distruttore ». Si trova, tra i diversi posti, in Esodo 15,16 e 17: infatti essi mormorano parecchie volte.
Ora guardiamo il verso 11: « Ora tutte queste cose avvennero loro come esempio, e sono scritte per ammonizione a noi, sui quali sono arrivati gli ultimi tempi ». Due volte in questo capitolo, nel verso 6 e nel verso 11, Paolo ci dice senza dubbio che quelle parole dell’Antico Testamento sono per noi, oggi. È stolto e inconsistente obiettare dicendo che non si può applicare l’Antico Testamento a noi oggi. Qui Paolo molto chiaramente sottolinea verso su verso, esperienza su esperienza nel Vecchio Testamento, per dimostrare qualcosa che i Cristiani dovrebbero fare proprio oggi. E non è finita qui. Nel resto del capitolo egli procede nella stessa maniera.
Possiamo perciò prestare fede all’Antico Testamento. Qual è però la regola da seguire? Ogni principio dell’Antico Testamento ripetuto nel Nuovo Testamento è per noi oggi.
Non c’è dubbio che la salvezza è solo per grazia e non per opere, poiché è scritto: « l’uomo è giustificato mediante la fede, senza le opere della legge » (Rom. 3:28), e noi non siamo sotto la legge, ma sotto la grazia. Ciò, però, non toglie che l’Antico Testamento contiene molti insegnamenti cui faremmo bene a prestare attenzione, poiché furono scritti « per servire da esempio a noi » (1 Cor. 10:6).
Così, i comandamenti presenti nell’Antico Testamento (non uccidere, non rubare, non servire altri dèi, non concupire, ecc.) sono insegnati anche nel Nuovo Testamento, e noi credenti siamo tenuti ad osservarli per ubbidire a Dio. Allo stesso modo, l’omosessualità era una pratica che Dio nell’Antico Testamento dichiarò di avere in abominio (cfr. Lev. 18:22-29), e vediamo che essa è condannata esplicitamente anche nel Nuovo Testamento (cfr. 1 Cor. 6:9-10, Rom. 1:27, 1 Tim. 1:9-10).
Non troveremo mai un verso del Nuovo Testamento che dice di osservare il sabato. Questa è la ragione per cui non lo facciamo. In esso non troveremo nessun verso che dice che dobbiamo sacrificare un animale. E infatti non lo facciamo. Come pure, non ci viene imposto di pagare la decima (nel Nuovo Testamento essa è citata solo da Gesù riguardo ai Farisei, e da Paolo nel discorso su Abraamo e Melchisedec). E così via.
Ma qualunque cosa comandata nell’Antico Testamento e ribadita dal Nuovo Testamento è per noi oggi.

NESSUN GIUSTO?

La Parola di Dio afferma che non esiste alcun uomo che possa ritenersi giusto, e che « non c’è nessuno che faccia il bene, neppure uno » (Eccl. 7:20, Rom. 3:10).
Essa ci dice anche che a causa del peccato entrato nel mondo a causa dell’uomo, l’umanità è caduta; ma ci dà anche la buona notizia (evangelo) che Dio stesso ha provveduto la salvezza, dando per la nostra salvezza il suo proprio Figlio, Cristo Gesù (Rom. 5:17-19), la Parola eterna e vivente di Dio (Giov. 1:1).
Eppure la Parola di Dio ci parla spesso di giusti, ad esempio in 1 Pietro 3:12 leggiamo: « perché gli occhi del Signore sono sui giusti e i suoi orecchi sono attenti alle loro preghiere; ma la faccia del Signore è contro quelli che fanno il male ». E anche: « Vi dico che così ci sarà più gioia in cielo per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di ravvedimento » (Luca 15:7, si vedano anche i versetti Luca 23:50 e Matteo 1:19).
Oltre a questo, è scritto che « chi pratica la giustizia è giusto, com’Egli è giusto » (1 Giovanni 3:7). Gesù infatti invitò ad osservare i comandamenti (Matteo 19:16-21) e a compiere il bene.
Dunque? Esistono dei giusti oppure no? E la giustizia, si ottiene per mezzo delle opere che compiamo?
I credenti « giudaizzanti » (ad es. alcuni gruppi messianici) credono che sia così, e che non si è salvati per la grazia di Dio ma per le opere che facciamo.
Ai credenti del suo tempo che la pensavano così, l’apostolo Paolo rispose giustamente: « Se la giustizia si ottenesse per mezzo della legge, Cristo sarebbe dunque morto inutilmente » (Galati 2:21). A che scopo credere che Gesù (Yeshua) era il Messia promesso, se per la loro giustificazione continuavano a fondarsi sulla propria giustizia anziché in ciò che ha fatto il Signore?
Torniamo alla domanda: « esistono i giusti? ». La parola « giusto » non è usata nel senso di giustificato o salvato, ma nel senso di retto di cuore. I vari Giuseppe e Maria, Lot, Simeone, e altri che la Scrittura definisce « giusti » in quanto uomini retti e timorati di Dio, non erano giustificati per la loro giustizia ma per la loro fede.
Come può l’uomo, peccatore, praticare la giustizia? Quale uomo ama il Signore secondo il comandamento: « con TUTTO il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutta la forza tua, con tutta la mente tua, e il prossimo come te stesso » (Luca 10:27) ?
E quale uomo non ha mai trasgredito neppure per sbaglio un comandamento? « Chiunque infatti osserva tutta la legge, ma la trasgredisce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti » (Giacomo 2:10).
La realtà è che se per essere giustificati e salvati da Dio bisognasse fare affidamento sull’osservanza della legge mosaica, non ci sarebbe speranza per alcun uomo. Ma, « la legge è stata come un precettore per condurci a Cristo, affinché noi fossimo giustificati per fede. Ma ora che la fede è venuta, non siamo più sotto precettore; perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù » (Galati 3:24-26).
« Infatti tutti quelli che si basano sulle opere della legge sono sotto maledizione; perché è scritto: «Maledetto chiunque non si attiene a tutte le cose scritte nel libro della legge per metterle in pratica».
E che nessuno mediante la legge sia giustificato davanti a Dio è evidente, perché il giusto vivrà per fede.
Ma la legge non si basa sulla fede; anzi essa dice: «Chi avrà messo in pratica queste cose, vivrà per mezzo di esse».
Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, essendo divenuto maledizione per noi (poiché sta scritto: «Maledetto chiunque è appeso al legno»), affinché la benedizione di Abraamo venisse sugli stranieri in Cristo Gesù, e ricevessimo, per mezzo della fede, lo Spirito promesso. » (Galati 3:10-14)
Concludendo, dunque, sebbene l’ubbidienza ai comandamenti sia fondamentale per ogni cristiano (vedi Giovanni 14:15 e Matteo 5:18), non è su questo o sulle opere che facciamo che possiamo basare la nostra salvezza, ma unicamente sul sacrificio di Gesù Cristo, l’Agnello di Dio. Le opere e l’ubbidienza seguiranno spontaneamente a ogni vera conversione del cuore, e in proporzione alla nostra fedeltà, amore e consacrazione al Signore (ecco il perché delle parole di Gesù in Matteo 25:34-50).
« A Lui che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno e dei sacerdoti del Dio e Padre suo, a lui sia la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. »
(Apocalisse 1:5)

Passio Pauli, Passio Christi – (Card. Carlo Maria Martini)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo8.htm

Passio Pauli, Passio Christi

(Card. Carlo Maria Martini)

La parola « passio Pauli », passione di Paolo, si usa comunemente per indicare i capitoli degli Atti degli Apostoli che vanno dal 21 al 28, cioè l’ultima parte del libro: dalla prigionia a Gerusalemme alla prigionia a Roma.
Vogliamo estendere la «passione di Paolo» anche alle sofferenze successive che conosciamo in parte dagli accenni delle lettere e in parte dalla tradizione. È singolare che gli Atti degli Apostoli non ci narrino tutta la vita di Paolo, ma si fermino ad un certo punto, introducendo poi i capitoli sulla sua « passione ». L’attività apostolica è descritta in tanti capitoli quanti sono quelli che descrivono l’imprigionamento, il processo, fino alla prigionia a Roma.
Anche nei Vangeli, la Passione di Cristo ha un trattamento amplissimo rispetto alla brevità della vita narrata in precedenza. L’evangelista corre per brevi note su due o tre anni della vita pubblica di Cristo, mentre descrive la Passione quasi ora per ora, minuto per minuto.
Comprendiamo da questo fatto l’importanza che l’evangelista, la Chiesa primitiva, danno alla Passione di Cristo e alla passione di Paolo.
Gli evangelisti hanno compreso che Cristo era Messia e rivelatore del Padre soprattutto nella Passione.
Lo stesso accade per Paolo, testimone di Cristo non soltanto nei discorsi travolgenti o dotti o pieni di tenerezza ma anche quando viene imprigionato, portato davanti ai tribunali, trasferito da un carcere all’altro, con sorte incerta, con limitazioni gravi della libertà, con il timore della morte.
Come grazia specifica di questa meditazione possiamo chiedere di comprendere la frase misteriosa della lettera ai Filippesi: «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Paolo desidera conoscere Gesù entrando in misteriosa comunione anche fisica con le sue sofferenze.
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Tu conosci, Padre di misericordia, quanto è importante per noi la misteriosa comunione con le sofferenze del Cristo. Tu sai come ci è difficile, lontana dalla nostra mentalità, smentita continuamente dal linguaggio quotidiano. Per questo ti chiediamo umilmente, insieme con Paolo, di aprirci gli occhi della mente e del cuore perché conosciamo Cristo, la potenza della sua Risurrezione, la comunicazione alle sue prove, per potere con lui offrire la nostra vita per il corpo di Cristo.
Illumina, o Signore, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole della Scrittura, riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane ma, in realtà, le stiamo vivendo e sono la chiave della nostra esperienza presente, della situazione di tante persone oggi nel mondo.
Te lo chiediamo, Padre, insieme con Maria, Madre addolorata, con Paolo, per la gloria di Gesù, morto e risorto per noi, che vive e regna nella Chiesa e nel mondo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
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Similitudini e diversità della «Passio Christi» e della «Passio Pauli»
Cerchiamo di vedere alcune tappe della Passione di Cristo paragonandola con quella di Paolo. Sottolineo tre momenti:

- l’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo;
- Cristo e Paolo ai tribunali;
- le sofferenze fisiche e morali di Cristo e di Paolo.

L’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo
« Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: « Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo? ». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: « Signore, dobbiamo colpire con la spada? » » (Lc 22, 47-49).
Paolo si trovava nel tempio, aspettando i giorni della Purificazione, «quando i Giudei della provincia di Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: Uomini di Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! » (At 21, 2727). Tutta la città è in subbuglio. Paolo è trascinato fuori del tempio, chiudono le porte, cercano di ucciderlo. Quando giunge il tribuno con la coorte, lo arrestano e lo legano con due catene. Da questo momento, Paolo è in prigione per lunghissimo tempo. Che cosa hanno in comune le due scene pur nella loro diversità?
In entrambi i casi, l’arresto è proditorio, ingiusto; è un arresto fatto alle spalle, con un agguato. Agguato per Gesù ed agguato anche per Paolo, suscitato ad arte dai suoi nemici.
Per entrambi l’arresto avviene nel momento in cui si spendevano per il loro popolo. Per Gesù avviene nella ‘notte della preghiera, per Paolo nel momento dell’offerta quando, dopo aver portato doni per il suo popolo, ha spinto la sua condiscendenza fino a volersi purificare nel tempio. Sono toccati nell’istante della loro dedicazione apostolica, del loro servizio.

Cristo e Paolo davanti ai tribunali
Gesù passa vari tribunali: il Sinedrio, il tribunale di Pilato, l’interrogatorio con varie accuse alle quali prima risponde e, da un certo momento in avanti, tace. Il processo di Paolo è descritto più ampiamente ed è segnato da una lunga serie di discorsi: il discorso fatto sui gradini del tempio al cap. 22 degli Atti, quello davanti al Sinedrio nel cap. 23, davanti a Felice nel cap. 24, l’arringa davanti a Festo nel cap. 25 e davanti al re Agrippa nel cap. 26. Una serie di apologie di Paolo che si difende, a differenza di Gesù che dice solo brevi parole.
È interessante notare la diversità delle situazioni: Paolo non è un pedissequo imitatore di Gesù. Sente di avere in sé lo Spirito di Dio e, ispirandosi alla vita del Maestro, vive le situazioni con propria responsabilità e si comporta con dignità e con fermezza. Imita Gesù nella dignità, nel senso della giustizia, nella nobiltà d’animo; però agisce in altro modo, nell’ampiezza e nel calore con cui difende se stesso, nel tentativo di confondere gli avversari; e riesce a dividere il Sinedrio facendo litigare fra loro i suoi accusatori.
Gesù testimonia in brevissime parole la perseveranza nell’affermazione della propria missione e il coraggio della parola: «Tu lo dici, tu dici che io sono re; vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della potenza di Dio ».
In tutti e due i processi, vediamo che dietro a una parvenza di giustizia prevalgono interessi personali, paure, scontri di ambizioni individuali o di gruppi. Sia Gesù che Paolo sono sottoposti alle incertezze del giudizio umano; se Paolo poteva avere qualche speranza – l’aveva sempre fomentata nelle sue lettere, là dove insiste sul rispetto dell’autorità -, si accorge che il tornaconto personale, avido e meschino, prevale anche in chi dovrebbe garantire il diritto.

Le sofferenze fisiche di Cristo e di Paolo
Le sofferenze di Gesù sembrano molto più grandi perché sono descritte ampiamente nel resoconto della Passione. Di Paolo si può solo intuire la situazione pesante dell’essere in prigione: di fatto ha già avuto in precedenza sofferenze notevoli nelle flagellazioni o nelle lapidazioni alle quali è stato sottoposto. Egli le riferisce quasi considerandole come un avvenimento che si aspettava.
Paolo dà più rilievo alle sofferenze morali, soprattutto alla solitudine. Questo aspetto è quello che maggiormente indica cosa accomuna la nostra passione con la passione di Cristo e di Paolo.
Certamente le sofferenze morali più gravi che Cristo sopporta sono dovute all’abbandono totale in cui viene lasciato da parte degli uomini. Tutti fuggono: solo Pietro lo segue da lontano e poi lo rinnega. Gesù che in fondo si era abituato ad avere sempre qualcuno che lo sosteneva – e questa è un’abitudine che ci si fa – si vede rapidamente ridotto alla solitudine più estrema. La solitudine è accresciuta dal misterioso abbandono di Dio che si esprime nel grido: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ». È stato scritto moltissimo per cercare di comprendere che cosa significa.
Le pagine più drammatiche e più belle sono forse quelle di Hans Urs von Balthasar nel suo «Mistero pasquale»: egli cerca di interpretare, partendo da queste parole, il venerdì santo di Gesù, l’oscurità che si abbatte nella sua anima e la discesa agli inferi.
Balthasar parte dal principio che possiamo interpretare la passione di Gesù a partire dalla passione dei santi: comprendendo le oscurità, le desolazioni, i momenti drammatici di esperienza di abbandono che i grandi santi hanno vissuto, possiamo cogliere qualcosa di ciò che Gesù ha sperimentato prima di tutti, per tutti, a conforto e sostegno di tutti.
Che cosa dire della sofferenza morale di Paolo?
Paolo sperimenta lungo la sua passio, intesa fino alla fine della sua vita, un abbandono progressivo dei discepoli. Lui, che è così pieno di carica vitale, esce in affermazioni che non riescono a nascondere che è stanco e ha l’impressione di aver sofferto al limite delle forze; dice: «Cerca di venire presto da me sono parole di chi veramente non ne può più – perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito. il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia – come dire: eccomi qua solo -. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero ». E continua: «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tim 4, 9-11.14-16). Quest’ultima è la frase più dura.
È un Paolo diverso da quello che siamo abituati a conoscere; è stanco anche fisicamente, prostrato dalla prigionia, come appare anche nelle altre lettere « pastorali» a Timoteo e a Tito. A noi qui non interessa stabilire se questi scritti sono di sua mano, se riportano frasi sue; li prendiamo come la Chiesa ce li ha tramandati, come espressione della figura dell’Apostolo così come la Chiesa primitiva l’ha conosciuta e ce la trasmette.
Certamente ci danno l’immagine di un Paolo in parabola discendente. Non è più l’entusiasta della lettera ai Galati, della lettera ai Romani, con le grandi sintesi teologiche. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo. Denuncia ciò che sta avvenendo e prevede dei mali futuri; il tono oscuro e deplorativo ha preso il posto della speranza, della baldanza, dell’ardore.
Questa prova attraverso cui Paolo è passato, è una prova reale, nella quale riconosce che non ha più un possesso completo delle sue forze, dell’ottimismo, dell’entusiasmo, ma deve fare i conti con la fatica e l’accumularsi di pesi e delusioni. Dio ci vuole mostrare in lui il segno che l’uomo viene purificato in tanti modi e questa è una profonda forma di purificazione.
Ci possiamo chiedere se Paolo abbia provato anche abbandono da parte di Dio, le tenebre interiori, la desolazione, la notte dello spirito. Autobiograficamente non è possibile determinarlo. Tuttavia, parla più volte delle forze oscure del male che cercano di ottenebrare l’uomo, che lo insidiano e non lo risparmiano. Egli conosce, quindi, queste potenze delle tenebre che insidiano continuamente l’intimo di ciascuno di noi.
Se ci basiamo su quello che Balthasar dice di Gesù, dobbiamo pensare che probabilmente anche Paolo ha vissuto momenti in cui la fede è stata avvolta da tenebre e ha dovuto camminare col solo ricordo di tutta la ricchezza posseduta e della forza di Dio non più sensibilmente presente.

La passione del cristiano
Mi ha colpito, qualche tempo fa, un libro che descrive la prova della fede di Teresa di Lisieux. L’ultima parte della vita di questa santa è stata profondamente oscura e, dopo i doni meravigliosi che aveva avuto da Dio, è entrata in uno stato quasi incomprensibile. Ella stessa dice che è una prova dell’anima indicibile ed ha quasi paura di parlarne. Poi scrive: «Suppongo di essere nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l’aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; …d’un tratto le tenebre che mi circondano, divengono più spesse, penetrano nell’anima mia e la avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l’immagine così dolce della mia Patria: tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano; ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori mi dicano facendosi beffe di me: Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente ». E ancora: «Quando canto la! felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova si interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece di rallegrarmi, rende ancora più fitte le mie tenebre ». «È l’agonia pura – dice il 30 settembre, giorno della morte – senza alcuna traccia di consolazione» .
Sono parole che ci colpiscono. Forse una delle più -dure è quella riferita al processo di beatificazione da una consorella che l’aveva sentita: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa; non credo nella vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non vi sia più nulla. Tutto è scomparso per me, non mi rimane altro che l’amore ».
Ha l’impressione di non credere più, però sente che l’amore c’è: non è una contraddizione, è la purificazione terribile della carità. Sono esperienze che fanno parte del cammino cristiano.
Possiamo trovare anche in altri santi confessioni di questo tipo.
S. Paolo della Croce durante la sua ultima malattia esce in espressioni che fanno davvero pensare. Confida a un confratello: «Oggi mi sentivo impeti gagliardissimi di andarmene disperso e fuggiasco per queste selve, stimolato a gettarmi da una finestra – quindi tentazioni di suicidio -, e continue gagliardissime tentazioni di disperazione ». E ancora: «Un’anima che ha provato carezze celesti e poi si trova a dover stare del tempo spogliata di tutto, anzi, arrivare a segno di trovarsi, a suo parere, abbandonata da Dio, che Dio non la voglia più, non si curi più di lei e che sia molto sdegnato, onde le pare che tutto ciò che fa una tal anima sia tutto malfatto. Ah, non so spiegarmi come desidero! Le basti sapere che questa è una sorte quasi di pena di danno, pena che supera ogni pena».
E poi; «L’impressione di non avere più né fede né speranza né carità, di sentirsi come sperduto nel profondo di un mare in tempesta senza avere chi gli porga una tavola per sfuggire al naufragio, né dall’alto né dalla terra. Non ha nessun lume di Dio, incapace di un minimo buon pensiero, incapace di trattare alcun argomento di vita spirituale, desolato come i monti di Gelboe e sepolto nel ghiaccio. Nelle orazioni stesse vocali non so far altro che passare i grani della corona».
Racconta un suo confratello: «Entrando nella sua camera quando stava infermo, con voce da muovere a compassione anche le tigri disse per tre volte: « Sono abbandonato » ».
Certamente conta molto il carattere delle persone. Chi è molto sensibile in certi momenti di fatica, di depressione e di malattia giunge a parlare così di sé. Comunque è vero che Dio permette misteriosamente nei suoi santi la prova dell’abbandono. È una situazione reale e quando avviene deve farci pensare che è il cammino percorso da Cristo sulla croce, percorso da Paolo e percorso da tanti santi.
Paolo, scrivendo a Timoteo, subito dopo aver detto: «Tutti mi hanno abbandonato» aveva affermato: « Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza… Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (2 Tim 4, 17-18).
La potenza dello Spirito in lui gli aveva permesso di superare un momento in cui poteva essere tentato addirittura di disperazione. Non possiamo però sapere se l’ultimo quarto d’ora della sua vita sia stato un tempo di luminosità, di chiarezza, oppure di tenebra. Il mistero del cammino umano va verso l’esperienza della morte.
Proprio per questo dobbiamo riflettere su di noi, sulle sofferenze attraverso le quali altri possono passare e sulla necessità di saper prestare aiuto. Un malato, soprattutto grave, difficilmente apre il suo animo: forse solo a qualcuno di cui ha piena fiducia. La missione è di suscitare questa fiducia per poter essere collaboratori nelle prove contro la fede e contro la speranza che l’uomo prossimo alla morte può vivere.
Si racconta che Teresa di Gesù Bambino verso la fine della sua vita rimase in preda ad un’ agitazione e angoscia inesprimibili, che spaventarono le consorelle. La sentirono dire: «Quanto bisogna pregare per gli agonizzanti! Se si sapesse! ».
Ecco come la vita dei santi può aiutarci a penetrare meglio la passio Christi e la passio Pauli.

Come Paolo ha vissuto la comunione con la passione di Cristo
- Dalle lettere in cui Paolo parla delle sue sofferenze ricaviamo, prima di tutto, che ha da Dio il dono di viverle con grande spirito di fede, valutandone il significato alla luce del piano salvifico. «…il Salvatore nostro Gesù Cristo… del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro» (2 Tim 1, 9-11).
Se soffro, soffro per Cristo e « non me ne vergogne: so infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato» (2 Tim 1, 12).
- Lo spirito di fede è intriso di senso ecclesiale per ciò che soffre. « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio Vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù insieme alla gloria eterna» (2 Tim 2, 8-10). lo soffro ma per gli altri, per tutta la Chiesa, per l’opera di Cristo. «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi: di realizzare la sua parola» (Col 1, 24-25).
Il profondissimo senso di missione che è la molla interiore di tutto ciò che fa per la Chiesa, non lo abbandona neanche in questi momenti, ma gli dà la grazia di considerarli come il completamento del servizio che vuol compiere fino in fondo.
molti altri, affinché non soccombano nella prova.

commento alla II lettura di domenica 15 gennaio: 1Cor 6,13-15.17-20 (traduzione Google)

http://www.paulinesafrica.org/sunday.html

COMMENTO ALLA SECONDA LETTURA – TRADUZIONE GOOGLE

SECOND SUNDAY IN ORDINARY TIME – YEAR B – 15th January 2012

SECOND READING
Paul says that sexual corruption is totally incompatible with the life of a baptised person united to Christ and is one body with him. Paul makes another assertion: the body of the Christian is the temple of the Holy Spirit, not in the material sense, of course, as if the Spirit entered the body of a person and lived there like he would live in a house. The Spirit “inhabits” a Christian, takes possession of the baptised person, inspires him with new thinking and yields the fruit of love. Sexuality is not just a physiological need to be satisfied without responsibility. The Christian must do only what conforms to his new reality as a member of the body of Christ and temple of the Spirit.
In the second part of this passage, Paul considers prostitution. On a mountain top near Corinth there was a temple to Aphrodite (the goddess of love). Sacred prostitutes were “on duty” in this temple and pilgrims thought that by sleeping with them they were in contact with the goddess herself. There were Christians among these pilgrims. Paul states that this is like joining the body of Christ to the body of the prostitute (cf. 1 Cor 6:15-16). Sexuality is not for satisfying our selfish whims, but is the manifestation of real love. Are there people in our community who think and act like those Corinthians?

SECONDA LETTURA
Paolo dice che la corruzione sessuale è totalmente incompatibile con la vita di una persona battezzata uniti a Cristo ed è un solo corpo con lui. Paolo fa un’altra affermazione: il corpo del cristiano è il tempio dello Spirito Santo, non nel senso materiale, naturalmente, come se lo Spirito entrò nel corpo di una persona e viveva lì come sarebbe vivere in una casa. Lo Spirito « abita » un cristiano, prende possesso del battezzato, lo ispira con nuove idee e produce il frutto dell’amore. La sessualità non è solo un bisogno fisiologico da soddisfare senza responsabilità. Il cristiano deve fare solo ciò che è conforme alla sua nuova realtà come un membro del corpo di Cristo e tempio dello Spirito.
Nella seconda parte di questo passaggio, Paolo considera la prostituzione. Sulla cima di una montagna vicino a Corinto esisteva un tempio di Afrodite (dea dell’amore). Prostitute sacre erano « in servizio » in questo tempio e pellegrini pensato che andando a letto con loro che erano in contatto con la dea stessa. C’erano cristiani fra questi pellegrini. Paolo afferma che questo è come unire il corpo di Cristo al corpo della prostituta (cfr 1 Cor 6:15-16). La sessualità non è per soddisfare i nostri capricci egoistici, ma è la manifestazione del vero amore. Ci sono persone nella nostra comunità che pensano e agiscono come quelli Corinzi?

Commento su 1Sam 3,10.19, prima letura di domenica 15 gennaio

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Commento su 1Sam 3,10.19

Eremo San Biagio

II Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (15/01/2006)

Brano biblico: 1Sam 3,10.19

Samuele rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.

Come vivere questa Parola?
Samuele è un personaggio di grande rilievo nella storia di Israele. A lui si intitolano due dei libri del Primo Testamento. A lui Dio ha dato l’incarico (tutt’altro che facile!) di organizzare il passaggio da struttura tribale a monarchica all’interno del suo popolo. Quello che spicca, nella pagina di oggi, è la sua chiamata. Samuele ancora non è che un ragazzo. È nato da Anna, una donna che era sterile, ma a causa della sua preghiera – sincerissimo grido esistenziale impregnato di fiducia! – ha ottenuto un figlio: appunto Samuele. Sua madre lo ha consacrato al Signore e Lui, il Signore, ne ha fatto uno strumento di grande bene. Ma quello che va subito sottolineato è che in Samuele, dapprima confuso e incapace di distinguere la verità della voce che lo chiama, si afferma una volontà buona, aperta e docile a Dio: «Parla, o Signore, perché il tuo servo ti ascolta». Due altre cose emergono come raggi di luce sulla strada di noi che leggiamo. Anzitutto il fatto che Samuele verrà acquistando sempre più autorità presso il suo popo-lo. Perché il suo cuore e la sua volontà sono una cosa sola con il Signore a cui ha consacrato se stesso. La modalità? È evidente: « Samuele non lasciò andare a vuoto nemmeno una delle parole che veniva ascoltando da Dio ».
Oggi, nella mia pausa contemplativa, riposerò il cuore sulla figura di Samuele. Ne coglierò il segreto che è quell’ascolto della Parola di Dio e quella docilità in tutto a compierne il santo volere. Confronterò i miei atteggiamenti interiori coi suoi. Voglio anch’io solo quello che Dio vuole?
Dio mio, dammi un cuore in ascolto della tua Parola. Fammi crescere nella certezza che anche i compiti che tu m i affidi saranno realizzabili con quell’ »autorità » che tu mi darai se anch’io mi impegno a « non lasciar andare a vuoto » nessuna tua Parola.

La voce di un teologo luterano martire
Se la Parola di Dio è presso di me, anche fuori della patria trovo la mia via, nell’ingiustizia trovo il mio diritto, nell’incertezza il mio sostegno, nel lavoro la forza, nel dolore la pazienza.
Dietrich Bonhoeffer

Commento Atti 7,59-8,1 – prima lettura di oggi

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Commento Atti 7,59-8,1

Eremo San Biagio

Brano biblico: At 7,59-8,1

Dalla Parola del giorno
« E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: «Signore Gesù, accogli il mio spirito». Poi piegò le ginocchia e gridò forte: «Signore, non imputare loro questo peccato» Detto questo morì. Saulo era tra quelli che approvavano la sua uccisione. »

Come vivere questa Parola?
Nel vangelo odierno Gesù dice: « Il pane di Dio è colui che scende dal cielo e che dà la vita al mondo » (Gv 8,34). È interessante vedere come davvero questo Pane che è Cristo Signore, nutrendo di sé i suoi, nutrendoli della vita che Egli stesso ha acquistato morendo in croce per loro, li assimila a sé. Ciò avviene a tal punto che, come succede per Stefano, non solo la vita del seguace di Gesù è i n qualche modo il suo prolungamento quaggiù, ma la stessa morte è conforme a quella del Signore. Nei suoi atteggiamenti interiori Stefano infatti rivela, morendo, quanto gl’insegnamenti di Gesù siano diventati vita: la vita stessa di Gesù in lui. Lo sappiamo: la relazionalità di Gesù è scandita da due dimensioni: quella verticale verso il Padre che è la sua piena fiducia col totale abbandono in Lui, quella orizzontale verso gli uomini che è un amore così totalitario da giungere non solo al perdono dei suoi crocifissori ma a scusarli presso Dio: «Non sanno quello che fanno». Osserviamo bene: in Stefano avviene la stessa cosa. E come non cogliere che proprio dalla piena consegna di sé al Padre viene al martire la forza estrema di pregare perché ai suoi crocifissori la sua morte non sia tenuta in conto di peccato? E c’è di più: quel Saulo che ora approva la sua uccisione diverrà poi grande testimone di Gesù e del Vangelo. Non sarà stato ciò frutto anche del martirio di Stefano?

Oggi, nella mia pausa contemplativa, chiederò a Gesù di « nutrirmi » di sé nel senso di conformare la mia interiorità ai due atteggiamenti di fondo della sua: la piena fiducia-abbandono nel Padre e un largo generoso amore verso i fratelli che includa la capacità di donare la vita.

Signore Gesù, dammi sempre il tuo Pane di vita perché io sia nutrito di Te. Come coloro che sono tuoi veri testimoni, io sappia fidarmi pienamente di Dio e con la sua forza amare anche quelli che mi contrastano.

La voce di un adolescente santo
« Mi sento un desiderio e un bisogno di farmi santo. Ora che ho capito che ciò si può realizzare anche stando allegri, io voglio assolutamente e ho assolutamente bisogno di farmi santo. Dio mi vuole santo e io debbo farmi tale. Voglio farmi santo e sarò infelice finché non saro´santo »
S.Domenico Savio

«C’È UN TEMPO PER OGNI COSA» (QO 3,1-15)

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2003/articolo3_25.asp

«C’È UN TEMPO PER OGNI COSA» (QO 3,1-15)

Priotto M.

Quella che Qohelet ci offre in questo brano è una stupenda meditazione poetica sul tempo dell’uomo, su questo mistero che accompagna l’esistenza umana dal suo primo apparire nel mondo fino alla morte. In questa rassegna, sfilano i tempi dell’uomo con un ritmo implacabile e inarrestabile, ma anche monotono e apparentemente predeterminato; eppure su di essi si leva la domanda radicale di senso da parte del nostro saggio, portavoce di un’umanità inquieta e in cerca di senso. Una pagina dunque di straordinaria potenza, quanto mai moderna, che ci interroga e interpella[1].

Contesto e struttura del testo
I primi quindici versetti del c. 3 costituiscono una chiara unità letteraria, preceduta da una breve riflessione sulla gioia, la prima che troviamo nel libro (2,24-26), e seguita da una considerazione sull’ingiustizia e sulla sorte degli uomini, comune a quella delle bestie (3,16-22). Nel contesto della prima parte del libro (1,2-3,15) il nostro passo costituisce la conclusione che giunge dopo l’introduzione (1,1-2), il poema sulla natura e sull’uomo (1,4-11) e la lunga sezione regale (1,12-2,26).
L’unità che vogliamo studiare, Qo 3,1-15, è a sua volta chiaramente articolata in due sezioni: il poema di 3,1-9 e la riflessione di 3,10-15. La forma del primo gli conferisce una caratteristica e un’autonomia propria, inconfondibile; la riflessione seguente (vv. 10-15) è tuttavia strettamente congiunta, in quanto ne è il commento.

Il poema del tempo (3,1-9)
L’articolazione del poema è semplice: il v. 1 introduce il tema del tempo dell’uomo, che viene illustrato nei vv. 2-8; la domanda del v. 9 costituisce la conclusione del poema e introduce allo stesso tempo la riflessione seguente dei vv. 10-15.§
Il poema vero e proprio (vv. 2-8) è costituito da quattordici antitesi o, se si vuole, da sette coppie di antitesi che intendono abbracciare idealmente fin dalla prima battuta tutta l’esistenza dell’uomo, dalla nascita alla morte, e le esperienze più significative della vita, sia positive che negative. È evidente il valore simbolico del numero 7, e dei suoi multipli 14 e 28. Questa totalità dell’esistenza è vista sotto il profilo del tempo, il cui termine (in ebraico ‘et) ricorre significativamente ventotto volte, due volte per ogni antitesi; è l’insieme di questi tempi che costituisce la totalità dell’esistenza umana. Lo schema non è così rigido, come potrebbe sembrare a prima vista, ma il simbolismo del numero 7, coi suoi multipli 14 e 28, e del numero 4 (4 x 7 = 28) conferisce al poema una sensazione di pienezza, di totalità, di ordine e di perfezione[2].

C’è un tempo per ogni cosa
Per ogni cosa c’è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole (Qo 3,1)

Questo versetto introduttivo espone la tesi dell’intero poema, sottolineando in particolare tre aspetti: l’idea del tempo, l’idea del tutto e l’ambito della riflessione di Qohelet. Il termine «momento» (in ebraico zeman) è praticamente sinonimo del secondo termine «tempo» (‘et) e quest’ultimo non significa il tempo indeterminato e duraturo, bensì un tempo determinato, adatto e opportuno per qualche cosa. Si tratta di un vocabolo molto amato dal nostro saggio, che lo usa infatti per ben quaranta volte nel suo libretto.
La duplice ripetizione «ogni cosa» e «ogni faccenda» indica che nulla si sottrae a questa constatazione; anche se l’elenco seguente non è esaustivo, per ogni evenienza della vita, positiva o negativa, c’è un tempo favorevole e opportuno.
È importante però sottolineare che questa totalità è intesa nel contesto di un ambito ben preciso: «Sotto il sole». È questa un’espressione caratteristica di Qohelet per indicare l’ambito vitale dell’uomo su questa terra; indica, infatti, sia lo spazio geografico della terra in cui l’uomo abita, sia lo spazio temporale della vita umana[3]. Dunque l’ambito di indagine di Qohelet è questa terra e questa storia, cioè l’orizzonte terreno. E sopra il sole? Il saggio non si pone per il momento una tale domanda.
Che vi sia per ogni cosa ed evenienza un tempo opportuno è un pensiero noto alla cultura del mondo antico, sia mediorientale che greca[4]; così anche nella tradizione d’Israele esso rappresenta una convinzione sicura (cf. Gb 5,26; Ger 8,7; Pr 15,23; Is 28,23-29). Qohelet apparentemente riprende questa tradizione per condividerla, in realtà per criticarla, come apparirà dai vv. 10-15.

I tempi dell’uomo
Non pare che ci sia un ordine preciso in questo elenco di attività, ad eccezione forse delle due coppie di inizio e di conclusione; né l’elenco è esauriente. Il saggio intende piuttosto offrire esempi significativi di situazioni esistenziali per evidenziare che esistono momenti opportuni per ogni cosa.

2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace (Qo 3,2-8).

La prima coppia è significativa per la sua valenza totalizzante, abbraccia infatti le estremità della vita, dal suo apparire alla sua scomparsa: c’è un tempo per generare[5] e un tempo per morire. È questo il significato della coppia, non tanto un’antitesi tra vita e morte, quanto piuttosto la sottolineatura dell’ambito dell’esistenza umana. L’uomo può interpretare la generazione e la morte come antitetiche; Qohelet si limita a osservare che due momenti significativi aprono e chiudono la vita. In senso metaforico l’attività del piantare e dello sradicare una pianta richiama ancora quanto detto a proposito del generare e del morire. Non tutti i tempi sono validi, perché vita e morte sfuggono a logiche deterministiche.
Dall’ambiente idilliaco e rurale l’autore passa bruscamente al dramma di una storia percorsa dalla violenza sulle persone; l’ombra di Caino si allunga sino ai giorni nostri, confrontandoci con tempi di distruzione e di morte. Qohelet non è pessimista, ma prende atto di una realtà, che tuttavia accanto alla distruzione offre anche la testimonianza della cura del ferito e della sua guarigione. Questa antitesi fra uccisione e guarigione divide gli uomini e i tempi, ma è interna anche a una stessa esistenza, perché a volte l’uomo che uccide e ferisce è anche colui che cura le ferite e guarisce. In coppia con la precedente antitesi si colloca l’immagine seguente del demolire e del costruire. Se la guerra comporta distruzione, l’impegno di guarigione evidenzia la ricostruzione.
Le lacrime e il riso, il lamento e la danza, definiscono i giorni dell’uomo, che in tal modo manifesta esteriormente la sua vita interiore caratterizzata dalla gioia e dalla sofferenza. Non esiste una vita soltanto felice o soltanto triste. Perché avvenga così, sfugge all’uomo; per adesso Qohelet si limita a constatare.
L’interpretazione del v. 5a («Un tempo per gettar sassi, un tempo per raccoglierli») è molto controversa. Riteniamo che il significato più naturale sia quello relativo al lavoro dei campi: il gettare i sassi evocherebbe il gesto ostile di chi vuol inaridire il campo di un nemico scaricandovi pietrisco (cf. 2Re 3,19); il raccogliere i sassi alluderebbe invece al paziente lavoro del contadino che, per poterlo coltivare, ripulisce il campo (o la vigna) dalle pietre, magari costruendo con esse un muretto di recinzione.
Ed eccoci a due gesti molto significativi nell’esperienza dell’uomo: l’abbracciare e l’astenersi dall’abbraccio. Si tratta dell’atto coniugale, ma anche di tutto ciò che lo prepara o distrugge, e delle relazioni umane improntate alla comunione o alla solitudine. È il mistero dell’amore che sorge e unisce le persone, ma che può anche spegnersi e dividere irrimediabilmente. Cercare e perdere, serbare e buttar via, appartengono alla trama della vita dell’uomo, con tempi propri. Ma sa l’uomo scegliere sempre i tempi giusti? Stracciare e cucire non si riferiscono semplicemente alla vita domestica, ma possono anche alludere al lutto a alla disgrazia (cf. Gn 37,29. 34; 2Sam 13,31). Il tacere e il parlare trascendono l’ambito familiare, dove tuttavia sono essenziali, per definire in generale l’uomo saggio che sa usare correttamente del dono della parola (cf., ad esempio, Pr 15,23; 26,4-5).
Le ultime due coppie sono disposte in ordine chiastico: amare-odiare, guerra-pace. Al centro ci sono i due elementi negativi: che l’uomo sia condannato alla violenza? Va aggiunto, però, che questa disposizione permette di chiudere tutta la serie dei tempi dell’uomo sulla pace, termine molto evocativo della speranza messianica. Amore e odio costituiscono gli estremi della scelta esistenziale dell’uomo, che sfociano a livello di storia rispettivamente nella pace e nella guerra. Pur attraverso le avversità e contraddizioni (sono gli elementi negativi della serie), esiste un movimento positivo nella storia dell’uomo che va dalla nascita (v. 2a) alla pace (v. 8b), oppure si tratta di un senso irraggiungibile per l’uomo?

Quale profitto?
La domanda del v. 9 riprende quella iniziale di 1,3 ed è rivolta più specificatamente a «colui che si affatica», cioè all’uomo preoccupato soltanto del profitto:
Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica? (Qo 3,9).
Qohelet entra in dialogo critico con la sapienza tradizionale, che è convinta non solo dell’esistenza di un tempo opportuno per ogni cosa, ma anche e soprattutto della possibilità per l’uomo saggio di conoscere questo tempo opportuno e dunque di padroneggiare la vita. Di fronte a questo atteggiamento che, con un termine difficile, potremmo definire «ottimismo epistemologico», il nostro autore è critico; non solo perché è consapevole dei limiti della conoscenza umana (cf. 1,12-18) ma anche perché sa che una vita impostata sulla ricerca di una felicità frutto delle proprie fatiche non conduce ad alcun reale profitto (cf. 2,1-26)!
Tuttavia questa non è l’unica impostazione della vita! Non esiste soltanto l’homo oeconomicus! Ed ecco allora che la ricerca del nostro saggio può continuare esplorando l’ambito della fede, cioè l’ambito della relazione con Dio, e inoltre quelle realtà che restano all’uomo a prescindere dalla ricerca esclusiva del profitto economico. Nasce così la riflessione seguente contenuta nei vv. 10-15.

Il significato del tempo dell’uomo (3,10-15)
Non è rilevante stabilire se il poema del tempo sia stato un poema indipendente, anteriore al Qohelet e da lui utilizzato, perché in ogni caso è nell’attuale contesto della riflessione qoheletiana che esso va interpretato. L’epoca contemporanea conosce un interesse notevole circa il problema del tempo, sia nel mondo greco che in quello giudaico. Il nostro saggio non considera globalmente il concetto di tempo inteso come durata, bensì il tempo nelle sue determinazioni storiche particolari, cioè nei suoi singoli momenti di vita. Rifuggendo da speculazioni escatologiche o apocalittiche, osserva questi momenti dell’esistenza e constata che essi sono guidati da Dio, ma secondo una logica che sfugge alla comprensione dell’uomo.
Per ben sei volte nei vv. 10-14 compare il termine «Dio» (vv. 10.11.13.14, qui due volte, v. 15); si tratta della più alta concentrazione di espressioni relative a Dio di tutto il libro, segno evidente che il punto di vista da cui Qohelet si pone è quello teologico. È alla luce di Dio che il saggio ebreo cerca di leggere il mistero insondabile e apparentemente contraddittorio dei tempi dell’uomo. Con ciò Qohelet continua e approfondisce la precedente riflessione di 1,13-18, dove afferma la validità della ricerca sapienziale, ma anche i limiti laddove essa pretenda di dare all’uomo risposte esaurienti. Proprio per questo esplora ora l’ambito teologico.
L’unità è articolata in tre momenti: vv. 10-11; 12-13; 14-15, introdotti da un verbo di osservazione in prima persona, caratteristico dello stile di Qohelet: «Ho considerato», «so che», ancora «so che». La disposizione è chiastica: l’opera di Dio (vv. 10-11) – l’invito alla gioia (vv. 12-13) – l’opera di Dio.

Il mistero del tempo
10 Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. 11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine (Qo 3,10-11).
Nel testo ebraico al v. 11 compare un termine ebraico di difficile interpretazione: ‘ôlam, di fronte al quale le interpretazioni degli esegeti si sono moltiplicate[6]. È nell’ambito temporale che il termine va considerato; così vuole il contesto della pericope 3,1-15 e anche l’uso corrente di questo termine sia in Qohelet sia nella Bibbia ebraica. Il concetto di eternità è estraneo alla riflessione qoheletiana, sia nel senso metafisico di un tempo senza fine sia nel senso religioso di una vita oltre la morte. Se c’è un tempo opportuno per ogni cosa, c’è pure un tempo costituito dalla somma di tutti questi tempi determinati; da parte di Dio esso rivela un senso di coerenza, da parte dell’uomo invece rimane incomprensibile e misterioso. Seguendo Mazzinghi possiamo perciò interpretare l’espressione ‘ôlam con «il mistero del tempo».
La seconda parte del v. 11 è introdotta da una particella (in ebraico gam) da intendersi non in senso avversativo («ma», come la traduzione della CEI), bensì aggiuntivo: «Anche». Dunque la traduzione suona meglio così:
«Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; ha posto anche nel loro cuore il mistero del tempo, senza però che gli uomini riescano a capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo 3,11).
L’angolatura da cui si pone Qohelet è sempre la stessa, quella esperienziale, sotto il sole. Il compito di cercare e di investigare non è soltanto proprio del saggio ebreo (cf. 1,13-18), ma di ogni uomo. Alla domanda del v. 9, «che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?», Dio risponde assegnando agli uomini un compito preciso: cercare! Si tratta certo di un compito faticoso, tuttavia non è più qualificato come «penoso» (cf. 1,13); il senso di questo compito viene specificato dal v. 11.
La riflessione inizia con un giudizio estremamente positivo dell’opera creatrice di Dio. Qohelet rilegge il primo racconto della creazione interpretando il termine tôb («E Dio vide che era buono-bello») di Gn 1 come yapeh («bello»); quest’ultimo termine sottolinea di più la qualità estetica del creato, ma non in senso esclusivo – come dimostra la ricorrenza del termine in 5,17 – dove esso significa piuttosto «conveniente». Dunque Dio ha creato un mondo bello, ma anche conforme al suo volere; e infatti proprio per questo ogni cosa ha il suo tempo opportuno, secondo quanto Qohelet ha illustrato nel poema precedente (3,1-8).
Tuttavia l’uomo, pur avendo ricevuto nel cuore il mistero del tempo, non è capace di comprendere la logica e il senso di questo tempo; l’uomo può solo vivere i singoli momenti opportuni che gli si presentano. La conseguenza di tale imperscrutabilità dell’opera divina non diventa per Qohelet causa di disperazione e di pessimismo o fonte di scetticismo, ma invito all’uomo a scrutare e a vivere i singoli momenti di gioia che la vita gli offre. Se questo mistero del tempo che Dio gli ha infuso nel cuore non sfocia nella comprensione dell’opera divina, non costituisce nell’uomo un dato negativo e frustrante, esso infatti lo spinge alla ricerca delle possibilità di gioia che la vita offre e soprattutto al timore di Dio. È quanto Qohelet sviluppa nei versetti seguenti.

La gioia di vivere
12 Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13 ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio (Qo 3,12-13).
L’affermazione del v. 12 sulla positività del mangiare e del bere per l’uomo è ancora in relazione alla domanda del v. 9: quale profitto c’è per l’uomo? Non si tratta però di una risposta riduttiva, quasi una povera consolazione lasciata da Dio a un uomo comunque incapace di comprendere il senso dell’esistenza. La formula: «Non c’è nulla di meglio», compare altre volte nell’opera (2,24; 3,22; 8,15) sempre in connessione con un precedente sviluppo negativo (nel nostro caso l’impossibilità per l’uomo di capire a fondo l’opera di Dio) e dunque si propone di evidenziare un bene reale per l’uomo. Due verbi sottolineano questo bene: «godere» e «vivere bene»[7]; essi appaiono come compito dell’uomo: se Dio ha fatto bella e conveniente ogni cosa, l’uomo è chiamato a sperimentare questo bene nella propria vita, cioè a gioire.
In che cosa consista questa gioia viene specificato subito dopo dall’espressione «mangiare e bere» tipica di Qohelet (2,14; 5,17; 8,15; 9,7). La forza dell’espressione è nel suo significato simbolico; si tratta infatti non soltanto di necessità elementari dell’essere umano, ma della celebrazione di sentimenti profondi quali la festa, l’amicizia, il matrimonio, la nascita, l’ospitalità… Mangiare e bere appaiono così come i segni visibili della benedizione divina, essi infatti sono dono di Dio! Se il Dio di Qohelet appare da un lato lontano e irraggiungibile, dall’altro si rende presente in modo molto concreto e reale col dono della gioia del vivere. Questo richiamo al dono di Dio è importante perché esclude interpretazioni di carattere edonistico o epicureo e aggancia saldamente la fede alla vita concreta dell’uomo.

Il timore di Dio
Quest’ultima riflessione approfondisce il senso del timore di Dio sopra accennato. Le opere di Dio sono immutabili, cioè valgono per sempre, per tutto quel tempo di cui l’uomo intuisce l’esistenza, ma non il senso. Dunque, se Dio dona all’uomo le gioie della vita, non può quest’ultimo modificarle, magari accrescerle o intensificarle, perché la loro esistenza e qualità dipendono unicamente da Dio, la cui azione rimane immutabile.
14 Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui. 15 Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è; Dio ricerca ciò che è già passato (Qo 3,14-15).
Dio agisce così perché lo si tema, dove «temere» significa anzitutto riconoscere e accettare l’imperscrutabilità dell’agire divino. Chiaramente viene qui sottolineata la distanza trascendentale fra Dio e l’uomo, fra creatore e creatura. Tuttavia non c’è solo questo, perché questo Dio sa essere anche vicino all’uomo con il dono delle gioie della vita. Queste potrebbero essere intese in un ambito puramente antropologico (sarebbe allora la logica del carpe diem) o nel senso prometeico di strappare qualcosa a Dio. Invece nell’ottica di una fede che riconosce unicamente a Dio la comprensione del suo agire e quindi l’incomprensibilità per l’uomo del mistero del tempo, le gioie della vita appaiono nel loro vero significato di dono gratuito di Dio. Se il timore di Dio sottolinea con crudele chiarezza i limiti creaturali dell’uomo, gli consente pure di cogliere le gioie della vita nel loro ontologico significato di dono gratuito di Dio!
La conclusione del v. 15 è misteriosa, soprattutto l’ultima frase: «Dio ricerca ciò che è già passato». Le proposte degli autori sono numerose e discordanti[8]. Il contesto immediato della prima parte del versetto, come quello più generale dell’intero passo di 3,1-15, suggerisce di interpretare l’espressione in senso temporale: Dio ricerca «ciò che è inseguito», cioè il tempo passato, che non può più essere ricuperato dall’uomo e tanto meno compreso. Questo appartiene a Dio, per il quale soltanto esiste una chiara comprensione di tutto il mistero del tempo. «Dio non è soggetto alla caducità del tempo, lo supera e lo raggiunge in tutta la sua estensione passata e futura; ecco perché poter dire che Dio va in cerca del passato non è strano. Secondo la mentalità di Qohelet, Dio lo trova o lo raggiunge, l’uomo no»[9].

Conclusione
Il poema dei tempi dell’uomo (vv. 2-8) aveva suscitato la domanda del v. 9: quale profitto per l’uomo?. Questa domanda trova la sua risposta nella riflessione dei vv. 10-15, una delle riflessioni più teologiche dell’intero libro.
Chi è Dio? Apparentemente il Dio di Qohelet è un Dio lontano da quel yhwh che entra nella storia di Israele, un Dio impenetrabile e anche arbitrario. In realtà, un’attenta lettura del testo qoheletiano ci porta a conclusioni opposte. L’uomo sa che ci sono tempi convenienti per ogni azione, sa che esiste un mistero del tempo, che Dio gli ha consegnato nel cuore, ma che gli rimane incomprensibile nella sua logica di fondo, perché questa comprensione è esclusiva di Dio. Da questo punto di vista non c’è alcun profitto per l’uomo nel suo agire.
Tuttavia, tocca all’uomo il compito di cercare e in questo suo compito egli arriva a capire due cose: nonostante tutto la gioia resta una possibilità reale che Dio gli offre, le gioie della vita infatti sono dono di Dio e invito a goderne. In secondo luogo, l’uomo capisce che l’azione di Dio, pur misteriosa e incomprensibile, suscita in lui il timore di Dio; è questo timore di Dio che permette all’uomo di autocomprendersi come creatura e di giudicare le gioie della vita unicamente come dono di Dio. È volontà di Dio che l’uomo scopra e goda la gioia, ma nessuna gioia è possibile e vera senza il timore di lui, senza il rispetto di quel mistero del tempo che Dio ha posto nel cuore dell’uomo proprio perché egli lo tema.
—————————–
[1] Questo nostro articolo fa riferimento soprattutto allo studio di L. Mazzinghi, Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet,EDB, Bologna 2001, specialmente le pp. 189-238, con una bibliografia completa e ragionata.
[2] Cf. J. Vílchez Líndez, Qoèlet, Borla, Roma 1997, 232.
[3] «Vedere il sole» per Qohelet è sinonimo di vivere e dunque allude al tempo della storia dell’uomo. Cf. Mazzinghi, Studi, 132 (cf. Qo 6,5; 7,11; 11,7).
[4] Vedi, ad es., il pensiero di Omero: «Gli dèi immortali ai mortali sopra la terra feconda hanno assegnato per ogni cosa il suo tempo» (Odissea 19, 592-593).
[5] Preferiamo tradurre letteralmente con «generare» piuttosto che in senso passivo con «nascere». Quest’ultima interpretazione rifletterebbe bene l’opposizione al morire, tuttavia non è detto che si tratti di un’antitesi!
[6] Alcuni autori preferiscono correggere il testo consonantico leggendo ‘amal, fatica, altri correggono semplicemente la vocalizzazione masoretica e leggono ‘elem, ignoranza. Quanto al temine ‘ôlam esso viene interpretato come «mondo», «eternità», «durata», «opera di Dio». Per una discussione esaustiva al riguardo vedi Mazzinghi, Studi, 217-227.
[7] La traduzione della CEI «agire bene» segue la versione greca dei LXX e interpreta l’espressione in senso morale; ma qui il contesto (non ultima l’espressione del versetto seguente «godere del proprio lavoro») è dato dal tema della gioia. Quindi il senso è piuttosto quello di procurarsi del bene, di vivere bene.
[8] Vedi al riguardo la discussione in Mazzinghi, Studi, 233-236.
[9]Vílchez Líndez, Qoèlet , 253.

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA (Don Claudio Doglio)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio18.htm#Capitolo_I._L’ATTESA_DI_ISRAELE

don Claudio Doglio

L’IMPEGNO MISSIONARIO ALLA LUCE DELLA SACRA SCRITTURA
« Va’ e annunzia ciò che il signore ti ha fatto »

Capitolo I. L’ATTESA DI ISRAELE

Il concetto di missione appare marginale nella teologia dell’Antico Testamento. La missione, infatti, comporta il manifestarsi di due fattori all’interno di una religione: il primo è l’attività con cui i credenti si impegnano a partecipare ad altri il contenuto dottrinale e la pratica della loro fede; il secondo è la coscienza che tale attività costituisca l’obbedienza ad un comando divino.
Ora, se consideriamo la storia religiosa dell’antico Israele, dobbiamo constatare che, nella sua fase iniziale e nel suo sviluppo fino ai tempi dell’esilio (VI secolo a.C.), la religione ebraica non comporta alcuna particolare spinta a diffondersi al di fuori di Israele (cf P.Bovati, « La missione nella religione dell’antico Israele », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 25-44). Solo dopo l’esilio babilonese inizia a farsi strada una visione universalistica, che prende in considerazione anche gli altri popoli come destinatari dell’unico progetto salvifico del Dio d’Israele. In ogni caso di « missione » nel nostro senso non si parla quasi mai.
D’altra parte il problema religioso della missione non si risolve mettendo in semplice contraddizione i concetti di « particolare » ed « universale ». È opportuno invece considerare nel suo insieme l’universo biblico veterotestamentario, per cogliere le radici « storiche » della Rivelazione e le sue principali testimonianze missionarie, senza pretendere di rinchiudere tutti i dati in un sistema compiuto (cf G.Ravasi,  » Missione e universalismo nell’Antico Testamento », in: Rassegna di Teologia 28 (1987) 32-59).
Infatti, se consideriamo tutti gli aspetti biblici, ci troviamo di fronte ad atteggiamenti e posizioni molto differenti: sarebbe possibile raccogliere questi dati in due blocchi contrapposti che un esegeta ha chiamato il « dossier dell’odio » e il « dossier dell’universalismo ». Nell’AT si trovano infatti atteggiamenti di estrema chiusura verso gli stranieri fino al desiderio della loro distruzione; ma compaiono altresì considerazioni positive sugli altri popoli con il desiderio della loro unione ad Israele. Quale di queste due correnti dobbiamo prendere in considerazione? Qualunque fosse la nostra scelta, non sarebbe corretto tacere dell’altra! Entrambe costituiscono il patrimonio biblico veterotestamentario. Non possiamo neanche pensare ad un processo di evoluzione, per cui si è passati da un antico atteggiamento esclusivista ad un recente clima di apertura ecumenica che sfocia nella fase neotestamentaria. I dati biblici non permettono questa affermazione. Esclusivismo ed apertura coesistono per tutta la storia dell’antico Israele.

A. LA PAROLA DI DIO NELLA STORIA DEGLI UOMINI
La nostra ricerca deve dunque orientarsi in un’altra direzione: è opportuno, cioè, andare alla ricerca di quei fattori più profondi che hanno caratterizzato la Rivelazione biblica. Ed il primo dato fondamentale è che la Bibbia non è caduta dal cielo, ma è cresciuta con gli uomini: la Parola di Dio non è fuori dal tempo e dalle vicende umane, ma è fin dall’inizio « incarnata » nella storia degli uomini. Questa affermazione di base permetterà notevoli sviluppi per il discorso missionario.

1) Le vicende storiche
Gli eventi che la Bibbia racconta visti da storici ed archeologi non sono altro che « fatti umani », spiegabili con categorie storiche, sociologiche, politiche, economiche: si tratta infatti di migrazioni, oppressioni, fughe, conquiste, organizzazioni di potere e colpi di stato. Eppure il Concilio ci ha insegnato chiaramente che la rivelazione « avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro » (Dei Verbum 2): vuol dire che la Parola di Dio ha dato un senso alla « storia laica » e l’ha resa storia della salvezza; vuol anche dire che le vicende degli uomini non sono indipendenti da Dio, ma, seppure con criteri propri, convergono sempre nella realizzazione del piano divino. L’affermazione per cui nessun evento storico è fuori dell’azione divina significa che la Parola di Dio è strutturalmente « missionaria ».

2) Dalle feste naturali alle feste storiche
Anche la natura con le sue fasi stagionali è assunta dalla Rivelazione come momento significativo. Le grandi feste d’Israele sono infatti celebrazioni preesistenti, legate alla vita naturale dei pastori e dei contadini: la Parola di Dio ha assunto questi elementi e li ha trasformati in celebrazione del Dio salvatore. La Pasqua era la tipica festa di primavera per i pastori che iniziavano la transumanza e per gli agricoltori che celebravano il rinnovarsi della vegetazione: in Israele invece Pasqua diventa la festa storica della liberazione. Pentecoste coincideva con il raccolto delle messi, ma per il popolo di Israele celebra il dono per eccellenza, l’alleanza con Dio al Sinai. La festa delle Capanne era la popolare ricorrenza autunnale in occasione della vendemmia, ma in Israele assume il valore di ricordo del tempo passato nel deserto e della terra donata da Dio. Così il rito naturale, comune a tanti popoli, diventa la celebrazione del Dio che si è rivelato ai figli di Israele.

3) Il rapporto con le altre culture
Anche le culture degli altri popoli, con le loro letterature e mitologie, con i loro codici e regolamenti giuridici, non sono estranee al processo della Rivelazione. Gli autori biblici, infatti, pur essendo ispirati da Dio, non hanno rifiutato la cultura dei loro vicini: anzi hanno saputo attingere a piene mani dai patrimoni letterari e giuridici dei popoli che li circondavano. Ma non hanno preso tutto in blocco acriticamente; hanno invece sempre scelto e vagliato alla luce della loro fede, spesso smitizzando racconti e teorie. La letteratura biblica dell’AT è dunque un ottimo esempio di inculturazione e di missionarietà, perché Israele ha saputo formulare la propria teologia con le categorie culturali degli altri popoli e poi, a sua volta, ha offerto alle altre nazioni il contributo del suo pensiero e della sua visione del mondo.

4) La costrizione in una lingua
Aspetto ancor più mirabile di questo processo della Rivelazione è l’incarnazione della Parola di Dio in « una » lingua umana: suscita ammirazione e stupore pensare alla « condiscendenza » di Dio che ha voluto esprimere il suo Pensiero in una lingua semplice e povera come l’ebraico e si è costretto in una particolare cultura, adattando forzatamente l’eterno allo storico. A questo fatto sono riconducibili tante espressioni lontane dal nostro modo di sentire e sempre questo fatto, alla luce del NT, ci rivela il valore strumentale che hanno le formule e i simboli della fede, premunendoci contro il rischio di assolutizzare le lingue e le forme religiose. Solo un simile pensiero permette un corretto approccio missionario, che sa rispettare lingue e culture, incarnando in esse il messaggio di fede.

5) La creazione: base dell’universalismo
Ultimo decisivo aspetto è la constatazione della realtà creata: la fede di Israele riconosce che tutto viene da Dio, tutte le creature gli appartengono e nulla sfugge al suo dominio. La creazione diviene così il primo articolo di fede, il primo evento della storia di salvezza nella convinzione che solo il Dio che ha creato l’universo è colui che può salvare. Soprattutto i Salmi celebrano il regno universale del Signore (cf Sal 22,29; 47,3.9-10; 66,5.7; 67,5; 96; 97; 98; 99; 138,5-6; 145,13); nel Salmo 33, ad esempio, si descrive in modo pittoresco il dominio cosmico di Dio:

« Il Signore guarda dal cielo,
egli vede tutti gli uomini.
Dal luogo della sua dimora
scruta tutti gli abitanti della terra,
lui che, solo, ha plasmato il loro cuore
e comprende tutte le loro opere » (vv.13-15).
All’aspetto discendente del dominio (Dio-creato) corrisponde anche un aspetto ascendente di lode e di rispetto (creato-Dio) per cui tutte le nazioni e tutte le creature sono coinvolte nell’unica lode al Creatore (cf Sal.22,28; 47,2; 67,3-8; 68,30-33; 96,1.7-9; 98,4.7; 99,3; 145,10-13). Il Salmo 145 avvicina questi due aspetti in una dolce sintesi:

« Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli » (vv.9-10).

Mons. Pietro Rossano nella prolusione alla XXX Settimana Biblica Nazionale, il 12 settembre 1988, spiegò che il dinamismo missionario è proprio e caratteristico delle religioni che credono in un Dio personale e creatore, espresse oggi nel grande tronco dell’ebraismo, dell’islam e del cristianesimo; mentre è assente nelle grandi religioni asiatiche che fondono in un’unica visione Dio, il mondo e l’uomo, disprezzando la storia e la realtà sensibile. Dalle osservazioni fatte in precedenza emerge chiaramente che la religione dell’antico Israele è segnata dalla dinamica storica e profetica e vede all’origine dell’universo un atto creatore di Dio che chiama il mondo all’essere, vi colloca l’uomo e gli rivolge la sua parola direttamente e poi per mezzo dei profeti gli indica la sua volontà e il suo disegno nella storia: un disegno di giustizia e di pace, la cui attuazione è affidata agli uomini e sul quale Dio stesso vigila come vindice del bene e del male. La storia umana appare perciò come la realizzazione progressiva di un disegno divino che abbraccia tutte le nazioni della terra e che richiede la collaborazione dei « fedeli », cioè gli uomini della fede, perché possa giungere alla piena realizzazione (P.Rossano, « La missione nella Bibbia e nelle religioni », in: Ricerche storico bibliche 2 (1990) 9-11).
I principi fondamentali della Rivelazione nell’AT si sono dunque presentati come la struttura portante che permette un discorso biblico missionario, anche se storicamente nel popolo di Israele non si è mai realizzata un’attività missionaria come la pensiamo noi. Questi principi fondamentali però hanno influenzato in modo diverso i periodi della storia di Israele in una continua alternanza fra la vocazione universale dell’umanità e l’elezione specifica del popolo ebraico.

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