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GESÙ E LE DIECI PAROLE – FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/br_john_comandamenti10.htm

FRÈRE JOHN DI TAIZÉ

VERSO UNA TERRA DI LIBERTÀ

UNA RILETTURA DEI DIECI COMANDAMENTI

GESÙ E LE DIECI PAROLE

In queste pagine abbiamo letto il testo che chiamiamo i dieci comandamenti o le Dieci Parole, come definizione di uno spazio di libertà che proviene dall’ Alleanza con Dio. Il Dio della Bibbia è innanzitutto colui che chiama i suoi ad abbandonare una situazione di schiavitù e che apre davanti a loro un’ esistenza nuova, un’ esistenza che rende possibile una pienezza e una felicità per tutti. La parola di Dio non descrive in maniera esaustiva questa nuova società, ma ne indica semplicemente le linee principali, le cornici che dovranno poi essere riempite dalla creatività e dalla responsabilità di tutti coloro che ascoltano il messaggio. C’è dunque una certa logica nel fatto che, alla fine delle Dieci Parole, il centro d’interesse si sposta dagli atti specifici, che distruggono le relazioni con gli altri, per occuparsi invece delle attitudini interiori, dei meccanismi attraverso i quali gli esseri umani abbandonano la realtà per costruire un mondo parallelo che non è in armonia con le intenzioni del Creatore. L’insegnamento di Gesù, raccolto nei libri che formano ciòche per i cristiani è il Nuovo Testamento, prosegue questa riflessione indicando una via d’uscita dal vicolo cieco dove si smarriscono gli esseri umani che si creano un mondo irreale.
All’inizio del Vangelo secondo san Matteo, Gesù riassume l’essenziale del suo insegnamento, in ebraico la sua «Torah», in un lungo discorso generalmente chiamato il Discorso della Montagna (Mt 57). L’evangelista, molto probabilmente, ha utilizzato del materiale proveniente da tempi e luoghi differenti per riuscire a creare un insieme coerente, che funzionasse come una specie di programma o di manifesto. In questo discorso, Gesù si riferisce parecchie volte alle Dieci Parole. A prima vista, il suo modo di affrontare ciò che la tradizione gli ha trasmesso può sorprenderci, perfino scandalizzarci, tanto esso sembra rimettere in questione la nostra idea del figlio del falegname di Nazaret, uomo compassionevole, pieno di comprensione per le fragilità umane. Invece di voler relativizzare le Parole o minimizzare la loro importanza o la loro applicabilità, Gesù le radicalizza al di là del possibile:
Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna [...]. Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,21-22.27 -28).
La nostra prima reazione a queste parole potrebbe ben essere simile a quella dei discepoli in un’ altra circostanza, «Chi si potrà dunque salvare?» (cfr. Mt 19,25). È possibile per un essere umano realizzare la Legge divina nella sua vita? Alcuni hanno creduto che era proprio quello il senso di tali parole. Secondo questa interpretazione, Gesù radicalizza le richieste della Legge per mostrare che nessuno è in grado di metterle in pratica nella giusta maniera. Di fronte ai richiami di Dio, nessuno è all’ altezza. I comandamenti servono solamente a convincerci del nostro radicamento nel peccato e del nostro bisogno di contare sul dono gratuito dell’ amore che perdona, quello che giunge a noi attraverso Cristo Gesù.
È indubbiamente vero che, agli occhi di Gesù, nessun essere umano può vivere secondo la volontà divina senza l’aiuto di Dio e solo con i propri sforzi, tuttavia non sembra del tutto esatto dire che Gesù interpreta le Dieci Parole in modo da renderne impossibile il compimento. li suo insegnamento a questo riguardo non è unicamente negativo; egli non cerca soltanto di farci scoprire i nostri limiti, vuole anche indicarci un cammino da seguire. In primo luogo, le parole di Gesù esprimono qualcosa che la nostra ricerca aveva già rivelato, cioè che non basta seguire «alla lettera» la Legge per essere fedeli alla sua intenzione profonda. li fatto che stamani non ho ucciso nessuno dei miei vicini, né rubato i loro beni, né ho commesso adulterio con le loro spose, non significa per questo che ho fatto tutto ciò che Dio pensava quando stabilì un’alleanza con gli esseri umani. Le Dieci Parole disegnano i confini di quello spazio di libertà definito dalla nostra relazione con Dio. Per vivere secondo 1′Alleanza, dobbiamo utilizzare la libertà che ci è concessa per costruire una società di giustizia e di solidarietà radicata in Dio attraverso le scelte concrete che facciamo. In questo senso, il testo delle Dieci Parole non rappresenta una fine bensì un inizio. Indica un orientamento e segnala dei limiti, inaugura un processo che, per sua stessa natura, si sviluppa fino a inglobare ogni dimensione della nostra vita. Secondo Gesù, anche il gesto più piccolo e apparentemente più insignificante che facciamo, può essere un modo per rendere concreta l’Alleanza con Dio.
In secondo luogo, il commento delle Dieci Parole proposto da Gesù, prolunga la parte finale di questo testo ponendo l’accento non sul comportamento esteriore, ma sulle sue radici all’interno dell’essere umano. Un aspetto fondamentale del suo insegnamento è che la vera religione non può ridursi al semplice conformarsi esteriormente a delle leggi scritte. L’essenziale sta nelle profondità dell’essere umano, nella sua attitudine di base, tradotta poi nelle scelte che, a loro volta, diventano azioni visibili. La Bibbia chiama questo nucleo della persona, sorgente dei suoi orientamenti fondamentali, il cuore. Nel suo insegnamento, Gesù mette spesso l’accento su questa struttura caratteristica dell’agire umano:
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo [...]. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, [...]. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7,14-15.21-23).
Ciò non significa, come potrebbero immaginare numerosi nostri contemporanei, che è soltanto la motivazione interiore ciò che conta, indipendentemente dalla maniera concreta in cui viviamo. Gesù non separa affatto l’interiorità dell’uomo dalla sua esteriorità; per lui, il nostro orientamento fondamentale è decisivo per determinare il modo in cui noi viviamo con gli altri nel mondo. Una semplice immagine gli permette di esprimere questa verità:
Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore (Lc 6,43-45).
In un modo o in un altro, presto o tardi, l’albero porterà frutti per mostrare di che tipo d’albero si tratta. «Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato» (Lc 8,17). Se le radici nascoste sotto terra sono importanti, è perché hanno conseguenze visibili in superficie. La finalità rimane quella di costruire un mondo dove gli esseri umani vivano in armonia, fra di loro e con !’insieme della creazione, ma Gesù coglie con straordinaria chiarezza che questo progetto trova le proprie origini nei recessi segreti del cuore umano.
E arriviamo infine alla difficoltà fondamentale delle Dieci Parole, se non addirittura di tutti i comandamenti divini. Questa difficoltà è presente fin dall’inizio dell’autorivelazione di Dio, ma l’insegnamento di Gesù permette di vederla con piena chiarezza. La possiamo esprimere con una semplice frase: definire la società ideale non vuoi dire di per sé realizzarla. Non basta dire alla gente: «Se volete essere liberi e felici dovete fare questo o quello» perché ciò si avveri. Questa constatazione trova ampia conferma nella storia del genere umano, e ancora più specificamente nella storia d’Israele raccontata nelle Scritture ebraiche. Dio ha potuto rivelare le sue intenzioni a coloro che ha liberato dalla schiavitù e condotto verso una terra di felicità, ha potuto anche indicare loro la strada per arrivarci: tuttavia, fin dall’inizio, questi hanno trascurato l’insegnamento divino, preferendo seguire i loro disegni limitati che, alla fine, non portano da nessuna parte. Piuttosto che abbandonarli, Dio ha continuato a inviar loro uomini e donne che li richiamavano a tornare sulla via della salvezza, che ricordavano l’Alleanza e i suoi obblighi. Sono quelli che noi chiamiamo profeti, il cui compito essenziale non era quello di predire il futuro bensì ricordare l’Alleanza con Dio e far capire alla nazione le promesse in essa nascoste, come anche le conseguenze rispetto al suo abbandono. Tuttavia, la maggior parte delle volte, il loro messaggio non è stato per nulla ascoltato. I discepoli di Gesù hanno capito molto bene questa dinamica e, partendo da questo modo di leggere la storia, hanno tentato di suscitare nei loro contemporanei una comprensione più profonda della fede in Dio. Negli Atti degli Apostoli, un credente di nome Stefano, prima di essere giustiziato per aver reso testimonianza a Cristo, pronuncia un lungo discorso al Sinedrio nel quale disegna le tappe della storia della salvezza. Egli conclude con queste parole:
O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti non hanno perseguitato i vostri padri? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata (At 7,51-53).
Le sue parole sono qui come una ripresa delle parole di Gesù stesso quando si rivolgeva verso la capitale, simbolo della classe dirigente della società: «Gerusalemme, uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati» (Mt 23,37). Coloro che vengono nel nome di Dio, non incontrano, di solito, un’ accoglienza calorosa, anche se poi, in un secondo tempo, vengono onorati e si costruiscono per loro mausolei straordinari (Mt 23,29). In breve, non è assolutamente sufficiente dire alle persone come fare per seguire Dio perché ciò diventi una realtà vissuta.
Fra tutti i profeti, è Geremia che con i suoi scritti ci mostra in maniera più chiara la resistenza al messaggio profetico così come le conseguenze di tale ostilità per il profeta stesso. Di temperamento dolce, egli riceve la chiamata divina a proclamare parole forti che sono come un fuoco che brucia il suo cuore e che egli si sente costretto a rivelare (Ger 20,9). Il suo invito alla nazione a convertirsi lo porta solo ad esserne escluso (Ger 15,17) e perseguitato (Ger 11,19.21). Finisce per rendersi conto che le sue parole, da sole, non convinceranno mai i suoi contemporanei a tornare verso Dio ed esprime questa sua intuizione attraverso un’immagine spaventosa:

Il peccato di Giuda è scritto
con uno stilo di ferro,
con una punta di diamante
è inciso sulla tavola del loro cuore
(Ger 17,1).

Se il peccato, l’infedeltà verso Dio, è scritto sui cuori delle persone, è inutile immaginare che le parole incise su tavole di pietra o proclamate sulle pubbliche piazze possano in qualche modo modificare il loro comportamento. In fin dei conti, è sempre più facile seguire i propri impulsi interiori piuttosto che accogliere un invito che proviene da una realtà esterna. Questa constatazione suscita in lui una sorta di disperazione:

Più fallace di ogni altra cosa è il cuore
e difficilmente guaribile;
chi lo può conoscere?
(Ger 17,9)

A causa di questo aspetto della condizione umana, la Parola di Dio in generale – e le Dieci Parole in particolare – diventano «legge» nel senso negativo e comune di questo termine, sono come una diga che si sforza di contenere il dinamismo spontaneo della persona umana e crea, a lungo andare, una situazione intollerabile. Si cerca di obbedire alla legge, al prezzo di sentirsi obbligati e frustrati, finché, cadendo finalmente nella tentazione, la si trasgredisce, permettendo il formarsi di un senso di colpa e l’impressione di un fallimento. Alla fine, può succedere che si reagisca contro questo stato di cose cercando di sbarazzarsi completamente dal gioco della legge. Secondo questo modo di vedere, a differenza di quanto viene proposto fin dall’inizio di questo libro, la libertà e la felicità della persona appaiono incompatibili con un’esistenza che vuole prendere sul serio la Parola di Dio.
Il ragionamento appena descritto riprende a sua volta il tema principale della Lettera di san Paolo ai Romani. L’apostolo afferma che, data la condizione umana in quanto tale, gli uomini non possono ottenere la salvezza (per noi, la libertà e la felicità) seguendo una legge scritta. Ciò che rende impossibile questo tentativo non è qualche difetto nella Legge stessa, piuttosto una falla all’interno dell’essere umano. Il nostro cuore è diviso:
Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. lo non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. [...] io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio [...]. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’ altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra (Rm 7,14-15.19.22-23).
Per l’apostolo, non si tratta di un ragionamento puramente astratto. Paolo analizza la storia dell’umanità e conclude che non sono soltanto i pagani ad essere incapaci di vivere secondo la volontà divina nel corso dei secoli, ma anche gli ebrei, loro che hanno beneficiato di una rivelazione diretta e avrebbero dovuto, di conseguenza, saper condurre una vita più retta (cfr. Rm 2,1-3,20). Tuttavia, secondo Paolo, ciò non significa affatto che la Torah, la Parola rivelata da Dio, sia errata:
Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente! Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare [...]. Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento [...]. Invece il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento (Rm 7,7.12.13).
Rivelando la sua volontà attraverso la Torah, Dio ha fatto all’umanità un dono inestimabile. Anche se tale dono non ha di fatto trasformato la società nell’ideale cui mirava, questo «insuccesso» aveva un lato provvidenziale perché ha permesso di cogliere con estrema chiarezza il problema in tutta la sua portata, indicando così un passo supplementare nell’ autorivelazione di Dio, un passo che si rivelerà necessario. Dio aveva già permesso al suo servo Geremia di intravedere questo attraverso una rivelazione avvenuta in un momento di disperazione. Quando il profeta si lamentava che il cuore umano era perverso e domandava chi avrebbe potuto scrutarlo, la risposta alla sua stessa domanda scaturiva dentro di lui:

Io, il Signore, scruto la mente
e saggio i cuori,
per rendere a ciascuno secondo la sua condotta,
secondo il frutto delle sue azioni.
(Ger 17,10)

Dio, creatore del cuore umano, è il solo capace di scrutarne le profondità e, dunque, il solo capace di trasformarlo. Un giorno, Geremia, annuncia questa trasformazione in arrivo che risolverà per sempre il problema dell’ Alleanza e della Legge:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Di fatto, l’unica soluzione al dilemma di una legge scritta, che di per se non può salvare, è un’iniziativa divina che renda possibile una ri-creazione del cuore umano, d’ora in avanti docile alle sollecitazioni provenienti da Dio. Piuttosto che il peccato scritto nel loro cuore, essendo ciò in fondamentale contrasto al desiderio di Dio, in questa nuova disposizione la parola di Dio sarà una fonte interiore di attività, in modo tale che gli esseri umani seguiranno spontaneamente il cammino per il quale sono stati creati. Non ci sarà più alcuna dicotomia fra ciò che Dio vuole per le sue creature e i loro intendimenti e aspirazioni. Il problema della libertà saràanch’esso risolto, poiché i comandamenti divini verranno identificati con il dinamismo interiore che costituisce l’essere umano e dunque non susciteranno più sentimenti di costrizione o di obbligo.
Geremia descrive questa nuova situazione come un tempo in cui la Torah di Dio, il suo insegnamento o la sua Legge, sarà scritto sul cuore umano. Nella generazione successiva, un profeta di nome Ezechiele riprenderà la stessa idea modificandone l’immagine:
Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio (Ez 36,25-28).
Da parte sua, questo profeta descrive il cambiamento come il dono di un cuore completamente nuovo, un cuore pienamente umano al posto di quello incapace di ascoltare e di agire con coerenza. Egli parla di questa trasformazione come di una nuova creazione, l’opera dello Spirito Santo, del Soffio divino, ormai presente nella persona umana. Come per Geremia, il risultato di questa nuova iniziativa creatrice da parte di Dio, sarà quello di eliminare ogni disarmonia fra Dio e il suo popolo. D’ora in poi entrambi cammineranno mano nella mano: «voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio». Per i discepoli di Gesù, quelli che hanno riconosciuto in lui «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16; cfr. Mc 1,1), questa armonia fra Dio e l’umanità non era solamente una speranza per l’avvenire, era diventata una realtà presente. Innanzitutto lo era in Gesù stesso, venuto «non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6,38; cfr. 8,29). Lo era anche per i suoi discepoli, come si vede soprattutto nella prima Pentecoste cristiana, descritta da Luca al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli. I cristiani celebrano la Pentecoste come una delle loro principali feste religiose ma forse non sanno che questa era – ed è ancora – una festa ebraica. Chiamata anche la Festa delle Settimane (Shavuot), è uno dei tre giorni principali del calendario religioso ebraico (cfr. Es 23,14-17). Con ogni probabilità, in origine era una festa del raccolto celebrata cinquanta giorni dopo la Pasqua; essa venne poi associata al ricordo d’Israele circa gli avvenimenti dell’Esodo. In Es 19,1, leggiamo che «il terzo mese dall’uscita dal paese d’Egitto, gli israeliti arrivarono al deserto del Sinai». Di conseguenza, per i rabbini, la Pentecoste segna il giorno in cui il popolo arriva al Sinai: i cinquanta giorni comprendono la fine del primo mese, il secondo mese e l’inizio del terzo. Questa festa diventa allora la celebrazione di quello che avvenne sulla montagna santa: l’Alleanza con Dio che si concretizza con il dono della Torah. Essendo la festa dell’ Alleanza, il memoriale del dono della Torah, la Pentecoste è dunque il giorno per eccellenza delle Dieci Parole.
A motivo della risurrezione di Gesù, questo giorno per ricordarsi del passato e renderlo presente, subì una trasformazione: per i discepoli di Cristo diventò un compimento di quanto lo aveva preceduto e un nuovo inizio. Delle lingue di fuoco, identificate con lo Spirito Santo di Dio, scendono sui discepoli riuniti nel cenacolo. Ora, nel modo di raccontare gli avvenimenti sul Sinai, il popolo ebraico aveva l’abitudine di aggiungere degli elementi al brano biblico. In certi racconti si dice che Dio scrisse le Dieci Parole sulle tavole di pietra con il suo dito, spesso interpretato dai rabbini come il suo Spirito; per altri si trattava di lingue di fuoco. Questi dettagli rilevano ancora più chiaramente la continuità fra la Pentecoste ebraica e la Pentecoste cristiana. La differenza è che, ora, Dio non scrive la sua Parola sulle tavole di pietra ma sul cuore dei fedeli. La profezia di Geremia, ripresa poi da Ezechiele, diventa una realtà. Gesù, per mezzo del dono di sé e della sua risurrezione, rinnova l’Alleanza da cima a fondo. Questa non passa più attraverso la mediazione di una realtà esteriore, in se stessa buona ma estranea al dinamismo più profondo dell’ essere umano, ma si incarna per la presenza dello Spirito di Dio che trasforma l’attività umana dall’interno.
Inoltre, per comprendere pienamente il significato della Pentecoste cristiana, è essenziale rendersi conto che non si tratta di un evento successo una volta per tutte, qualcosa che si è verificato duemila anni fa in Palestina. Dopo la manifestazione dello Spirito e la spiegazione di Pietro alla folla che assisteva, tutti gli domandano cosa devono fare. E Pietro risponde:
Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro (At 2,38-39).
Ciò che successe a Gerusalemme è l’epicentro di un terremoto che continua a propagare le sue onde attraverso i secoli. L’esperienza della Pentecoste non smette di risuonare, attraverso i secoli e in molteplici luoghi, nella vita di donne e uomini che ascoltano la buona novella di Gesù Cristo e la prendono a cuore. La vita nuova nella quale entrano è riassunta nell’atto del battesimo.
Ciò propone un’ultima domanda di non facile risposta. Molti cristiani potrebbero fare questo ragionamento: «lo sono battezzato e mi sforzo di vivere la mia fede il meglio possibile. Ma non ho l’impressione di compiere la volontà di Dio in maniera spontanea. Provo sempre dentro di me una tensione, quella lotta interiore che san Paolo descrive al capitolo 6 della sua Lettera ai Romani, fra il bene che voglio fare e il modo in cui vivo concretamente. Allora, cosa ha cambiato la venuta di Cristo? Cosa significa aver ricevuto il dono dello Spirito Santo come « legge interiore »?».
È una domanda da prendere molto sul serio. È ovvio che, se non ci sono cambiamenti osservabili nel comportamento di coloro che hanno aperto la loro vita alla novità portata dal Cristo, diventa difficile cogliere a cosa si riferisca il linguaggio del Nuovo Testamento. Gesù aveva già detto che, dall’ amore di cui i cristiani avrebbero dato prova, gli altri potevano riconoscere la verità del suo messaggio (cfr. Gv 13,35; 17,21-23). Cosa potrebbe significare, di fatto, «una legge scritta sui nostri cuori» se la nostra vita fosse in tutto uguale a quella di persone che non conoscono questa legge e che si sforzano di vivere il meglio possibile secondo i valori che hanno ricevuto dalla società circostante? I cristiani hanno spesso parlato come se fossero moralmente superiori ai credenti di altre religioni, anche (o forse soprattutto) quando il loro comportamento concreto non traduceva affatto una tale superiorità. A loro insaputa, danno prova di quella stessa attitudine che san Paolo biasima nei suoi contemporanei:
Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose [...]. Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l’espressione della sapienza e della verità [...] ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? [...] Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge? (Rm 2,1.17-21.23)
Per trovare una via d’uscita a questo dilemma bisogna esaminare più da vicino la logica dell’ attività divina. A causa di una comprensione troppo umana della «onnipotenza» divina, abbiamo la tendenza a immaginare che Dio possa o debba agire come un mago che, con un colpo di bacchetta magica, trasformi radicalmente la nostra realtà umana in un batter d’occhio. In questo caso, il fatto di accogliere lo Spirito Santo nella nostra vita attraverso il battesimo dovrebbe condurre a un cambiamento immediato e totale del nostro stile di vita e del nostro comportamento. Tuttavia, guardando più da vicino, osserviamo che le cose non vanno in quel modo. Al contrario, Dio rispetta la struttura e i ritmi del mondo che lui stesso ha creato. Altrimenti avremmo una sorta di contraddizione da parte sua. Con una pazienza infinita, Dio lavora dall’interno, chiamando gli esseri umani a una comunione sempre più grande e intima con lui.
Un’immagine del Vangelo che ci può aiutare a cogliere questo processo è quella del seme. In una parabola-chiave utilizzata per spiegare il suo messaggio, Gesù paragona la venuta del Regno di Dio a un contadino che semina il suo campo; i semi cadono dappertutto e la loro crescita varia secondo la qualità del terreno che essi incontrano (Mc 4,2-9). In un altro passaggio ancora, descrive il Regno come un piccolissimo seme che cresce fino a diventare una pianta enorme (Mt 13,31-32). A sua volta l’apostolo Pietro, scrivendo a dei nuovi cristiani, dice loro:
[...] essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna (1Pt 1,23).
In altri termini, possiamo considerare la «Legge interiore», cioè la presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori, come un piccolo seme piantato in noi dal giorno del nostro battesimo, un seme che deve crescere e svilupparsi fino a trasformare l’insieme della nostra esistenza. I discepoli del Cristo non sono dunque necessariamente migliori di coloro che trovano la loro identità cercando di mettere in pratica dei comandamenti scritti; è la logica del modo di agire che è differente. Le manifestazioni esteriori, per esempio la parola di Dio incontrata nella Bibbia, non regolano il loro comportamento, bensì riflettono ciò che Dio sta per compiere in loro. Utilizzano l’insegnamento che viene dall’esterno come una specie di specchio che li aiuta a cogliere meglio in che modo siano trasformati sotto l’impulso dello Spirito Santo. È per questo motivo che san Giovanni può scrivere ai suoi discepoli:
Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. [...] l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna (1 Gv 2,20.27).
Naturalmente, i cristiani devono ricevere una catechesi da coloro che li hanno preceduti. Scrivendo queste parole, Giovanni stesso sta istruendo coloro che gli sono stati affidati. Questo insegnamento, pertanto, non serve a dare loro qualcosa di nuovo, bensì, piuttosto, a risvegliare in essi ciò che, implicitamente, hanno già «fin dall’inizio» (cfr. 1Gv 1,1; 2,7.24; 3,11), a partire dal momento della loro chiamata da Dio e del loro ingresso nella comunità. Il suo ruolo è quello di far emergere ogni implicazione della scelta che hanno fatto – e del dono che hanno ricevuto – accettando di seguire Cristo. Questo è, d’altronde, uno dei temi principali della lettera di Giovanni: il compito essenziale dei credenti è quello di restare fedeli a ciò che hanno ricevuto all’inizio. Tutto, cioè una comunione con il Padre in Cristo attraverso la presenza interiore dello Spirito Santo, è stato donato fin dal principio ed è ricapitolato nel sì del battesimo. È restando fedeli a questo sì che riceveranno tutto ciò che serve loro per affrontare le sfide e le prove di ogni nuovo giorno. E, secondo san Giovanni, il segno principale della loro fedeltà a quanto hanno ricevuto dal principio è la loro appartenenza attiva alla comunità dei credenti.
Così le Dieci Parole non smettono di essere valide per i discepoli di Gesù Cristo. Tuttavia, il centro di gravità si è spostato da una legge o da un comandamento esteriore a una parola interiore ascoltata e custodita nel cuore. Questa parola interiore indica una direzione che deve essere seguita in un processo continuo d’approfondimento. Essa diventa ciò che san Giacomo chiama la Legge perfetta di libertà, da lui identificata con la Parola che è stata seminata in voi, riprendendo a sua volta l’immagine della semina (Gc 1,21.25).
Ciò che maggiormente importa ai discepoli di Gesù Cristo, è dunque dare fiducia a quello che lo Spirito compie in loro. Per noi la domanda principale non è «Cosa dobbiamo fare?» e neppure «Come bisogna vivere?», ma «Come nutrire il seme che è stato deposto in noi?». Con la lettura e la meditazione della Scrittura, con la preghiera personale e comunitaria, che culmina nella celebrazione dell’ eucaristia, sostenendosi vicendevolmente come fratelli e sorelle in Cristo, attraverso un’ esistenza basata sul dono di sé, i credenti permettono a questa vita nuova deposta in loro di sbocciare e di portare frutti in abbondanza. Entrati in questo cammino, potranno scoprire qualcosa che i maestri d’Israele avevano già notato da lungo tempo. Nella lingua ebraica, un’ingiunzione negativa non si esprime con l’imperativo, ma con un tempo che corrisponde all’indicativo futuro: non si dice «Non uccidere!» ma piuttosto «Tu non ucciderai!». Domandandosi perché è così, i rabbini hanno risposto che le Dieci Parole erano soprattutto una promessa e non una serie di ordini. Meditando la Torah e prendendola a cuore, i credenti diventano, a poco a poco, a vera immagine del loro Creatore, persone che vivono come Dio desidera: «Tu non ucciderai!». Qui siamo agli antipodi di una visione ristretta e legalista, così spesso, e a torto, attribuita al popolo ebraico. La parola di Dio è una promessa di vita che apre a un mondo di libertà e di felicità, dove regnano la giustizia e la pace. Per chi pone fiducia in Cristo, questa promessa non è solo l’obiettivo di una attesa futura. Attraverso la venuta di Gesù, la sua morte, la sua risurrezione e il dono del suo Spirito senza misura (Gv 3,34), essa è diventata una possibilità permanente nel nostro quotidiano: «tutte le promesse di Dio in lui sono divenute « sì »» (2Cor 1,20).
Così: il Vangelo si trova potenzialmente nella Legge e i Vangeli si comprendono posati sul fondamento della Legge. Non le do il nome di Vecchio Testamento se la considero spiritualmente. La Legge diventa un Vecchio Testamento solo per quelli che vogliono capirla secondo la carne [...]. Ma per noi, che la comprendiamo e la spieghiamo nello Spirito e nella linea del Vangelo, è sempre nuova; entrambi i Testamenti sono per noi un Nuovo Testamento,
non secondo la cronologia ma secondo la novità della comprensione.

ORIGENE*

* Pensatore greco cristiano del terzo secolo nelle sue Omelie sui Numeri, IX, 4 (Sources chrétiennes 415).

L’Immacolata Concezione, nella storia e nei testi biblici

http://www.tanogabo.it/religione/IMMACOLATA_CONCEZIONE.htm

L’Immacolata Concezione

Nel corso dei secoli la Chiesa ha preso coscienza che Maria, colmata della grazia di Dio, era stata redenta fin dal suo concepimento. Il dogma formulato dal Papa Pio IX l’8 dicembre 1854 suona così:
«La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia e un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata preservata intatta da ogni macchia di peccato originale».

Questa affermazione è il risultato di un travaglio durato lunghi secoli, come abbiamo già avuto modo di vedere nelle pagine precedenti. Vogliamo adesso considerare i fondamenti di questa definizione dogmatica nella Sacra Scrittura e nella Tradizione.
La Vergine Maria viene raffigurata in piedi sulla sfera terreste e la mezza luna, calpestando il serpente del Peccato Originale, incoronata dalla colomba dello Spirito Santo e circondata da angeli e da alcuni dei simboli mariani (il ramo di gigli, la palma, la fonte e lo specchio). Questa scena mostra il modo tradizionale di rappresentare l’Immacolata Concezione della Vergine, che fu concepita senza peccato originale.
L’opera fu incaricata dalla casa reale per la chiesa di San Pasquale di Aranjuez.
Il bozzetto di questo quadro è conservato nella Courtauld Institute Galleries di Londra.

I fondamenti biblici

IL PROTOVANGELO (Gen 3,15)
Abbiamo già esaminato a suo tempo questo testo fondamentale, nel quale si parla dell’inimicizia fra la donna (figura di Maria) e il serpente (figura del diavolo). Anche prescindendo dalla questione se il testo indichi o non indichi chiaramente la vittoria della donna, rimane comunque fuori dubbio che fra la donna e il serpente c’è una radicale inimicizia: «Porrò inimicizia fra te e la donna…». Ciò è sufficiente a dare un solido fondamento al nostro dogma. Infatti se fra la donna e il serpente c’è un’inimicizia radicale, non si può pensare che anche per un solo istante nella donna ci sia stata, per così dire, un’amicizia con il serpente a motivo del peccato, sia pure del solo peccato originale. Fra la donna e il serpente c’è un’incompatibilità assoluta. Nella donna quindi non c’è alcuna macchia di peccato.

IL SALUTO DELL’ANGELO (Lc 1,28)
Le parole dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia» (più letteralmente: «o ricolma del favore divino»), lette alla luce della Tradizione e del sensus fidei del Popolo di Dio, indicano una pienezza totale di grazia. Questa totalità riguarda sia l’estensione che la durata, cioè deve estendersi a tutta la vita di Maria, a cominciare dal primo istante della sua esistenza. Quindi sin dal primo istante Maria fu santa, senza alcuna macchia di peccato.

IL SALUTO DI ELISABETTA (Lc 1,41-42) Alle due prove precedenti, che sono quelle fondamentali, alcuni autori ne aggiungono anche una terza tratta dalle parole di Elisabetta: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno!». La benedizione divina di Maria è posta in parallelo con quella di Cristo nella sua umanità. Questo parallelismo lascia intendere che Maria, come Cristo, fin dal principio della sua esistenza, era esente da ogni peccato. È degno di nota poi, come abbiamo già accennato a suo tempo, che la benedizione della Madre venga posta prima di quella del Figlio.

Sviluppo storico
Presso i Padri e gli scrittori dei primi secoli la dottrina dell’Immacolata Concezione è implicita nel frequente parallelismo Eva-Maria (S. Giustino, S. Ireneo e Tertulliano), il quale comporta una doppia relazione: di somiglianza (come Eva uscì pura dalle mani di Dio, così Maria doveva uscire immacolata dalle medesime mani) e di opposizione (colei che doveva essere la riparatrice dei danni provocati da Eva non poteva trovarsi coinvolta in essi). Nello stesso periodo S. Ippolito dice che il Salvatore era «un’arca fatta con legni (la Beata Vergine Maria) non soggetti alla putrefazione della colpa». Analoghe espressioni troviamo in seguito in S. Gregorio Taumaturgo, S. Efrem e altri.
Per quanto riguarda l’Occidente, abbiamo visto a suo tempo come in particolare S. Ambrogio e S. Agostino escludano da Maria ogni peccato, anche se un testo di S. Agostino, interpretato in senso sfavorevole all’Immacolata Concezione, peserà per secoli in modo negativo su tutta la teologia occidentale.
In Oriente nel V secolo S. Procolo ammise uno speciale intervento di Dio nella formazione della futura Madre del Verbo, affinché fosse una nuova creatura, formata «da un’argilla monda» simile ad Adamo prima del peccato. Teodoro di Ancira oppone Maria ad Eva, dichiarando che «sebbene Maria sia inclusa nel sesso femminile, fu tuttavia esclusa dalla nequizia di quel sesso: fu una Vergine innocente, senza macchia, senza colpa, intemerata, santa di anima e di corpo, come un giglio che sboccia fra le spine».
Nel VII secolo, sempre in Oriente, è S. Sofronio il primo che sembra accennare a una preservazione dalla colpa. Leggiamo infatti: «Hai trovato presso Dio una grazia che nessuno ha ricevuto (…). Nessuno, eccetto te, fu prepurificato».
Verso la fine del VII secolo o agli inizi dell’VIII secolo cominciò a venir celebrata, in Oriente, la festa della Concezione di Maria, come risulta da Andrea di Creta. La prima omelia che si conosca sulla Concezione è quella di Giovanni d’Eubea, contemporaneo del Damasceno. All’oggetto primitivo della festa, che era l’annunzio della miracolosa Concezione di Maria fatta dall’angelo ai genitori (idea che risale al Protovangelo di Giacomo), non aveva tardato ad aggiungersi quello odierno, ossia quello della Concezione passiva della Madre di Dio, dichiarata, non di rado, santa e immacolata. Così Giovanni d’Eubea asserisce un intervento della Santissima Trinità nella formazione di Maria tale da crearla nello stato di giustizia originale.
Nel IX secolo la festa diviene universale nella Chiesa greca.
La festa della «Concezione», istituita dai Greci, restò per lungo tempo ignorata dai Latini. Importata da qualche monaco, venuto dall’Oriente, essa appare in Inghilterra verso il 1060 circa, ma scompare quasi subito, al tempo della conquista normanna (1066), senza lasciare altre tracce all’infuori di un ricordo, unito però a dei rimpianti. È così che essa può rinascere con slancio, grazie alla devozione popolare, verso il 1127-1128, su basi più solide, e passa in Normandia, poi, di là, in tutta l’Europa, nonostante la decisa opposizione di S. Bernardo. L’oggetto della festa, abbastanza indeterminato all’origine, si precisa a poco a poco, non senza un sofferto travaglio. Infatti molti sostenitori della festa non affermavano in senso stretto l’Immacolata Concezione, ma alcuni celebravano semplicemente le primizie della futura Madre di Dio, altri la sua santificazione nel grembo materno. Altri ancora sostenevano la santità originale di Maria, ma con significati molto diversi. Alcuni facevano partire la sua santità dal momento della concezione, altri dal momento della concezione spirituale, cioè dall’infusione dell’anima, che segna l’inizio dell’esistenza personale di Maria.
Una diversità ancora maggiore si riscontrava nei tentativi di spiegazione teologica. Alcuni ad esempio ricorrevano alla strana ipotesi di una particella del corpo di Adamo che sarebbe restata immune dal peccato e trasmessa di generazione in generazione fino a originare Maria.
La difficoltà del problema nasceva innanzitutto dall’idea agostiniana, che dominava tutto il medioevo, secondo cui il peccato originale si trasmetteva a motivo della libido che era necessariamente connessa con l’atto generatore, dopo il peccato originale. In conseguenza di ciò alcuni tentarono di spiegare l’Immacolata Concezione dicendo che l’atto generatore di Gioacchino e Anna era stato miracolosamente esentato dalla libido. Secondo altri (Eadmero) l’effetto della libido era stato miracolosamente sospeso dall’onnipotenza divina.
Vediamo adesso le posizioni dei teologi più noti. Ad aprire il cammino fu S. Anselmo d’Aosta († 1109), ma chi sviluppò il suo pensiero in senso decisamente favorevole all’Immacolata Concezione fu il suo discepolo Eadmero († 1134). Egli fu il primo a scrivere un trattato sull’argomento, dove afferma che la fede popolare è universale su questo punto, e che questa sapienza è più saggia di quella dei dotti:    
«Non poteva forse Dio conferire a un corpo umano di restare libero da ogni puntura di spine, anche se fosse stato concepito in mezzo ai pungiglioni del peccato? È chiaro che lo poteva e lo voleva; e se lo ha voluto lo ha fatto» (potuit plane et voluit; si igitur voluit, fecit).
S. Bernardo e Pietro Lombardo, fra i teologi più noti e più autorevoli del XII secolo, negarono l’Immacolata Concezione (come abbiamo già visto in questo argomento pesava l’eredità agostiniana, sia quanto all’interpretazione del famoso testo riguardante l’Immacolata Concezione, sia quanto alle modalità della trasmissione del peccato originale).                                   
Un secolo più tardi anche S. Alberto Magno e S. Tommaso furono dello stesso parere, soprattutto poiché non vedevano come conciliare questa dottrina con l’universalità della Redenzione di Cristo, supposta chiaramente in Rm 5,12: «Tutti hanno peccato».          
La situazione mutò nel XIV secolo, grazie a Guglielmo di Ware († 1300) e soprattutto al suo discepolo Giovanni Duns Scoto († 1308). Nella sua opera fondamentale, l’Opus Oxoniense, questi si limita a dimostrare la sola possibilità del privilegio mariano, insegnando però l’uguale possibilità dell’opposto, e sciogliendo tutte le ragioni sia favorevoli che contrarie alla sentenza maculista. Per Scoto perciò le due sentenze sono ugualmente possibili. Quale delle due sia stata attuata, lo sa soltanto Dio: «Deus novit». Egli afferma però che sembra probabile attribuire alla Vergine ciò che è più eccellente, purché ciò non ripugni all’autorità della Chiesa o della Scrittura. Allora infatti l’autorità ecclesiastica non si era ancora pronunciata (la Chiesa romana, come fa rilevare S. Tommaso, non celebrava la festa della Concezione), e la Scrittura sembrava apertamente contraria, asserendo l’universalità della colpa originale e della Redenzione. Per questo motivo Scoto procedette con molta cautela e, per il momento, non osò spingersi oltre. Solo più avanti, mosso indubbiamente dalla sua propensione a ritenere più probabile la tesi favorevole all’Immacolata, asserisce che in cielo si trova la Beata Vergine Maria, Madre di Dio, la quale mai gli fu nemica in atto per ragione del peccato attuale né per ragione dell’originale: lo sarebbe stata tuttavia se non fosse stata preservata. Sta in questa parola «preservata» la forza della tesi di Duns Scoto. Infatti Maria, secondo la legge comune, avrebbe dovuto contrarre la colpa originale, ma grazie ai meriti di Cristo Salvatore fu preservata da tale colpa. In tal modo non soltanto la Beata Vergine è stata redenta da Cristo, ma lo è stata in modo più sublime di chiunque altro.
Scrive bene il Melotti: «Scoto ha il grande merito di far cadere l’obiezione fondamentale formulata dai negatori con il suo argomento sul Perfetto Mediatore: la concezione immacolata di Maria, lungi dall’essere una mancanza di redenzione, è anzi la redenzione portata al massimo grado – è una redenzione «preservativa» -. Questa redenzione è non solo possibile, ma richiesta. Cristo infatti, essendo il perfetto mediatore, doveva porre un atto di mediazione perfetta: lo ha fatto a favore della Madre Sua».           
Si può anche aggiungere che tale redenzione perfetta andava applicata a Colei che era chiamata a collaborare in maniera tutta speciale e unica all’opera della redenzione.
Durante tutto il XIV secolo il campo teologico si mantenne diviso fra i contrari e i favorevoli. Il constrasto era particolarmente forte tra i Francescani (più vicini al popolo, e quindi sostenitori dell’Immacolata Concezione) e i Domenicani (contrari, poiché più sensibili alle argomentazioni teologiche). Verso la metà del secolo, in Francia e in Aragona, per opera di alcuni maestri domenicani, si originò una violenta controversia. Le autorità ecclesiastiche imposero il silenzio e la ritrattazione ai suddetti maestri. Il frutto di questo dibattito fu un deciso progresso della tesi immacolista. Allora cominciò a comparire l’argomento biblico, specialmente quello fondato sul Protovangelo (Gen 3,15) e sul saluto angelico (Lc 1,28). Anche la festa della Concezione, in quel tempo, si diffuse ovunque, specialmente fra i religiosi.
All’inizio del XV secolo la posizione immacolista era comune presso quasi tutti gli Ordini religiosi, eccettuati i Domenicani. Nel Concilio di Basilea (17 settembre 1439) fu emesso un decreto in cui si dichiarava che la dottrina favorevole all’Immacolata Concezione era pia, conforme al culto della Chiesa, alla fede cattolica, alla Sacra Scrittura e alla retta ragione, e perciò doveva essere seguita da tutti i cattolici, con proibizione a chiunque di insegnare il contrario. Ma il Concilio, nel tempo in cui emise questa definizione, non era più legittimo, per essersi sottratto alla dipendenza dal Romano Pontefice. Esso contribuì tuttavia in modo eccezionale all’affermarsi della pia sentenza, e rese universale di fatto la festa della Concezione.
I teologi domenicani però non desistettero dalla loro decisa opposizione, tanto che Vincenzo Bandelli, Maestro Generale dell’Ordine (dal 1501 al 1506), giunse ad affermare che «è cosa empia ritenere che la Beata Vergine non sia stata concepita nel peccato originale».
A questo punto cominciò a intervenire la Santa Sede. Sisto IV, francescano, il 27 febbraio 1477 promulgava la costituzione Cum praecelsa con la quale approvava solennemente la festa dell’Immacolata Concezione, celebrata in molti luoghi, con la Messa e l’Ufficio propri. Al tentativo di svuotare il significato di questa festa il Papa risponde con la Bolla Grave nimis, minacciando la scomunica. Alla fine si ebbe l’adesione alla sentenza immacolista da parte delle Università di Parigi (che la impose con giuramento nel 1469 ai suoi dottori), e di quelle di Oxford, Cambridge, Tolosa, Bologna, Vienna.                                        
Questa corrente decisamente favorevole all’Immacolata Concezione nella Chiesa latina provocò una reazione opposta nella Chiesa greca, per cui non pochi vescovi e teologi ortodossi si schierarono fra gli avversari del privilegio. Questa opposizione si accentuerà ancora di più con la proclamazione del dogma nel 1854.       
In Occidente invece la dottrina favorevole all’Immacolata si avviava verso il trionfo. L’indagine biblica e patristica si arricchì di nuovi dati, per cui nella sessione VI del Concilio di Trento (1556) non mancò una forte corrente favorevole alla definizione dogmatica del privilegio. Siccome però il Concilio era stato riunito per fare fronte al protestantesimo e non per dirimere controversie interne al mondo cattolico, l’assemblea conciliare si limitò ad aggiungere al decreto sul peccato originale la seguente significativa dichiarazione:  
«Dichiara tuttavia questo Santo Sinodo che non è nelle sue intenzioni di comprendere nel decreto relativo al peccato originale la Beata e Immacolata Vergine Maria, madre di Dio, ma che sono da osservarsi le costituzioni del Papa Sisto IV sotto le pene contenute in esse e che vengono rinnovate» (DS 1516).
Nel XVII secolo si ebbero gli interventi di altri tre Papi: Paolo V, che proibiva di attaccare in pubblico l’Immacolata Concezione; Gregorio XV, che impediva di attaccarla anche in privato; Alessandro VII, che con la costituzione Sollicitudo omnium Ecclesiarum (8 dicembre 1661) determinava, contro le false interpretazioni dei pochi avversari rimasti, l’oggetto preciso della festa, dichiarando che si trattava della preservazione dell’anima della Vergine dalla colpa originale, nel primo istante della sua creazione e infusione nel corpo, per speciale grazia e privilegio di Dio, in vista dei meriti di Cristo suo Figlio, Redentore del genere umano. Rinnovò inoltre i provvedimenti dei suoi predecessori contro i sostenitori della sentenza contraria. L’effetto di questa Costituzione fu incalcolabile. Diocesi, re e popoli si misero sotto la protezione dell’Immacolata. Varie Congregazioni vennero fondate in suo onore. I teologi raddoppiarono le loro fatiche per difendere il singolare privilegio e appianare la via alla definizione. Molti (tra cui ad esempio S. Alfonso) giunsero fino al punto di obbligarsi con voto a versare il proprio sangue, se fosse stato necessario, per la difesa del privilegio.
 Clemente XII il 6 dicembre 1708 estendeva per legge la festa dell’Immacolata a tutta la Chiesa. Durante il secolo l’entusiasmo dei fedeli e dei dotti andò sempre crescendo, come crebbero anche le suppliche rivolte ai Romani Pontefici per la definizione dogmatica.
Chi si decise ad accogliere queste richieste fu Pio IX, il quale non appena asceso al soglio pontificio (1846) iniziò le pratiche necessarie. Interpellati tutti i vescovi (2 febbraio 1849) ne ebbe una risposta plebiscitaria: su 665 risposte 570 erano entusiasticamente favorevoli, otto contrarie, le rimanenti più o meno incerte sull’opportunità della definizione. La commissione incaricata diede risposta favorevole alla domanda «se vi siano nella Sacra Scrittura testimonianze che provino solidamente l’immacolato concepimento di Maria».
In tal modo il Papa Pio IX poté procedere alla solenne definizione dogmatica l’8 dicembre 1854, alla presenza di oltre duecento fra cardinali e vescovi, e di una incalcolabile moltitudine di fedeli esultanti.

 Approfondimento teologico        
L’Immacolata Concezione non è una verità a sé stante, ma si inserisce armoniosamente nell’insieme delle altre verità di fede. Può essere molto utile considerarla alla luce delle Tre Persone divine.

A) NELLA LUCE DEL PADRE
L’Immacolata Concezione è un segno dell’amore assolutamente gratuito e preveniente del Padre. Leggiamo in Ef 1,4: «Dio ci ha scelti in Cristo fin da prima della creazione del mondo perché fossimo santi e immacolati al suo cospetto nella carità». La grazia è sempre gratuita, non meritata, almeno la prima grazia. «Siamo stati giustificati gratuitamente per la sua grazia» (Rm 3,24). L’Immacolata Concezione è il segno più chiaro ed evidente della gratuità dell’amore divino. Maria Santissima non ha meritato l’Immacolata Concezione. Essa è un puro dono.

Scrive il De Fiores:  
«Nell’Immacolata Concezione non è questione di fede o accettazione libera da parte di Maria riguardo alla salvezza: questa rimane un segno luminoso della gratuità dell’amore di Dio, che si attua ancor prima della risposta responsabile della creatura. L’Immacolata proclama, alla testa della schiera dei salvati: « Soli Deo gloria! ». La preservazione dal peccato e la pienezza di grazia non sono frutto della sua fede o libertà orientata a Dio e neppure delle sue opere; esse si iscrivono, al pari di tutti i singoli atti di giustificazione, nell’elezione salvifica del Padre che decide dall’eternità di amare gli uomini gratuitamente al di là del peccato e del merito. L’Immacolata Concezione manifesta l’assoluta iniziativa del Padre e significa che fin dall’inizio della sua esistenza Maria fu avvolta dall’amore redentivo e santificante di Dio».

B) NELLA LUCE DEL FIGLIO
L’Immacolata Concezione mostra la perfezione della redenzione operata dal Figlio, il Verbo incarnato. Abbiamo già visto l’argomentazione elaborata da Giovanni Duns Scoto riguardo al perfetto Mediatore, o Redentore. Gesù si rivela Redentore veramente perfetto quando non soltanto libera, ma addirittura preserva dal peccato. Quindi l’Immacolata Concezione, lungi dal compromettere la necessità e l’universalità della redenzione, la esalta al massimo grado. Come diceva Santa Teresa di Lisieux, l’innocente è colui al quale non è stato perdonato molto, ma tutto!
Inoltre l’Immacolata Concezione si addice perfettamente a Colei che è chiamata a essere la Madre di Dio. Nella Colletta della Messa dell’Immacolata leggiamo: «O Dio, che nell’Immacolata Concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio…». E così pure nel Prefazio: «Tu hai preservato la Vergine Maria da ogni macchia di peccato originale, perché, piena di grazia, diventasse degna Madre del tuo Figlio…». Maria è stata concepita immacolata poiché era destinata a essere la Madre di Dio. Questo privilegio è tutto relativo al Figlio.    
Ricordiamo ancora come il Concilio Vaticano II metta in rapporto l’Immacolata Concezione con la prontezza e la perfezione con cui Maria accolse l’annuncio dell’Angelo relativo all’Incarnazione del Verbo, e vi acconsentì:         
«Abbracciando con tutto l’animo e senza peso alcuno di peccato la volontà salvifica di Dio, consacrò totalmente se stessa quale Ancella del Signore alla persona e all’opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione sotto di Lui e con Lui, con la grazia di Dio onnipotente».
Maria fu concepita immacolata per poter essere totalmente disponibile all’opera della Redenzione compiuta dall’eterno Figlio del Padre.

c) NELLA LUCE DELLO SPIRITO SANTO
Maria Immacolata mostra nel modo più perfetto la santificazione operata dallo Spirito Santo. Infatti, come dice il Concilio,  
«(Maria) è la tutta santa, immune da ogni macchia di peccato, dallo Spirito Santo quasi plasmata e resa nuova creatura».
Lo Spirito Santo abita e vive in lei, sin dal primo istante della sua esistenza, come sottolinea in modo tutto particolare S. Massimiliano Kolbe, che giunge a parlare, sia pure in modo sempre teologicamente corretto, di una «quasi incarnazione» dello Spirito Santo in Maria.
Quella santificazione che noi riceviamo nel battesimo, che ci riempie della grazia dello Spirito Santo, con le virtù e i doni a essa connessi, Maria l’ha ricevuta in pienezza sin dall’inizio. Essa è fin dal primo istante il Tempio dello Spirito Santo.

L’esenzione da ogni colpa attuale

Il Concilio di Trento dichiara:  
«Nessun giusto può evitare per tutta la sua vita tutti i peccati, anche i veniali, senza uno speciale privilegio di Dio, come la Chiesa ritiene della Beata Vergine» (DS 1573).
Pio XII, da parte sua, nell’Enciclica Mystici Corporis afferma che la Vergine Madre di Dio «fu immune da ogni macchia, sia personale sia ereditaria».
In base a queste affermazioni del Magistero, della Tradizione e del senso comune del Popolo cristiano i teologi ritengono che l’esenzione della Vergine Maria da ogni macchia di peccato attuale sia una verità prossima alla fede (fidei proxima).
Abbiamo visto nella parte storica come questo privilegio mariano non sia stato colto immediatamente con piena chiarezza da parte di tutti, ma come poi la sua accettazione sia diventata patrimonio comune dei teologi e dei fedeli, sia in Oriente che in Occidente.

Vediamo l’approfondimento di S. Tommaso nella Somma Teologica (III, q. 27, a. 4):    
«Quelli che Dio sceglie per un compito speciale, li prepara e li dispone in modo che siano idonei ai loro doveri, secondo l’affermazione di S. Paolo (2 Cor 3,6): « Ci ha resi ministri adatti di una nuova Alleanza ». Ora, la Beata Vergine fu scelta per essere la madre di Dio. Non si può quindi dubitare che Dio con la sua grazia l’abbia resa idonea a ciò, secondo le parole dell’Angelo (Lc 1,30 s.): « Hai trovato grazia presso Dio: ecco tu concepirai », ecc. Ma ella non sarebbe stata degna madre di Dio se avesse talvolta peccato. Sia perché l’onore dei genitori ridonda sui figli, come dice la Scrittura (Pr 17,6): « Onore dei figli i loro padri », per cui all’opposto la colpa della madre sarebbe ricaduta sul Figlio. – Sia anche perché ella aveva un’affinità singolare con Cristo, che da lei prese il corpo. Ora, S. Paolo (2 Cor 6,15) afferma: « Quale intesa tra Cristo e Beliar? ». – Sia ancora perché in lei abitò in modo del tutto singolare, non solo nell’anima, ma anche nel seno verginale, il Figlio eterno, che è « la Sapienza di Dio » (1 Cor 1,24), di cui sta scritto (Sap 1,4): « La sapienza non entra in un’anima che opera il male, né abita in un corpo schiavo del peccato »».                    
«Dobbiamo quindi affermare in modo assoluto che la Beata Vergine non commise mai alcun peccato attuale né mortale né veniale, così da avverare le parole del Cantico (4,7): « Tutta bella sei tu, amica mia, in te nessuna macchia », ecc.».

La pienezza di grazia
È l’aspetto positivo della santità, quello sul quale insistono maggiormente i dottori orientali, per i quali Maria è prima di tutto la Panaghia, la Tutta Santa. Leggiamo ancora una volta S. Tommaso, nell’articolo della Somma in cui egli si domanda se la santificazione iniziale della Vergine le abbia dato la pienezza della grazia (III, q. 27, a. 5). Dopo aver ricordato le parole dell’Angelo: «Ave, piena di grazia» (Lc 1,28), e il commento di S. Girolamo secondo cui «in Maria la grazia si riversa tutta insieme nella sua pienezza», l’Aquinate scrive così:  
«Quanto più si è vicini a una causa, tanto più se ne risentono gli effetti, come scrive Dionigi (De cael. hier. 4, 1) notando che gli Angeli, in quanto più prossimi a Dio, partecipano delle perfezioni divine più degli uomini. Ora, Cristo è il principio della grazia: secondo la divinità come causa principale, secondo l’umanità invece come causa strumentale, in base alle parole evangeliche (Gv 1,17): « La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo ». Ma la Beata Vergine era vicinissima a Cristo secondo la natura umana, che egli prese da lei. Essa quindi dovette ricevere da Cristo una pienezza di grazia superiore a quella di tutti gli altri».
Rispondendo poi a una difficoltà riguardante il confronto fra la pienezza di grazia in Cristo e in Maria S.

Tommaso così risponde:  
«Dio dona a ciascuno la grazia che gli compete secondo il compito per cui lo sceglie. Poiché dunque Cristo, in quanto uomo, fu predestinato e scelto per essere « Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione » (Rm 1,4), egli ebbe come privilegio personale tanta pienezza di grazia da farla poi ridondare su tutti, poiché « dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto » (Gv 1,16). Invece la Beata Vergine Maria ottenne tanta pienezza di grazia da essere vicinissima all’autore della grazia: in modo da accogliere in sé colui che è pieno di ogni grazia, e dandolo alla luce far giungere in certo qual modo la (sua) grazia a tutti».
La seconda difficoltà fa forza sul fatto che Maria crebbe nella grazia, quindi non poteva averla in pienezza sin dall’inizio. Ecco la risposta:   
«Nell’ordine naturale prima c’è la perfezione dispositiva, per esempio, quella della materia rispetto alla forma. Al secondo posto si ha la perfezione superiore della forma: infatti il calore proveniente dal fuoco è più forte di quello che ha disposto la legna a prendere fuoco. Al terzo posto poi c’è la perfezione del fine raggiunto: come quando il fuoco, salito al suo luogo naturale, esplica tutte le sue qualità».
«Similmente nella Beata Vergine ci fu una triplice perfezione di grazia. Prima quella dispositiva, che la rese idonea a essere madre di Cristo, e questa fu la perfezione prodotta dalla sua santificazione. La seconda perfezione di grazia fu invece prodotta dalla presenza in lei del Figlio di Dio incarnato nel suo seno. La terza perfezione poi è quella finale, che ella possiede nella gloria».
«Che poi la seconda perfezione sia superiore alla prima, e la terza alla seconda, risulta (…) dal progresso nel bene. Infatti nella sua prima santificazione ottenne la grazia che la inclinava al bene; nel concepimento del Figlio di Dio ebbe la consumazione della grazia che la confermava nel bene; nella glorificazione infine ebbe il coronamento della grazia che la costituiva nel godimento di ogni bene».                                                                                         
La terza difficoltà fa notare che Maria non esercitò mai certe grazie, come quella della sapienza, o quella dei miracoli, o quella della profezia. Quindi tali grazie sarebbero state inutili. Risponde S. Tommaso:    
«Non si può dubitare che la Beata Vergine, come Cristo, abbia ricevuto in modo eccellente sia il dono della sapienza, sia la grazia dei miracoli e della profezia. Ma l’uso di queste e di altre grazie simili non fu concesso a lei nel medesimo modo che a Cristo, bensì come conveniva alla sua condizione. Ebbe infatti l’esercizio del dono della sapienza nella contemplazione, come risulta dalle parole (Lc 2,19): « Maria serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore ». Non ebbe invece l’uso della sapienza nell’insegnare, poiché ciò non si addiceva a una donna, secondo le parole di S. Paolo (1 Tm 2,12): « Non concedo ad alcuna donna di insegnare ». – Non era poi opportuno che compisse miracoli durante la sua vita, poiché allora i miracoli avevano il compito di confermare la dottrina di Cristo: perciò era bene che facessero miracoli soltanto Cristo e i suoi discepoli, che erano i portatori dell’insegnamento cristiano. Per questo anche di S. Giovanni Battista è detto (Gv 10,41) che « non fece alcun miracolo », perché tutti si volgessero a Cristo. – Ebbe invece l’uso della profezia, come risulta dalle parole (Lc 1,46 ss.): « L’anima mia magnifica il Signore », ecc.».
Possiamo così affermare che in Maria ci fu la santità più perfetta in tutti i sensi, sia nel senso negativo dell’esenzione da ogni peccato, sia nel senso positivo della pienezza di ogni grazia, cioè della pienezza dell’organismo soprannaturale, che comprende la grazia santificante, le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo.

Maria modello di santità

Il Concilio Vaticano II ricorda ai fedeli che  
«la vera devozione a Maria non consiste né in uno sterile e passeggero sentimento, né in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo portati a riconoscere la preminenza della Madre di Dio e siamo spinti a un amore filiale verso la Madre nostra e all’imitazione delle sue virtù».
Queste ultime parole ci introducono nel tema dell’«Imitazione di Maria», sul modello medioevale, che parlava di «Imitazione di Cristo». La Beata Vergine infatti, nei più recenti documenti del Magistero e nella sensibilità dei fedeli, è vista in modo particolare come Colei che realizza nel modo più perfetto tutte le virtù.
Il Concilio ritorna spesso su questo tema, e presenta Maria come «eccellentissimo modello nella fede e nella carità». In particolare la presenta come modello per i sacerdoti:   
«Un esempio meraviglioso di tale prontezza (nel corrispondere alle esigenze della propria missione), i presbiteri lo possono trovare nella Beata Vergine Maria, che sotto la guida dello Spirito Santo si consacrò al mistero della redenzione umana»;

per i religiosi e le religiose:  
«Per l’intercessione della dolcissima Vergine Maria Madre di Dio, la cui vita è regola per tutti, essi progrediranno ogni giorno di più e apporteranno frutti di salvezza più abbondanti»;

per i laici:  
«Modello perfetto di vita apostolica è la Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli, la quale, mentre viveva sulla terra una vita comune a tutti, piena di sollecitudine familiare e di lavoro, era sempre intimamente unita al Figlio suo e cooperò in modo del tutto singolare all’opera del Salvatore».
Mi sembra di poter concludere che se il capitolo VIII dedicato alla Vergine Maria è il coronamento di tutta la Costituzione conciliare Lumen Gentium sulla Chiesa, esso lo è in modo tutto particolare in riferimento al capitolo V, che è un po’ l’anima non solo della Costituzione ma di tutto il Concilio, e che ha per titolo: «L’universale chiamata alla santità nella Chiesa». Maria è l’esempio e il modello di questa santità a cui tutti dobbiamo tendere.

In questi tempi di smarrimento dei valori morali, lo sguardo a Maria Immacolata, può essere per noi bagno di rigenerazione nell’Immacolatezza di una « Donna » tanto grande che « chi vuol grazia ed a Lei non ricorre, sua disianza vuol volare senz’ali »(Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, Inno alla Vergine).

ELIA (Lectio Divina Personaggi Biblici)

http://www.novena.it/Lectio_divina_personaggi_biblici/lectio_vedova.htm

ELIA

Lectio Divina Personaggi Biblici

A cura di fra Vincenzo Boschetto

Invocare
«Concedimi, o Signore, un po’ di tempo per le mie meditazioni sui segreti della tua scrittura. Non chiuderla a me che busso alla sua porta. Non senza uno scopo certamente tu, o Signore, facesti scrivere tante pagine piene di misteri. Non mancano certo gli amanti della parola santa che quali cervi si rifugiano in essa come in una foresta. In essa si ristorano. Scorazzano in essa da un angolo all’altro come in un prato. Vi pascolano. trovano riposo e ruminano. O Signore, fa’ che anch’io giunga a tanto: rivelami la tua scrittura. Ecco, la tua voce è la mia gioia. La tua parola è il desiderio mio oltre ogni desiderio. dammi ciò che amo. Tu sai che io amo: tu mi hai dato di amare. Non abbandonarmi, Signore. Non trascurare questo filo d’erba che ha sete di te. Quando scoprirò i segreti dei tuoi libri, allora ti loderà l’anima mia» (Sant’Agostino).

Lectio (1Re 17,7-16)
17, [7] Dopo alcuni giorni il torrente si seccò, perché non pioveva sulla regione. [8] Il Signore parlò a lui e disse: [9] « Alzati, và in Zarepta di Sidòne e ivi stabilisciti. Ecco io ho dato ordine a una vedova di là per il tuo cibo ». [10] Egli si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella porta della città, ecco una vedova raccoglieva la legna. La chiamò e le disse: « Prendimi un pò d’acqua in un vaso perché io possa bere ». [11] Mentre quella andava a prenderla, le gridò: « Prendimi anche un pezzo di pane ». [12] Quella rispose: « Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un pò di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo ». [13] Elia le disse: « Non temere; su, fà come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, [14] poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non si svuoterà finché il Signore non farà piovere sulla terra ». [15] Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono essa, lui e il figlio di lei per diversi giorni. [16] La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia. Dopo aver presentato la vocazione del profeta Elia come una irruzione di Dio nella storia che viviamo, lasciandoci nel momento in cui Elia “beveva al torrente”. Col presentare la vedova di Sarephta, ci fa da introduzione la secca del torrente, la siccità che aumenta. Quel ‘poco’ carne, pane, acqua finiscono, ed il profeta per continuare il suo ministero, la sua esperienza di Dio, deve essere educato dai poveri a Sarephta, città della Fenicia e quindi terra pagana. Ci incamminiamo in punta di piedi in questo brano, con una espressione paolina: «Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,27-29). In queste parole possiamo leggervi la vocazione di ciascuno di noi, anche della persona che, come Geremia, risponde al Signore così: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare, perché sono giovane» (1,6). È una debolezza che viene premiata, poiché, come è detto, il Signore «rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati […] protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie degli empi» (Sal 146,7.9). Dal Testo leggiamo che il piano di Acab viene sconvolto ed Elia trova rifugio e sostentamento assieme alla vedova e al figlio di lei. La vedova si presenta con abiti da lutto, che raccoglie legna e alle parole del profeta che la invita a prendergli dell’acqua per dissetarlo, ella si presenta accogliente, si mette in movimento, la Parola stessa mette in movimento questa povera donna. Ma il profeta gli chiede insieme all’acqua anche del pane. Certo adesso si presenta una difficoltà per la situazione che la vedova sta vivendo insieme al figlio: «Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un pò di olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo» (v.
12). Il profeta la conforta. La vedova è una donna pagana che mostrandosi nella sua semplicità e spontaneità nella più ardua disperazione, trova motivo di fiducia nella parola del profeta, nella
Parola del Signore tanto da mettere in atto quanto dice il profeta. L’obbedienza di questa donna ha permesso di anteporre la ragione a quanto le veniva detto, tutto ha permesso l’incontro con Dio, tanto che alla fine, la vedova farà la sua professione di fede: «Ora so che tu sei un uomo di Dio e che la vera parola del Signore è sulla tua bocca» (1Re 17,24). Questa donna diventa modello di obbedienza, modello di ascolto di colei che accoglie la Parola con fede, perché «La fede è fondamento delle cose che si sperano e
prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1). Il profeta sperimenta a casa di questa pagana, di questa vedova l’accoglienza e la solidarietà e la Parola e la Carità non si esauriscono. La vedova è simbolo di una realtà piccola, povera (infatti Sareptha è una piccola città), dove ognuno può collocarsi, trovare il senso della sua vocazione: l’amore di Dio e l’amore del prossimo e il profeta, ha trovato senso alla sua vocazione.
La vedova per ciascuno di noi è esempio di condivisione dei valori che non si esauriscono mai, nonostante la siccità dominante all’esterno. Anche Gesù presenta questo esempio di vita (cfr. Mc 12,41-44; cfr. anche Lc 4,25-26), ad andare alla sua scuola: ella è come Gesù… dona tutto se stessa (cfr. Lc 10,33-37). Anche in questa povera donna si manifesta una chiamata, un dono del Signore: essere profeta. Infatti, «Chi accoglie un profeta… avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche un solo bicchiere di acqua fresca auno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,41-42). Da queste parole traspare che Gesù non si aspetta che i suoi discepoli, i suoi profeti vengano accettati in patria (cfr. Lc 4,24-26), ma c’é una missione che Lui ha ricevuto e per la quale è disposto a offrire la sua vita. In qualche modo, anche la vedova di Sareptha offre la sua vita partendo dall’ascolto della parola del profeta nella condivisione della propria esistenza. L’espressione «non temere…» (v. 13) è la stessa parola di Dio che passa nella vita di tante persone che troviamo nella Bibbia, ma anche al di fuori di essa, perché è la carezza di Dio che tocca il cuore e chiama alla vita e alla donazione di sé. La vedova è segno di una continua presenza di Dio nella storia di chi a Lui si affida per camminare, accogliere la Sua parola nella propria esistenza anche quando la vita si presenta dura, «Con tutta la tua anima e con tutta la tua forza» (Dt 6,4-5). Nella Mishnà, una parte del Talmud (sec. II d.C.), troviamo abbozzata una risposta: «Con tutta l’anima» vuol dire «perfino se Egli ti strappa l’anima», cioé fino al martirio; «con tutta la tua forza» significa «con tutti i tuoi beni», cioé con tutte le tue sostanze, alla vedova viene chiesto anche il figlio, il suo bene più prezioso, come lo fu per Abramo: «…prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,2). La vedova è colei che si fida di Dio senza riservare niente per sé e senza aspettarsi da lui alcun miracolo, perché capace di giocare la propria vita su Dio, con un atteggiamento di fiducia, di apertura e di disponibilità completa alle sue vie e alla sua provvidenza. Ella è come la vedova del Vangelo che «nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,43-44) per divenire icona di una fede vissuta. 


Interrogarsi
1. Nella tua precarietà o condizione di miseria, trovi spazio per accogliere la Parola di Dio?
2. Sei capace di obbedire, anteponendo la ragione a quanto ti viene chiesto dalla Parola di Dio, per conoscere “il Dio di Elia”?
3. Sei pronto anche tu, come la vedova, a condividere quel poco che hai senza difficoltà a credere in Dio che ha cura dei poveri?
4. Alle parole «non temere…», anche tu sei pronto a rispondere come la vedova con una sorta di giuramento, di fiducia in Dio, che ispira e guida a scelte di
abbandono totale a lui?

Preghiera
Nella nostra povertà, Signore, gridiamo a te all’estremo delle nostre forze. Tu ci hai guariti, ci hai sollevati dal fango molle della nostra condizione. L’abbondanza di prima si è cambiata in carestia; la città santa e il suo tempio sono diventati Zareptha, città pagana. Siamo rimasti soli; soli con i nostri “figli unici”, senza altro che non sia siccità e fame. Al colmo della solitudine, tu vieni e ci chiedi ancora una volta il “tutto ciò che abbiamo per vivere”. Tu bussi nuovamente alla porta del nostro cuore e ci ricordi che solo “Dio è il Signore”. Ci chiedi “l’acqua della tribolazione e il pane dell’afflizione” e non possiamo darti altro che “un pugno di farina e un po’ d’olio”. Sentiamo, Signore, sulla nostra pelle l’incapacità di dare; non è più come prima quando vivevamo nella ricchezza, ora quel poco che ci resta “lo mangeremo e poi moriremo”. Riempi o Signore la fragile giara della nostra vita, perché ne possiamo mangiare a sazietà e non venir meno alla tua Parola. 

Actio
Per agire nella vita devi sapere che il discepolo del Signore è colui che rende testimonianza non per un ideale astratto ma aderisce pienamente al vangelo secondo l’insegnamento di san Paolo: «Io non mi vergogno del vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza» (Rm 1,16-17).

IL SONNO NELLA SACRA SCRITTURA (Mons. Enrico dal Covolo, Rettore)

http://www.zenit.org/article-32260?l=italian

IL SONNO NELLA SACRA SCRITTURA

Il rettore della Pontificia Università Lateranense introduce il X Congresso Mondiale sulla Sindrome delle apnee nel sonno

di mons. Enrico dal Covolo

ROMA, lunedì, 27 agosto 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’introduzione di monsignor Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, al X Congresso Mondiale sulla “Sindrome delle apnee del sonno”, promosso dal Comitato Scientifico del Congresso (Campidoglio – Pontificia Università Lateranense, Roma, 27 agosto – 1 settembre 2012).
***
Autorità accademiche e civili,
Illustri Membri del Comitato Scientifico promotore del Decimo Congresso Mondiale sulle apnee del sonno,
Cari Colleghi;
mentre – come Rettore della Pontificia Università Lateranense (per antonomasia l’“Università del Papa”), che ospita questo prestigioso evento scientifico –; mentre rivolgo a Voi tutti un deferente e cordiale saluto, desidero proporvi un breve appunto sul sonno nella Sacra Scrittura.
È questo, infatti, il più importante argomento di raccordo fra le tematiche che affronterete nei prossimi giorni, e la sede accademica nella quale le tratterete.
1)La Sacra Scrittura è attraversata dal sonno degli uomini, poiché esso si rivela come una forma adeguata per esprimere la visione di Dio.
Di fatto, è noto che per l’Antico Testamento e per il Giudaismo Dio non si può vedere faccia a faccia, pena la morte di chi cerca di valicare la barriera che lo separa dall’Assoluto. Sin dalle prime pagine del libro della Genesi, Adamo è addormentato da Dio, perché dalla sua costola egli possa trarre Eva, la madre dei viventi (Genesi 2,21-22).
Esempio emblematico del sonno legato alla visione di Dio e dei suoi progetti è poi – dopo Giacobbe (Genesi 28,10-22)– Giuseppe, il patriarca definito per antonomasia “il sognatore”. Egli, mediante i sogni, è capace di identificare la volontà di Dio per sé e il suo popolo (Genesi 37,5-11).
Anche il giovane Samuele vive una particolare esperienza del sonno: ma qui Dio lo desta dal sonno, per costituirlo profeta di Israele (1Samuele 3,11-12).
Con i libri sapienziali e apocalittici, il sonno diventa il luogo privilegiato nel quale Dio rivela la sua volontà per la redenzione finale di Israele, e perché i giusti possano meritare la morte vista come sonno, e non come la fine di tutto.
2) Nel Nuovo Testamento è Matteo l’evangelista che più di tutti gli altri autori si sofferma sul sogno. Non a caso, egli sceglie come personaggio toccato dal sonno Giuseppe, il padre adottivo di Gesù. Di fatto, proprio nel sonno Giuseppe comprende la volontà di Dio su di sé, sulla sua sposa Maria, e su Gesù bambino (Matteo 1-2). La sua vocazione, la fuga in Egitto e il ritorno in patria sono cadenzati dal sonno di Giuseppe, che nel sogno è condotto da Dio attraverso le varie difficoltà.
Significativo è che, mentre Giuseppe il patriarca rivela i sogni da lui sperimentati nel sonno, Giuseppe il padre di Gesù non comunica a nessuno, neanche a Maria, i suoi sogni, ma li conserva nel cuore come uomo giusto e del silenzio. Giuseppe non ha bisogno di rivelare ad altri la volontà di Dio. Vuole solo metterla in pratica, senza tentennamenti.
Così il sonno si manifesta anche come il luogo della prova e della fede, l’elemento su cui discernere, per accogliere o rifiutare il disegno di Dio.
Dall’apocalittica giudaica Paolo mutua il linguaggio del sonno per parlare dei defunti non come morti, bensì come dormienti (1Tessalonicesi 4,13-17). Conviene sottolineare che dal participio greco koimethéntes, qui impiegato, deriva il termine cimitero, che segnala non lo stato della morte o dei morti, bensì quello dei dormienti, in vista della loro partecipazione finale alla risurrezione di Cristo.
3)In conclusione, sono diversi i contributi che il sonno apporta alla teologia e all’antropologia biblica: è il luogo privilegiato in cui, pur non potendo vedere direttamente Dio, l’uomo è comunque destinatario della sua volontà; è anticipazione della condizione mortale, che accomuna tutti gli esseri umani; ed è visto come stato di passaggio verso la vita piena dei credenti, che si uniranno a Cristo.
La proposizione paolina di 1Tessalonicesi 5,10 può essere scelta come conclusiva di una visione positiva e transitoria del sonno: “Sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con il Signore”.
Ma non posso terminare senza fare almeno un cenno al sonno nel tempo della Chiesa. Io sono salesiano, e dunque figlio di un grande sognatore, che si chiama Don Bosco.
Tutta la sua straordinaria opera educativa cominciò con il famoso “sogno dei nove anni”: “A nove anni”, scrive Don Bosco stesso nelle sue Memorie, “a nove anni ho fatto un sogno. Mi sembrava di giocare insieme a tanti ragazzi nel prato dietro alla mia casa. Ma i ragazzi non erano buoni: alcuni urlavano, altri litigavano, altri – addirittura – bestemmiavano. Mi slanciai in mezzo a loro per farli smettere… In quel momento, apparve un uomo maestoso. Mi chiamò per nome: ‘Giovanni!’, e mi ordinò di mettermi alla testa di quei ragazzi…”. Da questo sogno inizia l’avventura educativa di Don Bosco.
Per voi, invece, cominceranno tra breve i lavori di questo Congresso, che vi auguro fecondo di soddisfazioni e di buoni risultati.

INTERPRETAZIONE DI EFESINI 5,23-33 (due link utili)

http://digilander.libero.it/gbe/qbiblistica_risp1.htm

INTERPRETAZIONE DI EFESINI 5,23-33

(ho trovato questa intepretazione del difficile passaggio di Efesini che oggi leggiamo, mi sembra un buona lettura, anche se, secondo me, non è esaustiva del pensiero di Paolo, continuo a cercare qualcosa che…entri più profondamente nel pensiero dell’Apostolo, ossia, in realtà ho trovato una Omelia di San Giovanni Crisostomo su questo passo della lettera agli Efesini, la devo ancora leggere tutta, l’ho trovata in inglese, in inglese ci sono le citazioni ai passi citati nell’Omelia, è lunga, vi metto il link delle due, italiano:
http://www.monasterovirtuale.it/home/la-patristica/s.-giovanni-crisostomo-omelia-xx-sulla-lettera-agli-efesini.html
inglese:
http://thedivinelamp.wordpress.com/2012/08/21/st-john-chrysostoms-homiletic-commentary-on-ephesians-521-32/)

Come deve essere intesa la scrittura di Efesini 5,23-33 riguardo alla condizione femminile? È ancora accettabile che la donna « stia sottomessa al marito »?
Riportiamo prima di tutto il brano in questione:

Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata.
Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo.
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola.
(Ef 5, 23-33)
Questa parola della Bibbia appare in una prima lettura quasi antistorica, antisociale. Una donna che lavorasse in un organismo per la pari dignità dell’uomo e della donna rimarrebbe quasi inorridita: le donne siano sottomesse ai mariti! Come è possibile al giorno d’oggi?
Potremmo svicolare dicendo che questa considerazione appartiene a 2000 anni fa, che fa parte di una cultura maschilista, che oggi stiamo cercando di superare.
Eppure in questo momento mi vengono in mente altre parole che farebbero inorridire un moderno sindacalista: penso alla parabola raccontata da Gesù del padrone della vigna che vaga per la città in cerca di lavoratori e ogni ora manda delle persone a lavorare nella propria vigna. Al termine della giornata paga a ciascuno il salario cominciando dagli ultimi arrivati. A questi da un denaro. Coloro che erano a lavoro fin dalla mattina sperano e pensano che avrebbero percepito un salario più alto. Ma così non fu. E anch’essi ricevettero un denaro.
Che cosa fareste? Non vi ribellereste? Che giustificazione dà il vignaiolo per questo suo comportamento?
<<Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi>>
(Mt 20,13-15)
Ecco la logica usata da Dio. Dio non fa torto, perchè dà a ciascuno secondo quanto era stato promesso. Dio è fedele alle sue promesse. Ma Dio è anche libero e la sua libertà si esprime nell’amore, nel ribaltamento di ogni logica sociale, perchè in questo sta l’amore: nel ribaltamento.
Quando si ama, si pensa a volte di amare perchè… e cerchiamo sempre delle motivazioni. In realtà il vero amore è libero e ama, punto e basta.
Non dico « ti amo perchè… », ma « …perchè ti amo! ».
Prendiamo ad esempio il perdono: il perdono è il dono più elevato che possiamo fare ad una persona. È il PER – DONO. Il dono multiplo, il massimo. E se ci pensiamo è proprio il massimo dal momento che perdonare è la cosa più faticosa, più costosa. Quando perdono cambia qualcosa anche in me.
Anche lo stesso pentimento di chi ci fa un torto, se ci pensiamo, è poca cosa, perchè non sempre quel pentimento riesce a ridarci quanto ci è stato tolto.
Ma Gesù ci invita a perdonare, da questo riconosceranno i suoi discepoli: perdonare non è un dovere, ma un libero atto amore. Non è un atto dovuto, non è la contropartita di qualcosa, uno scambio, ma un dono unilaterale.
Il passaggio dalla logica dello scambio mercantile, a quella della compassione, dell’amore universale: ecco la vera rivoluzione cristiana. Ecco ciò che può rivoluzionare la nostra vita.

SCARDINIAMO LA LOGICA GIURIDICA
1. Ma torniamo al brano di Efesini 5. Paolo non vuol stabilire un sistema giuridico. Non gli interessa. La legge non salva. La legge è solo un binario, ma non è il motore del treno. La legge giuridica non salva la coppia, non fa la loro felicità. Paolo va oltre. Oltre la logica umana. Paolo sta dicendo: se una coppia non è fondata sull’amore, non può stare in piedi. Non è la parità giuridica, la parità dei diritti che rende equilibrata una coppia, ma l’amore. Se tutte le loro azioni sono fondate sull’amore.
Diceva s. Agostino: « Ama e fa ciò che vuoi ».
Non servono molti comandamenti. Basta amare. Della frase di Agostino, spesso, abbiamo preso solo la seconda parte: « fa ciò che vuoi ». Oggi viviamo in questa ottica, nell’ottica di farsi ciascuno la propria legge. Agostino premette l’amore: non quello sdolcinato delle telenovelas, ma quello che sa farsi da parte se necessario per accogliere, l’amore come com-passione, come sentire-insieme, l’amore come elevazione dell’altro, l’amore come andare oltre le apparenze, oltre le illusioni.
Se « questo » amore è il fine e allo stesso tempo il fondamento di ogni nostra azione, allora veramente lo Spirito vive in noi, e noi siamo veramente vivi.

RAPPORTO D’AMORE UOMO-DONNA, COME IL RAPPORTO D’AMORE CRISTO-CHIESA
2. La moglie si sottomette al marito per amore, non perchè deve, ma ama e quindi si sottomette, cioè si affida completamente al marito. Sottomettersi non significa annullarsi, ma « mettersi sotto ». La moglie è chiamata a ricercare la protezione e ad affidarsi completamente al marito.
Il marito è chiamato ad amare la moglie a santificarla, a curarsi di lei come del proprio corpo.
Il tipo di amore che ci viene proposto, non è quello banale della parità. È lo stesso amore che esiste e che circola tra Cristo e la Chiesa: ecco il modello.
L’amore dell’uomo deve essere similea quello di Cristo per la Chiesa. L’amore della donna deve somigliare a quello della Chiesa per Cristo.
In che modo la Chiesa, cioè tutti noi siamo chiamati ad amare il Cristo? Affidandogli completamente la nostra vita, lasciandogli docilmente la guida.
A. AMICIZIA. Ma Cristo in che modo ha amato i suoi discepoli? Ha detto loro: <<non vi chiamo più servi, ma amici>>. AMICI. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, il Salvatore, che si consegnato nelle mani degli uomini, che si è abbandonato a loro, alla loro volontà, che si è lasciato uccidere sulla croce, lui del quale si diceva che fosse figlio di Dio. Lui ci ha chiamato AMICI, come se fossimo sullo stesso piano. Di più: come se avesse bisogno di noi.
Allo stesso modo: l’amicizia deve caratterizzare il rapporto tra uomo e donna. Amicizia, che significa: mi interessi, mi prendo cura di te, soffro insieme a te, gioisco insieme a te.
B. SERVIZIO. Non solo. Gesù non si è limitato a chiamare i suoi apostoli « amici ». Nella notte del venerdì santo, il venerdì prima della sua Pasqua
<<Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto>>
(Giovanni 13,3-5)
Gesù, il Figlio di Dio, ci ha lavato anche i piedi, come uno schiavo qualunque. Lavare i piedi è umiliante, ti abbassa. Così, in questo modo, il marito è chiamato ad amare la moglie: lavandole i piedi,. nascondendo il proprio IO, facendo anche ciò che lo ripugna, mettendola più in alto di se stesso, sottomettendosi a lei.
«La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie».
(1 Corinzi 7,4)
I due non sono più 2, ma 1. Il marito ama la moglie perchè è parte di sè. La moglie ama il marito perchè è parte di sè. Così ci vede Dio, così lo spirito dell’uomo e della donna vengono fusi nel sacramento del matrimonio. Marito e moglie non dovrebbero sentire imperativi categorici: amarsi dovrebbe essere naturale. Rispettarsi, cercare il bene dell’altro, la gioia dell’altro, dovrebbe essere naturale, perchè non sono più 2, ma 1.

(qui ho saltato un commento se volete…sul sito)

RICOLMI DI SPIRITO
6.Prima di parlare del rapporto tra i coniugi Paolo ci dà un comandamento importante: SIATE RICOLMI DI SPIRITO SANTO. Significa: sottomettetevi a Dio, credete a Dio, credete in Dio. Lasciatevi guidare dalla sua Parola, anche quando vi sembra assurdo, anche quando va apparentemente contro i vostri interessi, anche quando sembra tutto inutile, quando sembra di sprofondare nel buio. Mettete Dio al centro!
Se i due coniugi non sono ricolmi di Spirito Santo a nulla varranno i loro sforzi.
È così che i 2 non produrranno un amore circolare, ma a spirale, una spirale che tende ad allargarsi, nel loro cammino verso la Luce, e che tenderà ad abbracciare e ad accogliere non solo se stessi, ma gli altri e saranno una coppia aperta verso la società.

LA DANZA NELLA BIBBIA

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LA DANZA NELLA BIBBIA

Segno di gioia e di gratitudine
La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
“Allora Davide andò e trasportò l’Arca di Dio dalla casa di Obed-Edom nella città di Davide, con gioia. (…) Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore. Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento totale della persona nel movimento ritmico della danza.

Simbologia rituale
Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la Legge (Torà), è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David, Mikal, figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il re Davide che saltava e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso.

La Danza in cerchio: hag
Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari.

Rito Romano
Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
“I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]
—————————
[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto. È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

prima lettura, (Sap 1,13-15; 2,23-24), commento: Credere nel Dio della vita

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PRIMA LETTURA
(Sap 1,13-15; 2,23-24)

COMMENTO

Credere nel Dio della vita

Sono molto chiare, inequivocabili e decisive le parole della prima Lettura in ordine al tema della vita e della morte degli uomini.
Il libro della Sapienza dice che «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi»: perciò non possiamo mai pensare che la morte sia una decisione di Dio.
Anche se prende tutti, la morte e profondamente innaturale. Infatti, tutte le creature, compreso l’uomo, non hanno in sé come un «veleno di morte» che prima o poi le uccida.
Addirittura, il testo dice che non c’è, di per sé, alcun potere della morte sulla creazione: «il regno dei morti non è sulla terra».
In positivo, il destino dell’uomo non è la fine biologica, ma la vita liberata dalla morte («Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità»), perché lo ha fatto «a sua immagine», di Lui che ha la vita in pienezza.
C’è, dunque, una sola giustificazione della presenza della morte: «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo». E’ la volontà di male e di distruzione dell’Avversario nei nostri confronti che ha causato un destino di morte per tutti: dietro alla morte non c’è mai Dio, ma il suo contrario.
Se ci rivolgiamo a Dio con la convinzione di fede che da Lui viene solo la vita, e non la morte, non possiamo sperare altro che la sua vittoria sul diavolo e quindi sulla causa della nostra morte.
Dunque la rassegnazione pietistica alla morte come destinazione e volontà di Dio nei nostri confronti è del tutto estranea, perfino opposta, all’autentica fede biblica.

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