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IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

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 GIOVANNI S. ROMANIDIS

IL PECCATO ORIGINALE SECONDO SAN PAOLO

La traduzione è tratta da:
St. Vladimir’s Seminary Quaterly,
vol. IV, nn. 1-2, 1955-1956.

Introduzione
 Riguardo la dottrina del peccato originale com’è contenuta nell’Antico Testamento e chiarita dall’unica Rivelazione di Cristo nel Nuovo Testamento, nel cristianesimo occidentale, specialmente in quello fondato sullo sviluppo dei presupposti scolastici, continua a regnare una grande confusione che, negli ultimi secoli, sembra aver guadagnato molto terreno nelle problematiche teologiche dell’Oriente ortodosso. In alcune scuole questo problema è stato rivestito di un’aurea di mistificante vaghezza a tal punto che perfino alcuni teologi ortodossi sembrano accettare la dottrina sul peccato originale vedendola semplicemente come un grande e profondo mistero di fede (cfr. Androutsos, Dogmatike, pp. 161-162). Quest’atteggiamento è divenuto certamente paradossale, particolarmente da quando tali cristiani, che non possono definire il nemico dell’umanità [il Demonio], sono gli stessi che affermano illogicamente che in Cristo esiste la remissione di questo misterioso peccato originale. È sicuramente un’opinione molto distante rispetto alla certezza con la quale san Paolo ha affermato che noi “non ignoriamo i pensieri” (noemata) del Demonio (II Cor 2, 11).
Se si mantiene vigorosamente e con fermezza che Gesù Cristo è l’unico Salvatore ad aver portato la salvezza in un mondo bisognoso d’essere salvato, si deve evidentemente sapere che è la natura del bisogno ad aver procurato tale salvezza (Sant’Atanasio, De incarnatione verbi Dei, 4). Sarebbe davvero sciocco esercitare dottori e infermieri a guarire malattie se nel mondo non esistesse alcuna malattia. Analogamente un salvatore che proclama di salvare delle persone che non hanno alcun bisogno di salvezza, è un salvatore soltanto per se stesso.  Indubbiamente una delle cause più importanti dell’eresia sta nel fallimento a capire l’esatta natura della situazione umana descritta nell’Antico e nel Nuovo Testamento per la quale gli eventi storici della nascita, degli insegnamenti, della morte e risurrezione e della seconda venuta di Cristo, rappresentano l’unico rimedio. Il fallimento di tale comprensione implica automaticamente la distorta comprensione di quanto Cristo ha fatto e continua a fare per noi e della nostra conseguente relazione con Lui all’interno del Regno di salvezza. L’importanza d’una definizione corretta sul peccato originale e sulle sue conseguenze non può mai essere esagerata. Qualsiasi tentativo di minimizzarla o di alterare il suo significato comporta automaticamente un indebolimento e, parimenti, un completo malinteso sulla natura della Chiesa, dei sacramenti e del destino umano.
In ogni indagine che voglia approfondire il pensiero di san Paolo e degli altri agiografi apostolici può esserci la tentazione d’esaminare i loro scritti con definiti presupposti, benché molto spesso inconsci, contrari alle testimonianze bibliche. Se ci si accosta alla testimonianza biblica, all’opera di Cristo e alla vita della comunità primitiva con predeterminate nozioni metafisiche riguardo alla struttura morale di quello che i più definiscono “mondo naturale” e, di conseguenza, con idee fisse riguardo al destino umano e alle necessità dell’individuo e dell’umanità in genere, dalla vita e dalla fede della Chiesa antica, si coglieranno indubbiamente solo gli aspetti che si adattano bene al proprio quadro di riferimento. Allora, se si desidera mantenere costantemente autentica la propria interpretazione delle Sacre Scritture, si dovrà necessariamente procedere a spiegare esaurientemente ogni elemento estraneo ai concetti biblici e, quindi, secondario e superficiale, intendendolo semplicemente come il prodotto d’alcuni malintesi sulla dottrina di certi Apostoli, d’un gruppo di Padri, o di tutta la Chiesa primitiva in genere. Un approccio appropriato all’insegnamento neotestamentario di san Paolo riguardo il peccato originale non può essere trattato in modo fazioso. È incorretto, per esempio, sottolineare eccessivamente la frase di Romani 5, 12 “eph’ho pantes hemarton” per provare che esiste un certo sistema di pensiero riguardo alla legge morale e alla colpa senza prima stabilire il peso delle convinzioni di san Paolo riguardo ai poteri di Satana e alla vera situazione, non solo dell’uomo, ma di tutta la creazione. Sbaglia pure chi tratta il problema della remissione del peccato originale inserendo il pensiero di san Paolo in una struttura antropologica dualistica ignorando, al contempo, i fondamenti ebraici dell’antropologia paolina. Similmente, un tentativo d’interpretare la dottrina biblica della caduta nei termini d’una filosofia edonistica sulla felicità è già condannata al fallimento per il suo rifiuto di riconoscere non solo l’anormalità ma, cosa più importante, le conseguenze della morte e della corruzione.
Un approccio corretto alla dottrina paolina sul peccato originale deve prendere in considerazione la comprensione di san Paolo:
    1) sullo stato decaduto della creazione, inclusi i poteri di Satana, la morte e la corruzione;
    2) sulla giustizia di Dio e la legge e, infine,
    3) sull’antropologia e il destino dell’uomo e della creazione.
Con ciò non si vuole suggerire che nel presente studio ciascun tema sarà trattato dettagliatamente. Tali temi, piuttosto, saranno affrontati solo alla luce del problema principale del peccato originale e della sua trasmissione secondo san Paolo.

La Creazione decaduta
 San Paolo afferma energicamente che tutte le cose create da Dio sono buone (I Tim 4,4). Allo stesso tempo, insiste sul fatto che non solo l’uomo (Rom 5, 12) ma pure tutta la creazione è decaduta (Rom 8, 20). Sia l’uomo che la creazione attendono la redenzione finale (Rom 8, 21-23). Così, nonostante il fatto che tutte le cose create da Dio siano buone, il Diavolo diviene temporaneamente (I Cor 15, 26) “dio di questo secolo” (II Cor 4, 3). Un basilare presupposto di san Paolo è che, sebbene il mondo è stato creato da Dio come una realtà buona, esso si trova ancora sotto il potere di Satana. Il Demonio, comunque, non ha alcun ruolo assoluto poiché Dio non ha abbandonato la Sua creazione (Rom 1, 20).
Secondo san Paolo, la creazione non è quanto Dio intendeva fosse “poiché la creatura è soggetta alla vanità non per volontà propria ma per causa di chi l’ha assoggettata” (Rom 8, 20) Perciò la cattiveria può esistere, almeno temporaneamente, come un elemento parassita a fianco o all’interno di quanto Dio ha creato originalmente come buono. Un ottimo esempio di ciò è colui che vorrebbe fare il bene secondo l’“uomo interiore” ma ne è impossibilitato per l’insito potere del peccato nella carne (Rom 7, 15-25). Benché la realtà creata sia buona e venga ancora mantenuta e governata da Dio, la creazione per se stessa è lontana dalla normalità o dalla naturalità se, per “normale”, intendiamo la natura secondo l’originale e finale destino della creazione. Colui che governa questo mondo, contrariamente al fatto che Dio sostiene ancora la creazione e conserva per se un resto di essa (Rom 11, 5), è il Demonio (II Cor 4, 3).
Cercare di rinvenire in san Paolo una certa filosofia naturale con un universo equilibrato da fisse e inerenti leggi ragionevoli secondo le quali l’uomo può vivere serenamente ed essere felice, significa fare violenza alla fede dell’apostolo. Per san Paolo non esiste alcun mondo naturale con un sistema inerente di leggi morali, poiché tutta la creazione è stata sottoposta alla vanità e al cattivo dominio di Satana subendo il potere della morte e della corruzione (I Cor 15, 56). Per questa ragione tutti gli uomini sono divenuti peccatori (Rom 3, 9-12; 5, 19). Non esiste alcun uomo che non sia peccatore semplicemente perché vive secondo la legge della ragione o la norma mosaica (Rom 5, 13). La possibilità di vivere secondo la legge universale implica pure la possibilità d’essere senza peccato. Tuttavia, per san Paolo, questo è un mito poiché Satana non rispetta le leggi della ragione che fanno vivere rettamente (II Cor 4, 3; 11, 14; Ef 6, 11-17; II Tess 2, 8) e ha sotto la sua influenza tutti gli uomini che nascono sotto il potere della morte e della corruzione (Rom 8, 24).
Che sia creduto o meno, il presente, reale ed attivo potere di Satana dovrebbe provocare il teologo biblista. Egli non può ignorare l’importanza attribuita da san Paolo al potere demoniaco. Facendo diversamente non si comprende per nulla il problema del peccato originale e della sua trasmissione e si finisce pure per equivocare il pensiero degli scrittori del Nuovo Testamento e la fede di tutta la Chiesa antica. Riguardo al potere di Satana per opera del quale viene introdotto il peccato nella vita d’ogni uomo, sant’Agostino, per combattere il pelagianesimo, ha chiaramente mal interpretato san Paolo. Il potere di Satana, la morte e la corruzione dallo sfondo teologico dov’erano posti sono stati collocati in primo piano per rispondere alla controversia sul problema della colpa personale nella trasmissione del peccato originale. In tal modo, san’Agostino ha introdotto un falso approccio filosofico-moralistico che è estraneo al pensiero di san Paolo (Col 2, 8 ) e che non è stato accettato dalla tradizione patristica orientale (Cfr. San Cirillo d’Alessandria, Migne, PG, t. 74, c. 788-789). Per san Paolo Satana non è semplicemente un potere negativo nell’universo. È una realtà personale con volontà (II Tim 2, 26), pensieri (II Cor 2, 11) e metodi falsi (I Tim 2, 14; 4, 14; II Tim 2, 26; II Cor 11, 14; 4, 3; 2, 11; 11, 3), contro il quale i cristiani devono intraprendere un’intensa battaglia (Ef. 6, 11-17) poiché possono essere ancora tentati da lui (I Cor 7, 5; II Cor 2, 11; 11, 3; Ef 4, 27; I Tes 3, 5; I Tim 3, 6; 3, 7; 4, 1; 5, 14). Egli è dinamicamente attivo (II Cor 11, 14; 4, 3; Ef 2, 2; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tess 2, 9; I Tim 2, 14; 3, 7; II Tim 2, 25-26) e combatte per la distruzione della creazione senza attendere con semplice passività in uno spazio circoscritto per accogliere coloro che decidono razionalmente di non seguire Dio e le leggi morali inerenti ad un universo naturale. Satana è pure capace trasformare se stesso in angelo di luce (II Cor 11, 15). Ha a sua disposizione miracolosi poteri di perversione (II Tess 2, 9) e ha per collaboratori eserciti di poteri invisibili (Ef 6, 12; Col 2, 15). Egli è “il bene di questo secolo” (II Cor 4, 4), colui che ha ingannato la prima donna (II Cor 11, 3; I Tim 2, 14). È lui che ha condotto l’uomo (Ibid.) e tutta la creazione nel sentiero della morte e della corruzione (Rom 8, 19-22). Il potere della morte e della corruzione, secondo Paolo, non è negativo ma, al contrario, positivamente attivo. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56) che, a sua volta, fa regnare la morte (Rom 5, 21). Non solo l’uomo ma tutta la creazione è stata assoggettata alla tirannia del suo potere (Rom 8, 21) e ora attende la redenzione. Perciò la creazione stessa sarà consegnata dalla schiavitù della corruzione (Rom 8, 20). Assieme con la distruzione finale di tutti i nemici di Dio, la morte – l’ultima e probabilmente la maggior nemica – sarà distrutta (I Cor 15, 24-26). Allora la morte sarà inghiottita dalla vittoria (I Cor 15, 54). Per san Paolo la distruzione della morte è parallela alla distruzione del Demonio e delle sue forze. La salvezza dalla prima significa la salvezza dagli altri (Col 2, 13-15; I Cor 15, 24-27; 15, 54-57).
È ovvio che le espressioni paoline riguardanti la creazione decaduta, Satana e la morte non offrono alcuno spazio a qualsiasi tipo di dualismo metafisico o a qualsiasi divisione mentale con la quale si farebbe di questo mondo un dominio intermedio quasi esso fosse, per l’uomo, una pietra di guado tra la presenza di Dio e il regno di Satana. L’idea di tre piani nella storia in cui Dio con i suoi seguaci e gli angeli occuperebbero quello superiore, il Demonio la base e l’uomo nella sua carne il piano intermedio, non trova alcun posto nella teologia paolina. Per Paolo tutte le tre realtà si compenetrano. Non esiste alcun mondo intermedio e neutro dove l’uomo possa vivere secondo la legge naturale ed essere giudicato per ricevere la felicità alla presenza di Dio o per meritare il tormento in abissi tenebrosi. Al contrario, tutta la creazione è dominio di Dio ed Egli non può essere contaminato dal male. Tuttavia, nel suo dominio esistono altre volontà che Egli ha creato le quali possono scegliere sia il Regno di Dio sia il regno della morte e della distruzione.
Contrariamente al fatto che la creazione di Dio è essenzialmente buona, il Demonio ha contemporaneamente e parassitariamente trasformato questa stessa creazione in un temporaneo regno per se stesso (II Cor 4, 3; Gal 1, 4; Ef 6, 12). Il Demonio, la morte e il peccato stanno regnando in questo mondo, non in un altro. Il regno delle tenebre e quello della luce si stanno facendo guerra nel medesimo luogo. Per questa sola ragione l’unica vittoria possibile sul Diavolo è la risurrezione dalla morte (I Cor 15, 1 e ss.). Non esiste alcuna fuga dal campo di battaglia. L’unica scelta possibile per ogni uomo è combattere attivamente il Demonio condividendo la vittoria di Cristo, o accettare le falsità del Diavolo volendo credere che tutto va bene ed è tutto normale (Rom 12, 2; I Cor 2, 12; 11, 32; II Cor 4, 3; Col 2, 20; II Tess 2, 9; II Tim 4, 10; Col 2, 8; I Cor 5, 10).

La giustizia di Dio e la Legge
 Secondo quant’è stato detto, per san Paolo la creazione decaduta ha una natura non duplice. Ne consegue che non esiste alcun sistema morale di leggi inerenti ad un universo normale e naturale. Perciò quello che l’uomo accetta come giusto e buono, partendo dalle sue osservazioni sulle relazioni umane nella società e nella natura, non può essere confuso con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio è stata rivelata unicamente e pienamente solo in Cristo (Rom 1, 17; 3, 21-26). Nessun uomo ha il diritto di sostituire la propria concezione della giustizia a quella divina (Rom 10, 2-4; Fil 3, 8). La giustizia di Dio, com’è rivelata in Cristo, non opera secondo un’obiettiva regola di condotta (Rom 3, 20; 5, 15 ss.; 9, 32) ma, piuttosto, secondo le relazioni personali di fede e d’amore (Rom 9, 30; 10, 10; I Cor 13, 1; 14, 1; I Tim 5, 8). “La legge non è fatta per il giusto ma per gli ingiusti e i disobbedienti, per gli empi e i peccatori…” (I Tim 1, 9-10). La legge non è un male ma un beneficio (I Tim 1, 18) pure spirituale (Rom 7, 14). Tuttavia non è abbastanza perché possiede una natura temporanea e pedagogica (Gal 3, 24). Essa dev’essere adempiuta in Cristo (Gal 5, 13) e superata con un amore personale secondo l’immagine dell’amore di Dio rivelato in Cristo stesso (Rom 8, 29; 15, 1-3; 15, 7; I Cor 2, 16; 10, 33; 13, 1 ss.; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 1; 5, 25; Fil 2, 5; Col 3, 10; I Tes 1, 6). La fede e l’amore in Cristo devono essere personali. Per questa ragione la fede senza l’amore è vuota. “Se avessi tutta la fede, sì da trasportare le montagne, e poi mancassi d’amore non sarei nulla” (I Cor 13, 2). Similmente gli atti di fede privi d’amore non sono d’alcun profitto. “Se pure disperdessi, a favore dei poveri, quanto possiedo e dessi il mio corpo per essere arso, ma non avessi l’amore, non ne avrei alcun giovamento” (I Cor 13, 3). Non esiste possibilità di vita, seguendo delle regole oggettive. Se, seguendo la legge, vi fosse stata qualche possibilità non ci sarebbe stato bisogno della redenzione in Cristo. “La rettitudine sarebbe stata data nella legge” (Gal 3, 21) “Se fosse stata data una legge che avesse il potere di vivificare” (Ibid.). allora non sarebbe stata data ad Abramo la promessa della salvezza ma direttamente la salvezza stessa (Gal 3, 18). La vita non esiste dove sussiste la legge. La vita è, piuttosto, l’essenza di Dio “l’unico che possiede l’immortalità” (I Tim 6, 16). Perciò solo Dio può dare vita e lo fa liberamente secondo la propria volontà (Rom 9, 16), alla sua maniera e al tempo che sceglie come più opportuno (Rom 3, 26; Ef 2, 4-6; I Tim 6, 15).
D’altra parte, è un grave errore attribuire alla giustizia di Dio la responsabilità della morte e della corruzione. In nessun luogo Paolo attribuisce a Dio l’inizio di questi eventi. Al contrario, la natura è stata sottoposta alla vanità e alla corruzione dal Diavolo (II Cor 11, 13; I Tim 2, 14) che, attraverso il peccato e la morte del primo uomo, si è inserito parassitariamente nella creazione della quale faceva già parte anche se, ancora, non ne era il tiranno. Per Paolo la trasgressione del primo uomo ha aperto la via all’ingresso della morte nel mondo (Rom 5, 12); tuttavia questa nemica (I Cor 15, 26) non è certamente il frutto perfetto di Dio. Né può la morte di Adamo, o quella di ciascun uomo, essere considerata la conseguenza d’una decisione punitiva da parte di Dio (San Gregorio Palamas, Kephalia Physica, 52, Migne, PG t. 150-A). San Paolo non suggerisce mai una simile idea!
Per giungere ai presupposti basilari del pensiero biblico è necessario abbandonare ogni schema giuridico di giustizia umana con il quale si attribuisce la punizione o la ricompensa secondo le oggettive regole della moralità. Avvicinandosi al problema del peccato originale con uno schema così ingenuo si dovrà credere che ogni lettore attribuisca ad una penalità comune un’offesa comune ragion per cui tutti condividono la colpa di Adamo (F. Prat, La Theologie de saint Paul, Paris 1924, t. c. pp. 67-68). Questo, però, significa ignorare la vera natura della giustizia divina e negare il potere reale del Diavolo.
Le relazioni che esistono tra Dio, l’uomo e il Diavolo non seguono leggi e regolamenti ma si accordano alla libertà personale. Il fatto che esistano leggi che proibiscono l’uccisione non determina l’impossibilità che tale evento non possa accadere una volta e neppure centinaia di migliaia di volte. Se l’uomo può trascurare l’osservanza di regole e disposizioni di buona condotta, sicuramente non ci si può attendere dal Diavolo l’osservanza di tali regole, visto che quest’ultimo può aiutare l’uomo a prescinderne. La versione paolina del Demonio non coincide certo con quella di chi rispetta semplicemente delle leggi naturali ed esegue la volontà di Dio per sottrarsi alla punizione delle anime in inferno. Ben al contrario, il Demonio combatte Dio attivamente attraverso metodi in cui impiega la maggior falsità possibile cercando di distruggere le opere di Dio con tutta l’astuzia e il potere in suo possesso (Rom 8, 20; I Cor 10, 10; II Cor 2, 11; 4, 3; 11, 3; 11, 14; Ef 2, 1-3; 6, 11-17; I Tess 2, 18; 3, 5; II Tes 2, 9; I Tim 2, 14; 5, 14; II Tim 2, 26). Così la salvezza per l’uomo e la creazione non può venire da un semplice atto di perdono su qualche giuridica imputazione di peccato, né può provenire dal pagamento di qualche soddisfazione al Diavolo (Origene) o a Dio (Roma). La salvezza può provenire solo dalla distruzione del Demonio e del suo potere (Col 2, 15; I Cor 15, 24-26; 15, 53-57; Rom 8, 21).
Secondo san Paolo, è Dio stesso che ha distrutto “i principati e le potenze” inchiodando gli scritti dei decreti che erano contro di noi sulla croce di Cristo (Col 2, 14-15) “poiché è stato Dio che in Cristo ha riconciliato a se gli uomini non imputando loro le mancanze commesse” (II Cor 5, 19). Benché fossimo peccatori, Dio non s’è rivolto contro di noi, ma ha proclamato la sua giustizia a coloro che credono in Cristo (Rom 3, 20-27). La giustizia di Dio non è accordata a quegli uomini che producono opere dalla legge (Rom 10, 3; Fil 3, 8). Per san Paolo la giustizia e l’amore di Dio non sono separati dall’inosservanza di qualche dottrina giuridica d’espiazione. La giustizia di Dio e l’amore di Dio, come sono stati rivelati in Cristo, sono la stessa cosa. Così, nella lettera ai Romani (3, 21-26) l’espressione “amore di Dio” potrebbe essere molto facilmente sostituita da “giustizia di Dio”. È interessante notare che ogni volta in cui san Paolo parla della collera di Dio si riferisce sempre a quella che è rivelata a coloro che sono divenuti disperatamente schiavi, per loro propria scelta, alla carne e al Diavolo (Rom 1, 18 ss.). Benché la creazione sia tenuta prigioniera nella corruzione, coloro che vivono senza la legge, adorando e vivendo erroneamente, sono senza scusa poiché “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” (Rom 1, 20); “perciò Dio li abbandonò nelle concupiscenze dei loro cuori lasciando ch’essi disonorassero sconciamente i loro corpi a vicenda…” (Rom 1, 24). E ancora: “Dio li abbandonò a sentimenti reprobi” (Rom 1, 28). Tutto ciò non significa che Dio ha fatto divenire questi uomini quel che essi sono, quanto piuttosto che li ha abbandonati nello smarrimento totale della corruzione e del potere del Diavolo. Bisogna interpretare così anche altri simili passi (Ad es. Rom 9, 14-18; 11, 8).
L’abbandono di Dio di un popolo già indurito nel proprio cuore contro le opere divine non è ristretto ai gentili ma riguarda pure i giudei (Rom 9, 6). “Poiché, davanti a Dio, non sono giusti coloro che sentono parlare della legge ma saranno salvati solo quelli che la praticheranno” (Rom 2, 13). “Coloro che hanno peccato nella legge saranno giudicati dalla legge” (Rom 2, 12). I gentili, comunque, pur non essendo sotto la legge mosaica non sono scusati dalla responsabilità del peccato personale poiché essi “non avendo la legge sono legge a se stessi; essi mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza e i loro pensieri per cui vicendevolmente ora s’accusano, ora si difendono” (Rom 2, 14-15). All’ultimo giudizio tutti gli uomini, sotto la legge o meno, udenti o meno, saranno giudicati da Cristo secondo il vangelo predicato da Paolo (Rom 2, 16) e non secondo un sistema di leggi naturali. Pure attraverso le invisibili realtà divine – “le invisibili perfezioni di Lui [Dio] fin dalla creazione del mondo, comprendendosi dalle cose fatte, si rendono visibili, quali la sua eterna potenza e la sua divinità” – non esiste alcuna cosa simile ad un corpo di leggi morali inerenti nell’universo. I gentili che “non hanno la legge” ma che “fanno per natura le cose contenute nella legge” non rispettano un sistema naturale di leggi universali. Essi, piuttosto, “mostrano l’opera della legge scritta nei loro cuori e ciò lo attesta pure la loro coscienza”. Anche qui si può vedere la concezione paolina delle relazioni personali tra Dio e l’uomo. “Dio stesso le ha manifestate in loro” (Rom 1, 19) ed è Dio che sta ancora parlando all’uomo decaduto al di fuori della legge, attraverso la sua coscienza e nel suo cuore il quale, per Paolo, è il centro dei pensieri umani (Rom 1, 21; I Cor 4, 5 14-25; Ef 1, 17) e, nei membri del corpo di Cristo (Ef 3, 17), il luogo in cui abita lo stesso Cristo e lo Spirito Santo (II Cor 1, 22; Gal 4, 6).

IL DESTINO DELL’UOMO E L’ANTROPOLOGIA
 Prima d’iniziare il tentativo di determinare il significato del peccato originale, come già precedentemente precisato, è necessario osservare la concezione di Paolo sul destino dell’uomo e la sua antropologia.

Il destino dell’uomo
 Sarebbe un controsenso cercare di leggere nella teologia di Paolo una concezione del destino umano che accoglie come normalità le aspirazioni e i desideri di quello che qualcuno chiamerebbe l’“uomo naturale”. Per l’uomo naturale è normale cercare la sicurezza e la felicità nell’acquisizione e nel possesso di beni oggettivi. I teologi scolastici occidentali hanno spesso utilizzato queste tendenze dell’uomo naturale come prova che, alla fine, l’uomo cerca istintivamente l’Assoluto, possedendo il quale raggiunge l’unico stato in cui è possibile una completa felicità visto che in tale stato è impossibile desiderare qualcosa di più e non esiste nulla di meglio. Questo tipo d’approccio edonistico sul destino umano è ovviamente possibile solo per coloro che ritengono la morte e la corruzione una realtà normale o, al più, la conseguenza d’una decisione punitiva di Dio. In tal maniera costoro accettano che Dio sia la principale causa della morte finendo per attribuirgli realmente il peccato e i poteri della corruzione. Dio stesso diverrebbe sorgente del peccato e del male.
Per san Paolo non esiste alcuna realtà come normale in coloro che non sono posti in Cristo. Il destino dell’uomo e della creazione non può essere dedotto da osservazioni sulla vita dell’uomo e della creazione decaduta. In nessun passo Paolo incoraggia il cristiano a vivere una vita di sicurezza e di felicità secondo lo stile di questo mondo. Al contrario chiama il cristiano a morire a questo mondo e al corpo del peccato (Rom 8, 10; 8, 13; II Cor 4, 10-11; 6, 4-10; Col 2, 11-12; 2, 20; 3, 3; II Tes 1, 4-5) e, pure, a soffrire per il vangelo secondo la forza di Dio (II Tim 1, 8; 2, 3-6; 6, 4-5). Paolo asserisce che “quanti vorranno vivere piamente in Cristo saranno perseguitati” (II Tim 3, 12). È certamente un linguaggio forte per chi cerca sicurezza e felicità (I Tim 6, 7-9). Non è possibile supporre che, per Paolo, le sofferenze senza amore siano considerate dei mezzi per raggiungere il proprio destino. Tale prospettiva sarebbe quella di chi punta al pagamento del proprio lavoro e non di chi ha relazioni personali di fede e d’amore (I Cor 13, 3).
San Paolo non crede che il destino umano consista semplicemente nel conformarsi a delle norme e delle regole naturali che rimangono apparentemente immutate dall’inizio del tempo. La relazione tra la volontà divina e quella umana non comporta né una sottomissione giuridica né una sottomissione edonistica (come insegnano sant’Agostino e i teologi scolastici) ma piuttosto una relazione d’amore personale. San Paolo asserisce che “siamo collaboratori di Dio” (I Cor 3, 9). La nostra relazione d’amore con Dio è tale che, in Cristo, non esiste alcun bisogno della legge. “Se vi lasciate condurre dallo Spirito non siete più sotto la legge” (Gal 5, 18). I membri del corpo di Cristo non sono chiamati ad un livello di vita nel quale si eseguono impersonali ordinanze. Viene loro richiesto di vivere secondo l’amore di Cristo rivelato in Cristo stesso con il quale non c’è bisogno di legge alcuna poiché, tale amore, non cerca il proprio tornaconto (I Cor 13, 4) ma vuole donarsi ad immagine dell’amore divino (Fil 2, 5-8). L’amore e la giustizia di Dio sono state rivelate una volta per tutte in Cristo (Rom 3, 21-28) attraverso la distruzione del Demonio (Col 2, 15) e la liberazione dell’uomo dal corpo di morte e di peccato (Rom 8, 24; 66) in modo tale che l’uomo può ora divenire imitatore dello stesso Dio (Ef 5, 1) il quale ci ha predestinati a divenire “conformi all’immagine del proprio Figlio” (Rom 8, 29) che in nulla cercò di piacere a se stesso ma soffrì per gli altri (Rom 15, 1-3). Cristo morì in modo che coloro che continuavano a vivere non vivessero per loro stessi (II Cor 5, 15), ma divenissero uomini perfetti, “nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13). I cristiani non vivono più secondo i riferimenti di questo mondo (Col 2, 20), pur vivendo in questo mondo, ma hanno assunto la stessa mentalità di Cristo (I Cor 2, 16; Fil 2, 5-8) cosicché in Cristo essi possono divenire perfetti (Col 1, 28). L’uomo non ama più sua moglie seguendo i modelli di questo mondo ma deve amare sua moglie esattamente “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il destino dell’uomo non è la felicità e l’autosoddisfacimento (Fil 2, 20) quanto piuttosto la perfezione in Cristo. L’uomo deve divenire perfetto come sono perfetti Dio (Ef 5, 1) e Cristo (Rom 8, 29; I Cor 10, 33; 15, 49; II Cor 3, 13; Gal 4, 19; Ef 4, 13; 5, 25; Fil 2, 5-8; Col 1, 28; 3, 10). Simile perfezione può essere assunta solo attraverso il personalistico potere dell’amore divino ed altruistico (I Cor 13, 2-3), “che è vincolo della perfezione” (Col 3, 14). Quest’amore non dev’essere confuso con quello dell’uomo decaduto che cerca il proprio tornaconto (Fil 2, 20). L’amore in Cristo non cerca il proprio interesse ma quello degli altri (Rom 14, 7; 15, 1-3; I Cor 10, 24; 10, 29; 11, 1; 12, 25-26; 13, 1 ss.; II Cor 5, 14-15; Gal 5, 13; 6, 1; Ef 4, 2; Fil 2, 4; I Tess 5, 11).Divenire perfetti ad immagine di Cristo non si restringe al regno d’amore ma è inseparabile parte e forma la salvezza di tutto l’uomo come della creazione. Il corpo umile dell’uomo sarà trasformato per divenire “conforme” al “corpo glorioso” (Fil 3, 21) di Cristo. L’uomo è destinato a divenire, come Cristo, perfetto pure nel corpo. “Colui che risuscitò Gesù Cristo dai morti, farà rivivere anche i vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che risiede in voi” (Rom 8, 11). San Paolo afferma che la morte è il nemico (I Cor 15, 26) venuto nel mondo e riguarda tutti gli uomini a causa del peccato d’un solo uomo (Rom 5, 12). La sottomissione alla corruzione non riguarda solo l’umanità ma tutta la creazione (Rom 8, 20-21). Tale realtà, sotto il potere del Diavolo e della morte, è stata evidentemente provvisoriamente frustrata rispetto al suo originale destino. Nelle asserzioni paoline relative al primo e al secondo Adamo è erroneo rinvenire l’idea che Adamo sarebbe morto anche se non avesse peccato. Questo, semplicemente perché il primo Adamo fu fatto (eis psychen zosan), espressione che nell’uso paolino e nel suo contesto significa chiaramente immortale (I Cor 15, 42-49). Adamo avrebbe potuto essere stato creato naturalmente mortale, ma se egli non avesse peccato non sussisterebbe ragione di credere che non sarebbe divenuto immortale per natura (Sant’Atanasio, De incarnatione Verbi Dei, 4-5). Ciò ha implicato certamente gli straordinari poteri che san Paolo attribuisce alla morte e alla corruzione.

L’antropologia di san Paolo

Come abbiamo già detto, la legge, per san Paolo, non è solo buona (Rom 7, 12) ma pure spirituale (v. 14). Ciò è noto all’“uomo interiore” (Rom 7, 22). Tuttavia l’uomo anche se possiede la volontà per fare il bene secondo la legge, non può trovare la forza (Rom 7, 18) perché è “carnale e soggetto al peccato” (Rom 7, 14). Se egli stesso, secondo “l’uomo interiore”, vuole fare il bene e non può, non è molto distante da chi fa il male e ha il peccato dimorante in sé (Rom 7, 20). Così san Paolo si domanda: “Disgraziato che sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24). Essere liberati da questo “corpo di morte” significa essere salvati dal potere del peccato dimorante nella carne. Così “la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2).
È fuorviante cercare d’interpretare questa frase paolina (Rom 7, 13 ss.) secondo un’antropologia dualistica che riferirebbe il termine sarkikos solo agli appetiti più bassi del corpo e specialmente ai desideri sessuali ad esclusione dell’anima. Il termine sarkikos non viene utilizzato da san Paolo in tal senso. Altrove san Paolo ricorda alle persone sposate che essi non hanno autorità sui loro corpi e così non si devono privare gli uni agli altri, “salvo che, acconsentendo, per una volta diate voi stessi al digiuno e alla preghiera. Poi, però, siate come prima perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza” (I Cor 7, 4-5. Vedi anche Rom 15, 27). Ai corinti dichiara ch’essi sono una lettera non scritta con inchiostro “ma con lo spirito del Dio vivente, non in tavole di pietra ma nelle tavole di carne del cuore – en plaxi kardias sarkinais” (II Cor 3, 3). Cristo fu conosciuto secondo la carne (II Cor 5, 16) e “Dio fu manifestato nella carne” (I Tim 3, 16) San Paolo si chiede se, dopo aver piantato realtà spirituali tra i corinti, sia una grande cosa cogliere le sarkika (realtà materiali) (I Cor 9, 11). In nessuna parte Paolo usa l’aggettivo sarkikos per riferirsi esclusivamente alla sessualità o a quello che comunemente viene definito come desideri della carne contrari a quelli dell’anima.
Sembra che san Paolo attribuisca un potere positivo di peccato alla sarx come tale solo nell’epistola ai galati i quali, avendo iniziato nello Spirito, pensano d’essere divenuti perfetti nella carne (Gal 3, 3). Qui la sarx ha una volontà di desiderio contro il pneuma (Gal 5, 16-18). “Le opere della carne sono manifeste e sono le seguenti: fornicazione, impurità, dissolutezza, lussuria, idolatria, venefizi, inimicizie, discordie, gelosie, risentimenti, contese, divisioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze, gozzoviglie e altre simili cose” (Gal 5, 19-21). Molte di queste opere della carne (sarkos) hanno una partecipazione, e spesso un’iniziativa, molto attiva dell’intelletto, indicazione che in questo passo la sarx, per Paolo, è molto di più di quanto ammetterebbe una qualsiasi antropologia dualistica. In ogni evenienza, la carne come tale vista come una forza positiva di peccato basandosi sulla sopravvalutazione della lettera dove Paolo si infuria contro la leggerezza dei galati (Gal 3, 1), non può essere isolata da altri riferimenti in cui il peccato dimora parassitariamente nella carne (Rm 7, 17-18) e dove la carne stessa non solo non è cattiva (I Cor 9, 11; Rom 15, 27; II Cor 3, 3; 4, 11; 5, 16) ma è quella realtà nella quale si è manifestato lo stesso Dio (I Tim 3, 16). La carne in quanto tale non è cattiva ma si è molto indebolita a causa del peccato e dell’inimicizia dimoranti in essa (Rom 7, 17-18; Ef 2, 15).
Per comprendere l’antropologia paolina non bisogna riferirsi all’antropologia dualistica dei greci i quali hanno fatto una chiara distinzione tra l’anima e il corpo quanto, piuttosto, all’antropologia ebraica nella quale sarx e psyche (la carne e l’anima) denotano entrambe l’intera persona vivente e non soltanto una parte di essa (Tresmontant, Essai sur la pensée hebraique, Paris 1953, pp. 95-96). Così nell’Antico Testamento l’espressione pasa sarx (ogni carne) viene impiegata per indicare tutte le realtà viventi (Gen 6, 13-17; 7, 15-21; Sal 135, 25) tra le quali, a maggior ragione e particolarmente, l’uomo (Gen 6, 12; Is 40, 6; Ger 25, 31; 12, 12; Zac 2, 17). L’espressione pasa psyche (ogni anima), viene utilizzata nella stessa maniera (Gios 10, 28, 30, 32, 35, 37; Gen 1, 21, 24; 2, 7; 19; 9, 10, 12, 15; Lev 11, 10). Nel Nuovo Testamento entrambe le espressioni pasa sarx (Mat 24, 22; Mc 13, 10; Lc 3, 6; Rom 3, 20; I Cor 1, 23; Gal 11, 16) e pasa psyche (At 2, 43; 3, 23; Rom 2, 9; 13, 1) vengono usate in perfetto accordo con il contesto vetero testamentario.
Vediamo dunque, che per san Paolo, essere sarkikos (Rom 7, 14) e psychikos (I Cor 2, 14) significa esattamente la medesima cosa. “La carne e il sangue (sarx kai haima) non possono ereditare il regno di Dio” (I Cor 15, 50) poiché la corruzione non può ereditare l’incorruzione (Ibid.). Per tale ragione un soma psychikon è “seminato nella corruzione ma risuscitato nell’incorruzione; seminato nel disonore ma risuscitato nella gloria (I Cor 15, 42-49); seminato nella fragilità ma risuscitato nella forza”. “Viene seminato un soma psychikon e viene risorto un soma pneumatikon. Esiste un soma psychikon ed esiste un soma pneumatikon!” (I Cor 15, 44) Sia il sarkikon che lo psychikon sono dominati dalla morte e dalla corruzione e così non possono ereditare il regno di vita. Questo può riguardare solo il pneumatikon. “Non è precedente il pneumatikon. (l’elemento spirituale) bensì lo psychikon (quello animale). Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre, il secondo uomo, tratto dal cielo, è celeste” (I Cor 15, 46-47). Questo primo uomo diviene eis psychen zosan (un’anima vivente). Per Paolo ciò significa esattamente che diviene psychikon, e quindi soggetto alla corruzione (I Cor 15, 4) poiché “tratto dalla terra è terrestre…” (I Cor 15, 47). Tali espressioni non ammettono alcuna antropologia dualistica. Un soma psychikon “tratto dalla terra, terrestre o una psyche zosa “tratta dalla terra, terrestre” condurrebbero ad una grande confusione se li si collocasse in un contesto dove esiste un dualismo che pone una distinzione tra l’anima e il corpo, tra il basso e l’alto, tra il materiale e il puramente spirituale. D’altronde cosa dovrebbe essere una psyche zosa visto che proviene dalla terra ed è terrestre? Parlando della morte un dualista non potrebbe mai ammettere che un soma psychikon è seminato nella corruzione. Affermerebbe, semmai, che l’anima lascia il corpo il quale è l’unico ad essere seminato nella corruzione.
Né la psyche né il pneuma sono la parte intellettuale dell’uomo. Non abbiamo alcuna prova di ciò né citando I Cor 2, 11 (tis gar oiden anthropon ta tou anthropou ei me to pneuma tou anthropou to en auto?), né citando I Tes 5, 23 (Autos o Theos tea eirenes hagiasai hymas holoteleis, kai holokleron hymon to pneuma kai he psyche kai to soma amemptos en te parousia tou K. H. I. X. teretheie). Non si possono prendere queste espressioni isolandole dal resto degli scritti paolini per cercare di far parlare Paolo con un linguaggio dualistico tomista come fa, ad esempio, F. Prat ne La theologie de st. Paul, t. 2, pp. 62-63. Altrove, parlando contro la pratica di alcuni individui che pregano pubblicamente in lingue sconosciute, san Paolo dice: “Se io prego con un linguaggio sconosciuto prega il mio pneuma ma la mia mente rimane senza alcun frutto. Cos’ho, allora? Pregherò con il pneuma ma pregherò pure con la mente” Qui viene fatta un’acuta distinzione tra il pneuma e il nous (la mente) (I Cor 14, 14-15). Perciò per san Paolo il regno del pneuma non appartiene alla categoria della comprensione umana. È in un’altra dimensione.
Per esprimere l’idea d’intelletto o comprensione tutti i quattro evangelisti utilizzano la parola kardia (cuore) (Mat 13, 15; 15, 19; Mc 2, 6; 2, 8; 3, 5; 6, 52; 8, 17; Lc 2, 35; 24, 15; 24, 38; At 8, 22; 28, 27; Gv 12, 40). La parola nous (mente) è usata una volta sola da san Luca (Lc 24, 45). San Paolo, invece, utilizza entrambi i termini kardia (Rom 1, 21; 1, 24; 2, 5; 8, 27; 10, 1, 6, 8, 10; 16, 18; I Cor 4, 5; 7, 37; 14, 25; II Cor 3, 15; 4, 6; 9, 7; Ef 4, 18; 6, 22; Fil 4, 7; Col 2, 2; 3, 16; 4, 8; I Tes 2, 4; II Tes 2, 16; 3, 5; I Tim 1, 5; II Tim 2, 22) e nous (I Cor 14, 14-19; 2, 16; Rom 7, 23; 12, 2; Ef 4, 23; Tit 1, 15) per definire la facoltà dell’intelligenza. Il nous, comunque, non può essere ritenuto come se fosse le facoltà intellettuali di un’anima immateriale. Esso, piuttosto, è sinonimo di kardia che, a sua volta, è sinonimo di eso anthropon.
Lo Spirito Santo è inviato da Dio nel kardia (II Cor 1, 22; Gal 4, 6) o nell’eso anthropon (Ef 3, 16), e Cristo deve abitare nel kardia (Ef 3, 17). Il kardia e l’eso anthropon sono il luogo in cui dimora lo Spirito Santo. L’uomo si diletta nella legge di Dio secondo l’eso anthropon ma esiste un’altra legge nelle sue membra che muove guerra alla legge del nous (Rom 7, 22-23). Qui il nous è chiaramente sinonimo di eso anthropon che, a sua volta, è il kardia, luogo in cui abita lo Spirito Santo e Cristo (Ef 3, 16-17).
Camminare nella vanità del nous con la dianoia ottenebrata rimanendo, quindi, alienati dalla vita di Dio attraverso l’ignoranza, è un risultato de “l’indurimento del cuore – dia ten perosin tes kardias” (Ef 4, 17-18). Il cuore è la sede della libera volontà umana ed è qui che l’uomo viene accecato (Rom 1, 21) e indurito (Ef 4, 18) a causa della propria scelta o, viceversa, illuminato nella sua comprensione dalla speranza, dalla gloria e dalla forza in Cristo (Ef 1, 18-19). È nel cuore che vengono colti i segreti umani (I Cor 14, 25) ed è qui che Cristo “darà luce ai luoghi nascosti nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori” (I Cor 4, 5).
Sarebbe assurdo interpretare l’utilizzo delle espressioni paoline eso anthropon e nous secondo un’antropologia dualistica ignorando l’uso della parola kardia la quale è in perfetto accordo con gli scritti del Nuovo e dell’Antico Testamento. Usando le parole nous e eso anthropon, Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyche né al pneuma come ad una falcoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica.
Sia nel Nuovo che nell’Antico Testamento si trova l’espressione to pneuma tes zoes (lo spirito di vita), mai to pneuma zon (lo spirito vivente) (Tresmontant, Op. cit., p. 110). Si trova pure psyche zosa (l’anima vivente), mai psyche tes zoes (l’anima di vita) (Ibid.). Il motivo è semplice: la psyche, o la sarx, vivono solo per partecipazione mentre il pneuma è esso stesso principio di vita, dono di Dio affidato all’uomo (Eccl 12, 7). Inoltre, il pneuma “è il solo a possedere l’immortalità” (I Tim 6, 16). Dio dona all’uomo la propria vita increata senza distruggere la libertà umana. In tal modo, la persona non è una forma intellettuale modellata secondo un’essenza predeterminata o secondo un’idea universale di uomo. Il destino della persona non è quello di conformarsi ad uno stato d’automatica contentezza di fronte a Dio dove, per la completa autosoddisfazione e felicità, la volontà umana sia divenuta sterile ed immobile (come, ad esempio, nell’insegnamento neoplatonico di sant’Agostino e, generalmente, nel concetto sull’umano destino da parte dei tomisti cattolico-romani). La personalità dell’uomo non consiste in un’anima immateriale ed intellettuale che ha vita in se stessa e utilizza il corpo semplicemente come luogo da abitare. La sarx o la psyche sono la totalità dell’uomo mentre il kardia è il centro dell’intelligenza. La volontà conserva un’integra indipendenza e può scegliere se indurirsi davanti alla verità o divenire interiormente ricettiva all’illuminazione divina. Il pneuma dell’uomo non è il centro della personalità umana, non è neppure la facoltà che regola le sue azioni quanto, piuttosto, la scintilla di vita divina donata all’uomo come proprio principio vitale. In tal modo, l’uomo può vivere secondo il pneuma tes zoes o secondo la legge della carne che significa morte e corruzione. La vera personalità dell’uomo, comunque, benché creata da Dio rimane al di fuori dell’essenza divina e mantiene una completa libertà. Questo significa che l’uomo può giungere a respingere l’atto creativo per il quale non è stato consultato, o ad accogliere l’amore creativo di Dio vivendo secondo il pneuma, datogli per tale scopo.
“I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello spirito portano alla vita e alla pace” (Rom 8, 6) Coloro che vivono secondo la carne avranno la morte (Rom 8, 13). Coloro che mortificano i desideri della carne, attraverso lo spirito, avranno la vita (Ibid.). Lo spirito dell’uomo, privato dello Spirito vivificante di Dio, è particolarmente debole dinnanzi alla carne dominata dalla morte e dalla corruzione (Rom 8, 9): “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24). Ma “la legge del pneumatos tes zoes (dello Spirito che dà vita) in Gesù Cristo ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 2). Solo coloro il cui spirito è stato rinnovato (Rom 7, 6) dall’unione con lo Spirito di Dio (Rom 8, 9) possono combattere i desideri della carne. Solo coloro che hanno ricevuto lo Spirito di Dio ed ascoltato la Sua voce nella vita del corpo di Cristo sono abilitati a lottare contro il peccato. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rom 8, 16). Benché Dio abbia donato all’uomo il principio di vita (lo spirito), egli può ancora partecipare fragilmente alle opere della carne. Per tale ragione è necessario che i cristiani si guardino non solo dalla fragilità della carne ma pure da quella dello spirito (II Cor, 7, 1). Il battesimo, in cui avviene l’unione tra lo spirito dell’uomo e quello di Dio, non garantisce magicamente l’impossibilità di un’eventuale separazione. Divenire nuovamente schiavi alle opere della carne può seriamente comportare l’esclusione dal corpo di Cristo (Rom 11, 21; I Cor 5, 1-13; II Tes 3, 6; 3, 14; II Tim 3, 5). L’uomo riceve lo Spirito di Dio in modo che Cristo possa dimorare nel suo cuore (II Cor 1, 22; Gal 4, 6; Ef 3, 16-17). “Voi però non siete sotto il dominio della carne ma dello spirito dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” (Rom 8, 9). Se lo Spirito di Dio dimora nel corpo dell’uomo significa pure che egli è membra del corpo di Cristo. Essere privati del primo significa essere esclusi dall’altro. È impossibile rimanere in comunione soltanto con una parte di Dio. La comunione con Cristo, attraverso lo Spirito, è la comunione con l’intera Divinità. Escludere una Persona significa escludere tutte le tre Persone. “Le opere della carne sono manifeste…” (Gal 5, 19) “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Coloro che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rom 8, 7-8). Sono così, le persone schiavizzate al potere della morte e della corruzione nella carne. Esse devono essere salvate da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). D’altra parte coloro che sono stati seppelliti con Cristo attraverso il battesimo sono morti al corpo del peccato e vivono in Cristo (Rom 6, 1-14). Nessuno vive più secondo i desideri della carne ma secondo quelli dello Spirito. “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri” (Gal 5, 22-24).
È chiaro che, per san Paolo, l’unione dello spirito dell’uomo con lo Spirito di Dio nell’esistenza d’amore del corpo di Cristo è vita e salvezza. D’altra parte, vivere aderendo ai desideri della carne dominata dai poteri della morte e della corruzione significa morire: “i desideri della carne portano alla morte” (Rom 8, 6). San Paolo in tutte le sue epistole utilizza le categorie di vita e morte. Dio è vita mentre il Diavolo tiene le redini della morte e della corruzione. L’unità con Dio nello Spirito, attraverso il corpo di Cristo nella vita agapica, significa esistere veramente ricevendo salvezza e perfezione. La separazione dello spirito umano dalla vita divina nel corpo di Cristo comporta la schiavitù ai poteri della morte e della corruzione. Tali poteri sono adoperati dal Diavolo per distruggere le opere di Dio. La vita dello Spirito è unità e amore. La vita secondo la carne è disunione e dissoluzione nella morte e nella corruzione.
È assolutamente necessario afferrare il significato con il quale san Paolo utilizza i termini di sarx, psyche e pneuma per evitare la diffusa confusione dominante nel campo delle indagini sulla teologia paolina. San Paolo non parla mai in termini di anime razionali immateriali contrarie a dei corpi materiali. La sarx e la psyche sono sinonimi e formano, con il pneuma, l’intero uomo. Vivere secondo il pneuma non è seguire gl’istinti più bassi dell’uomo. Vivere secondo la sarx o psyche significa seguire la legge della morte contrariamente a chi, vivendo secondo lo spirito, vive la legge della vita e dell’amore.
Coloro che sono sarkikoi non possono vivere secondo il loro originario destino d’amore altruistico verso Dio e il prossimo, poiché sono dominati dal potere della morte e della corruzione. “Il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56). Il peccato ha regnato con la morte (Rom 5, 21). La morte è l’ultimo nemico ad essere distrutto (I Cor 15, 26). Tanto in quanto l’uomo vive secondo la legge della morte, nella carne, non può piacere a Dio (Rom 8, 8) poiché non vive secondo la legge della vita e dell’amore. “Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero” (Rom 8, 7). La liberazione dai poteri della morte e della corruzione è venuta da Dio che ha inviato il proprio Figlio “in una carne simile a quella del peccato” per liberare l’uomo “dalla legge del peccato e della morte” (Rom 8, 1-11).
Ma benché la forza della morte e del peccato sia stata distrutta dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, la partecipazione a questa vittoria può venire solo attraverso la morte a questo mondo con Cristo nell’acqua del battesimo (Rom 6, 1-14). È solo morendo nel battesimo e continuando a morire alla mentalità e ai costumi del mondo che i membri del corpo di Cristo divengono perfetti come Dio è perfetto.
L’importanza che san Paolo attribuisce al rifiuto della mentalità mondana per vivere secondo “lo spirito di vita” non può essere esagerata. Cercare di presentare la sua insistenza sul radicale rifiuto della mondanità in vista della salvezza come se fosse il prodotto d’un entusiasmo escatologico, significa smarrire completamente la vera base del messaggio neotestamentario. Se la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione ha significato la salvezza e l’unica condizione per vivere secondo l’originale destino dell’uomo, il significato d’essere passati dal regno della morte e delle sue conseguenze a quello della vita nella vittoria di Cristo sulla morte stessa, dev’essere considerato molto seriamente. Per Paolo passare dalla morte alla vita significa essere in comunione con la morte e la vita di Cristo nel battesimo vivendo continuamente nel corpo di Cristo. La nuova vita nel corpo di Cristo, comunque, dev’essere costantemente contraddistinta da un quotidiano morire alla mentalità di questo mondo, dominato dalla legge della morte e della corruzione e posto nelle mani dal Diavolo. La partecipazione alla vittoria sulla morte non deriva semplicemente dal possesso d’una magica fede e da un vago e generico sentimento d’amore verso l’umanità (Lutero). La totale appartenenza al corpo di Cristo può essere realizzata solo morendo nelle acque del battesimo con Cristo stesso e vivendo secondo la legge dello “spirito di vita”. I catecumeni e i penitenti hanno certamente la fede ma non sono ancora passati attraverso la morte del battesimo alla nuova vita. Non sono nella nuova vita neppure coloro che, dopo essere morti alla carne nel battesimo, non hanno perseverato permettendo, in tal modo, al potere della morte e della corruzione di prevalere sullo “spirito di vita”. Riguardo all’insegnamento paolino concernente la morte battesimale alla mentalità mondana è interessante notare l’utilizzo che egli fa della parola soma per designare la comunione tra coloro che, in Cristo, costituiscono la Chiesa. Il termine soma in entrambi i Testamenti, a parte Paolo, è prevalentemente usato per designare una persona morta o un cadavere (Cfr. Mt 5, 29; 10, 28; 14, 12; 26, 12; 27, 52; 58, 59; Mc 14, 18; 15, 43; 15, 45; Lc 12, 4; 23, 52; 24, 3-23; Gv 2, 21; 19, 31, 38, 40; 20, 12; At 9, 40; I Pt 2, 24; Gd 9). Nell’Ultima Cena, nostro Signore ha utilizzato la parola soma per designare, molto probabilmente, il suo passaggio attraverso la morte. Analogamente ha utilizzato il termine haima per mostrare il suo ritorno alla vita poiché, nell’Antico Testamento, il sangue è un elemento designante la vita (Westcott, Commentary on the Epistle to Hebrews). In tal modo nell’Ultima Cena, come in ogni Eucarestia, c’è la proclamazione e la confessione della morte e della resurrezione di Cristo. Secondo i presupposti rinvenibili nei discorsi paolini riguardo alla morte battesimale, è possibilissimo descrivere la Chiesa come il soma di Cristo non solo per l’inabitazione di Cristo stesso e dello Spirito nei corpi dei cristiani ma pure perché tutti i membri di Cristo sono morti al corpo del peccato nelle acque battesimali. Prima di condividere la vita di Cristo è necessario divenire un vero soma liberato dal Diavolo morendo alla mentalità di questo mondo e vivendo secondo lo “spirito” (l’uso paolino del termine soma non è sempre consistente. Tuttavia non viene mai utilizzato in un contesto dualistico per distinguere il corpo dall’anima. Al contrario, Paolo usa frequentemente soma come sinonimo di sarx (I Cor 6, 16; 7, 34; 13, 3; 15, 35-58; II Cor 4, 10-11; Ef 1, 20-22; 2, 15; 5, 28 ss.; Col 1, 22-24). Se la sua antropologia fosse dualistica non sarebbe logico utilizzare il termine soma per designare la Chiesa e kephale tou somatos (capo del corpo) per designare Cristo. Sarebbe molto più normale denominare la Chiesa con il termine di corpo e presentare Cristo come l’anima di tale corpo).

Osservazioni sintetiche
 San Paolo non dice in alcun passo che l’intero genere umano è considerato colpevole del peccato di Adamo ed è stato quindi punito con la morte. La morte è una forza cattiva entrata nel mondo attraverso lo stesso peccato radicato nel mondo e regna nella creazione a causa di Satana. Per questa ragione, benché l’uomo possa conoscere le cose buone attraverso la legge scritta nel suo cuore e possa operare quant’è bene, ne è impedito a causa del peccato dimorante nella sua carne. Perciò non è lui che fa il male ma è il peccato che dimora in lui. A causa di questo peccato egli non può trovare la maniera per operare il bene. Deve quindi essere salvato da “questo corpo di morte” (Rom 7, 13-25). Solo in seguito può fare il bene. Cosa vuole dire Paolo attraverso queste affermazioni? Un’appropriata risposta può essere fondata solo quando si tiene in considerazione la dottrina paolina sul destino umano.
Se l’uomo fosse stato creato per una vita di completo amore altruista le sue azioni sarebbero state guidate sempre da un motivo esterno. Si sarebbero mosse sempre verso Dio e il prossimo, mai verso il soggetto agente. Così ci sarebbe stata una perfetta immagine e somiglianza di Dio. È ovvio che il potere della morte e della corruzione ha impossibilitato la persona a vivere una tale vita di perfezione. Il potere della morte nell’universo ha portato con sé la volontà dell’autoconservazione, la paura e l’inquietudine (Ebr 2, 14-15) che, a loro volta, sono la radice e la causa dell’autoasservimento, dell’egoismo, dell’odio, dell’invidia e d’altri simili sentimenti. Poiché l’uomo ha paura di divenire insignificante, si sforza continuamente mettendosi alla prova, davanti a se stesso e agli altri, per mostrare che vale qualcosa. Ha sete di complimenti e paura d’insulti. Cerca il proprio successo ed è geloso di quello degli altri. Gli piacciono le persone come lui e odia coloro che lo odiano. Egli cerca la sicurezza e la felicità nella ricchezza, insegue la gloria e i piaceri fisici e immagina che il suo destino consista nell’essere felice nel possesso della presenza di Dio. La fruizione egoistica di Dio viene immaginata a causa della sua introversa e individualistica personalità incline all’errore e all’egocentrico desiderio di soddisfazione e felicità ritenute come proprio normale destino. D’altra parte egli può divenire premuroso su vaghi principi ideologici d’amore verso l’umanità e continuare, poi, ad odiare i suoi vicini più prossimi. Queste sono le opere della carne delle quali san Paolo parla (Gal 5, 19-21). Sotto ogni azione di colui che il mondo conosce come “l’uomo normale”, esiste la ricerca della sicurezza e della felicità. Ma tali desideri non sono normali. Sono la conseguenza della perversione causata dalla morte e dalla corruzione, attraverso la quale il Diavolo invade tutta la creazione, dividendola e distruggendola. Questo potere è così grande che se l’uomo vuole vivere secondo il suo originale destino ne è impedito a causa del peccato che abita nella sua carne (Rom 7): “Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rom 7, 24.).
Condividere l’amore di Dio, senza qualche concessione per se stessi, significa pure condividere la vita e la verità di Dio. L’amore, la vita e la verità in Dio sono una cosa sola e possono essere fondate solo in Lui. Allontanarsi dall’amore di Dio e del prossimo significa rompere la comunione con la vita e la verità divine, che non possono essere separate dal Suo amore. La rottura di questa comunione con Dio può essere consumata solo nella morte, poiché nulla di creato può continuare indefinitamente ad esistere per se stesso (Sant’Atanasio, Op. cit., 4-5). Così, a partire dalla trasgressione del primo uomo, il principio del “peccato (il Diavolo) è entrato nel mondo ed attraverso la morte il peccato, e così la morte ha raggiunto tutti gli uomini.” (Rom 5, 12). Non solo l’umanità ma tutta la creazione è stata soggetta alla morte e alla corruzione dal Diavolo (Rom 8, 20-22). Poiché l’uomo è parte inseparabile della creazione, mantiene con essa una continua comunione ed è collegato con la procreazione all’intero processo storico dell’umanità, la caduta della creazione attraverso un uomo coinvolge automaticamente tutti gli uomini nella caduta e nella corruzione. È attraverso la morte e la corruzione che tutta l’umanità e la creazione è tenuta prigioniera dal Diavolo venendo coinvolta nel peccato, perché è attraverso la morte che l’uomo decade dal suo originale destino che consisteva nell’amare Dio e il prossimo senza alcun egoismo. L’uomo non muore perché è colpevole per il peccato di Adamo (Cfr. San Giovanni Crisostomo, Migne, P.G. t. 60, col. 391-692; Theophylactos, Migne, P.G. t. 124, c. 404-405). Diviene peccatore [e quindi mortale] perché è assoggettato al potere del Diavolo attraverso la morte e le sue conseguenze (Cfr. Cirillo di Alessandria, Migne, P. G. t. 74, c. 781-785 e specialmente c. 788-789; Teodoreto di Ciro, Migne, P.G. t. 66, c. 800).
San Paolo dice chiaramente che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56), che “il peccato ha regnato nella morte” (Rom 5, 21) e che la morte è “l’ultimo nemico ad essere distrutto” (I Cor 15, 26). Nelle sue epistole, è particolarmente ispirato quando parla della vittoria di Cristo sulla morte e la corruzione. Sarebbe veramente illogico cercare d’interpretare il pensiero paolino attraverso i presupposti:
    1) che la morte è normale o che, al più,
    2) è la conseguenza d’una decisione giuridica divina di punire l’intera umanità per un peccato;
    3) che la felicità è l’ultimo destino dell’uomo e che
    4) l’anima è immateriale, naturalmente immortale e direttamente creata e concepita da Dio. Perciò essa sarebbe normale e scevra da difetti (scolasticismo romano).
La dottrina paolina dell’uomo sull’incapacità a fare il bene che la persona è in grado di riconoscere secondo l’“uomo interiore”, può essere capita solo se si prende seriamente in considerazione il potere della morte e della corruzione nella carne, che rende impossibile all’uomo una vita secondo il proprio destino originale.
Il problema moralistico esposto da sant’Agostino riguardo la trasmissione della morte ai discendenti di Adamo come punizione per una trasgressione originale è estraneo al pensiero paolino. La morte di ciascun uomo non può essere considerata la conseguenza d’una colpa personale. San Paolo non pensa come un filosofo moralista che cerca la causa della caduta dell’umanità e della creazione nella rottura di oggettive regole di buon comportamento, rottura che esige la punizione di un Dio la cui giustizia è ad immagine della giustizia di questo mondo. Paolo pensa chiaramente alla caduta nei termini di una guerra personale tra Dio e Satana, nella quale Satana non è obbligato a seguire alcuna sorta di regole morali se può essergli di vantaggio. È per questa ragione che san Paolo può affermare che il serpente “ha ingannato Eva” (II Cor 11, 3) e che “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione” (I Tim 2, 14). L’uomo non è stato punito da Dio, ma reso prigioniero dal Diavolo.
Questa interpretazione è promossa dalla chiara insistenza paolina che “fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo” (Rom 5, 13-14). È chiaro che Paolo nega qualche cosa come una colpa generale personale per il peccato di Adamo. Il peccato rimase comunque nel mondo, visto che la morte ha regnato pure su quelli che non avevano peccato oltre che in Adamo che aveva peccato. Qui il peccato significa evidentemente la persona di Satana, che ha regnato nel mondo attraverso la morte pure prima dell’arrivo della legge. Questa è la sola possibile interpretazione del presente passo, poiché tale spiegazione è chiaramente sostenuta altrove negli insegnamenti paolini a proposito dei poteri straordinari del Diavolo, specialmente in Romani 8, 19-21. Le asserzioni di san Paolo dovrebbero essere prese molto letteralmente quando afferma che l’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte (I Cor 15, 26) e che “il pungiglione della morte è il peccato” (I Cor 15, 56).
Da quanto è stato osservato la famosa espressione eph’ho pantes hemarton (Rom 5, 12) può essere sicuramente interpretata in riferimento al termine thanatos che la precede il quale è l’unica parola che si adatta al significato del testo. Riferire eph’ho ad Adamo è impossibile sia grammaticamente che esegeticamente. Simile interpretazione fu inizialmente introdotta da Origene che la assunse, evidentemente, poiché aveva determinati presupposti mentali: credeva nella preesistenza di tutte le anime. Per tale motivo Origene avrebbe facilmente affermato che tutte le anime hanno peccato in Adamo. L’interpretazione di eph’ho come “perché” fu introdotta in Oriente per la prima volta da Fozio (Amphilochia, heroteseis, 84, Migne, P.G. t. 101, c. 553-556). Egli affermò che in tal passo esistono due prevalenti interpretazioni – Adamo e thanatos –. Fozio, tuttavia, propendeva per dioti (perché) fondando le sue argomentazioni su un’errata interpretazione di II Cor 5, 4 dove, anche qui, ritenteva eph’ho con il senso di dioti. Tuttavia, in questo passo, è veramente chiaro che eph’ho si riferisce a skensi (eph’ho skenei ou thelomen ekdysasthai). Fozio cerca d’interpretare san Paolo in un contesto di leggi morali naturali e perciò cerca di giustificare la morte di tutti gli uomini a causa d’una colpa personale. Afferma, quindi, che tutti gli uomini muoiono perché seguono i passi di Adamo (Ecumenius, extracts from Photius, Migne, P.G. t. 118, c. 418). In ogni evenienza né lui né i Padri orientali accettano l’insegnamento secondo il quale tutti gli uomini sono colpevoli per il peccato adamitico.
Anche con le sole considerazioni grammaticali non è possibile interpretare eph’ho con riferimento ad altra parola oltre che a thanatos. In ogni epoca la costruzione grammaticale della preposizione epi col dativo usata da Paolo, è sempre stata impiegata come pronome relativo per modificare il nome (Rom 9, 33; 10, 19; 15, 12; II Cor 5, 4; Rom 6, 21) o la frase (Fil 4, 10) precedenti. Fare un’eccezione in Romani 5, 12 ritenendo che san Paolo utilizzi un’errata espressione greca per intendere “perché” significa non considerare questa realtà. L’interpretazione corretta di tale passo, sia grammaticamente che esegeticamente, può essere ottenuta solo quando eph’ho è colto per modificare thanatos – kai houtos eis pantas anthropous ho thanatos dielthen eph’ho (thanato) pantes hemarton – “poiché della quale” (morte), o “sulla base della quale” (morte), o “per la qual (morte) ognuno ha peccato”. Satana, essendo lui stesso principio del peccato, attraverso la morte e la corruzione coinvolge tutta l’umanità e la creazione nel peccato e nella morte. Così, essere sotto il potere della morte, secondo Paolo, significa essere peccatore e schiavo del Diavolo, per l’incapacità della carne a vivere secondo la legge di Dio, cioè secondo un amore altruista.
La teoria della trasmissione del peccato originale e della colpa non è sicuramente fondata in san Paolo, che non può essere interpretato né in termini giuridicisti né in termini dualisti i quali operano una distinzione tra una dimensione materiale e una seconda dimensione ritenuta pura e spirituale, parte intellettuale dell’uomo. Non bisogna meravigliarsi se alcuni studiosi biblici sono impotenti quando non possono trovare nell’Antico Testamento qualche chiaro appiglio per sostenere quella che pretendono essere la dottrina paolina sul peccato originale nei termini di una colpa morale e di una punizione (Cfr. Lagrange, Epitre aux Romains, p. 117-118; Sanday and Headlam, Romans, p. 136-137). Identica perplessità viene espressa da molti moralistici studiosi occidentali quando approfondiscono il pensiero dei Padri orientali (A. Gaudel, Peché Originel in “Dictionaire de Theologie Catholique”, t. XII, prèmiere partie). Di conseguenza, sant’Agostino è popolarmente ritenuto il primo e l’unico antico Padre ad avere capito la teologia di san Paolo. Ma ciò è chiaramente un mito dal quale sia i protestanti che i cattolico-romani hanno bisogno d’essere liberati.
Solo quando si capisce il significato della morte e le sue conseguenze si può capire la vita della Chiesa antica e, specialmente, il suo atteggiamento verso il martirio. Essendo già morti al mondo nel battesimo e avendo nascosto la loro vita con Cristo in Dio (Col 3, 3), i cristiani non potevano esitare di fronte alla morte. Erano già morti ma vivevano ancora in Cristo. Avere paura della morte significava essere ancora sotto il potere del Diavolo (II Tim 1, 7): “In Dio non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza, d’amore e di saggezza”. Cercando di convincere i cristiani di Roma a non impedire il loro martirio, sant’Ignazio scrive: “Il principe di questo mondo vorrebbe rassegnarmi ad allontanarmi corrompendo la mia disposizione verso Dio. Perciò nessuno di voi che è in Roma lo aiuti” (San’Ignazio, Epistola ai Romani c. 7). La controversia ciprianense sul rinnegamento di Cristo durante i periodi di persecuzione è stata violenta, proprio perché la Chiesa capiva che era una contraddizione morire nel battesimo e poi negare Cristo per paura della morte e della tortura. I canoni della Chiesa, benché oggi generalmente non vengano considerati per illuminare la comprensione dell’intima fede nella Chiesa antica, sono ancora molto severi verso coloro che rigettano la fede per paura della morte (Canone 10°, primo Concilio Ecumenico; 62° Canone apostolico; 1° Canone, Concilio di Angyra, 313-314; 1° Canone, Pietro d’Alessandria). Un tale atteggiamento verso la morte non è il prodotto d’una frenesia escatologica e d’un entusiasmo, quanto piuttosto d’un chiaro riconoscimento di ciò che il Diavolo è, di ciò che i suoi pensieri sono (II Cor 2, 11), di ciò che sono i suoi poteri sopra l’umanità e la creazione e di come vengano distrutti attraverso il battesimo e la mistagogica vita nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Oscar Cullman si è seriamente sbagliato quando ha cercato di far dire agli agiografi neotestamentari che Satana e i demoni sono stati privati del loro potere e che ora “leur puissance n’est qu’apparente” (O. Cullman, Christ et le temps, p. 142). Il maggior potere del Diavolo è la morte, che sarà distrutta solo nel corpo di Cristo, dove il fedele è impegnato continuamente nella lotta contro Satana sforzandosi di praticare un amore altruista. Questo combattimento contro il Diavolo e lo sforzo per praticare un amore altruista è concentrato nella vita eucaristica sociale della comunità locale. “Poiché quando vi riunite frequentemente epi to auto (nello stesso luogo) i poteri di Satana sono distrutti. La distruzione alla quale egli tiene è impedita dall’unità della vostra fede” (San’Ignazio, Epistola agli Efesini, c. 13). Allora, se qualcuno non sente la chiamata dello Spirito in sé per la vita sociale dell’amore altruista nell’assemblea eucaristica, è evidentemente sotto l’influsso del Diavolo. “Colui che non si riunisce con la Chiesa ha, con ciò, manifestato il suo orgoglio e condannato se stesso…” (Ibid. c. 5). Il mondo al di fuori della vita sociale d’amore nei sacramenti, è ancora sotto il potere delle conseguenze della morte e, perciò, è schiavo del Diavolo. Il Diavolo è stato già sconfitto dal momento in cui il suo potere è stato distrutto dalla nascita, vita, morte e risurrezione di Cristo. Questa sconfitta continua solo nel resto di coloro che sono stati salvati prima e dopo Cristo. Sia coloro che sono stati salvati prima di Cristo che coloro che sono stati salvati dopo di Lui lo debbono alla Sua morte e risurrezione. Essi fanno parte della Nuova Gerusalemme. Contro questa Chiesa il Diavolo non può prevalere e, per questo fatto, è già stato sconfitto. Tuttavia il suo potere al di fuori di coloro che sono stati salvati rimane lo stesso (Ef 2, 12; 6, 11-12; II Tes 2, 8-12). Satana è ancora “il dio di questo mondo” (II Cor 4, 4) ed è per questa ragione che i cristiani devono vivere come se non vivessero nel mondo (Col 2, 20-23).

Conclusioni

Lo studioso biblico non potrà mai essere obiettivo se il suo esame teologico viene influenzato o diretto da determinati pregiudizi filosofici. La moderna scuola di critica biblica lavora chiaramente in una falsa direzione quando vuole giungere all’essenziale forma originale del kerygma rimanendo all’ocuro dell’essenza vetero e neotestamentaria riguardo allo stato decaduto dell’umanità e della creazione, specialmente quando trascura gli insegnamenti sulla natura di Dio e su quella di Satana. Così nelle tendenze anti-liberali del moderno protestantesimo, viene accolto il metodo di critica biblica e, allo stesso tempo, si cerca di salvare quello che si ritiene essere l’essenziale messaggio degli evangelisti. D’altronde gli studiosi di questa scuola in tutto il loro metodo pseudo scientifico di ricerca, mancano di giungere alle mie identiche conclusioni perché rifiutano ostinatamente di considerare seriamente la dottrina biblica su Satana, sulla morte e la corruzione. Per questa ragione la questione se il corpo di Cristo è risuscitato realmente o no, non viene ritenuta importante (cfr. E. Brunner, Il Mediatore). Quello che per loro è importante è la fede in Cristo quale unico salvatore della storia anche se, molto probabilmente, Egli non è storicamente risorto. Come si salva e da cosa vengono salvati gli uomini è, presumibilmente, una questione secondaria.
È chiaro che per san Paolo la risurrezione fisica di Cristo significa la distruzione del Diavolo, della morte e della corruzione. Cristo è la primizia dei risorti (I Cor 15, 23). Se non esiste alcuna risurrezione non ci può essere assolutamente salvezza (I Cor 15, 12-19). Solo una vera risurrezione può distruggere il potere di Satana dal momento che la morte è una conseguenza dell’interruzione della comunione con la vita e l’amore di Dio e, quindi, è la consegna dell’uomo e della creazione al Diavolo. È impreciso e poco profondo cercare di fare passare per biblica l’idea che la questione sulla reale risurrezione fisica è di secondaria importanza. Al centro del pensiero biblico e patristico esiste chiaramente una cristologia nella quale si considera un’unione reale con Dio condizionata dalla dottrina biblica su Satana, sulla morte, sulla corruzione e sul destino umano. Satana governa materialmente e psichicamente attraverso la morte. Anche la sua sconfitta deve dunque essere materiale e fisica. La restaurazione della comunione non deve coinvolgere solo l’atteggiamento mentale ma, cosa ben più importante, deve passare attraverso la creazione della quale l’uomo è parte inseparabile. Senza una chiara comprensione della dottrina biblica su Satana e sul suo potere è impossibile capire la vita sacramentale del corpo di Cristo. Proprio per questo la dottrina dei Padri riguardo la cristologia e la Trinità diviene un’insignificante speculazione affidata agli specialisti scolastici. Sia gli scolastici cattolico-romani che i protestanti sono innegabilmente eretici nelle loro dottrine sulla grazia e sull’ecclesiologia semplicemente perché non vedono che la salvezza è unicamente l’unione dell’uomo con la vita di Dio nel corpo di Cristo dove il Diavolo viene ontologicamente e realmente distrutto nella vita agapica. Al di fuori della vita d’unità con Cristo nei sacramenti e nell’unione agapica non esiste alcuna salvezza, poiché il Diavolo domina ancora il mondo attraverso le conseguenze della morte e della corruzione. Le organizzazioni extra-sacramentali come il papato non possono essere viste come l’essenza del cristianesimo perché giacciono chiaramente sotto l’influenza di convenienze mondane e non hanno come loro unico scopo una vita d’amore altruista. Nel cristianesimo occidentale i dogmi della Chiesa sono divenuti oggetto d’esercizi “logico-ginnici” nelle classi di filosofia. La cosiddetta ragione naturale umana fa da base alla teologia rivelata. Gli insegnamenti della Chiesa riguardo alla Santa Trinità, alla cristologia e alla Grazia non sono accolti per quello che sono: espressione della continua ed esistenziale esperienza del corpo di Cristo che vive della stessa vita trinitaria attraverso la natura umana del Salvatore nella cui carne è stato distrutto il Diavolo e contro il cui corpo (la Chiesa) le porte della morte (Ade) non possono prevalere.
Oggi la missione della teologia ortodossa consiste nel portare un risveglio all’interno del cristianesimo occidentale. Per fare efficaciemente ciò il cristiano ortodosso deve riscoprire le proprie tradizioni e cessare, una volta per tutte, di assumere le corrodenti infiltrazioni della confusione teologica occidentale nella teologia ortodossa. È solo ritornando alla comprensione biblica di Satana e del destino umano che i sacramenti della Chiesa possono nuovamente divenire la fonte e la forza della teologia ortodossa. Il nemico della vita e dell’amore può essere distrutto solo quando i cristiani possono confidenzialmente affermare: “Non siamo all’oscuro dei suoi pensieri” (II Cor 2, 11). Una teologia che non può definire con esattezza i metodi e le falsità del Diavolo è chiaramente eretica perché è già stata ingannata dal Diavolo stesso. È per questa ragione che i Padri potrebbero asserire che quell’eresia è un prodotto del Demonio.

Pubblicato originariamente in: http://http://digilander.libero.it/ortodossia/peccato.htm

LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO – CARLO MARIA MARTINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_confessioni_di_paolo7.htm

CARLO MARIA MARTINI

LE CONFESSIONI DI PAOLO

MEDITAZIONI

LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO

Partendo dall’episodio storico della sofferenza nella vita di Paolo, riflettiamo sulla trasfigurazione a cui l’ha portato l’interiore purificazione, per meditare poi sulla trasfigurazione del pastore.
Come grazia di questa meditazione chiediamo di potere, attraverso la conoscenza dell’ Apostolo, giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi.
Ti ringraziamo, Padre, per il dono di gloria luminosa, affascinante, che hai posto sul volto del tuo Figlio Risorto. Questa gloria l’hai mostrata alla tua Chiesa, nel tuo servo Paolo, come l’avevi mostrata interiormente a Maria, Madre di Gesù, a Pietro e agli Apostoli.
Ti ringraziamo perché continui a mostrare questa gloria nella storia della Chiesa attraverso i santi. Ti ringraziamo per i santi che abbiamo conosciuto, per tutti coloro i cui scritti, le cui parole ci edificano, per tutti coloro la cui vita ci è di sostegno. Manifesta la gloria del volto di Cristo anche a noi, perché qualcosa di quello splendore risplenda in noi stessi e, interiormente trasformati, possiamo conoscere il tuo Figlio Gesù e farlo conoscere come sorgente di trasformazione della vita di ogni uomo. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.
Quanto abbiamo detto della sofferenza di Paolo per la rottura con Barnaba può essere esteso ad altri conflitti, che hanno segnato la vita di quest’uomo straordinario: i conflitti con le comunità, soprattutto quelli a cui fanno riferimento la seconda lettera ai Corinti e la lettera ai Galati. In esse Paolo ei appare chiaramente in contrasto con certi modi di agire e in situazioni di tensione, di dolore, di solitudine. Emblematico è il conflitto con Pietro ad Antiochia, in cui Paolo si trova in una situazione estremamente imbarazzante e difficile.
Innanzitutto ciò che dobbiamo ricavare da queste considerazioni è che non ei si deve stupire di queste cose: nella storia della Chiesa questi conflitti nascono. Le difficoltà di collaborazione tra preti, le difficoltà di collaborazione tra parroco e coadiutore sono di origine apostolica, cioè le troviamo già nel Nuovo Testamento.
È una realtà sulla quale dobbiamo, come Paolo, continuamente riflettere per purificarci e per trovarne la soluzione in un approfondimento delle cose e non in una semplice rassegnazione. Non stupirei, ma crescere nella comprensione di noi stessi e degli altri. Se nella vita di Paolo sono entrati, in qualche momento, dei personalismi, quanto più in noi. Bisogna sapersi conoscere, sapere comprendere come nei conflitti che viviamo non sempre è in gioco soltanto l’onore e la gloria di Dio, ma qualche volta anche la nostra personalità. Bisogna saper crescere nella misericordia che è l’atteggiamento con cui Dio considera la storia e le realtà umane.

Cosa si intende per trasfigurazione
Diamo alla meditazione il titolo di « trasfigurazione » perché il punto di riferimento è la Trasfigurazione di Cristo: «Mentre pregava, il suo volto cambiò di aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9, 29). È interessante osservare che il verbo usato qui è lo stesso che Luca userà nel descrivere la luce nella quale Paolo entra nel momento dell’apparizione di Damasco: anche Paolo vive il riflesso del Cristo trasfigurato.
Per descrivere la stessa scena il Vangelo di Marco parla di trasformazione: «Si trasformò, si trasfigurò» (cf. Mc 9, 2 ss). Il verbo greco è: «metamorfòthe: si trasformò», tradotto « si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime ». Questo verbo è il medesimo che Paolo usa nella lettera scritta ai Corinti per descrivere il processo di trasformazione che lui – e ogni apostolo e pastore dietro di lui ~ esperimentano, riflettendo la gloria di Cristo: «Noi tutti – è chiaro che esprime una sua esperienza che poi vuole condividere con noi – a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). È la descrizione di quanto stiamo considerando: Paolo investito della gloria del Signore a Damasco, si trasforma. Ma il verbo è al presente per indicare una azione di continua trasformazione, di gloria in gloria, per la forza dello Spirito di Dio. Si trasforma ad immagine di Gesù, acquista la luminosità di Cristo.
Non dimentichiamo che la festa e l’episodio della Trasfigurazione è ampiamente usato nella liturgia della Chiesa greca per indicare ciò che avviene nel cristiano attraverso l’integrazione progressiva che egli fa dei doni battesimali e, per noi, della grazia dell’Ordinazione.
Parlando di «trasfigurazione» di Paolo voglio riferirmi al crescendo di luminosità e di trasparenza che avviene in lui lungo il suo cammino pastorale e che si riflette in maniera inimitabile nelle grandi lettere.
Leggendole siamo affascinati dalla chiarezza e dallo splendore della sua anima e dopo duemila anni sentiamo che dietro alle parole scritte c’è una persona viva, ricca, palpitante e illuminante.
Il suo aspetto trasfigurato attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata.
Anche il pastore, come Paolo, è chiamato a diventare, attraverso l’esperienza, le sofferenze, le fatiche, i doni di Dio, luminoso e trasparente.
Nelle sue parole e nella sua azione la gente deve trovare quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza, che è indescrivibile ma che si percepisce senza alcun ragionamento.
Ciascuno di noi ha avuto modo, per grazia di Dio, di conoscere preti che sono stati così nella loro vita: irradiavano ciò che Paolo lascia trasparire abbondantemente da tutto il suo modo di parlare e di esprimersi.
Vediamo di descriverlo analiticamente perché possa essere specchio ideale del pastore su cui confrontarci. – Quali sono le caratteristiche della luminosità di Paolo?
Possiamo ricavarle da tre atteggiamenti interiori tipici di questa trasfigurazione e da due più esteriori. – Come raggiungere e mantenere in noi qualcosa di simile a questa trasfigurazione, che è dono di Dio anche per noi?

Gli atteggiamenti interiori della trasfigurazione
a) Il primo atteggiamento, che troviamo in tutte le lettere, anche le più conflittuali, è una grande gioia interiore e pace: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Paolo mette chiaramente insieme le sue moltissime tribolazioni con la gioia, anzi con una gioia sovrabbondante. Che non sia forzata o idealistica lo ricaviamo dalle stesse lettere: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Paolo riconosce che questa gioia straordinaria viene da Dio: da sé non potrebbe averla. È tipica della trasfigurazione, non frutto di buon carattere, non dote naturale, non umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2 Cor 4, 8-10). Non è una situazione di tranquillità; è una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di cose spiacevoli che gli avvengono; coi malintesi, coi malumori nei quali vive la sua giornata. Come la viviamo noi. Paolo era un po’ nevrastenico di carattere e perciò soggetto a depressioni e a momenti di sconforto. Egli sperimenta gradualmente nella sua vita che non c’è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui.
Ancora, è una gioia che guarda intorno a sé, è per la sua comunità, non è privata; è gioia per ciò che succede intorno a lui, per le comunità che sta seguendo. « Siamo i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1, 24). E scrivendo ai Filippesi definisce le comunità come « mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Non illudiamoci che fosse una comunità ideale, perfetta: anzi dalla lettera sappiamo che Paolo deve scongiurarli, quasi in ginocchio, di non litigare, di non mordersi, di non dividersi: «Non fate nulla per spirito di rivalità, per vanagloria» (Fil 2, 3). Vuole dire che c’erano rivalità e vanagloria, che la comunità non era facile, che gli creava problemi e molestie. Eppure riesce a considerarla come la sua gioia perché gli è stata donata una visuale di fede che va aldilà della considerazione delle cose puramente pragmatica, abituale, di routine. È un vero dono soprannaturale, potenza dello Spirito che era in lui ormai in grado eminente.
b) Il secondo atteggiamento interiore conseguente al primo è la capacità di riconoscenza. Esorta i suoi a ringraziare con gioia il Padre (Coll, 12). È tipico dell’Apostolo unire la gioia al ringraziamento.
Tutte le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento, eccetto quella ai Galati perché è di rimprovero. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto ma esprimono ciò che sente. D’altra parte lo stesso Nuovo Testamento incomincia con una preghiera di ringraziamento: infatti, con ogni probabilità, lo scritto più antico del Nuovo Testamento, quello che ha preceduto anche la stesura definitiva dei Vangeli, è la prima lettera ai Tessalonicesi. Quindi, la prima parola del Nuovo Testamento è: «Grazia a voi e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi ».
All’opposto, non troviamo mai in Paolo la deplorazione sterile. C’è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Come dono di Dio, nella sua trasfigurazione apostolica ha la capacità di vedere sempre per prima cosa il bene. Cominciare ogni lettera col ringraziamento, vuol dire saper valutare innanzitutto il positivo che c’è nella comunità a cui scrive, anche se poi ci saranno cose gravissime, negative. All’inizio della prima lettera ai Corinti la comunità è lodata come piena di ogni dono, di ogni sapienza; poi vengono i rimproveri; ma non è un’incongruenza. Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine.
Il pastore maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c’è intorno e di esprimerlo con semplicità.
c) Il terzo atteggiamento è la lode.
In Paolo abbiamo quelle lodi meravigliose che continuano la tradizione giudaica delle benedizioni. Egli le sa ampliare per tutto quello che riguarda la vita della comunità, nel Cristo. Per esempio: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3). La preghiera di Paolo, così come la conosciamo nelle lettere, è prima di tutto di lode: diventa anche di intercessione ma spontaneamente la prima espressione che gli viene è di lode. Così può valorizzare i suoi momenti più oscuri: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3). Potremmo usare le sue frasi come specchio per domandarci se possiamo dirle in prima persona come espressione di ciò che c’è in noi di più profondo (o se invece sentiamo la fatica di dire queste cose).
La grazia da chiedere a Dio è che questi atteggiamenti tipici del pastore trasfigurato dal Cristo risorto, diventino nostra esperienza abituale. Il demonio ci tenta continuamente per farci ricadere nelle forme mondane della vita: la tristezza è caratteristica dell’uomo che vive nella chiusura delle prospettive. E la tristezza di fondo poi cerca l’evasione, il divertimento, tutto ciò che sembra rendere allegra la vita pur di non affrontare la tristezza.

Gli atteggiamenti esterni di Paolo trasfigurato nel Cristo
a) Il primo atteggiamento esterno è l’instancabile ripresa che ha davvero del prodigioso.
Fin dal primo giorno della sua conversione: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica e lo fanno partire; a T arso rimane finché la provvidenza non lo richiama; quando lo richiama, dimenticati i risentimenti passati, riparte. Nel suo viaggio missionario praticamente ogni stazione è un ricominciare da capo; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va a Iconio; a Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra. A Listra è sottoposto a una gragnuola di sassi. È interessante notare l’impassibilità con cui Luca descrive la scena: «Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe. Dopo aver predicato il Vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia» (At 14, 19-21).
È così un po’ tutta la sua vita: da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia, anche se ha l’animo pieno di timore.
Questa ripresa non è umana: un uomo dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. Noi non possediamo la sua instancabilità, nemmeno lui la possedeva: è un riflesso di quella che chiamerà «la carità ». «La carità non si stanca mai» (1 Cor 13, 7). È la carità di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Il suo modo di agire è riversato dall’alto, è un dono, ed è quello che fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rm 5, 3), «perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).
Se queste parole fossero dette da un neo-convertito ai primi inizi dell’entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza. Dette da un missionario che ha vissuto vent’anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere. Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato.
La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui.
b) Il secondo atteggiamento esterno è la libertà dello spirito. Sente di avere raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro. Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare. Vediamo questa libertà di spirito nella lettera ai Galati quando dice che umanamente sarebbe stato più prudente circoncidere Tito secondo le richieste dei giudeo-cristiani: «Ad essi però non cedemmo per riguardo neppure un istante perché la verità del V angelo continuasse a rimanere salda tra di voi» (Gal 2, 5). Paolo è libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile in peso all’opinione altrui. Questa sua forza gli permette, a un certo punto, di opporsi addirittura a Cefa. È un caso-limite di libertà: «(Ad Antiochia) anche gli altri Giudei imitarono Pietro nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia» (Gal 2, 13). Quella che chiama ipocrisia evidentemente per Barnaba era il desiderio di mediare tra le parti. Paolo non accetta e di qui la sua resistenza che chiarisce la situazione.
Una libertà che non è arbitrio o presunzione ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo. Lui stesso mette talora in parallelo l’essere servo di Cristo con l’essere libero da tutte le altre opinioni umane.
In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato a osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti pei virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano. Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà… Purché questa libertà non divenga pretesto» – e noi sappiamo che sotto la parola libertà c’è molto spesso un pretesto – « per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 1-13). È uno dei pochi passi in cui essere a servizio – in greco essere schiavi – si applica gli uni agli altri. L’assolutezza del servizio di Cristo rende l’uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. Questa libertà quindi è fonte di servizio umilissimo ed è la radice di quel «con tutta umiltà»che è la caratteristica dell’apostolato di Paolo.
È difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano: il tentativo serve da invito a riprendere i testi di Paolo e a lasciare che agiscano su di noi come parola ispirata, in tutta la loro forza.

La trasfigurazione di Paolo
è modello della trasfigurazione del pastore
Ci proponiamo di riflettere quale sia la metodologia per raggiungere e mantenere questa condizione di trasfigurazione.
Paolo incomincia a diventare un pastore secondo il cuore di Cristo dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Lo diventa per dono di Dio, non per sua conquista.
Riconoscere che Dio nella sua misericordia ci trasfigura è la metodologia fondamentale.
- Il primo modo per ricevere il dono divino è la contemplazione del cuore di Cristo crocifisso, che effonde lo Spirito. Contemplazione che potremmo chiamare eucaristica: prendere sul serio la duplice mensa della Parola di Dio e dell’Eucaristia, lasciarsi nutrire dalla Parola di Dio come forza che chiarisce il significato storico-salvifico del cibo che è Cristo morto e risorto. Questo cibo diventa nostro nutrimento e ci inserisce nella storia di salvezza di cui la Parola di Dio ci comunica la realtà, l’ampiezza, la direzione.
Come per Paolo, anche per noi questa contemplazione è la via della Trasfigurazione. L’Apostolo ha vissuto la preghiera incessante e prolungata che è la contemplazione del Cristo morto e risorto.
- Il dono del cuore trasfigurato nella gioia, nella lode, nella riconoscenza, nella perseveranza, nella libertà, viene per intercessione di Maria.
Maria, come mistero di Dio nella storia della Chiesa e della salvezza, è colei che sostiene e che alimenta in noi la luminosità della fede. Una esperienza cristiana matura sa scoprire il posto .della Vergine come modello e intercessione per raggiungere l’umile dipendenza dalla Parola di Dio che ci trasfigura, assicurando la nostra continua apertura alla forza rinnovatrice dello Spirito. Maria ci richiama a vivere autenticamente quel livello di contemplazione e di ascolto che è il livello che essa occupa nella Chiesa.
- Il dono della trasfigurazione pastorale viene anche dalla condivisione} dalla capacità di mettere la mano nel buio sulla spalla di colui che vede la luce. È questa la nostra comunione ecclesiale e presbiteriale: tenere la mano sulla spalla di chi ha visto la lucei a vicenda.
Si innesta qui il tema della direzione spirituale, del colloquio penitenziale che sono molto importanti perché significano il tenerci la mano gli uni gli altri, la maniera pratica di aprirci e conservare in noi i doni di trasfigurazione che ammiriamo in Paolo.
- Il dono della trasfigurazione ha bisogno della vigilanza evangelica. «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione»; «lo spirito è pronto ma la carne è debole»; «vegliate e resistete saldi nella fede». Questo invito ripetuto è l’espressione esortativa della intuizione fondamentale che l’uomo è un essere storico, che si stanca, che di natura sua non è capace di perseveranza.
Ogni cristiano, ogni vescovo, ogni prete deve convincersi che nessuno è assicurato nella perseveranza e che il maggior rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un grado di stabilità tale che le precauzioni non sono più necessarie. La vigilanza neotestamentaria ci dice che fino all’ora della morte il demonio cerca di togliere in noi la gioia, la fede, la lode. Siamo sempre attaccati su questi atteggiamenti fondamentali.
Occorre vigilare sapendo che non c’è tregua in questa lotta e che rapidamente possiamo ritrovarci tristi, stanchi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede. Paolo ritorna più volte sul tema della vigilanza e della insistenza nella preghiera.
Chiediamo per intercessione di Maria, di poter vigilare con lei, con Gesù e con Paolo perché si compia in noi la trasfigurazione apostolica che assicura una vita pastorale in cui – malgrado le difficoltà, le sofferenze, le delusioni – il fondo di noi è afferrato da Cristo e saldamente posseduto dalla mano di Dio.

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE SECONDA

DON MASSIMO NARO

LA SPIRITUALITÀ CRISTIANA
 Il processo, che il cristiano affronta per maturare nella santità, è denominato comunemente «vita spirituale» o anche «spiritualità». Si tratta di espressioni che dicono molto di più di ciò che, di primo acchito, sembrerebbero dire. Come la vita del cristiano non è la vita meramente biologica, ma la vita stessa divina, che fa del cristiano un figlio di Dio nella misura in cui lo rende solidale all’unigenito Figlio Cristo Gesù, così pure la vita spirituale non è solo la vita che «interiormente» il cristiano vive per colmare in sé la misura della santità. La vita spirituale coincide solo in parte con la cosiddetta «vita interiore» del cristiano. Vita spirituale significa sì vita interiore, nel senso che costituisce un movimento vitale spesso non manifesto, bensì discretamente agitato nell’intimo del proprio animo, un movimento «interiore» che alimenta anche l’attività «esteriore» del cristiano, un rapporto «privato» e «confidenziale» con Dio, che sostiene e motiva la testimonianza «pubblica» che il credente rende, nella Chiesa e nella società, al suo Cristo.  Tuttavia, la vita spirituale propriamente detta, non si riduce a «vita interiore». La vita spirituale, cioè, è la vita dello Spirito di Dio, che si travasa nel cristiano, per informarne i moti e i desideri dell’animo, ma anche le scelte operative e le azioni quotidiane. La vita spirituale, cioè, non è solo la vita dello spirito del cristiano, ma è anche e soprattutto la vita dello Spirito Santo, che irrompe — mistericamente — nel cuore del cristiano e che lo inserisce — misticamente — nel cuore di Dio.  In questo senso, è chiaro che il vero protagonista della vita spirituale è lo Spirito Santo, e che noi cristiani siamo i deutero-agonisti, i co-attori, della nostra stessa santità. Si tratta di riconoscere a Dio il primato assoluto nella nostra esistenza: da Lui proviene la vita nuova che Cristo ci ha guadagnato con la sua Pasqua, da Lui procede lo Spirito di Vita che ci santifica, è Lui che prende l’iniziativa di chiamarci alla santità. Il cammino di santità è «nostro» solo perché noi accettiamo di compierlo insieme con Dio, ma in realtà è Dio stesso che ci sostiene durante il cammino. Vale per tutti noi l’esperienza di sant’Agostino, il quale racconta nelle sue Confessioni come egli, una volta, sognò di camminare sulla spiaggia, spalla a spalla con Gesù; ma voltatosi indietro per un attimo, si accorse che sulla sabbia erano impresse solo due, e non quattro, orme; si rese allora conto che egli aveva sì camminato, ma sorretto saldamente in braccio dal suo Compagno di viaggio. Anche noi dobbiamo essere fiduciosi nella presenza amica di un compagno di viaggio:«Non vi lascio soli, ma vi mando un Consolatore», ci ha promesso Gesù. E’ lo Spirito del Risorto che ci accompagna nel viaggio di ritorno verso il Padre.  Forse, a questo punto, è il caso di parlare un po’ di più di questo nostro Compagno di viaggio, da sempre presente nella storia della salvezza, nell’avventura dell’antico Israele, nella vicenda terrena di Gesù di Nazareth e nella vita della Chiesa di Cristo.  Dio realizza la storia della salvezza con la potenza del suo santo Spirito. L’economia salvifica è tutta percorsa dalla «dynamis» (forza) di Dio, che è il suo Spirito. Lo Spirito, inoltre, è stato rivelato da Gesù, perché in lui ha agito con potenza e da lui è stato promesso alla Chiesa nascente. La fede della Chiesa nello Spirio Santo, quale «Signore che dà la vita, procede dal Padre, che insieme col Padre e col Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti» (Costantinopoli, a. 381), tale fede trae origine proprio da questo: dal riconoscere in Gesù il Figlio inviato dal Padre, il Dio vivente, che ci salva nel suo Spirito. Lo Spirito Santo appartiene dunque alla confessione della fede in Cristo e con essa rende conto della verità e dell’efficacia della rivelazione e del dono della salvezza cristiana. Tutta la storia della salvezza testimonia l’opera salvifica dello Spirito. Lo Spirito di Dio, per l’A.T., è la potenza personale di Jahvé, la forza comunionale che stabilisce la relazione fra Dio e le sue creature: escludendo una parentela ontica, anzi proprio in forza di una radicale alterità, lo Spirito consente l’incontro tra Dio e l’uomo, attuato attraverso una serie di interventi storici progressivi, volti ad un futuro universale di salvezza. Nell’esperienza dell’antico Israele, che sperimenta le meraviglie di salvezza, la «ruah Adonai» (Spirito del Signore) assume un  triplice compito: cosmologico, antropologico e teologico. Cosmologico: la ruah è il respiro di Dio, il vento divino che spira dolcemente o che sibila impetuosamente su tutte le creature e che le mantiene in vita, perché segno della presenza e della potenza del Creatore. Antropologico: il respiro di Dio è la condizione di vita dell’uomo, in un certo senso è la vita stessa. Quando muore, l’uomo perde la ruah («Se ritrai il tuo respiro, muoiono e ritornano nella polvere; mandi il tuo alito, vengono creati e rinnovi la faccia della terra – Sal 104,29»). Teologico: nell’A.T. c’è un senso del termine ruah qualitativamente superiore agli altri: essa (la ruah) non è solo il principio della vita biologica, ma anche il principio della comunione e dell’amicizia con Dio: lo Spirito crea un cuore nuovo (Ez) ed è una forza che trasforma gli uomini e li conferma nell’alleanza e nella vocazione di servitori e collaboratori di Dio.  Nel N.T. lo Spirito è svelato quale prerogativa dell’Uomo Nuovo, che è Cristo. Nei sinottici la storia di Gesù è interpretata tutta in senso pneumatologico: Gesù è un carismatico, non nel senso che è un «invasato» dello Spirito come gli antichi veggenti, ma nel senso che in lui dimora la potenza di Dio, che lo fa parlare con autorità ed agire con potenza; lo Spiriro Santo è la «regola» della vita di Gesù: Egli è presente al momento dell’incarnazione, al momento del battesimo al Giordano, sulla croce, nel sepolcro scoperchiato per lasciare ascendere al Padre il Risorto, nella pentecoste. In tal senso, già san Basilio Magno, nel IV sec., definì lo Spirito come «il compagno di viaggio» del Cristo (De Spiritu Sancto). Negli Atti degli Apostoli, la Chiesa è il tempo dello Spirito di Gesù: lo Spirito fa ripetere i gesti di Gesù, fa annunciare la parola di Gesù, rende presente Gesù nella frazione del pane, garantisce la comunione in Cristo e tra i fratelli. In Paolo la pneumatologia assume un chiaro tenore soteriologico: lo Spirito diventa prerogativa degli uomini nuovi, cioè di coloro che, consepolti e risorti con Cristo Uomo Nuovo, sono tempio dello Spirito e figli di Dio. In Gv lo Spirito è il Paraclito (l’avvocato, colui che intercede a favore dei discepoli, il consolatore); ed è lo Spirito di Verità, che, pur rimanendo — come scrive Balthasar — «lo Sconociuto al di là del Verbo», guida alla verità tutta intera, la verità che salva e libera dal peccato. Insomma, nella linea dell’A.T., lo Spirito secondo il N.T. agisce nella storia, concentrandosi nella singolare persona del Cristo: Cristo è il salvatore, e lo Spirito è lo Spirito del Salvatore. In quanto nell’evento di Cristo si ha la massima concentrazione dell’opera dello Spirito, attraverso Cristo si attua pure la massima dilatazione pneumatica: lo Spirito si diffonde su ogni «carne» e nella Chiesa e attraverso la Chiesa anticipa e prepara la rigenerazione universale, cosmica e umana. Avviene, così, la prosecuzione storico-salvifica dell’evento di Cristo nell’evento dello Spirito, come ha affermato il Vat. II: «Il Signore Gesù, « che il Padre santificò e inviò nel mondo – Gv 10,36″, rese partecipe dell’unzione dello Spirito, con la quale è unto, tutto il suo Corpo mistico» (OPT 1,2). Il senso è chela storia della salvezza dopo la dipartita di Gesù consiste in una partecipazione storico-salvifica all’unzione di Gesù stesso, così che qualcosa di lui continua nella storia, cioè la pienezza del suo Spirito. Questa «tradizione» (nel senso di «trasmissione») dello Spirito nella storia avviene nella e per mezzo della Chiesa fondata da Cristo, di cui lo Spirito del Risorto è come l’anima. L’opera dello Spirito nella storia della salvezza, nella Chiesa e tramite la Chiesa Mistica Persona, secondo la suggestiva definizione del teologo H. Mühlen, si può dunque descrivere con la formula: «una Persona in molte persone». In tal senso la Chiesa è il mistero dello Spirito Santo che «vive» in Cristo e nei cristiani. E il cristiano, a sua volta, è l’uomo «spirituale»: l’uomo «nato dallo Spirito» (cf. Gv 3) e che vive «secondo lo Spirito» (cf. Gal 5,13 ss.). L’uomo «spirituale», reso solidale al Cristo dallo Spirito Santo, è una «nuova creatura» (cf. 2 Cor 5), uomo nuovo rispetto all’uomo vecchio, l’antico Adamo, che ormai, a causa del peccato, è fatiscente e votato alla distruzione.  Da quanto detto sin qui, risulta chiaro che è proprio lo Spirito Santo che realizza, nella Chiesa e in ciascun cristiano, la santità. La santità, in tale prospettiva «pneumatica», si caratterizza come vita dello Spirito in noi: è lo Spirito Santo che garantisce la presenza in noi della vita agapica trinitaria, colui che fa dell’uomo il tempio santo di Dio. E, allo stesso tempo, lasantità si caratterizza pure come vita nello Spirito: non solamente il cuore del credente diventa tabernacolo della vita pneumatica, ma la stessa vita pneumatica diventa l’ambiente vitale e l’atmosfera in cui il credente matura la santità. Ce lo insegna san Paolo nelle sue lettere ai Galati e ai Romani: «Lo Spirito grida in noi: Abbà, Padre» (Gal 4,6); «noi gridiamo nello Spirito: Abbà, Padre» (Rm 8,15).
 UNA MISTICA DELL’AZIONE E PER L’AZIONE
 Per concludere la nostra riflessione, passiamo a considerare in che senso si può parlare di «una mistica dell’azione e per l’azione». Avendo già chiarito che la vita cristiana è, in un certo senso, vita «mistica», — in quanto vuol dire «vivere nel mistero di Cristo», in comunione col Crocifisso-Risorto, nel vincolo dello Spirito Santo –, possiamo affermare che essa (la vita cristiana) può e deve coincidere con la nostra esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta in sé. Esistono due ambiti — in cui contemplazione ed azione si accompagnano vicendevolmente — che mostrano molto chiaramente la portata «mistica» della vita cristiana; si tratta della liturgia e della preghiera, che in realtà, spesso, si incontrano l’una con l’altra sino a identificarsi.  La liturgia costituisce il tempo e lo spazio teologici in cui il mistero di Cristo si ripresenzializza in seno alla comunità ecclesiale riunita in assemblea. E’, dunque, un momento della vita cristiana che potremmo dire «mistico» per eccellenza. Già i Padri della Chiesa definivano le azioni liturgiche, specialmente le celebrazioni dei sacramenti, come dei «misteri», i sacri misteri di Cristo, che rendono presente per i cristiani d’ogni epoca, al di là dei limiti spazio-temporali, la Pasqua del Cristo. Il Vat. II ha ricordato, ai nostri giorni, questa importante verità. Secondo il n. 2 della Sacrosanctum Concilium, «la liturgia [...] contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo», che è come dire che la liturgia rende possibile, realizza e manifesta il pieno inserimento del cristiano (e dei cristiani che costituiscono la comunità) nel mistero della salvezza di Cristo. La stessa SC, al n. 10, afferma ancora che «la liturgia è il culmine verso cui tende tutta l’azione della Chiesa e, al contempo, la fonte da cui promana tutta la sua energia».  «Tutta l’azione» della Chiesa (e quindi dei cristiani) è espressione che racchiude in sé tutti quei «livelli», o quelle «modalità», della vita cristiana di cui oggi abbiamo parlato. Nella celebrazione liturgica, specialmente nella celebrazione eucaristica, ogni impegno apostolico, ogni sforzo ascetico, ogni contemplazione, confluiscono e si inverano, diventando autentiche dimensioni del vivere alla sequela di Cristo, come figli del Padre e tempio dello Spirito. Nella liturgia il cristiano diventa «mistico», in quanto nell’azione liturgica avviene il più intimo legame tra Dio e gli uomini, la loro comunione. Come ci ha assicurato Gesù stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me, ed io in lui» (Gv 6,56). E’ ancora la SC n. 10 che afferma: «La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei « sacramenti pasquali », a vivere « in perfetta unione »; prega affinché « esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede »; [...]. Dalla liturgia, dunque, — continua la SC — e particolarmente dall’eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la Grazia, e si ottiene con la massima efficacia la santificazione degli uomini nel Cristo e la glorificazione di Dio [...]» (n. 10).  La preghiera, a sua volta, è anch’essa un momento privilegiato, in cui il cristiano si incontra faccia a faccia con Dio. Bisogna però constatare, insieme a Giuseppe Lazzati (che ha scritto bellissime pagine sulla preghiera del cristiano), «che purtroppo i cristiani non pregano; [...]. E naturalmente questo ha come conseguenza che diventa difficilissimo per il cristiano cogliere quell’aspetto contemplativo della vita, che ha una [sua speciale] potenza per trasformare il senso della vita, [...che da Dio ci viene offerta in dono]. Allora che cos’è pregare? [...] Pregare è avere coscienza dell’essere creatura, e creatura in stato di redenzione, che non riesce ad essere se stessa se non attraverso la forza, l’aiuto, l’alimentazione, il respiro che le è dato precisamente da questo approfondire il rapporto con Dio, penetrandolo sempre più attraverso quelle che sono le vie che permettono questa penetrazione. E la prima via è la via della Parola, [...]. Pregare è prima ascoltare [e meditare la Parola]; per poi dire. Per poi dire e dire in molti modi [nell'adorazione silenziosa, oppure nella lode gioiosa, oppure ancora nel ringraziamento, nell'umile e nascosta richiesta di perdono, nell'impetrazione]».  «Ecco perché — osservava Lazzati — la contemplazione per l’uomo normale (non per quello che ha la possibilità di ritirarsi per unicamente dedicarsi a questo [ossia il «monaco»]), per l’uomo normale che vive tutti gli impegni della propria giornata, tutti i doveri, gli affari della propria vita quotidiana, nella situazione normale [e feriale] della vita familiare e sociale, diventa la preghiera», ossigeno divino nei nostri polmoni. La preghiera, in questa prospettiva, può diventare uno strumento potente ed efficace per acquisire e maturare un vissuto autenticamente «mistico»: per mezzo della preghiera costante e silenziosa ci si può ritagliare un pezzo di «deserto» (inteso, in senso biblico, come «luogo» in cui si incontra Dio) nel bel centro della città, ossia della nostra attività quotidiana. A questo proposito Carlo Carretto consigliava di «crearsi un piccolo luogo tranquillo nella propria casa, nel proprio giardino, nella propria soffitta, per trovarvi Dio nel silenzio e nella preghiera». Ma, con la preghiera quotidiana, fatta di silenziose parole rivolte a Dio nel cuore e nella mente, e impastata delle varie nostre azioni giornaliere, dei nostri impegni di lavoro, del nostro ascoltare e dialogare, delle nostre relazioni personali, persino del nostro semplice leggere il giornale, con una tale preghiera — che pulsa vita e fa pulsare la nostra vita — si può e si deve, oserei dire, trasformare la «città», ossia la nostra esistenza privata, comunitaria e pubblica, in un pezzo di «deserto», ove incontrare il Signore che ci parla e ci viene a visitare.  In tal modo, la nostra esperienza quotidiana viene assimilata tutta nella nostra «vita cristiana», acquista senso e motivazione: noi la offriamo al Cristo, e il Cristo se la assume per presentarla al Padre. E’ a questo livello che la santità diventa Vita: la Vita dello Spirito di Dio in noi; e la vita nostra vissuta in comunione allo Spirito di Dio. Vita dello Spirito e nello Spirito, che assimila in sé tutta la nostra esistenza, rendendola il «luogo» dove Dio si incontra con noi, e noi con Dio: questa è la santità.  Ma attenzione: la santità intesa come «salvezza che viene donata dall’Alto», non è mai una santità che indulge al miracolismo e al quietismo; non è una santità dissociata dall’impegno personale e comunitario di tipo apostolico e caritativo, e — persino — etico e sociale.Mons. A.A. Intreccialagli, che fu vescovo santo della mia diocesi di Caltanissetta dal 1907 al 1921, in una lettera ad una sua discepola spirituale, scrisse che bisogna «vivere la vita di Maria senza lasciare quella di Marta». Evocare le figure delle due sorelle di Betania amiche di Gesù è un bel modo per descrivere come, nella vita del cristiano, spiritualità «incarnazionista» e spiritualità «escatologica», attività apostolica e contemplazione vanno insieme, fino a coincidere. Voglio dire che, a mio parere, la contemplazione e l’azione, nella vita del cristiano, non hanno lo stesso rapporto che per gli umanisti discepoli di Cicerone hanno l’otium e il negotium, ossia il periodo di quiete totale (l’otium) in cui si riacquistano le energie fisiche e mentali per affrontare, poi, meglio gli affari pratici della vita (il negotium). La spiritualità cristiana, almeno per noi credenti, non prevede semplicemente che la contemplazione faccia da sostegno all’azione apostolica e alle attività quotidiane; ma prevede piuttosto che, nella docilità all’opera dello Spirito dentro di noi e in mezzo a noi, la nostra stessa attività quotidiana diventi l’«occasione» d’incontro comunionale con Dio, dandoci l’opportunità di diventare dei veri «mistici», mistici che accolgano con gratitudine i doni che gratuitamente lo Spirito di Dio elargisce e che li lascino fruttificare come Dio vuole.  Per noi tutto ciò vuol dire non solo essere «contemplativi nell’azione», come spesso si dice, ma anche essere «apostoli nella contemplazione». Nel momento in cui vi ritirerete alla scuola dello Spirito, infatti, non avrete abbandonato il ruolo che esercitate nella comunità parrocchiale o in seno alla società civile, poiché ascoltare la voce di Dio è anche, oggi più che mai, ascoltare quello che ci dicono i fratelli (anche i più «piccoli»!) e ravvisare, nelle loro parole di richiesta e di protesta, ciò che Dio vuole per tutti noi. Se essere «contemplativi nell’azione» significa agire sempre nella consapevolezza di stare immersi nel «mistero»; essere «attivi nella contemplazione» vuol dire portare dentro il «mistero» i problemi, le ansie, le soddisfazioni, i fallimenti, i progetti, le attività della nostra giornata, facendo di tutto ciò una continua preghiera a Dio. Se ci poniamo alla completa disposizione verso il «mistero», ci accorgiamo che contemplazione e azione sono due dimensioni dello stesso «mistero» che si lascia cogliere da noi e che opera in noi e in mezzo a noi; due dimensioni coestensive che finiscono per costituire un’unica dimensione: la dimensione «misterica» in cui il cristiano viene reso solidale al suo Cristo. In tal senso, nella vita del cristiano, il contemplare non può essere disgiunto dall’operare. Per noi ciò significa disporci, nella docilità all’ispirazione dello Spirito di Dio, all’ascolto dei fratelli, per discernerne e interpretarne i disagi e le aspirazioni più intime; significa scegliere prudentemente i momenti più opportuni per bussare alla porta della loro esistenza; significa percorrere insieme con la gente comune la strada della vita, ma con la sollecitudine a fermarci per soccorrere chi si stanca o si infortuna e per invitare a camminare con letizia, mentre, già noi stessi, procediamo con passo di danza.

COMMENTO ESEGETICO DELLE LETTURE BIBLICHE DELLA II DOMENICA DI QUARESIMA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/09-10/03-Quaresima-C_10/Omelie/02-Domenica-FM.html

TEMPO DI QUARESMIA -  ANNO LITURGICO C   / 2a Domenica di quaresima

COMMENTO ESEGETICO DELLE LETTURE BIBLICHE   

Introduzione:
La Prima lettura delle cinque domeniche di Quaresima disegna un percorso lungo l’intera storia biblica, dalla creazione ai patriarchi a Davide ai profeti. Questo itinerario biblico, che sarà ripercorso nella grande Veglia pasquale, tende alla Pasqua di Cristo, piena rivelazione e compimento del disegno salvifico di Dio. La Seconda lettura e i brani del Vangelo propongono a loro volta un itinerario cristologico. Nella seconda domenica di Quaresima il vangelo della Trasfigurazione ci fa contemplare in anticipo il mistero della morte e della glorificazione di Gesù.
1a LETTURA:  Dio stipula l’alleanza con Abramo fedele (Gn 15,5-12.17-18)
Salmo Responsoriale : (Sal 26) Rit. Il Signore è mia luce e mia salvezza
2a LETTURA:   Cristo ci configurerà al suo corpo glorioso (Fil 3,17-4,1)
Canto al Vangelo:  Lode e onore a te, Signore Gesù
VANGELO: Mentre Gesù pregava, il suo volto cambiò d’aspetto (Lc 9,28b-36)
Commento esegetico

PRIMA LETTURA (GN 15,5-12.17-18).
Una delle tappe più importanti della storia biblica è l’alleanza con Abramo. Preceduta dall’alleanza con Noè e approfondita dal patto del Sinai, essa prefigura e prepara la nuova ed eterna alleanza realizzata per mezzo del sacrificio di Cristo.
Con la chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) Dio inizia una fase nuova della storia della salvezza. Essa è accompagnata da una « benedizione »: « in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra ». La promessa della discendenza (« Farò di te un grande popolo ») si completa con una seconda promessa: « Tutto il paese che tu vedi lo darò a te e alla tua discendenza per sempre » (13,15). Rispondendo ad Abramo, che si lamenta di non avere figli, il Signore gli assicura un erede: « Guarda in cielo e conta le stelle… Tale sarà la tua discendenza » (v. 5): il dono di Dio è totalmente gratuito e supera le sue attese. Abramo « credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia » (v. 6): la fede di Abramo nella parola di Dio ne fa un modello sia per gli ebrei (cf. Sir 50,20) sia per i cristiani (cf. Gal 3; Rm 4; Eb 11,8-19). E, poiché egli chiede: « Come potrò sapere che avrò il possesso [della terra promessa]? », il Signore risponde con un solenne giuramento all’interno di una visione simbolica (vv. 7-19), che drammatizza l’alleanza tra Dio e il patriarca.
Nel c. 17 della Genesi si legge una nuova versione dell’alleanza. Apparendo ad Abramo, il Signore gli dice: « Ecco, la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli… Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te ». Segno dell’alleanza sarà la circoncisione, che distinguerà la stirpe di Abramo dai popoli vicini.
Paolo interpreta la vicenda del patriarca dal punto di vista cristiano: figli di Abramo sono « quelli che camminano sulle orme della fede del nostro padre Abramo » (Rm 4,12), « il quale è padre di tutti noi… che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore » (Rm 4,12.16.24; cf. Gal 3,7). Così, l’alleanza con Abramo non riguarda solamente Israele « secondo la carne » (cf. 1 Cor 10,18), ma « tutto l’Israele di Dio » (cf. Gal 6,16).

LA SECONDA LETTURA (FIL 3,17-4,1)
è un preannuncio della Pasqua di risurrezione. Paolo sta polemizzando con predicatori cristiani giudaizzanti, i quali vogliono imporre la circoncisione ai gentili che hanno abbracciato la fede. Alla « giustizia derivante dalla Legge » egli contrappone la « giustizia che viene da Dio, basata sulla fede » e, a questo riguardo, ricorda la propria conversione. In questo senso invita tutti a seguire il suo esempio (« fatevi… miei imitatori »; cf. 3,17; 1 Cor 4,16; 11,1). Molti, invece, « si comportano da nemici della croce di Cristo ». L’Apostolo non sta parlando di non credenti, bensì di coloro che la « rendono vana » con l’esigere la circoncisione e l’osservanza della Torà. Più volte egli ha messo in guardia da questo errore; ora ripete il suo monito « con le lacrime agli occhi ». Rincarando la dose, aggiunge che i falsi maestri hanno per dio « il ventre », con riferimento probabilmente alle osservanze alimentari giudaiche (cf. Rm 14,1ss), ma potrebbe anche alludere a licenze sessuali (« si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi »). In ogni caso, i nemici della croce di Cristo « non pensano che alle cose della terra »; la loro sorte finale sarà « la perdizione » eterna.
In contrasto con tale atteggiamento, Paolo indirizza gli sguardi al futuro ultimo, che sotto un certo aspetto è già presente per i credenti: « La nostra cittadinanza… è nei cieli », la dimora di Dio, che un giorno sarà anche la nostra « dimora eterna » (Fil 3,14; cf. 2 Cor 5,1). Veri cittadini della città terrena (cf. Fil 1,27), nello stesso tempo i cristiani appartengono a quella celeste e, di conseguenza, si considerano « stranieri e pellegrini » in questo mondo (cf. 1 Pt 2,11; Eb 11,13). La tensione verso la patria celeste si manifesta nell’attesa della Parusìa, quando il Signore Gesù dal cielo come salvatore. Allora Cristo risorto, « primizia di coloro che sono morti » (1 Cor 15,20), porterà con sé quanti gli appartengono (cf. 1 Ts 4,14-17) e « trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso » (1 Cor 15,51-53; Rm 8,23). « In virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose » (cf. 1 Cor 15,25-26), egli ci farà pienamente partecipi della sua risurrezione.

VANGELO (LC 9,28B-36).
La trasfigurazione di Gesù sul monte rivela la sua identità, confermando la confessione messianica di Pietro, e anticipa la gloria della risurrezione e quella che si manifesterà nel suo ritorno glorioso.
Luca ne precisa il contesto: Gesù è in preghiera. Ha preso con sé tre discepoli che gli sono particolarmente vicini (cf. 8,51). Il suo aspetto, come trasformato, e le vesti sfolgoranti sono quelli di un essere celeste, o a diretto contatto con Dio (cf. Es 34,29s: Mosè nella tenda del convegno). Accanto a Gesù compaiono due personaggi: Mosè ed Elia – che rappresentano la Legge e i Profeti – i quali conversano con lui. Tema del dialogo, precisa Luca, è « il suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme ». Esso certamente consiste nella morte, ma si concluderà con l’ingresso di Gesù « nel suo regno » (23,42). Benché « oppressi dal sonno », come accadrà nel giardino degli ulivi (22,45), a un certo punto i tre testimoni si destano e « videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui ». Galvanizzato dall’esperienza, ma non senza ingenuità, Pietro propone di erigere tre tende o capanne, com’è uso nella festa di Sukkôt (cf. Lv 23,39-43).
Sopraggiunge una vera e propria teofania: la presenza misteriosa di Dio si manifesta nella « nube » (cf. Es 24,18) e – come al battesimo (3,22) – si fa udire la sua « voce », che indica in Gesù « il mio figlio, l’eletto ». Il primo titolo ha una risonanza messianica (cf. Sal 2,7); il secondo richiama la figura isaiana del « servo di JHWH » (cf. Is 42,1; 49,7). Ingiungendo ai discepoli: « Ascoltatelo! », la voce di Dio conferma quanto Gesù ha detto di sé, ma altresì quanto ha insegnato e continuerà a insegnare loro. La straordinaria esperienza ha termine. Fedeli al precedente ordine di Gesù (9,21), i tre testimoni della sua gloria « in quei giorni non raccontarono nulla a nessuno di ciò che avevano visto ».

 D. FRANCESCO MOSETTO sdb

IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO – molto da Paolo

http://www.unionecatechisti.it/Catechesi/Corsi/C02_03/R030601/R030601.htm

IL FRUTTO DELLO SPIRITO SANTO

1-6-2003

Don Mauro Agreste

INDICE

1) Convincere qualcuno a lasciarsi guidare da Dio
2) Comunicare il nostro incontro personale con Gesù
3) La dottrina ed il cuore: ci vogliono entrambi
4) Galati 5: i frutti della carne, il frutto dello Spirito
5) Si sta manifestando in me il frutto dello Spirito? Amore, pace …
6) La pazienza
7) Benevolenza ( Rm 12,14 )
8) Bontà
9) Mitezza
10) Carità e umiltà
11) La tua lingua usa la parola di Dio? ( Gc 3 )
12) Deserto: tempo con Dio, da soli.

1) CONVINCERE QUALCUNO A LASCIARSI GUIDARE DA DIO
Tu non sei colui che riceve, ma colui che porta, devi fare in modo che chi riceve sia invogliato a ricevere ciò che tu dai.
Però tu non puoi mangiare il cibo al posto di un altro, è vero?
Vi immaginate la scena di un cameriere che viene a portarvi la roba nel piatto e poi ve la mangia? No!
Però il cameriere ti convince: assaggia questa roba è veramente speciale, perché ti convince?
Perché prima l’ha assaggiata lui, perché ha fatto l’esperienza.
Come fai tu a convincere una persona che è bello lasciarsi guidare da Dio?
Fatevi venire in mente nella vostra giornata una persona che conoscete e che secondo voi veramente dovrebbe lasciarsi guidare da Dio, ma non lo conosce.
Come fate a convincerlo? Dipende dalla nostra convinzione, dipende dalla nostra esperienza.
Se noi abbiamo fatto un’esperienza della struttura religiosa non convinceremo nessuno, se noi abbiamo incontrato Cristo sì, perché non siamo noi a convincerla, è la nostra gioia: « Sono venuto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena » ( Gv 15,11 ).
Questo vuol dire che tutto quello che fa parte della tua vita, puoi essere tribolato in molti modi, ma se tu hai incontrato Cristo, tutte le tua tribolazioni non sono capaci di toglierti la gioia.
Bene adesso restate immobili come siete e a due a due guardatevi, ma senza cambiare espressione.
Eh!, avete cambiato espressione!
Lo sapete che certe volte evangelizza di più uno sguardo che non cento discorsi, come pure scandalizza di più uno sguardo che non cento discorsi.

2) COMUNICARE IL NOSTRO INCONTRO PERSONALE CON GESÙ
Gesù lo ha detto, l’occhio è la lanterna dell’anima, se il tuo occhio sarà limpido tutta la tua anima sarà nella luce.
Questo ci fa capire che tutto di te è comunicazione di un incontro di una intimità che c’è, oppure che non c’è.
Ve l’ho già detto: certe volte vedo delle persone che vengono a fare la comunione che io dico: anima mia, se ti fa così paura io non te la do; non ti sto facendo un dispetto a darti la comunione.
Perché si vede quando una persona è innamorata di Gesù, si vede persino come viene a fare la comunione, si vede, voi non ci credereste, ma vorrei che certe volte poteste fare quest’esperienza.
Arriva la persona disinteressata, oppure scrupolosa, oppure la persona timorosa, oppure la persona innamorata di Gesù.
Sì, tutti ti dicono amen, ma come sono diversi questi amen!
Allora tu potresti fare un discorso dottissimo, con tutte le tue capacità, con tutte le tue fantasie, con tutte le tue efficienze, cartelloni e pongo, tutto quello che vuoi e alla fine dell’anno i tuoi ragazzi non hanno ancora incontrato Gesù!
Oppure tu puoi parlare di Gesù, facendo una passeggiata con una persona.
E nessuno immagina che tu stia facendo catechismo in quel momento; e quella persona ti dice, a distanza di anni: quello che tu mi hai detto, mi è entrato nel cuore.
Allora capite che cosa è importante?
Che nel comunicare la verità devi essere come il vino genuino: un’autentica spremuta di uva.
E quindi quello che voi comunicate deve essere un’autentica spremuta d’amore, deve venire direttamente dal cuore.
Nell’esperienza di preghiera c’è un’esperienza molto famosa, che per fortuna in questi ultimi anni si sta rivalutando fortemente, che è l’esperienza dell’adorazione.
La stessa parola ad os che viene dal latino significa portare alla bocca ciò che c’è nel cuore; questo vuol dire che quando tu fai catechesi in teoria si potrebbe quasi dire che tu stai facendo adorazione, se porti alla bocca l’abbondanza del cuore.
La domanda è che cosa c’è nel mio cuore?

3) LA DOTTRINA ED IL CUORE: CI VOGLIONO ENTRAMBI
Al termine di questo anno o di questi anni la cosa fondamentale sarà di scoprire se dentro il nostro cuore c’è veramente un legame affettivo con il Signore o se c’è solo un legame dottrinale, che per carità è una cosa buonissima, meno male che c’è.
Qualche tempo fa si parlava nella sede di S. Barnaba, sulla questione della catechesi a memoria o non a memoria come si faceva un tempo, vi ricordate?
Qual era il valore di tutto questo? È come chi ha la dottrina, ma non ha il cuore, almeno hai la dottrina, poi verrà anche il cuore.
Però non può esserci solo l’una o solo l’altra, anche il tuo cuore non è sufficiente a coprire la dottrina e io posso essere innamoratissimo del Signore, ma non sapere niente di Lui, come i discepoli che erano stati battezzati però non sapevano che ci fosse uno Spirito Santo.
Ricevuto da Paolo e Barnaba il dono dello Spirito Santo tutta la loro vita è cambiata completamente.
Eppure erano affascinati dalla vicenda storica di Gesù e già si davano molto da fare per l’evangelizzazione.
Voi capite che le due cose non sono indipendenti l’una dall’altra, ma sono fortemente legate tra di loro.

4) GALATI 5: I FRUTTI DELLA CARNE, IL FRUTTO DELLO SPIRITO
L’ultima cosa che vorrei dirvi oggi, ci viene dalla lettera ai Galati 5.
Questo è un criterio di discernimento.
Prima si parla dal versetto 18 in poi dei frutti della carne e se ne parla in forma plurale; e dopo che si è fatto tutto l’elenco dei frutti della carne si parla del frutto dello spirito e c’è un lungo elenco.
Allora qualcuno potrebbe domandarsi come mai prima parla al plurale e dopo parla al singolare.
La ragione è un insegnamento che ci può giungere adesso.
I frutti della carne provocano dentro di noi divisione, ci dividono da Dio e ci dividono anche in noi stessi.
Operano dei tagli, come possiamo dire è una specie di schizofrenia; quindi è giusto che anche ortograficamente sia indicato con un plurale.
Il frutto dello spirito invece è un frutto che ha molti sapori, ma che conduce all’unità: unità con te stesso, unità con i Fratelli, unità con il mondo, unità con Dio.
Ecco perché il frutto dello spirito è uno solo, ti conduce all’unità, ma ha molte sfaccettature.
Come per esempio un brillante è sempre un solo diamante, ma ha molte sfaccettature e se non ha quelle sfaccettature non è un brillante, continua ad essere un diamante, ma non è un brillante!
Così il frutto dello spirito ti permette di essere veramente come devi essere: amore, gioia pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.
Questi sono i criteri fondamentali che ci servono per capire se lo spirito di Dio dentro di noi comincia ad agire oppure no.

5) SI STA MANIFESTANDO IN ME IL FRUTTO DELLO SPIRITO? AMORE, PACE …
Allora prendetevi questa citazione, il frutto dello spirito Gal 5,22 perché nel deserto voi dovrete leggervi questa parte, dovrete soffermarvi e domandarvi non per dare una risposta a me, ma per dare una risposta a voi stessi.
Nella mia vita si sta manifestando il frutto dello Spirito?
Do delle semplici definizioni.
Amore: volere e fare la felicità dell’altro.
Pace: realizzazione delle promesse di Dio.
La pace non è la quiete, la pace è attività.
Dio ha promesso certe cose, se io sono una persona di pace le realizzo.
Ditemi qualche promessa di Dio.
La verità vi farà liberi, dunque se io sono un uomo di pace sono un uomo di verità, è facile?
Questo è un esempio, quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Cerchiamo le promesse di Dio, ne troveremo qualcuna nella Bibbia; nella Bibbia ci sono circa ottomila promesse di Dio, vi bastano?
Spero che la leggiamo la Bibbia, vero? Non possiamo portare Gesù agli altri se non lo conosciamo, vero? Quindi pensiamoci un po’ seriamente.
Lui è la verità che ti porta alla verità e se necessario va dal tuo direttore spirituale e fatti aiutare.
Su questo punto continuo a battere, non è possibile fare un cammino cristiano autentico senza direttore spirituale, siamo d’accordo? Il fai da te è molto pericoloso.

6) LA PAZIENZA
Pazienza non vuol dire rassegnazione.
Pazienza da patior, un verbo latino deponente che ha la forma passiva, ma il significato attivo, e che vuol dire: io condivido, sento la medesima cosa di …
La pazienza è la capacità di vivere la medesima cosa.
Dio è paziente perché si è fatto carne ed è venuto a condividere la nostra situazione e condizione umana.
Quindi la pazienza è ciò che troviamo nella lettera ai Romani di Paolo: gioite con chi è nella gioia, piangete con chi è nel pianto; quindi pazienza vuol dire proprio coloro che si fanno carico gli uni degli altri, si mettono nei panni di, non per giustificare ma per elevare.
Tu ti trovi con una persona che vuole abortire, ti metti nei panni di quella persona e dici è vero ha tante difficoltà, mi metto nei suoi panni, la capisco la giustifico, no!
Mi metto nei suoi panni, la capisco e l’aiuto.
Se non posso aiutarla in un altro modo, apro il borsellino e l’aiuto in quel modo, perché se la situazione è veramente una mancanza economica, allora tu che lo sai non puoi dire: io metto il mio gruzzolo in banca, perché tanto sono a posto.
Che male faccio? Lavoro, è giusto ecc. ecc.
Tu sai che sta per compiere un sacrilegio, oltre che un assassinio e stai tranquillo?
Sto facendo degli esempi paradossali.
A volte ci sono altre motivazioni che non sono quelle economiche e proprio per questo motivo tu ancora di più sei chiamato a vivere la pazienza, la pazienza nella condivisione per elevare non per giustificare!

7) BENEVOLENZA ( RM 12,14 )
Benevolenza, Rm 12,14 e seguenti: per quanto vi riguarda cercate di andare d’accordo con tutti, ma se non vi fosse possibile, rispondete al male che ricevete con il bene.
Benevolenza significa volere il bene, volere il bene di tutti, anche del nemico; volere il bene è faticoso, impegnativo ed esigente, perché volere il bene significa anche essere disposti a dire tanti no.
Ti rendi impopolare a dire no, però se tu vuoi il bene del prossimo devi anche essere capace di dire no.
Dire sì quando è si e no quando è no.
Quando negli anni ’60 alcuni pedagogisti hanno pensato che un’educazione in cui fossero presenti le privazioni, fossero presenti i no, fosse un’educazione di tipo deleterio, molte persone vi hanno creduto.
Il risultato è che in quegli anni andava di voga un certo tipo di educazione molto permessivista, non esisteva il no!
Quali sono i frutti che abbiamo raccolto? Persone traumatizzate; poiché la vita continua ad essere difficile per tutti, anche per quelli che si sono abituati fin da sempre ad avere dei sì.
Ad un certo momento la vita ti pone di fronte a delle situazioni in cui è no, anche se tu vorresti che fosse si e questo crea dei traumi, crea delle depressioni, crea delle persone incapaci di affrontare la realtà, crea persone immature.
E, a seconda dello stato che stanno vivendo, cadono nella depressione o cadono nella esasperazione.

8) BONTÀ
La bontà è quella caratteristica che ti fa amare il buono e vedere il buono e far riferimento al buono che trovi intorno a te, per farlo crescere.
Quindi come educatori, voi lo sapete, fa parte del metodo preventivo ideato da don Bosco, quello di trovare ciò che c’è di positivo in quella persona e fare riferimento a quello per farlo crescere; insieme alla capacità di correggere per eliminare ciò che non è positivo.
Quello che vi dico semplicemente per la vostra praticità nell’attività catechetica, però vedere il buono.
Incontri una persona, nella tua situazione, nella tua famiglia ecc. ecc.. occorre fare riferimento a ciò che è buono, cercare ciò che unisce, evitare ciò che divide.
Ecco non significa mistificare la verità, non ho detto compromesso.
Cercare ciò che è buono non vuol dire cercare il compromesso, vuol dire essere sempre servi della verità, ma dando particolare rilevanza a ciò che è buono.

9) MITEZZA
Mitezza: una persona mite non è una persona mansueta, non è una persona senza spina dorsale; una persona mite è una persona che sa usare bene delle proprie energie, che sono dono di Dio.
Quindi la decisione, la perseveranza, la temperanza, il dominio di sé: è una persona che è profondamente libera e che difende la propria libertà, che ha ricevuto in dono da Gesù Cristo e proprio a causa della Redenzione, Passione, morte e risurrezione.
La persona che è capace di dominare se stessa, è una persona che desidera essere libera, cioè una persona che non vuole farsi dominare da niente e da nessuno, solo da Gesù Cristo, perché essere dominati da Gesù Cristo significa vivere veramente nella pienezza dell’essere umano, non solo in qualche sua parte.
Su tutto poi deve troneggiare la carità.

10) CARITÀ E UMILTÀ
La carità è fatta proprio di un’intimità con il Signore, Dio mi ama, io lo amo per cui c’è questo frutto dello Spirito che si esercita in un modo imprescindibile che è quello dell’umiltà.
Senza la virtù dell’umiltà tutto quello che abbiamo detto fino adesso è assolutamente inutile.
L’umiltà non è il senso di inferiorità, ma la docilità assoluta allo Spirito di Dio.
La persona umile è la persona che è completamente disponibile, che ha il cuore aperto; la persona umile è la persona che riesce a trovare la via di Dio, anche quando le strade sono molto intricate.
Il discorso dell’umiltà esige più tempo e più discernimento, però tenete presente: sono umile?
Sono docile? Volete un piccolo sistema per scoprire se siamo abbastanza umili o no?
È molto banale, in certi casi è utile, non si può generalizzare però, c’è quello slogan che l’ho già detto tante volte: un cuore pieno di io non ha posto per Dio.
Esaminiamo il nostra modo di parlare.
Noi non siamo anglosassoni, noi non siamo inglesi, non siamo delle persone che devono continuamente usare il pronome personale io all’inizio di ogni frase, se lo usiamo alt!
C’è qualche ferita che non va, c’è qualche cosa che deve guarire e allora pensiamoci.

11) LA TUA LINGUA USA LA PAROLA DI DIO? ( GC 3 )
Il nostro modo di essere si esprime anche con la parola e vi lascio quest’ultima citazione.
La lettera di Gc 3 ci dice questo: chi domina la lingua domina tutto il resto del corpo.
Leggetevi questo capitolo e vedrete che è un gioiello, qualcosa di meraviglioso, è pieno di insegnamenti; e vi ricordo che i neurologi hanno confermato questa scrittura di S. Giacomo, perché hanno scoperto che quando noi parliamo usiamo del cervello la quantità maggiore che per fare qualsiasi altra cosa.
Una persona che corre, che fa delle attività particolari usa meno cervello di una persona che parla, perché per far muovere la lingua entrano in funzione moltissimi centri nervosi all’interno del cervello, quindi equivale a dire che la lingua ha un posto preponderante nella persona umana.
Perché? Perché la persona umana è una persona fatta di relazione e la lingua è il modo con cui noi entriamo in relazione con gli altri, la capacità di comunicare.
Allora, se la tua lingua usa le parole di Dio e il pensiero di Dio, se dalla tua bocca esce ciò che è dentro il tuo cuore e ciò che esce è amore per e in Dio allora vuol dire che stai camminando docilmente, seguendo il Signore con la potenza dello Spirito.

12) DESERTO: TEMPO CON DIO, DA SOLI
Ma in questo tempo di deserto abbiamo la possibilità di riflettere di pensare su tanti temi che oggi ho riassunti, ma sono cose che abbiamo toccato durante il corso dell’anno.
Il consiglio pratico è questo: siate un pochino gelosi di questo momento.
Appena abbiamo terminato sapete che avete mezz’ora tutta per voi, però questo per voi dev’essere assoluto, proprio silenzio monastico, siamo d’accordo?
Come se foste diventati tutti dei frati trappisti.
State distanti l’uno dall’altro, perché non vi venga la tentazione di parlare tra di voi.
Vi portate la vostra Bibbia, vi portate il vostro taccuino, vi scrivete le vostre impressioni, vi fate una meditazione scritta, vi sedete sulla collina, guardate il panorama, guardate i fiori, fate quello che volete, ma create dentro di voi questo spazio che dovete difendere gelosamente solo per voi stessi, mi correggo, non per voi stessi ma con Dio da soli, voi due, tu e Lui.
Fate la passeggiata, avete mezz’ora di tempo, riflettete sulle cose che ho richiamato, già trattate durante l’anno e poi dopo ci troveremo insieme per la condivisione, per dire se il Signore vi ha comunicato qualche cosa, se vi è ritornato alla mente qualcosa di importante trattato nel corso dell’anno, per sottolineare qualcosa di edificante e anche per fare qualche domanda, ma non solo per fare delle domande, perché oggi non è una giornata di lezione, va bene?
Vi auguro che questo tempo di silenzio sia vissuto davvero bene.
Di solito quando le persone lo fanno veramente, ritornano molto edificate dentro.
Vi consiglio di iniziare con una invocazione personale alla Madonna, cominciate facendovi un bel segno di Croce.
Se volete, potete passare nella cappellina, anche se andate tutti in gruppo, silenzio assoluto, fate cinque secondi di preghiera e partite.

Sia lodato Gesù Cristo.

L’Eucaristia “sacrificium laudis” – Giovanni Paolo II (11 ottobre 2000)

dal sito:

http://www.novena.it/Giovanni_Paolo_II/03.htm

Catechesi Sull’Eucarestia di Giovanni Paolo II

UDIENZA GENERALE – Mercoledì, 11 ottobre 2000 

 L’Eucaristia “sacrificium laudis” 
 
1. “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria”. Questa proclamazione di lode trinitaria suggella in ogni celebrazione eucaristica la preghiera del Canone. L’Eucaristia, infatti, è il perfetto “sacrificio di lode”, la glorificazione più alta che dalla terra sale al cielo, “la fonte e l’apice di tutta la vita cristiana in cui (i figli di Dio) offrono (al Padre) la vittima divina e se stessi con essa” (LG n.11). Nel Nuovo Testamento la Lettera agli Ebrei ci insegna che la liturgia cristiana è offerta da un “sommo sacerdote santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”, che ha compiuto una volta per sempre un unico sacrificio “offrendo se stesso” (cfr Eb 7,26-27). “Per mezzo di Lui, dice la Lettera, offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode” (Eb 13,15). Vogliamo oggi evocare brevemente i due temi del sacrificio e della lode che si incontrano nell’Eucaristia, sacrificium laudis.

2. Nell’Eucaristia si attualizza innanzitutto il sacrificio di Cristo. Gesù è realmente presente sotto le specie del pane e del vino, come egli stesso ci assicura: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue” (Mt 26,27-28). Ma il Cristo presente nell’Eucaristia è il Cristo ormai glorificato, che nel Venerdì Santo offrì se stesso sulla croce. È ciò che sottolineano le parole da lui pronunziate sul calice del vino: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti” (Mt 26,28; cfr Mc 14,24; Lc 22,20). Se si esaminano queste parole alla luce della loro filigrana biblica, affiorano due rimandi significativi. Il primo è costituito dalla locuzione “sangue versato” che, come attesta il linguaggio biblico (cfr Gen 9,6), è sinonimo di morte violenta. Il secondo consiste nella precisazione “per molti” riguardante i destinatari di questo sangue versato. L’allusione qui ci riporta a un testo fondamentale per la rilettura cristiana delle Scritture, il quarto canto di Isaia: col suo sacrificio, “consegnando se stesso alla morte”, il Servo del Signore “portava il peccato di molti” (Is 53,12; Eb 9,28; 1Pt 2,24).

3. La stessa dimensione sacrificale e redentrice dell’Eucaristia è espressa dalle parole di Gesù sul pane nell’Ultima Cena, così come sono riferite dalla tradizione di Luca e di Paolo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (Lc 22,19; cfr 1 Cor 11,24). Anche in questo caso si ha un rimando alla donazione sacrificale del Servo del Signore secondo il passo già evocato di Isaia (53,12): “Egli ha consegnato se stesso alla morte…; egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. “L’Eucaristia è, dunque, un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, della nuova alleanza, come crediamo e come chiaramente professano anche le Chiese d’Oriente. Il sacrificio odierno – ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca (nel Sinodo Costantinopolitano contro Soterico del 1156-57) – è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo di Dio, viene da lui offerto oggi come allora, essendo l’identico e unico sacrificio” (Lettera Apostolica Dominicae Cenae n. 9).

4. L’Eucaristia, come sacrificio della nuova alleanza, si pone quale sviluppo e compimento dell’alleanza celebrata sul Sinai quando Mosè ha versato metà del sangue delle vittime sacrificali sull’altare, simbolo di Dio, e metà sull’assemblea dei figli di Israele (cfr Es 24,5-8). Questo “sangue dell’alleanza” univa intimamente Dio e uomo in un legame di solidarietà. Con l’Eucaristia l’intimità diviene totale, l’abbraccio tra Dio e l’uomo raggiunge il suo apice. È il compiersi di quella “nuova alleanza” che aveva predetto Geremia (31,31-34): un patto nello spirito e nel cuore che la Lettera agli Ebrei esalta proprio partendo dall’oracolo del profeta, raccordandolo al sacrificio unico e definitivo di Cristo (cfr Eb 10,14-17).

5. A questo punto possiamo illustrare l’altra affermazione: l’Eucaristia è un sacrificio di lode. Essenzialmente orientato alla comunione piena tra Dio e l’uomo, “il sacrificio eucaristico è la fonte e il culmine di tutto il culto della Chiesa e di tutta la vita cristiana. A questo sacrificio di rendimento di grazie, di propiziazione, di impetrazione e di lode i fedeli partecipano con maggiore pienezza, quando non solo offrono al Padre con tutto il cuore, in unione con il sacerdote, la sacra vittima e, in essa, loro stessi, ma ricevono pure la stessa vittima nel sacramento” (Sacra Congregazione dei Riti, Eucharisticum Mysterium, n. 3 e). Come dice il termine stesso nella sua genesi greca, l’Eucaristia è “ringraziamento”; in essa il Figlio di Dio unisce a sé l’umanità redenta in un canto di azione di grazie e di lode. Ricordiamo che la parola ebraica todah, tradotta “lode”, significa anche “ringraziamento”. Il sacrificio di lode era un sacrificio di rendimento di grazie (crf Sal 50[49], 14.23). Nell’Ultima Cena, per istituire l’Eucaristia, Gesù ha reso grazie a suo Padre (cfr Mt 26,26-27 e paralleli); è questa l’origine del nome di questo sacramento.

6. “Nel Sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezione di Cristo” (CCC 1359). Unendosi al sacrificio di Cristo, la Chiesa nell’Eucaristia dà voce alla lode dell’intera creazione. A ciò deve corrispondere l’impegno di ciascun fedele a offrire la sua esistenza, il suo “corpo” – come dice Paolo – in “sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in una comunione piena con Cristo. In questo modo un’unica vita unisce Dio e l’uomo, il Cristo crocifisso e risorto per tutti e il discepolo chiamato a donarsi interamente a Lui. Questa intima comunione d’amore è cantata dal poeta francese Paul Claudel che pone in bocca a Cristo queste parole: “Vieni con me, dove Io Sono, in te stesso, / e io ti darò la chiave dell’esistenza. / Là dove Io Sono, là eternamente / è il segreto della tua origine… / (…). Dove sono le tue mani che non siano le mie? / E i tuoi piedi che non siano confitti alla stessa croce? / Io sono morto e sono risorto una volta per tutte! Noi siamo vicinissimi l’uno all’altro / (…). Come fare per separarti da me / senza che tu mi strappi il cuore?” (La Messe là-bas)

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