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EBRAISMO – ALLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA – DAVIDE

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EBRAISMO – ALLE RADICI DELLA NOSTRA STORIA (PDF)

DAVIDE

Davide Rondoni   ( Da Tracce N. 2 > febbraio 1999)

Nell’Antico Testamento la figura del re incorpora il popolo e fa con esso un tutt’uno. L’esempio del secondo re d’Israele. La sua missione per la grandezza del popolo, la sua grande umanità alle prese con la storia e la miseria umana. Gesù chiamava sé « Figlio di Davide », perché quello era stato il re più grande e amato da Dio M’è capitato di imbattermi nella figura di Davide re lavorando intorno a una nuova versione poetica dei salmi che l’editore Marietti mi commissionò lo scorso anno (Poesia dell’uomo e di Dio). Sapevo già che a Davide si attribuisce la composizione di molti salmi e che, al di là della ancora viva discussione filologica, la sua figura « doppia » di re e poeta è centrale nella storia del popolo ebraico. Ma oltre a ciò, e a quel che qualunque povero cristiano sa dalle letture domenicali della messa e da qualche rudimento appreso qua e là, sapevo ben poco. Sapevo che Dante lo pone in Paradiso al centro della pupilla dell’aquila dei beati che guarda la luce di Dio, secondo la leggenda che l’aquila sia l’unico essere che può fissare il sole e ricordavo che l’autore della Divina Commedia, secondo esegeti autorevoli, vedeva sé come un nuovo Davide poeta. Del resto, nei testi danteschi non mancano riferimenti alla figura di Davide: mentre danza «più e men che re» (Purg. II), «re e umile salmista». Ho poi scoperto che Boccaccio regalò a Petrarca i salmi commentati da Agostino e che il poeta del Canzoniere (e di alcuni Psalmi Poenitentiales) voleva che quel libro gli stesse «di giorno sempre tra le mani e di notte e nell’ora della morte sotto il capo». Lo stesso Nietzsche diceva che nulla in tutta la storia letteraria era pareggiabile a quella poesia di ebrei. Sull’opera e sulla figura di Davide ha lavorato e lavora un’infinita schiera di poeti, pittori, romanzieri e musicisti. Amore e peccato Ma la poesia, anche quella potente di Dante, adombra solo e introduce la realtà. Davide re e poeta compare sull’orizzonte umano e storico della Bibbia come un gigante di umanità. Non a caso, per commentare cosa sia il peccato, sant’Ambrogio, autore di una splendida Apologia prophetae Davide, accosterà la riflessione intorno a san Pietro e al momento in cui Gesù gli chiede se lo ama alla contrizione di Davide omicida e adultero. «Un grande amore – scrive Ambrogio – rimette il peccato». Ambrogio, inoltre, « usa » Davide e le sue storie (anche le sue colpe) come figure e interpretazione del mistero dell’Incarnazione, contro le eresie a lui coeve degli ariani. Le parole del suo salmo 50, Miserere mei, sono entrate non solo nel Purgatorio dantesco, ma nel sentimento di pietà per sé che ogni cristiano è educato a scoprire dalla liturgia. Il numero 50, informano gli esegeti, è posto a quel salmo perché è il numero del perdono: è il numero che compare nella parabola evangelica dei due debitori e sono gli anni che separano l’uno dall’altro i giubilei di misericordia. Su Davide, come su ogni grande, sono fiorite leggende e interpretazioni varie e fantasiose: che fosse una reincarnazione di Orfeo, il semidio dell’antichità; che non fosse un uomo soltanto, ma una serie di re (Davide sarebbe l’equivalente di Zar); che avesse trecento figli; addirittura, Paolo Flores d’Arcais, partecipando a un recente convegno sulla figura di Davide, non gli ha negato un anodino omaggio laico.  Scelto da Dio La Bibbia narra di questo giovinetto dai capelli rossi e chiari, ultimo figlio, che viene individuato dal profeta Samuele. Davide ha 14 anni e nel segreto dei campi assolati di Betlemme viene unto re dal profeta. Siamo vent’anni circa prima del 1000 a.C. Tale scelta resta un mistero. Di certo, ha notato un acuto romanziere biografo di Davide, il giovane poeta pecoraio deve aver maturato in quei lunghi giorni e notti passati nelle deserte campagne con il gregge il suo rapporto così potente con il Dio le cui dita creano il cielo e fissano gli astri, con il Dio «pastore». Ma a corte egli viene invitato perché con la sua poesia possa sollevare l’animo del re Saul, reso greve dall’infedeltà a Dio e tormentato da uno spirito maligno. Il figlio del re, Gionata, ha infatti sentito parlare della bravura di questo giovane poeta che inventa i propri strumenti. A corte diverrà anche guerriero. Dà prova di coraggio e di avere Dio dalla sua parte. Il celebre episodio dello scontro vinto con Golia rappresenta l’entrata nel novero degli eroi del popolo e della corte. Per dieci anni Davide è al servizio del re come soldato. La figlia di Saul, Micol, se ne innamora e il re concede le nozze. Intanto il popolo inizia a prediligere Davide e mormora che egli ha ucciso più di diecimila filistei, mentre Saul « solo » mille. Questo e altro fan sorgere in Saul l’ombra dell’invidia. Egli è poi affranto dal presentimento della fine, preannunciatagli dal profeta Samuele. Dopo le nozze, secondo un piano segreto di Saul, Davide dovrebbe morire. Ma il piano è sventato dall’amore di Micol. Davide è però costretto all’esilio e si separa dall’amato Gionata. Il tempo dell’esilio Il tempo dell’esilio sarà costellato da battaglie, tradimenti, negromanti, da nuovi e numerosi figli, da segreti appostamenti per far comprendere a Saul che egli non lo odia, tanto da risparmiarlo per ben due volte. I due libri di Samuele, nell’Antico Testamento, raccontano questo periodo avvincente. Intanto Saul vive il suo amaro declino, abbandonato via via dal «suo» profeta, da Dio e dal popolo. Davide, dopo aver passati alcuni anni in esilio e dopo aver pianto la morte del suo re Saul, suicida al termine di una battaglia perduta, e di Gionata, può essere Re. Egli ha con sé l’Arca dell’Alleanza, che porta infine a Gerusalemme, la città che stabilisce come capitale. È allora che si situa uno degli episodi più significativi. Egli avanza «danzando con tutte le sue forze» dinanzi all’Arca, svestito e lieto. La prima moglie, Micol, ne ha disappunto e lo rimprovera di far brutta figura. Ma egli risponde che ha danzato per Dio e non si cura del giudizio dei benpensanti come lei, ma di quello del suo popolo, che ama il Signore. Il re e poeta che danza rimarrà per sempre nell’iconografia. La sua gratitudine a Dio si esplicita nelle grandi parole dei Salmi e in quelle che pronuncia entrato in Gerusalemme: «Chi sono io, o Signore, e cos’è la mia casa, perché tu mi abbia esaltato fino a questo punto? Eppure tutto ciò è sembrato ancor poco agli occhi tuoi, o Signore Dio; tu hai voluto estendere le tue promesse anche alla casa del tuo servo fin nel lontano futuro Che potrà ancora dirti Davide? Tu stesso, Signore, hai scelto il tuo servo. Per mantener fede alla tua parola e assecondare il tuo cuore, hai compiuto quest’opera grande e l’hai svelata al tuo servo. Perché tu sei grande, Signore Dio E quale nazione vi è mai sulla terra uguale al tuo popolo Israele? Ci fu mai un popolo che un dio sia andato a riscattare per farne il proprio popolo, per creargli un nome, operando in suo favore? Tu infatti hai stabilito quale popolo per te Israele, in eterno». Chi pronuncia queste parole è lo stesso uomo che ha composto il magnifico salmo 8. Rientrato dunque re in Gerusalemme, Davide fa chiamare l’ultimo discendente di Saul, lo storpio e disgraziato Merib-Baal, unico figlio di Gionata rimasto in vita, e lo ospiterà sempre alla sua mensa. Nonostante lotte e odii, resta in Davide il senso dell’appartenenza a un popolo, alla sua storia concreta. Da allora Davide, pur crescendo in potere e prestigio, vedrà la sua vita e il suo regno turbato in ciò e da ciò che ha più caro: i figli e l’amore. Una storia umana Davide, uomo di grande amore, per un peccato d’amore comprenderà la durezza della lontananza da Dio: è la nota storia dell’omicidio di cui si macchia per poter possedere la bella Betsabea. Il figlio da lei concepito allora morirà. Dio manderà una pestilenza. In quell’occasione, infatti, Dio aveva prospettato tre ipotesi di punizione: la fame per tre anni, la caduta in mano nemica o la peste per tre giorni. Davide decide che è meglio cadere nelle mani del Signore che in quelle degli uomini, perché Lui è grande in misericordia. Il suo primogenito, Amnon, compirà violenza su una sorella. Egli sarà superbo. L’altro figlio prediletto, Assalonne, muoverà in guerra contro di lui. È una storia di astuti consiglieri, di passioni non frenate, di voltafaccia per il potere: una storia umana, di fango e di sangue. Uno dei vertici drammatici della vita di Davide è l’uccisione di Assalonne da parte di un suo luogotenente. Il re, pur se in guerra contro il figlio, non avrebbe voluto e aveva chiesto che fosse risparmiato. Quando gli viene riferita la notizia, egli piange Assalonne con straziata tenerezza. I suoi fedeli non capiscono, e lo rimproverano. Ancora una volta il re è troppo umano. Alla fine della vita, Davide sente il freddo del tempo e dei dolori patiti. Non riesce più a scaldarsi. I suoi uomini cercano per tutto il regno una vergine che, dormendogli accanto, lo possa scaldare. Con lei, Abisag, il vecchio re non ha rapporti. E questa immagine del re anziano che ha bisogno di calore è entrata nella storia, oltre che come figura di valore teologico, anche come emblema del potere che non basta a far sentire a un uomo il calore della vita. Davide fece ancora in tempo a vedere la rivolta di un altro suo figlio, lo splendido Adonia, che egli non volle mai mortificare, nonostante aspirasse evidentemente a un regno che non gli spettava. E a vedere nuovo spargimento di sangue. Il suo, gli era stato predetto, non sarebbe stato un regno di pace. Infine, proprio su consiglio di Betsabea, indicherà nel figlio avuto con lei il nuovo re: Salomone. E con lui venne un periodo di pace in Israele. Nel 970 a.C., secondo il detto tradizionale, Davide si addormenta con i suoi padri, dopo aver regnato su Israele per quarant’anni. Di lui ha scritto uno storico evangelico, Samuel Amsler: «Davide si alza in uno dei punti di fuga delle prospettive veterotestamentarie, là dove si congiungono e si compiono la missione di Israele e l’opera di salvezza di Yahve. È là che Davide sorge oggi ancora dalla testimonianza dell’Antico Testamento per indicare alla Chiesa il ruolo unico e decisivo di un certo Gesù».    IL TEMPIO DI DIO LUIGI GIUSSANI «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove, quando giurò al Signore, al Potente di Giacobbe fece voto: »Non entrerò sotto il tetto della mia casa, non mi stenderò nel mio giaciglio, non concederò sonno ai miei occhi né riposo alle mie palpebre, finché non trovi una sede per il Signore, una dimora per il Potente di Giacobbe »». È l’intendimento di Davide, quello di creare il tempio del Signore: «Non mi darò più pace fino a quando non avrò costruito la casa del Signore», non posso vivere io in una casa di legno duro o di bel legno quando il tempio di Dio è fatto di frasche. Questa, descritta nel salmo 131, è una povertà dello spirito; ma dovunque leggiamo un documento di povertà dello spirito, ci sentiamo dentro aleggiare e respirare la letizia. Un salmo così può essere detto soltanto nella letizia. (Luigi Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli 1994, pp. 222-223)   Davide e il perdono Se ottenne il perdono Pietro, per aver pianto una sola volta, quanto più lo ottenne Davide che ogni notte lavava di pianto il suo letto. Se dunque Gesù ebbe pietà di colui che si pentì e pianse, se guardò Pietro ed egli pianse, quanto più rimase sotto lo sguardo del Signore colui che pianse a lungo! Pietro negò e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò ancora e non pianse, poiché il Signore non lo aveva guardato; negò per la terza volta, Gesù lo guardò e subito pianse, e pianse amaramente. Perciò Davide, che non cessava di piangere, diceva: «I miei occhi sono sempre rivolti al Signore»; egli, che sempre era sotto lo sguardo di Cristo, diceva: «I miei occhi sono discesi in torrenti di lacrime». (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 6,25)   Davide e il peccato  Mi sono determinato a scrivere un’apologia in difesa di Davide non perché egli abbia bisogno di questo favore, ma perché molti si chiedono come mai un così grande profeta non sia riuscito ad evitare il peccato di adulterio e di omicidio… Possiamo anche intendere che il peccato ha addirittura in sé un’utilità… Lo stesso apostolo Paolo avverte che Dio, nostro Signore, si preoccupò che anche nei santi il loro animo di uomini non si inorgoglisse per la sublimità delle verità rivelate loro e per una costante riuscita delle loro opere… Dio permise che si insinuasse anche in loro la colpa, così che capissero anch’essi d’aver bisogno dell’aiuto divino per salvarsi. Infatti Paolo confessa che la debolezza umana fu per lui di vantaggio; rispose Dio, mentre l’Apostolo lo pregava di allontanare da sé gli stimoli della carne: «Ti basta la mia grazia: la mia forza infatti si realizza nella tua debolezza». Giustamente si gloria, dunque, delle proprie debolezze: sapeva infatti che per eccessiva fiducia in sé moltissimi, anche santi, irrimediabilmente erano periti. (Sant’Ambrogio, Apologia di Davide, 2,8)   Davide e i moralisti Troviamo scritto nel Libro dei Re che Davide, mentre passeggiava in casa sua, vide la moglie di Uria che faceva il bagno, se ne innamorò immediatamente e comandò che gli fosse portata. Poi diede ordine che il marito della donna, che non aveva nessuna colpa (così almeno ce lo presenta la Scrittura), fosse opposto ai più feroci guerrieri perché venisse sopraffatto dalla forza dei nemici. Questi sono i fatti, nessuno lo nega: ma come possono essere giustificati? Ben a proposito ci ammonisce la lettura dei Vangeli che, anche quando il peccato è evidente, la sentenza del giudice deve essere improntata ad uno spirito di comprensione e soprattutto ognuno deve ricordarsi della propria condizione e di ciò che egli stesso meriterebbe. Spesso, infatti, nel giudicare è più grave la colpa che si compie emettendo il giudizio, che non quella di chi è stato giudicato. Chiunque si accinge a giudicare un altro, deve giudicare, sempre, prima se stesso e non condannare nell’altro peccati minori, quando egli ne abbia commessi di più gravi! Chi sei dunque tu che ti permetti di giudicare Davide, uomo giusto? (Sant’Ambrogio, Seconda Apologia di Davide, 2,5)  

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850) SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

http://www.disf.org/Documentazione/87.asp  

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850)    SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

2955. La cosa è semplicissima. Il Nuovo Testamento è facilissimo da capire. Ma noi siamo dei bricconi matricolati e fingiamo di non capire, perché sappiamo che se lo capissimo sui serio, dovremmo anche subito metterlo in atto. Ma per rifarci un po’ con il Nuovo Testamento — perché esso non se l’abbia a male e non ci accusi di malafede! — ecco che lo lusinghiamo e andiamo raccontando che è tanto meravigliosamente profondo, tanto inscrutabilmente sublime ecc.: press’a poco come quando un bambino fa finta di non capire gli ordini che riceve, e poi ha la furberia di lusingare papà. Dunque noi altri uomini facciamo finta di non capire il Nuovo Testamento: non vogliamo capirlo. Ecco il compito della scienza cristiana. La scienza cristiana è l’invenzione enorme dell’umanità per difendersi contro il Nuovo Testamento, per assicurarsi di poter continuare ad essere cristiani, senza però che il Nuovo Testamento ci venga troppo vicino. La scienza cristiana è stata inventata allo scopo d’interpretare, chiarire, illuminare meglio ecc. ecc. il Nuovo Testamento. Grazie tante! Già, noi uomini siamo dei furfanti matricolati — e Nostro Signore è l’ingenuo; quell’ ingenuo però che non si lascia menare per il naso! Prendi qualsiasi parola del Nuovo Testamento: dimentica tutto il resto e ingègnati a vivere in conformità… Ohibò, si dirà, ma questo sarebbe un far arenare nello stesso momento tutta la mia vita temporale e terrestre… Che fare allora? Oh, scienza impagabile: che sarebbe di noi, poveri uomini, se tu non ci fossi? “è orrendo cadere nelle mani del Dio vivente” [Eb 10,31] — ma è già orrendo star soli con il Nuovo Testamento. Non mi faccio migliore di quel che sono; io confesso (eppure potrebbe darsi che qui da noi io fossi uno dei più coraggiosi) che non ho osato ancora di starmene assolutamente solo con il Nuovo Testamento. Stare solo con esso, significa come se fossi solo in tutto il mondo, e come se Dio mi stesse seduto accanto e mi dicesse: “Vuoi tu avere la compiacenza di osservare ciò che vi sta scritto e riflettere che devi vivere in conformità?”. Solo con esso! … cioè come se io fossi solo in tutto il mondo e come se Cristo stesse in mia compagnia per impedire di svignarmela, dimenticando che quanto sta scritto si deve anche fare, come mostra l’esempio di Cristo. Oh, ma quanti son quelli che in 1800 anni di Cristianesimo hanno usato stare soli con il Nuovo Testamento? A quali tremende conseguenze non potrebbe portarmi questo ribelle e tiranno libro, se si deve stare soli con esso a questo modo. Come la situazione cambia invece completamente, se prendo in mano un libro di concordanze, un dizionario, un paio di commenti, tre traduzioni: il tutto per capire questa cosa profonda, meravigliosamente bella, quest’altezza inaccessibile! “Perché (lo dico candidamente!) basta che io ‘capisca’ il Nuovo Testamento: quanto al farlo… ci penserò poi e saprò ben cavarmela!”. In verità, che fortuna e che consolazione unica, che sia tanto difficile comprendere il Nuovo Testamento! È la causa dell’umanità che io difendo quando dico: “stiamo uniti, impegniamoci per la cosa più sacra e manteniamo questa promessa di nulla risparmiare, non fatiche, né veglie, per rendere il Nuovo Testamento sempre più difficile da comprendere. Se per spiegare e interpretare la S. Scrittura non bastassero le scienze inventate finora, inventiamone delle altre!” Io apro il Nuovo Testamento e leggo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quel che hai e dàllo ai poveri e seguimi” [Mt 19,21]. Gran Dio! Tutti i capitalisti, tutti i funzionari, anche quelli in pensione, tutta l’umanità, eccettuati i mendicanti: tutti saremmo perduti, se qui non ci fosse la scienza. La scienza! Questa parola ha un suono magnifico. Onore a chiunque consacra le sue forze a servizio della scienza! Lodato sia chiunque contribuisce a rafforzare la considerazione della scienza fra gli uomini! La scienza che trattiene il Nuovo Testamento, questo libro – che la scienza afferma “ispirato”; cioè quest’impiastro di libro, che in quattro e quattr’otto ci butterebbe tutti a terra se io si sciogliesse, cioè se la scienza non lo trattenesse! Invano il Nuovo Testamento fa sentire la sua voce, che grida al cielo più alta del sangue di Abele [Eb 12,24], invano comanda con autorità, invano ammonisce, e supplica: noi non lo sentiamo, cioè sentiamo questa voce soltanto attraverso la scienza. Come uno straniero che difende davanti a una Maestà Reale il suo diritto nella sua lingua materna, quando la passione lo spinge a dire la parola audace, l’interprete non osa tradurla al re e vi sostituisce qualcos’altro: così tuona il Nuovo Testamento attraverso la scienza. Come quel grido dei suppliziati nel toro di Falaride aveva il suono di soave musica agli orecchi del tiranno, così l’autorità divina del Nuovo Testamento attraverso la scienza è un lieve tintinnare di sonagli o come un nulla [1Cor 13,1 ss.]. Attraverso la scienza; … sì, perché noi uomini siamo astuti. Come si rinchiude il pazzo perché non abbia a disturbare la gente, come il tiranno allontana l’uomo franco perché non si possa sentire la sua voce, così noi abbiamo rinchiuso il Nuovo Testamento con la scienza. Invano grida, s’arrovella, strepita e gesticola: non serve, noi non lo intendiamo che attraverso la scienza; e per metterci del tutto al sicuro diciamo ch’è precisamente essa ad aiutarci a capirlo meglio e così potremo udirne la voce… Oh nessun pazzo, nessun prigioniero politico è stato mai rinchiuso così! Perché nessuno nega che costoro siano rinchiusi; ma nei riguardi del Nuovo Testamento la cautela è ancora maggiore; lo si rinchiude, ma si dice che si fa il contrario, che si fa di tutto perché possa avere il potere e il dominio. Tuttavia, e questo è intuitivo, nessun pazzo, nessun prigioniero politico sarebbe per noi tanto pericoloso come il Nuovo Testamento se fosse lasciato a piede libero. Veramente noi protestanti facciamo molto perché possibilmente ciascuno abbia il Nuovo Testamento. Ma cosa anche non facciamo per inculcare a tutti che il Nuovo Testamento non sia capito che attraverso la scienza? Voler capire il Nuovo Testamento, cercare di considerare subito ciò che vi si legge come un comando, voler agire subito in conformità: che sbaglio! No, il Nuovo Testamento è una dottrina, ed è necessario il rincalzo della scienza per comprenderlo! Ecco, si tratta di questo, e quel po’ ch’io ho creduto di poter fare, è presto detto. Ho voluto spingere gli uomini a fare ciascuno questa confessione: per parte mia trovo che il Nuovo Testamento è facilissimo da capire, ma finora quando si tratta di dover fare alla lettera secondo quel che non è difficile capire, ho trovato in me stesso difficoltà enormi. Avrei forse potuto prendere un’altra strada, cercar d’inventare una nuova scienza: ma mi soddisfa di aver fatto questa confessione.   Søren Kierkegaard, Diario , a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1981 vol. 7, pp. 184-187 [X3 A 34].

DIO PADRE IN SAN PAOLO (in riferimento alla Immacolata Concezione di Maria)

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

(questo testo è in riferimento alla Immacolata Concezione di Maria, ho trovato questa breve passaggio:

« TESTIMONIANZA e SEGNO dell’AMORE GRATUITO del PADRE    L’Immacolata Concezione di Maria non è un fatto a sé stante, isolato dal piano divino della salvezza, ma al contrario rientra nel disegno salvifico di Dio, che prevede innanzitutto l’incarnazione redentrice di Cristo, grazie alla quale tutti sono gratuitamente salvati dall’amore di Dio, secondo quanto afferma S. Paolo: « Tutti… sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù ».    La liberazione dal peccato originale e la pienezza di grazia di cui è rivestita Maria, sin dal primo istante di vita, non sono frutto della sua fede o di qualche altro suo merito, ma solo dono gratuito di Dio. »)

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ». Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.   Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ». Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9). Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio: la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo. In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni. È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva? tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà  vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.  Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. « In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli. Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio. L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?! Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?                             Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi. Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre. Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6). 

I VASI DI GEDEONE (il riferimento di ricerca è 2Cor)

http://camcris.altervista.org/vasiged.html

(ho trovato questo studio mentre cercavo commenti a 2Cor direi 7-11)

IL CAMMINO CRISTIANO

I VASI DI GEDEONE

(TESTO DI RIFERIMENTO: GIUD. 7:16-25)

Autore: Michele Rutigliano (da Risveglio Pentecostale, luglio-agosto 2004)

La storia di Gedeone è una tra le più belle della Parola di Dio, in cui possiamo notare come Dio difende il Suo popolo e lo libera da ogni difficoltà. Gedeone scelse in mezzo al popolo trecento uomini, tenendo conto non delle loro capacità, ma del fatto di essere animati da fervido desiderio di vedere il popolo del Signore liberato dalle mani dei Madianiti, desiderosi di essere strumenti nelle mani di Dio. Esaminiamo il loro equipaggiamento. Gedeone cercò in mezzo al popolo trecento uomini con dei vasi vuoti. Che cosa avrebbero potuto fare con quei vasi vuoti? Erano vasi di terracotta, per di più molto fragili. Non è assurdo
tutto questo? Ma l’Eterno disse a Gedeone: “Va’ con codesta tua forza”. Quale era dunque la forza di Gedeone? Con quale arma doveva combattere il suo esercito? Uomini equipaggiati con vasi di terracotta: un piccolo esercito doveva combattere contro quello equipaggiato con spade e corazze dei Madianiti.
Con i vasi ognuno doveva anche procurarsi una fiaccola e una tromba! Questi erano gli elementi che completavano l’equipaggiamento che Dio usò per dare vittoria al Suo popolo: dei vasi vuoti, delle fiaccole
accese dentro i vasi, delle trombe da suonare e un grido di battaglia da elevare!

1. Vasi vuoti
In Isaia 52:4 troviamo scritto: “Purificatevi e portate i vostri vasi all’Eterno”. L’apostolo Paolo ai Corinti nella seconda Epistola cap.4:7 così scrive: “Noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra”. Il vaso vuoto simboleggia il credente purificato dal Signore e pronto per essere riempito del Suo divino fuoco al fine di servirLo.
I nostri vasi devono essere necessariamente vuoti. Questo è il segreto di una vita vittoriosa. Quando i vasi sono vuoti, quando cioè la nostra vita è arresa a Dio, soltanto allora possiamo presentarci a Lui per essere illuminati e riscaldati con il Suo calore divino.
I primi discepoli si radunarono nell’alto solaio nell’attesa di ricevere la promessa di Dio. Osserviamoli mentre pregano e implorano il Signore. Nella città di Gerusalemme c’era un gran via vai di gente e i fatti che in quei giorni erano accaduti, non erano stati ancora dimenticati. Da un momento all’altro era possibile qualche episodio increscioso per i discepoli, vista la posizione che i sacerdoti del Tempio e che tutto il Sinedrio avevano preso prima contro Gesù, e ora contro i discepoli. Ma dove si trovavano i discepoli? Ci saremmo forse aspettati che si fossero radunati per scrivere un memoriale dei fatti a dimostrazione che Gesù era innocente, una specie di apologia. Oppure, al contrario, che avessero deciso di ritornare alle loro case per rifarsi una vita normale.
Ma non fecero così! Gesù aveva detto loro: “Dimorate in Gerusalemme finché…” Ecco dov’erano radunati: in un umile solaio che porta alla nostra mente un altro edificio in cui circa un secolo fa avvenne un glorioso risveglio di pentecoste. Quei cuori desiderosi, quei vasi vuoti, dovevano essere riempiti dal Signore. “Purificatevi e portate i vostri vasi nella Casa del Signore”. Questa profezia, già citata, di Isaia, proprio in quella particolare circostanza, si stava avverando.
Quei discepoli dovevano vincere le forze del male e testimoniare a tutte le genti, spandendo la Parola del Vangelo ovunque. Erano solo pochi uomini, con che cosa erano equipaggiati? Qual era la loro arma? Attesero quaranta giorni e finalmente nel giorno della Pentecoste quei centoventi vasi furono improvvisamente riempiti. Dio stesso provvide a mettere in quelle brocche una gloriosa e potente fiaccola: il battesimo di Spirito Santo.
Questo fu anche il vero successo di Gedeone: una fiaccola dentro una semplice brocca. Il nostro successo può essere lo stesso: dobbiamo presentarci a Dio con un cuore vuoto, con una vita arresa e Lui la riempierà della Sua fiaccola ardente. Solo così potremo incontrare il mondo che ci circonda per testimoniare del Vangelo e per vincere il “buon combattimento della fede”.

2. Fiaccole dentro i vasi
C’è una domanda che dobbiamo farci: con che cosa stiamo riempiendo oggi i nostri vasi del cuore? Stiamo presentando a Dio la nostra vita, chiedendoGli di riempirla con la fiaccola ardente del Suo amore? Il peccato, l’orgoglio, i rancori, la tiepidezza, le cose vane di questo mondo sono le cose che riempiono i vasi dei cuori di molti: sono soltanto spazzatura! Il Salmista dice: “Se nel mio cuore avessi avuto di mira l’iniquità, il Signore non mi avrebbe ascoltato” (Salmo 66:18). L’ira, 1’invidia, la corsa al danaro, il divertimento, i sentimenti di malizia, l’inimicizia, i pettegolezzi, le concupiscenze, le cose frivole riempiono oggi molti vasi e la fiamma della potenza di Dio non trova più posto per manifestarsi.
Se Cristo ha svuotato i nostri vasi purificandoli, se Lui ci ha liberati, ora dobbiamo essere riempiti del Suo Spirito. I nostri cuori, una volta svuotati delle cose del mondo, non potranno poi rimanere vuoti per sempre. Altrimenti qualcun altro ci penserà a farlo: «Signore, fa’ che la fiamma del risveglio continui ad accendere il nostro cuore, trasformare le nostre menti, illuminare la nostra vita!».
C’è un altro aspetto da considerare: le fiaccole dovevano essere nascoste dentro i vasi e solo successivamente potevano essere mostrate ai nemici. Prima d’ogni cosa il calore delle fiaccole doveva riscaldare quei vasi, mentre all’esterno ancora nulla appariva.
La stessa cosa accadde ai primi discepoli del Signore, e così deve avvenire anche per ciascuno di noi. Dobbiamo chiedere a Dio che il Suo Fuoco riscaldi prima noi e poi potrà manifestarsi al momento opportuno: il fuoco dell’entusiasmo e del fervore della proclamazione del Vangelo, dopo aver riscaldato e conquistato noi stessi, conquisterà altri e le potenze del male fuggiranno.

3. Brocche che devono essere rotte
I vasi spezzati esprimono una vita intera, una vita che dopo essere stata infiammata con il fuoco di Dio, poi si ritrae, per far in modo che il popolo veda soltanto la luce di Cristo. Fino a quando vorremo tenere la nostra vita tutta intera, per glorificare se stessa, Dio non potrà essere glorificato. Ricordiamo che, se il vaso non viene spezzato, la fiamma che è in esso contenuta potrà anche correre il rischio di spegnersi.

4. Suono delle trombe e grido di battaglia
Dopo che si fecero suonare le trombe, che i vasi furono spezzati e furono mostrate le fiaccole all’esercito nemico, venne il momento in cui Dio poté iniziare a combattere per il Suo popolo.
Il popolo di Israele aveva fatto quel che Dio aveva comandato; ora Dio era pronto a compiere tutto il resto.
In Numeri 29:1 leggiamo che le trombe dovevano essere suonate dal popolo di Israele nei giorni di solennità o in altre occasioni come ad esempio in caso di guerra o di invasione nemica (Neh.4:20) o per annunziare un giudizio divino e insieme al giudizio il ristabilimento del Suo popolo (Isa.27:13).
Quando Israele stava per suonare le trombe, Dio stesso annunziava il Suo giudizio contro gli Amalechiti e nel contempo la liberazione del Suo popolo.
Anche le sette trombe dell’Apocalisse avranno questo scopo. Le profezie dell’Antico Testamento dovevano richiamare il popolo a lasciare il peccato, recando l’annunzio che Dio sarebbe intevenuto punendo, se non Lo avessero ascoltato.
La tromba di Dio sta suonando anche oggi e quel suono sta dicendo a ciascuno di noi: «Svegliatevi, perchè Gesù sta per ritornare!» Svegliamoci, dunque! Il nostro grido di battaglia sia sempre un grido di vittoria.
Dio non ci ha salvati per essere solo dei credenti mediocri, tiepidi, incapaci di annunziare il giudizio e nel contempo il giorno della salvezza dell’Eterno.
Dove sono i Gedeone di Dio? Non potremo mai sbaragliare l’esercito infernale con le armi della convinzione, del proselitismo, delle organizzazioni ecclesiastiche, con le armi di una chiesa conformista, sincretistica, mondanizzata, con i metodi di una cultura del “tutto lecito”. Questa non è la vera tromba di Dio.
Dobbiamo presentare a Dio i nostri cuori perché Lui li purifichi, chiedendoGli che li riempia di Spirito Santo secondo la promessa di Gesù.
Presentiamoci al combattimento con un cuore rotto, contrito, umile, nella consapevolezza che non dobbiamo mostrare noi stessi, ma soltanto Cristo. Infine sia il nostro grido di battaglia come la tromba di Dio, l’annunzio di ravvedimento, l’annunzio della liberazione e della vittoria contro ogni potenza nel nome di Cristo.

L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

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L’ OBBEDIENZA DELLA FEDE, NON È COSTRIZIONE, MA ABBANDONO TOTALE ALL’AMORE DI DIO – SU SAN PAOLO

L’apostolo Paolo eleva un inno,  una preghiera di benedizione a Dio, (Ef. 1,3-14) Padre del Signore nostro Gesù Cristo, questa preghiera ci accompagni a vivere l’anno della fede e la nostra vocazione di consacrati. Tema di questo inno di lode è il progetto di Dio nei  confronti dell’uomo, presentato con termini pieni di gioia, di stupore e di ringraziamento, come un “disegno di benevolenza, di misericordia e di amore.
Domandiamoci perché Paolo innalza a Dio, dal profondo del suo cuore, questa benedizione. Certamente l’apostolo guarda all’agire di Dio nella storia della salvezza, manifestato nell’incarnazione del Figlio, sua morte e risurrezione, e guarda come il Padre ci abbia scelti prima ancora della creazione del mondo, per divenire suoi figli, nel Figlio
Unigenito.
      Rm 8,14 – Nella mente di Dio noi esistiamo fin dall’eternità, in quel grande progetto custodito        da Dio nel suo cuore e che ha deciso di attuare e manifestare, come è scritto: “nella pienezza dei tempi” – Ef 1,10 – Con l’aiuto di Paolo scopriamo come l’uomo e la donna non sono frutto del caso, ma seguono un disegno di grazia della ragione di Dio che con la potenza creatrice e redentrice della sua Parola si manifesta nella creazione del mondo. Questa affermazione ci dice che siamo scelti da Dio, ancora prima della creazione del mondo, nel Figlio, e non che la nostra vocazione non è semplicemente esistere, o essere inseriti in una storia, e neppure soltanto essere creature di Dio. Noi quindi esistiamo già nel pensiero di Dio, o meglio nel suo cuore, perché già ci contempla in
Cristo, come figli adottivi.
Questa benevolenza di Dio, che Paolo qualifica come – disegno d’amore – Ef 1,5 – è detto – il mistero della volontà divina, prima nascosto e ora manifestato nell’opera di Cristo. Questo è un dono del suo amore, infatti l’iniziativa di Dio precede ogni nostra risposta. Ma
domandiamoci perché tutto questo, quale il centro della volontà di Dio? San Paolo ci suggerisce: ricondurre a Cristo, unico capo, tutte le cose. Qui si rivela il suo progetto di amore verso l’intera umanità, tanto che sant’Ireneo di Lione annuncia come nucleo della sua cristologia: – ricapitolare tutta la realtà in Cristo -.questo vuol dire che Cristo si leva come centro dell’intero cammino del mondo, che attira a Sé l’intera realtà, per superare la dispersione e condurre tutto alla pienezza voluta dal Padre – Ef 1,23. – Questo progetto non è rimasto nel segreto, ma lo ha fatto conoscere mettendosi in relazione con l’uomo, al quale ha rivelato Se stesso. Non ha semplicemente comunicato alcune verità, ma si è comunicato a noi, facendosi uno di noi, incarnandosi. Così tramite Cristo gli uomini
hanno accesso al Padre diventando partecipi della divina natura. Dio si comunica, non dice solo qualcosa, ci attira a Se, così che anche noi siamo coinvolti in essa, cioè divinizzati. Attraverso il suo disegno d’amore Dio entra in relazione con l’uomo, fino al punto di farsi uomo.
Il Dio invisibile ora parla agli uomini come ad amici e vive tra essi per invitarli e ammetterli ad una piena comunione con Sé. L’uomo con le sue capacità e intelligenza non sarebbe mai riuscito a raggiungere questa rivelazione così grande dell’amore di Dio. E’ Lui che ha
guidato l’uomo nell’abisso del suo amore abbassandosi verso di lui.
Queste cose le ha preparate Dio per coloro che lo amano, non potevano entrare nel cuore dell’uomo.
E’ attraverso lo Spirito, che conosce ogni cosa, anche le profondità di Dio, che Dio si è manifestato a noi. Pertanto siamo invitati a gustare tutta la bellezza di – questo disegno di benevolenza – rivelato in Cristo dal Padre. Cosa ci manca? Siamo diventati immortali, liberi, figli, giusti, fratelli, coeredi e con Cristo regniamo e siamo glorificati.
Tutto attraverso lui ci è stato donato. Questa comunione in Cristo per opera dello Spirito, offerta da Dio a tutti gli uomini con la luce della Rivelazione , non si sovrappone alla nostra umanità, ma è il compimento delle aspirazioni più profonde, del desiderio d’infinito e di pienezza che alberga nell’intimo dell’essere umano, tanto che lo apre ad una felicità eterna, e non momentanea o limitata.
San Bonaventura, parlando di Dio che si rivela  e ci parla attraverso le Scritture per attirarci a Sé, afferma: – La Scrittura è il libro nel quale sono scritte parole di vita eterna perché, non solo crediamo, ma anche possediamo la vita eterna, in cui vedremo, ameremo e saranno realizzati tutti i nostri desideri – . il beato Giovanni Paolo II, ricordava che – la Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può tralasciare, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza, però questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio, che la mente non può esaurire, ma solo accogliere nella fede -. Cosa è dunque l’atto di fede?
E’ certamente la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio, che si fa conoscere, che manifesta il suo progetto di benevolenza; è lasciarsi afferrare dalla Verità che è Dio, una Verità che è Amore. San Paolo ci suggerisce che a Dio che ha rivelato il suo mistero, si debba “l’Obbedienza della Fede”. E’ questo l’atteggiamento con il quale – l’uomo liberamente si abbandona tutto a Lui, prestando la piena adesione dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela e assentendo volontariamente la Rivelazione che egli dà – . Obbedienza non è dunque un atto di costrizione, è un lasciarsi, un abbandonarsi alla bontà di Dio. Questa obbedienza chiede un nuovo modo di rapportarsi con la realtà; si tratta di una vera – conversione – fede è un cambiamento di mentalità, perché Dio che si è rivelato in Cristo e ha fatto conoscere il suo amore, ci afferra e ci attira a Sé, è il nuovo senso che sostiene la nostra vita, la roccia su cui essa deve trovare stabilità.
Si legge nel profeta Isaia, mandato al re Acaz, – Se non crederete, cioè se no sarete fedeli a Dio – non resterete saldi – Is 7,9b . C’è qui un legame tra lo stare e il comprendere, che esprime come la fede sia un accogliere nella vita la visione di Dio sulla realtà, lasciare
che sia Dio a guidarci con la Parola e i Sacramenti nel capire che cosa dobbiamo fare, qual è il cammino che dobbiamo percorrere, come vivere. Sappiamo che il solo comprendere secondo Dio, il vedere con i suoi occhi rende salda la vita, e ci permette di – stare in piedi -.
Cioè di non cadere.

LETTERA ENCICLICA FIDES ET RATIO : « LA SAPIENZA TUTTO CONOSCE E TUTTO COMPRENDE » (SAP 9, 11) [Paolo]

http://www.giovannipaolosecondo.rai.it/pastorale/encicliche/index.php?a=31

LETTERA ENCICLICA  FIDES ET RATIO

DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II CIRCA I RAPPORTI TRA FEDE E RAGIONE

CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM

« LA SAPIENZA TUTTO CONOSCE E TUTTO COMPRENDE » (SAP 9, 11)

16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l’Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture dell’antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.
Non è un caso che, nel momento in cui l’autore sacro vuole descrivere l’uomo saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all’ombra della sua gloria » (Sir 14, 20-27).
Per l’autore ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie all’intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la possibilità di « attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr Pro 20, 5). Certo, nell’antico Israele la conoscenza del mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la conoscenza con i parametri propri dell’epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.

Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare l’autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all’uomo che in questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza operante della Provvidenza. Un’espressione del libro dei Proverbi è significativa in proposito: « La mente dell’uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l’uomo con la luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l’uomo la possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.
17. Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2). Dio e l’uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede l’origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la sua gloria; all’uomo spetta il compito di investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un’ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora » (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell’uomo, pur nell’esperienza del limite invalicabile, sospira verso l’infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.
18. Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell’uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l’orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando s’allontana da queste regole, l’uomo s’espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell’ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.
19. Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l’Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua intelligenza l’uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere » (Sap 7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l’Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l’autore » (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l’uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all’impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.
20. La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono diretti i passi dell’uomo e come può l’uomo comprendere la propria via? » (Pro 20, 24). Per l’Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell’ordine supremo in cui tutto acquista senso. In una parola, l’uomo con la ragione raggiunge la verità, perché illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l’autore sacro pone l’inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14).

« Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza » (Pro 4, 5)
21. La conoscenza, per l’Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell’uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l’uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate.
Lo sforzo della ricerca non era esente, per l’Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore » (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.
22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell’uomo.
Secondo l’Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.
Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell’uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell’Eden, al cui centro era situato « l’albero della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l’uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell’orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall’avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora l’Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l’evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s’era imprigionata.
23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L’inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.
La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.

LETTERA DI SAN PAOLO AI PRESBITERI

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LETTERA DI SAN PAOLO AI PRESBITERI

DALLA « LETTERA » DI S. PAOLO AI PRESBITERI

L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori « formato Paolo », innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Molte le indicazioni pratiche e le intuizioni pastorali che si possono ricavare dalla sua esperienza e dai suoi scritti.
«Io sono l’infimo degli apostoli. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15,9-10). Con questo autoritratto Paolo invita i sacerdoti a un’esistenza spirituale alta, sul suo esempio: «Fatevi miei imitatori!» (1Cor 4,16).
La teologia cristocentrica di Paolo caratterizza anche la sua concezione del presbitero. Questi ha una relazione fondamentale con Cristo, che egli impersona nelle azioni sacerdotali più tipiche; e da Cristo, alla cui sponsalità sacramentale partecipa, è posto in relazione intrinseca con la chiesa. La ragione del sacerdozio non può essere una funzione che si predetermina a partire dalla vita del popolo, ma è la percezione di poter vivere perché Cristo esiste e perché continui ad esistere. La perdita di coscienza della priorità assoluta di Cristo e della sua presenza privilegia il « ruolo » del sacerdote riducendolo a funzionario del settore religioso.
In quanto amato, il presbitero può amare gratuitamente: non è senza peccato ma un peccatore «afferrato» da Cristo. L’apostolo itinerante testimonia che la prima comunità cristiana si è irradiata « per contagio », non per programmi e aggiornamenti.

Paolo apostolo mistico
Nel bagliore sulla via di Damasco, Paolo ha colto non un cambiamento morale immediato, ma un’illuminazione interiore della realtà. Egli non ha parlato di « conversione » ma di « rivelazione e di grazia », accentuando che tutto gli è stato donato: l’obiettivo non è stato raggiunto per sforzo morale o per pratiche ascetiche. Paragonandosi ad un «aborto», Paolo non ha fatto una dichiarazione di umiltà, ma ha ribadito che il Risorto è entrato nella sua esistenza con violenza, sradicandolo dalla sua vita precedente come un feto strappato a forza dal grembo materno. Attirato da Cristo, egli ha avviato con lui un’intimità profonda, tanto da non sentirsi inferiore agli altri apostoli.
Paolo non ha basato la sua esistenza su un’idea o su un mito e neppure su un modello di condotta morale, ma su Colui che aveva « visto ». Il suo approccio al mistero di Cristo non è di tipo storico ma mistico: non narra miracoli, parabole o episodi della vita di Gesù. Questi non sta davanti a Paolo o al suo fianco, ma dentro di lui, è vita della sua vita: «Non io, ma Cristo in me» (Gal 2,20). La personalità di Paolo non viene annullata dalla presenza di Cristo: al centro del suo « io » sta la presenza reale e regale di Cristo, morto e risorto per lui. Lo Spirito di Gesù ha trasformato il suo cuore.
San Giovanni Crisostomo suggeriva: «Cor Pauli cor Christi». Nella Bibbia il « cuore »è sede di grandi decisioni e centro di ogni ricchezza personale. Per Paolo il presbitero è colui che ha lo stesso cuore di Cristo: un uomo sedotto dal Dio di Gesù Cristo, un alter Christus! Egli non scioglie il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più, per la tolleranza e l’apertura al mondo. La sollecitudine di incontrare i fratelli non si traduce in un’attenuazione della verità.
Sulla via di Damasco l’apostolo ha percepito che Cristo si identificava con i suoi discepoli: «Perché mi perseguiti?». Un’esperienza travolgente: egli ha visto Cristo e intravisto la chiesa, negando quindi « Cristo sì, chiesa no ». L’affezione a Cristo fonda la sua missione apostolica. Percezione mistica di Dio e chiamata all’apostolato sono unite in Paolo. Il presbitero può spaziare nell’ampiezza risanante e affascinante del kerigma, rifiutando corte vedute e orizzonti limitati che intrappolano mente e cuore e negano la « cattolicità » dell’eucaristia.
L’attività del presbitero nasce come conseguenza inevitabile del rapporto vivo, vivente e vitale col Cristo risorto. Benedetto XVI invita spesso i sacerdoti a non lasciarsi prendere dall’attivismo e dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. I fedeli si aspettano che il sacerdote sia esperto nella vita spirituale, specialista nel promuovere l’incontro con Dio, testimone dell’eterna sapienza contenuta nella parola rivelata, esercitato nella comunanza del pensare e del volere di Cristo, capace di paternità spirituale. Le attuali comunità sono ben più organizzate e complesse di quelle della chiesa originaria e abbisognano di essere movimentate dall’interno. Guai se il primato dell’amministrazione prevale sul primato dell’azione pastorale mediante la Parola e l’esempio, la vicinanza e il consiglio. La grandezza del prete non sta nell’esercitare questo o quell’incarico nella comunità ma nell’essere guida e maestro del gregge.

Prima di tutto evangelizzatore
Paolo ha descritto con vari termini e immagini il ministero apostolico: diacono e servitore, architetto dell’edificio di Dio, rematore nella barca della chiesa, amministratore di un bene che non è suo. L’apostolo non è il padre-padrone della propria comunità, ma un seminatore e un collaboratore nel campo del Signore. Chi fa crescere è Dio.
Due termini definiscono la natura del ministero sacerdotale: liturgo (la Cei traduce «ministro») e ambasciatore. Ai Romani Paolo scriveva di aver ricevuto da Dio la grazia di «essere liturgo/ministro di Cristo fra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,16). Egli esercitava il suo sacerdozio annunciando il vangelo così da fare dei neoconvertiti un’offerta sacra al Signore. Per qualificarsi, Paolo non usava il titolo di hiereus-sacerdote, termine legato alla liturgia del tempio. Egli equiparava la vera liturgia all’evangelizzazione: da questa sintesi scaturiva il culto spirituale, capace di trasformare l’esistenza dei credenti in un sacrificio santo e gradito a Dio.
Paolo si è sentito ambasciatore della riconciliazione (in greco il verbo è presbeuo, da cui «presbitero»). Col vangelo e i sacramenti il presbitero porta a tutti l’amnistia universale di Dio in Cristo. Ciò che è costitutivo del ministero non può essere il prodotto delle proprie capacità personali. Si è mandati non ad annunciare se stessi o opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in lui, la misura del vero umanesimo. Si è incaricati non di dire molte parole, ma di farsi eco e portatori di una sola Parola. Cristo affida se stesso al presbitero così che possa parlare con il suo « io », in persona Christi capitis.
Benché incardinato in una chiesa particolare, in quanto partecipe della missione di Cristo, il presbitero riceve una destinazione universale e missionaria. Il suo servizio a una determinata porzione del popolo di Dio non può mai essere esaustivo ed esclusivo del suo ministero. Compito del ministero pastorale è far crescere la gioia di credere e di essere gregge di Cristo, di prestarsi ad andare nei territori e ambiti di vita della diocesi dove la chiesa soffre la povertà della testimonianza evangelica nel quotidiano (quartieri più poveri della città e zone più lontane e meno servite del territorio diocesano).

«Essere con e per»
L’addio di Paolo ai presbiteri di Mileto, suo testamento spirituale, descrive il suo modo di esercitare il ministero di evangelizzatore e ambasciatore: servizio al bene comune, distacco dai beni materiali e aiuto ai poveri (At 20,17-35). Il suo «farsi tutto a tutti» si esprime per i sacerdoti nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia, nella santa inquietudine di portare a tutti la salvezza. Lasciarsi santificare porta a capire la profondità dell’uomo e a servirlo. Non c’è vera conoscenza dell’altro senza amore fattivo, che impedisce ai presbiteri di ridursi a distributori di « cose » sacre o a cedere a depressione e rassegnazione.
Paolo ha esercitato il suo ministero nella condivisione e nella comunicazione con i fratelli. L’analogia con l’amore di un genitore esprime l’intenso rapporto di Paolo con i suoi: «Potreste infatti avere anche mille pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1Cor 4,14-15). E: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» (1Ts 2,7). Il presbitero è nella chiesa e per la chiesa, ma è anche di fronte ad essa in quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della chiesa. La sua identità lo porta ad essere amorevole garante dell’ortodossia e dell’ortoprassi, mai spettatore silente e tollerante di fronte a errori o a deviazioni.
Cristo ha bisogno di sacerdoti maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale, e tale obiettivo è raggiungibile tramite l’onestà con se stessi, l’apertura al direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia. La presidenza è ben più di un’assistenza spirituale o di una consulenza religiosa: pur fratello tra fratelli, si tratta di guidare i credenti nell’annuncio, nella fedeltà e nel servizio di Cristo Signore. Sempre per la verità e l’edificazione.
Per costruire comunità, Paolo non ha legato i credenti a sé ma ha fatto loro sentire il cuore di Cristo, rendendoli così liberi e aperti. La vera « vicinanza » avviene nel Signore. La cura pastorale richiede sacerdoti di qualità dal punto di vista sia intellettuale sia spirituale e morale, che rendano per tutta la loro vita una testimonianza di attaccamento senza riserve alla persona di Cristo e alla sua chiesa.
Ebreo della diaspora con studi a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano, Paolo è vissuto con gruppi di diversa estrazione sociale e culturale. Le sue comunità composte da ebrei, greci e romani, schiavi e liberi, uomini e donne come potevano non creare problemi? Paolo ha colto due grandi dimensioni della vita ecclesiale, l’unità nella molteplicità, la complementarietà nella reciprocità. Unica la sorgente («Un solo Signore, un solo Dio che opera tutto in tutti») e molteplice la sinergia dei membri, chiamati ad armonizzare nel bene comune i doni e le funzioni differenti. Un posto per ognuno e ognuno al suo posto nella fraternità presbiterale. Inoltre, non una casta sacerdotale, che monopolizza tutto e impedisce la crescita matura dei cristiani laici. Il presbitero non possiede la sintesi di tutti i carismi, ma ha ricevuto il ministero di facilitare la comunione fra i vari carismi.
A livello personale, nelle liturgie e nei rapporti sociali ha raccomandato di agire sempre per l’edificazione comune. Ogni presbitero può imparare qualcosa di importante dal modo di essere dell’apostolo delle genti: una vita appassionata e appassionante, in continua ricerca, conscia della propria miseria e del primato della grazia di Dio. Liberato da tanti impegni di supplenza, il sacerdote può dedicarsi a ciò che è essenziale e insostituibile del suo ministero, nella « pace » di Cristo.

Umiltà e fierezza
A Mileto Paolo sintetizzava così il suo ministero: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra lacrime e prove». L’apostolo è anzitutto un servitore del Signore e questo gli genera una grande libertà. Egli risponde solo a Cristo e tramite lui può amare tutti. Dal riconoscimento della propria indegnità, primo dei peccatori e ultimo degli apostoli, fiorisce l’ammirazione di ciò che il Signore opera in lui e attraverso di lui. Per il bene della comunità, Paolo non si astiene da un sano orgoglio per avversare quanti cercano di inquinare la fede autentica e di avere un pretesto per apparire. Paolo non si vanta per mettersi in mostra, ma per la foga dell’amore, per l’ansia di aprire gli occhi a chi si lascia trascinare da falsi apostoli, così da riconquistarli a Cristo. La fonte del suo vanto è la stessa della sua umiltà: «Chi si gloria si glori nel Signore!» (2Cor 10,17). In Paolo, annotava il cardinale G. Biffi, non c’è l’eccessivo senso autocritico che affligge la cristianità odierna.
Il pianto rivela l’intensità emotiva che ha caratterizzato l’esperienza pastorale dell’apostolo che, lungi dall’essere un freddo burocrate si lasciava coinvolgere in ciò che faceva. Prove e insidie, battiture e lapidazioni, disavventure e pericoli: un elenco sconcertante. La fondazione e l’accompagnamento delle comunità sono state un travaglio generativo: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (1Ts 2,7). Tutto rientrava nell’assillo quotidiano della preoccupazione per tutte le chiese, forse la sua vera «spina nella carne».
Per il bene dei suoi figli, l’apostolo era pronto ad agire sia con il bastone che con amore e spirito di dolcezza; distingueva i suoi pareri e consigli dalla volontà del Signore; si poneva al servizio della gioia dei suoi fratelli di fede, godeva del loro sostegno nella preghiera; temeva di trovare i fratelli diversi da come desiderava e di apparire egli stesso diverso da come era atteso; non si lasciava condizionare da quanto si diceva di lui (autorevole nelle sue lettere e fragile come persona); di tutti conosceva i nomi, le situazioni di famiglia, di lavoro e di malattia. Niente di generico e di burocratico.

Debolezza e comunione
Paolo ha creduto che Cristo lo ha amato e ha dato la sua vita per lui. Il Crocifisso è diventato il punto d’appoggio su cui egli ha fondato la sua esistenza. Dopo l’insuccesso di Atene, l’apostolo è sceso a Corinto con «timore e tremore» per opporsi alla pretesa del mondo greco di salvarsi con il sapere e per annunciare Cristo crocifisso. Dio è entrato nella storia in una forma scandalosa (skandalon e morìa, cioè »stupidità »). Dio salva non con la forza orgogliosa della ragione, ma con la «follia della croce», cioè con il dono totale di sé. È questa la sapienza del credente: la grazia è anteposta alla giustizia, alle opere e alla ragione degli uomini. Il Signore sceglie di preferenza i piccoli e gli umili per far risaltare la sua potenza e per confondere i forti e i sapienti di questo mondo.
Paolo ha sperimentato anche nella sua carne il disegno di Colui che lo aveva chiamato a condividere il destino pasquale di Cristo. È divenuto missionario del vangelo senza altro mezzo e strategia che la forza dell’annuncio. Il senso di sproporzione tra la sua debolezza e il compito immane affidatogli lo ha sempre accompagnato. Alla richiesta di aiuto si è sentito dire:«Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Nell’apparente assenza di mezzi si evidenzia un’altra forza che opera con grande vigore: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché in me dimori la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). È, questo, il più grande paradosso paolino, che riconosce, da un lato, la propria pochezza ma, dall’altro, la potenza della grazia divina. È un messaggio forte per i presbiteri di oggi, tentati di cedere all’efficientismo. Paolo insegna che al tempo dello slancio missionario e dell’assestamento subentra il tempo delle prime delusioni e delle stanchezze, delle deviazioni e delle fughe, delle dottrine erronee e delle divisioni. Si avverte il peso dei cattivi cristiani e ci si accorge che l’evangelizzazione non cammina tanto rapidamente come si era pensato. È il messaggio delle Lettere Pastorali, che sollecitano discernimento e vigilanza, cooperazione e speranza, pazienza e longanimità, preziose virtù del presbitero.
Paolo non ha agito da solo. All’inizio ha avuto bisogno di chiarire e di approfondire il messaggio di Cristo. Anania lo ha battezzato, Barnaba gli è stato vicino, Pietro gli ha garantito la validità e solidità del vangelo che intendeva predicare (Gal 2,2). In tutta la sua azione missionaria, l’apostolo si è preoccupato di formare un’équipe di evangelizzatori. Non un gruppo elitario chiuso, autoreferenziale o separato dal tessuto sociale; non una setta di « perfetti », ma una comunità alternativa che aveva la funzione di orientamento e di proposta nella società di allora. Tra questi collaboratori non si possono dimenticare Aquila e Priscilla, una coppia che ha accolto Paolo a Corinto e, su sua indicazione, si è trasferita prima ad Efeso e poi a Roma per preparargli il terreno dell’evangelizzazione. Paolo è stato da loro aiutato sia sul piano materiale (lavoro e alloggio) sia sul piano pastorale. Dal come affronta il tema del matrimonio in 1Cor 7 a come ne parla, in modo mirabile, nella lettera in Efesini 5,21-33, si comprende quanto Paolo abbia maturato a contatto con questi sposi un’alta teologia sponsale e familiare.
Dagli Atti e dalle Lettere emerge il nome di ben 72 collaboratori di Paolo, numero non casuale perché indicativo delle razze e dei popoli allora conosciuti. Con sorpresa di molti, si contano ben 14 donne come fedeli collaboratrici. Per Paolo il presbitero non è un eroe solitario: si fa aiutare, accetta la collaborazione di tanti e punta a formare dei formatori, per un effetto moltiplicatore. La pastorale integrata non nasce anzitutto dalla scarsità del clero, ma da uno stile comunionale generato dal mistero creduto, celebrato e condiviso.

Originale e creativo
Paolo è stato un seguace appassionato di Gesù. Il suo amore per Cristo non poteva rimanere nascosto o silenzioso. Egli ripeteva a se stesso: «Guai a me se non annunciassi il vangelo!». La successione dei viaggi missionari sta a dimostrare quella forza interiore da cui era afferrato: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13). È intrinseco alla condizione di cristiani il desiderio che Gesù di Nazaret sia riconosciuto da tutti come il Figlio di Dio e l’unico Salvatore del mondo.
La sua passione nell’evangelizzazione si può definire originale, creativa e aderente alla situazione socio-culturale dei suoi destinatari. Ciò che per pura grazia aveva compreso nella folgorazione di Damasco, egli ha saputo tradurlo in un linguaggio diversificato che, cammin facendo, ha assunto la forma dell’esposizione dottrinale, della catechesi, dell’esortazione, della diatriba e altre forme ancora.
La capacità di evangelizzare di Paolo si è manifestata nell’aderenza alla situazione culturale dei suoi destinatari. Nessuno più di Paolo ha saputo « inculturare la fede » ed « evangelizzare la cultura ». Ad esempio: a Listra, scambiato per il dio Hermes, ha parlato del Dio unico che ha fatto il cielo e la terra (At 14,13-17); all’areopago di Atene ha valorizzato l’ara dedicata al dio ignoto, citando a memoria i poeti greci (At 17,22-31). Ai cristiani di Efeso, città dei « misteri » pagani e delle luminarie, ha esposto il mistero della salvezza (Ef 1,3-14) e raccomandato di essere «figli della luce» (Ef 5,8). In ambiente giudaico ha ripercorso la storia del popolo ebreo (At 13,16-41), mentre in Grecia, sede delle Olimpiadi, ha usato molte immagini tratte dal mondo sportivo. Modi diversi e complementari per andare incontro alle esigenze degli uditori, così da portare tutti alla maturità della fede nel Crocifisso-Risorto.
Paradossalmente, l’apostolo delle genti non si è sentito di respingere neppure un’evangelizzazione compiuta in malafede e senza retta intenzione da chi era a lui ostile: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene (Fil 1,18). «Purché Cristo venga annunciato»: questo è il principio in base al quale ogni iniziativa deve essere valutata.
La grazia trasforma la natura umana, che lascia però il segno. Certe intemperanze ed eccessi del carattere di Paolo risultano evidenti nelle sue lettere. È l’uomo del paradosso nell’esprimere la gioia (2Cor 7,4) e le pene (2Cor 1,8). Pur non amando la contestazione come metodo, era capace di grande franchezza e di foga polemica (Gal 55,2 e Fil 3,2). È stato un uomo consacrato a Dio, con lo sguardo fisso sulla meta, Cristo (1Cor 9,26; Fil 2,12-13), ispirato dai consigli evangelici. La povertà come garanzia di un annuncio gratuito e solidale del vangelo; la castità come donazione indivisa del cuore al Signore, nella libertà e nella dedizione ai fratelli; l’obbedienza come offerta gradita al Signore. L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori « formato Paolo », innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Non sarebbe difficile trarre dalle Lettere Pastorali il « decalogo » del presbitero secondo il cuore di Paolo. Lo lasciamo ai lettori.

Guglielmoni L. – Negri F.
(Da settimana del clero n. 16 2009)

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