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COMMENTI ALLA SCRITTURA – Atti 14,21b-27

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COMMENTI ALLA SCRITTURA

BRANO BIBLICO SCELTO – Atti 14,21b-27

In quel tempo, Paolo e Barnaba 21 ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, 22 rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio.
23 Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
24 Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia 25 e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad Attalia; 26 di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto.
27 Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede.

COMMENTO
Atti 14,21-27
Fine del primo viaggio missionario di Paolo 
In questo testo liturgico è riportata la parte finale del primo viaggio missionario di Paolo (At 13-14), che rappresenta la conclusione di tutta la seconda parte degli Atti (8,5-14,28). Dopo la sosta ad Antiochia di Pisidia, dove Paolo ha fatto il suo primo grande discorso missionario in ambiente giudaico, i predicatori si erano recati a Iconio, che però hanno dovuto lasciare in fretta e furia a causa di nuove persecuzioni da parte dei giudei. Vanno allora a Listra dove, in seguito alla guarigione miracolosa di uno storpio, evitano a stento di essere adorati come dèi: è questa l’occasione di un breve discorso missionario ai gentili che prelude a quello dell’Areopago di Atene. Nuove ostilità insorgono anche qui da parte dei giudei e Paolo, dopo aver rischiato la morte per lapidazione, si reca a Derbe.
L’attività di Paolo e Barnaba a Derbe, ultima tappa del loro viaggio, viene così descritta: «Dopo aver evangelizzato quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia» (v. 21). Con i due verbi «evangelizzare» (euangelizomai) e «fare discepoli» (mathêteuô) Luca mette in luce una feconda attività fatta soprattutto di contatti personali, che ha come risultato l’aggregazione di un buon numero di persone. Quando la comunità dà garanzie di poter continuare da sola il suo cammino, Paolo e Barnaba ritornano a Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Essi dunque ripercorrono a ritroso il cammino fatto e incontrano le comunità precedentemente fondate. Ciò offre loro l’occasione di incoraggiare i discepoli e di esortarli a restare saldi nella fede, rendendoli consapevoli che potranno entrare nel regno di Dio solo a prezzo di molte tribolazioni (v. 22).
Luca aggiunge che in ogni comunità costituirono (cheirotoneô, imporre le mani) degli anziani (presbyterous) e, dopo aver pregato e digiunato, li affidarono al Signore in cui avevano creduto (v. 23). Solo a proposito della chiesa di Efeso Luca attesta la presenza di presbiteri che Paolo convocherà a Mileto mentre, al termine del suo secondo viaggio missionario, si recherà da Corinto a Gerusalemme (cfr. At 20,17). Si accenna invece più volte ai presbiteri della chiesa di Gerusalemme, i quali appariranno come membri, insieme agli apostoli, del consiglio che dovrà decidere a quali condizioni accettare i gentili nella chiesa (cfr. 15,2). È possibile che la struttura presbiterale sia stata introdotta nella comunità di Gerusalemme per influsso del sinedrio, che era composto di sacerdoti, scribi e anziani. Non è dimostrato però che tale struttura fosse accolta nelle comunità paoline, perché di essa non si parla mai nelle lettere sicuramente autentiche, mentre viene raccomandata verso la fine del sec. I nelle Pastorali (cfr. 1Tm 5,17; Tt 1,5). L’ipotesi più probabile è che sia stato Luca ad attribuire a Paolo l’introduzione di una struttura che in realtà si è affermata solo qualche decennio dopo la sua morte.
I missionari attraversano poi la Pisidia e raggiungono la Panfilia dove evangelizzano Perge, la città dove Marco si era separato da loro. Scendono poi ad Attalìa e di lì raggiungono via mare Antiochia di Siria, dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l’impresa che avevano compiuto (vv. 24-26). Ad Antiochia riuniscono la comunità e «riferiscono» (anangellô) tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai gentili la porta della fede (v. 27). 
LINEE INTERPRETATIVE
Il primo viaggio di Paolo a Cipro e nelle regioni a sud dell’Anatolia presenta diverse difficoltà dal punto di vista storico. Secondo alcuni studiosi Paolo in realtà avrebbe affrontato già in questo periodo, prima della seconda visita a Gerusalemme, l’evangelizzazione della Galazia e poi della Grecia. Il racconto degli Atti sarebbe quindi una composizione di Luca, il quale si sarebbe servito di questo viaggio sia per descrivere l’emergere di Paolo come apostolo chiamato dal Risorto per portare il vangelo fino ai confini della terra, sia per delineare alcuni aspetti del suo metodo missionario.
Paolo, ancora con il suo nome ebraico di Saulo, assume per la prima volta un incarico comunitario ad Antiochia, sotto la diretta responsabilità di Barnaba, un inviato degli apostoli di Gerusalemme; questi è il primo del gruppo di profeti e dottori che guidano la comunità locale, mentre Saulo occupa l’ultimo posto del gruppo. Barnaba e Saulo vengono designati per un compito di evangelizzazione e lasciano la città diretti a Cipro. A Salamina Saulo, nel confronto con il mago Elimas, prende per primo la parola e in quello stesso momento comincia ad essere chiamato con il nome romano Paolo (13,9); subito dopo è presentato come il capo della spedizione (13,13) ed è lui a prendere la parola nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,16); da questo momento viene sempre nominato prima di Barnaba. È quindi nel contesto di questo viaggio che egli si assume il ruolo di guida del movimento di evangelizzazione dei gentili che si estenderà a macchia d’olio in tutta l’Anatolia e nella Grecia. Luca non poteva scegliere occasione più propizia per far assumere al suo personaggio quella fisionomia che lo caratterizzerà per tutto il resto della sua vita.
Ma Luca coglie l’occasione di questo viaggio anche per dare qualche ragguaglio interessante anche circa la strategia missionaria di Paolo. Il suo lavoro ha luogo nelle città, dove poteva servirsi della lingua greca. Egli sceglie come predellino di lancio la locale sinagoga giudaica, annunziando Cristo in un modo fortemente inculturato nel giudaismo. Nella sinagoga egli stabilisce un rapporto privilegiato con i gentili timorati di Dio (e proseliti), provocando così l’opposizione dei giudei, che lo spinge poi a rivolgersi sempre più decisamente alla popolazione non giudaica. La sua predicazione kerygmatica tende alla raccolta di un piccolo gruppo di credenti. La sua permanenza in una località è brevissima: ciò è dovuto spesso allo scatenarsi di opposizioni violente, ma forse anche a una scelta strategica. Per garantire la sopravvivenza e lo sviluppo delle comunità appena fondate egli si preoccupa di formare una leadership comunitaria efficiente, anche se forse non nella forma istituzionale (i presbiteri) che prenderà piede alla fine del secolo. Infine si incarica di seguire le comunità con visite successive. Così poteva dar vita a molteplici comunità, alle quali poi lasciava il compito di una ulteriore inculturazione e dell’evangelizzazione di tutta la regione.

CAMMINARE CON CRISTO NELLA CHIESA – ANTIOCHIA E GERUSALEMME

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CAMMINARE CON CRISTO NELLA CHIESA/8:

ANTIOCHIA E GERUSALEMME

Finalmente siamo fuori dalla Palestina e siamo in pieno ambiente pagano, in una bellissima città, Antiochia di Siria, situata nella pianura del fiume Oronte a trentacinque chilometri dal mare, dove c’è il porto di Seleucia. È la terza città dell’Impero romano dopo Roma e Alessandria d’Egitto e conta oltre mezzo milione di abitanti. Ebbene, è in questa città che nasce una comunità cristiana colma di vita e aperta a tutti. Le discriminazioni della Chiesa giudaica sono lontane, anche se sempre latenti. In pochi anni la Chiesa di Antiochia avrà un’importanza enorme, senza però perdere la comunione con la Chiesa-Madre di Gerusalemme. La convinzione che la Chiesa è una, pur nella diversità delle singole comunità, è un principio fondamentale.
Ora però ci chiediamo: come è nata la comunità di Antiochia di Siria? Chi è Gesù per i credenti che vivono in essa? Come si manifesta la sua comunione con Gerusalemme? A queste domande risponde il primo brano della sezione: 11,19-30. Nel capitolo 12° invece ritorneremo alla perseguitata Chiesa di Gerusalemme e la conclusione sarà che, malgrado tutto, la parola di Dio si diffonde sempre di più.
I problemi storici legati a questa sezione non sono pochi, ma partendo dal principio che nulla si improvvisa, diciamo che quanto si narra nella prima parte (11, 19-30) copre forse la spazio di 7 o 8 anni (41-48) con un accenno agli eventi dell’anno 36. Quanto invece è narrato nel capitolo 12° è contemporaneo agli eventi della prima parte. A Luca non interessa l’ordine cronologico, ma quello logico: nella prima parte parla di una Chiesa in pieno sviluppo, nella seconda di una Chiesa perseguitata. Si tratta però sempre dell’unica e indivisibile Chiesa impegnata nell’annuncio del Vangelo.
Come nasce una comunità (11,19-21)
Chi ha fondato la comunità di Antiochia è gente che è fuggita da Gerusalemme, quando si scatenò la persecuzione che travolse Stefano (anno 36). Là, annotando il lato positivo della persecuzione, si diceva che i dispersi andavano di luogo in luogo annunziando la Parola. Non si tratta di quelli, come gli Apostoli che hanno come compito primario l’annuncio del Vangelo, qui si tratta di tutti i discepoli. Ognuno sente che non può vivere pienamente la Parola, se non la dona agli altri. Di questo si è in parte già parlato in 8,1-4, ora si dice che i fuggiaschi andarono oltre i confini della Palestina, giunsero nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia.
Quanto segue è molto importante: “Mentre andavano non parlavano a nessuno della Parola se non ai soli Giudei”. Forse seguivano il principio: “prima ai Giudei”. In realtà si tratta di quei giudei-cristiani chiusi ad ogni apertura ai pagani. Ma non erano tutti così: “C’erano alcuni uomini, originari di Cipro e Cirene che, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai pagani, annunciando loro la lieta notizia del Signore Gesù”. Ebbene solo di questi si afferma: “La potenza del Signore era con loro”. Dio non è con chi si chiude nei suoi principi razziali, Dio è con coloro che si aprono a tutti e che vogliono convivere con tutti. Come a Cesarea, così avviene anche ad Antiochia, dove nasce una comunità senza tabù alimentari o sociali: una comunità aperta a tutti.
Anche l’oggetto del loro annuncio è importante: Il Signore Gesù, cioè: “Solo Gesù è il Signore”, o, come ha detto Pietro a Cesarea: “Gesù è il Signore di tutti”. Questo è il vero oggetto di una sana catechesi ed è un binomio che suona come uno slogan. In un ambiente come Antiochia, dove si veneravano varie divinità: Apollo, Dafne, Artemide, ecc. e dove vi erano anche tanti potenti di questo mondo, il grido Gesù è il Signore relativizzava ogni potere umano e annullava per sempre ogni idolatria.

Barnaba e Saulo (11,22-26)
La notizia di ciò che accadeva ad Antiochia giunse alla Chiesa di Gerusalemme, e perciò, come avevano inviato Pietro e Giovanni in Samaria, così ora mandano Barnaba ad Antiochia, certamente per controllare, anche se il principio “la Chiesa è una” guida ogni cosa.
Hanno scelto la persona più adatta. Barnaba è “il figlio della consolazione” ed è un levita, perciò una persona fatta per far osservare la legge. Quando giunse però in quella città capì subito che non era lì per controllare: toccò con mano la grazia del Signore, cioè il meraviglioso sviluppo dell’opera evangelizzatrice. Non c’è da controllare niente dove agisce il Signore. Scoppiò di gioia e si limitò a “esortare tutti a rimanere saldi nel Signore”; e, come uomo pieno di Spirito Santo e fede si mise a collaborare all’opera evangelizzatrice. Risultato: “una folla considerevole fu condotta al Signore”. È la quinta volta che in questo brano (11,19-24) si parla del Signore o del Signore Gesù. Questo esprime la convinzione dei fedeli della continua presenza del Signore nella loro storia.
Barnaba fece poi di sua iniziativa qualcosa di grande. Andò a Tarso a cercare Saulo, “lo strumento scelto per portare il nome di Gesù ai pagani” (9,15) e lo ricondusse nella comunità. Forse erano passati sette o otto anni (39-46) da quando lasciò Gerusalemme (9,30).
Che cosa fece a Tarso in quegli anni? È probabile che abbia annunciato Gesù nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21), ed è certo che quelli furono per lui gli anni delle grandi rivelazioni, se un giorno ha potuto scrivere ai Galati: “Il messaggio di salvezza da me annunziato non viene dagli uomini… è Gesù Cristo che me lo ha rivelato” (Gal 1,11s; vedi pure 2 Cor 12,1-10). Ora eccolo ad Antiochia dove insieme a Barnaba per “un anno intero istruirono molta gente”. Il nome di Cristo dev’essere risuonato in continuità sulle loro labbra, se gli estranei finirono per chiamarli cristiani. Ai fedeli non spiacque questo appellativo, perché ricordava loro che essere cristiani significa appartenere a Cristo. Inoltre con questo nome si sentivano un gruppo ben diverso dal giudaismo. Il risultato fu che la Chiesa di Antiochia in breve superò per importanza quella di Gerusalemme senza diminuirne il primato.

Una colletta, segno di comunione
Vi è infine un fatto nuovo che rinsalda la comunione tra Antiochia e Gerusalemme (11,27-30). I fedeli di Antiochia di fronte all’annuncio di una grave carestia che stava per colpire “tutto il mondo”, si interessarono soprattutto di quella carestia che, sotto l’imperatore Claudio (41-54), colpì la Giudea. Perciò determinarono, secondo le possibilità di ciascuno, di “inviare aiuti ai fratelli che abitavano in Giudea” e li mandarono “ai presbiteri che sono in Gerusalemme” per mezzo di Barnaba e Saulo. Ma perché ai presbiteri e non, come si era soliti fare, agli apostoli? Dove sono gli apostoli? È possibile che la Chiesa madre si trovi in un momento di persecuzione e che la direzione sia stata affidata ad un gruppo collegiale. Ma c’è ancora un’altra difficoltà. Saulo nella lettera ai Galati parla solo di due andate a Gerusalemme: una tre anni dopo la sua conversione e l’altra quattordici anni dopo. Mentre Luca ne cita una terza. Chi ha ragione? I due. A Paolo nella lettera ai Galati non interessano tutte le sue andate a Gerusalemme, ma solo quelle che mettono in risalto il senso della sua missione. Infatti la prima che egli cita, aveva lo scopo di consultare Pietro, il testimone oculare, (Gal 1,18); la seconda, invece, quello “di difendere contro i falsi fratelli, che volevano imporre la circoncisione anche ai pagani, la libertà che avevano in Cristo” (Gal 2,1-5). Perciò cadono tutte le discussioni su chi è più fedele alla storia: se Saulo o Luca.

Gerusalemme: una Chiesa sotto pressione (12,1-5)
Da una Chiesa colma di entusiasmo per il suo meraviglioso sviluppo a una Chiesa perseguitata. Prima i persecutori erano Saulo e il potere religioso, ora si aggiunge il potere politico per mezzo di Erode Agrippa I, che regnò in Giudea dal 41 al 44, quando Saulo era ancora a Tarso. Era un uomo subdolo, sempre alla ricerca del plauso degli altri. Quando risiedeva a Gerusalemme era osservante della legge, partecipava ai sacrifici espiatori e, nel contatto con il potere religioso capì che se avesse perseguitato i cristiani avrebbe reso felici i farisei e i sadducei. Perciò “arrestò alcuni membri della chiesa per maltrattarli e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni”. Qui ci stupisce assai che Luca con una semplice frase liquidi il fatto del martirio del primo apostolo. L’unica spiegazione possibile è che vuole concentrare il suo interesse su Pietro. Ma ci stupiscono anche quegli interpreti che dicono: «Ma perché gli altri apostoli non hanno ricostituito il numero di “Dodici” come si è fatto all’inizio». Il motivo è molto semplice: il valore dei Dodici sta nel loro essere testimoni oculari di tutta l’esistenza del Gesù terreno. Essi soli ci hanno lasciato la “Tradizione Apostolica”. Non ce ne possono essere altri. Sono irripetibili.
Torniamo al testo. Subito dopo l’uccisione di Giacomo “Erode vedendo che ciò era gradito ai Giudei decise di arrestare Pietro. Erano i giorni degli azzimi. Perciò lo catturò e lo gettò in prigione, custodito da quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo Pasqua”. Sedici soldati per custodire un prigioniero. Forse Erode sapeva che Pietro e gli altri apostoli erano già stati liberati dal carcere da un potere misterioso (5,17-21) e volle premunirsi. La sua intenzione era di imitare Pilato che aveva presentato Gesù alla gente e poi fatto uccidere. Così voleva fare con Pietro. Ma al suo potere si opponeva un altro potere: “La preghiera della Chiesa saliva incessantemente a Dio”. Già sappiamo di chi sarà la vittoria.

La liberazione di Pietro (12,6-19)
È un racconto fantastico, un racconto in cui Luca parla dell’agire di Dio. Perciò un racconto che dev’essere letto con fede. L’antica espressione “Angelo di Dio” indica la continua e potente presenza di Dio nella storia. Quello che avviene ha un prima e un dopo e perciò è un evento storico. L’autore però è Dio e il suo agire può essere colto solo nella fede, e poi espresso con le nostre limitate parole umane. Di qui il senso del drammatico che Luca dà al suo racconto. Egli cerca di mettere in risalto tanti piccoli particolari che bene evidenziano la bontà di Dio verso il suo apostolo: “Una luce sfolgorò nella cella… e l’Angelo disse a Pietro: «Alzati, cingiti i fianchi e mettiti i sandali; avvolgiti nel mantello e seguimi»… A Pietro gli sembrava tutto un sogno… Passarono tra il primo gruppo di guardia e poi tra il secondo e giunsero alla grande porta di ferro che automaticamente si aprì”. E le guardie? Con la cella piena di luce è impossibile pensare che non si accorgessero di nulla. Erano tutte sveglie, ma erano lì esterrefatte e incapaci di agire. Pietro continua a seguire l’angelo che lo conduce fuori e che, appena arrivano in una strada deserta, scompare. Allora capì che non si trattava di un sogno, ma che il Signore lo aveva liberato. Nell’agire dell’angelo Pietro scopre la presenza del Signore.
Anche la scena seguente (vv. 12-17) è molto bella. “Pietro va alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto anche Marco, e bussò alla porta”. Lo sentì una fanciulla di nome Rode. Corse alla porta e appena udì la voce di Pietro, tutta gioiosa tornò indietro a dire a tutti che alla porta c’era Pietro. Pensarono che vaneggiasse. Ma Pietro continuava a bussare. Allora gli aprirono e vedendo che era proprio lui rimasero lì stupefatti. “Pietro fece segno di tacere. Poi raccontò come il Signore (non l’angelo) lo aveva tratto fuori dal carcere e aggiunse: «Riferite questo a Giacomo e ai fratelli». Poi uscì e si incamminò verso un altro luogo”.
Dove andò? Quante opinioni! Ma come si fa a inventarle se non ci sono dati? Forse l’unica risposta possibile è che ubbidì al Signore il quale aveva detto: “Se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra” (Mt 10,23). E probabilmente è questo che voleva dire a Giacomo e agli altri Apostoli (fratelli). L’ira di Erode infatti si stava scatenando: fece ricercare Pietro e uccidere le guardie della prigione.

La morte di Erode (12,20-23)
Luca si è trattenuto molto su Pietro, facendo così risaltare la continua presenza di Dio. Davvero Dio cammina con i suoi nella storia. E questo non si offusca se ora rapidamente narra la tragica morte del persecutore. Erode non essendo riuscito a mantenere la parola di presentare Pietro al popolo se ne andò a Cesarea dove riuscì a fare pace con quei di Tiro e Sidone. Poi vennero i giochi in onore di Cesare ed Erode volle presentarsi in tutta la gloria della sua onnipotenza. Flavio Giuseppe, che è forse la fonte di Luca, dice che “nel secondo giorno dello spettacolo Erode, rivestito di paramenti mirabilmente intessuti d’argento entrò all’alba nel teatro e i suoi abiti erano così raggianti alla luce del sole che incuteva timore e tremore in tutti coloro che lo guardavano” e quando poi si mise a parlare – dice Luca – “il popolo lo acclamava dicendo: «Parola di Dio, non di uomo»”. È la divinizzazione della creatura, “stanno adorando un uomo mortale invece di adorare il Dio glorioso e immortale” (Rm 1,23). E Dio li rifiuta: “improvvisamente un angelo di Dio lo colpì perché non aveva dato gloria a Dio, e roso dai vermi spirò”. È la distruzione di ogni idolatria e la condanna di ogni potere umano esercitato con senso di onnipotenza. Anche ai nostri giorni quanti onnipotenti sono svaniti nel nulla.
La conclusione (12.24s) è che, anche nella persecuzione, “l’annuncio della Parola continuava a crescere e a diffondersi sempre di più”. La Parola non è incatenata, non c’è potere umano che la possa fermare. Questo è l’insegnamento che Luca trae da tutto ciò che è avvenuto nell’anno 44. Poi, riprendendo il racconto sospeso in 11,30, dice: “Barnaba e Saulo, compiuta la loro missione a Gerusalemme, tornarono ad Antiochia conducendo con loro Giovanni, soprannominato Marco”. Sono i personaggi che domineranno le pagine seguenti. La meditazione su di esse ha lo scopo di infondere nel lettore il vero senso missionario della propria vita. Infatti non c’è vera gioia, la nostra vita cristiana non trova in sé il suo vero senso, se in noi manca il desiderio di donare ad altri la nostra fede.

Preghiamo
Signore Gesù, donaci di vivere come i cristiani di Antiochia il senso della tua presenza in mezzo a noi. Donaci la gioia dell’annuncio della nostra fede in te, unico Signore, e fa’ che tu sia l’unico oggetto della nostra catechesi. Noi vogliamo farti conoscere, Gesù, e lo vogliamo fare testimoniandoti come colui che dà senso alla nostra vita, perché anche altri trovino in te il senso della loro esistenza. Un’altra cosa abbiamo ancora imparato da quei cristiani: il senso della comunione tra i cristiani, una comunione che sa andare sempre oltre la propria comunità per vivere la comunione dell’unica e indivisibile Chiesa. Facci sentire, o Signore, che la Chiesa è una, perché sappiamo quant’è orribile il peccato della divisione e ci impegniamo a costruire quell’unità che tu vuoi. Solo vivendo questi ideali potremo davvero sperimentare quanto è bello essere cristiani. Amen.
Mario Galizzi SDB

RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2004-7

ATTI 13,1-14,28: LA PRIMA MISSIONE DI PAOLO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/8-Atti_Paolo_prima_Missione.html

(sul sito ci sono i commenti agli Atti degli Apostoli, salto la parte precedente ed incomincio con le missioni di Paolo

ATTI 13,1-14,28: LA PRIMA MISSIONE DI PAOLO

Sono gli Atti stessi che questa volta ci offrono l’introduzione all’intera sezione: “C’erano nella comunità di Antiochia Profeti e maestri: Barnaba, Simeone, Lucio di Cirene, Manaen e Saulo. Ora, mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati». Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono” (13,1-3). Qui appare già una comunità organizzata, guidata da profeti e maestri.
I primi hanno il compito di esortare, incoraggiare e correggere la comunità perché possa sempre compiere la volontà di Dio. I maestri sono incaricati della formazione dei convertiti approfondendo con loro la catechesi e le Scritture. È un dato assai importante: sin dall’inizio si è sentita la necessità di una formazione continua e comunitaria.
Si passa poi a descrivere la comunità che sta celebrando una solenne liturgia e digiunando. Questi due atteggiamenti, la preghiera e il digiuno, liberano l’uomo del proprio egoismo e lo aprono al Signore. È il momento ideale per ascoltare la voce dello Spirito che probabilmente parla per mezzo di uno dei profeti presenti: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. All’inizio c’è sempre l’opera dello Spirito, ma poi viene il momento in cui i cristiani accolgono la sua voce e “imponendo le mani” affidano i designati allo Spirito Santo e si accomiatano da loro. Ha così inizio la missione che durerà circa tre anni (46-49).
Prima tappa: Cipro (13,4-13)
“Inviati dunque dallo Spirito Santo discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro”. È in questa luce di fede che dev’essere letta tutta la missione. Arrivati nell’isola, Barnaba, Saulo e Marco annunciarono la Parola nelle sinagoghe dei Giudei. Il “prima ai Giudei”, malgrado i continui smacchi, è un principio fondamentale per Saulo.
In questo breve racconto, nulla si dice della loro catechesi. Tutto si concentra su uno scontro frontale con la magia. C’era lì, infatti, un mago famoso, alloggiato presso il proconsole romano Sergio Paolo. Egli fece di tutto per ostacolare Saulo e per distogliere il proconsole dalla fede. “Allora Saulo, detto anche Paolo (così lo chiameremo d’ora in poi), pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi sul mago e disse: «Ammasso di astuzia e di perversità… quando finirai di sconvolgere le vie del Signore? Ecco sarai cieco per un certo tempo e non ci vedrai più». Improvvisamente piombò nell’oscurità…”. La potenza dello Spirito annulla e distrugge ogni potenza magica e guadagna alla fede il Proconsole. Tutto qui l’apostolato di Paolo a Cipro, la patria di Barnaba.
Da Pafo, porto di Cipro, salparono verso il continente e raggiunsero Perge in Panfilia, dove Giovanni-Marco si separò da loro per tornare a Gerusalemme.

ANTIOCHIA DI PISIDIA (13,14-52)
Paolo e Barnaba non si soffermano a Perge, ma si dirigono verso Antiochia di Pisidia. Il loro scopo è evangelizzare le città, da cui poi è più facile l’evangelizzazione dell’intera regione. Ad Antiochia c’era una grande sinagoga ed essi, giunto il sabato, vi entrarono per partecipare al culto. “A un certo punto, dopo la lettura della Legge, i capi mandarono a dire loro: «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate». Si alzò Paolo”.
I presenti non erano solo Giudei, ma anche molti pagani devoti e aderenti alla religione ebraica. Tutta gente che aveva una certa conoscenza della storia del Popolo di Dio. Paolo si sentì a suo agio e rivolgendosi all’assemblea disse: “Uomini di Israele e voi tutti timorati di Dio, ascoltate!”. Così ha inizio un discorso che può essere suddiviso in tre parti.
La prima (13,11-25) è una fantastica catechesi sull’Antico Testamento. A Paolo interessa un solo soggetto: Dio che cammina con il suo popolo nella storia con lo scopo di dargli un salvatore, Gesù e con una cascata di undici verbi riassume l’agire di Dio dai Patriarchi a Gesù: “Dio scelse i nostri Padri e rese numeroso il popolo in terra d’Egitto. Dopo lo condusse via di là e lo nutrì per circa quarant’anni nel deserto… Distrusse sette popoli e diede loro in eredità la terra di Canaan e più tardi stabilì dei giudici per governarli fino a Samuele. Quindi diede loro Saul come re, che poi rimosse. Infine suscitò Davide dalla cui discendenza trasse per loro un Salvatore, Gesù secondo la promessa”.
Questa è una splendida catechesi perché evidenzia un solo soggetto, Dio che ha un preciso progetto: dare loro un Salvatore, Gesù. È importante questo per i nostri catechisti. Quando si presenta l’Antico Testamento si deve evidenziare solo l’agire di Dio, scoprire come Egli si rivela e qual è il suo progetto storico. Il motivo è semplice: si deve parlare della Storia della Salvezza. E l’unico soggetto di questa storia è Dio.
Dopo, Paolo si riallaccia alla Tradizione Apostolica che ha inizio con Giovanni Battista. La sua fonte la conosciamo: è Pietro che egli ha consultato per ben quindici giorni, quando dopo tre anni dalla sua conversione si recò a Gerusalemme (Gal 1,18). Per presentare il Battista gli bastano poche parole: “Giovanni preannunciò la venuta del Salvatore e sulla fine della sua missione diceva: «Quello che pensate che io sia non lo sono, ma viene uno dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali dai suoi piedi»”. È chiaro che per Paolo, Giovanni appartiene all’Antico Testamento.
La seconda parte (13,26-30) ha inizio sullo stile della prima: “Fratelli della stirpe di Abramo e voi tutti timorati di Dio, a noi è stata mandata da Dio questa parola di salvezza”. A noi, ossia: oggi Dio ha inviato a noi un messaggio di salvezza che si compie per mezzo del Salvatore, Gesù. Ma qual è stata la reazione degli abitanti di Gerusalemme e dei suoi capi? “Non hanno voluto riconoscere Gesù né accogliere le parole dei profeti che si leggono ogni sabato. Comunque, condannandolo hanno portato a compimento le Scritture e, pur non trovando in lui nessun motivo di morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso e quando ebbero portato a termine tutte le Scritture lo tolsero dalla croce e lo misero in un sepolcro. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti”.

L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO
Qui abbiamo l’oggetto culmine del primo annuncio cristiano: passione, morte, sepoltura, Risurrezione. Siamo agli inizi della predicazione cristiana e non si può non sentire lo “scandalo della croce” a cui si dà una sola risposta. Leggendo i fatti nella luce delle Scritture si dice che tutto era previsto. Paolo però mette bene in risalto la responsabilità e la colpa del suo popolo. Condannando Gesù, hanno condannato un innocente. Ma Dio ha continuato a essere con lui e per mezzo di lui ha portato a compimento la salvezza.
Di fronte al totale rifiuto Dio ha trovato una via perché Gesù continuasse a essere il Salvatore: lo ha risuscitato. Solo la sapienza di Dio poteva trovare questa via. E siccome la salvezza è un atto della potenza di Dio, un giorno Paolo dirà: “Cristo crocifisso è potenza e sapienza di Dio” (1 Cor 1,24).
Nella terza parte (13,31-42) Paolo parla dei testimoni della Risurrezione e del senso che essa ha per noi. Si noti che non dice che è apparso anche a lui (1 Cor 15,8). Questo non ha importanza: contano solo i testimoni oculari, cioè “Quelli che sono vissuti con Gesù e che sono saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme; solo questi sono i suoi testimoni presso il popolo. E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai Padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come sta scritto nel salmo: «Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato»”.
Lasciamo pure che certi interpreti dicano che il modo di citare di Paolo non è molto corretto, però è bello pensare alla Risurrezione non come a una rinascita, ma come a una vera nascita per una vita del tutto nuova, non più soggetta alla corruzione. Anche questo compie le profezie, ma soprattutto ci dà la certezza che in Gesù risorto abbiamo la salvezza, cioè il perdono dei peccati e quella giustizia (= giusto rapporto con Dio) che la Legge di Mosè non può dare, ma che ora è possibile a chiunque crede.
Paolo si è accorto della reazione negativa di alcuni quando ha parlato dell’inutilità della Legge e perciò conclude con parole dure: “Guardate voi arroganti, stupite e allibite, perché sto per compiere un’opera che se ve la raccontassero non credereste”. Forse Paolo pensa alla grande diffusione del Vangelo che offre a tutti la salvezza. Il congedo è educato: “Li pregavano di esporre ancora il prossimo sabato queste cose”.

UN UDITORIO DIVISO (13,43-52)
Lasciata la sinagoga, molti giudei e timorati di Dio seguirono Paolo e Barnaba per continuare, forse per tutta la settimana, a intrattenersi con loro. Ed essi “li esortavano a perseverare nella grazia di Dio”. Ma dovettero fare qualcosa di più perché il sabato seguente furono moltissimi i cittadini che vennero alla sinagoga per ascoltare Paolo. E i Giudei, vedendo il successo ottenuto da Paolo e Barnaba “furono pieni di zelo”, una traduzione in linea col v. 38.
Quei Giudei compresero che l’annuncio di Paolo annullava il primato della legge e delle tradizioni ebraiche, in particolare la circoncisione e le leggi cultuali. Di qui la loro contestazione e il loro bestemmiare contro quello che diceva Paolo, il quale capì che non c’era più nulla da fare.
Allora, Paolo insieme a Barnaba, disse: “Era necessario annunciare prima a voi la Parola di Dio, ma dal momento che la rifiutate e non vi giudicate degni della vita eterna, ci rivolgiamo ai pagani. Così, infatti, ci ha comandato il Signore: «Ti ho posto luce delle genti perché porti la salvezza sino alle estremità della terra»” (Is 49,6).
Con questo Paolo segna la rottura con la sinagoga, mentre i pagani che l’ascoltavano “gioirono e glorificarono la Parola di Dio, e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. E la Parola di Dio si diffuse per tutta la regione”. La reazione dei Giudei fu dura: sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono dalla città. Ed “essi se ne andarono pieni di gioia e di Spirito Santo”.

ICONIO (14,1-7)                                 
Certe traduzioni iniziano il brano così: “A Iconio successe lo stesso”; si intende: come ad Antiochia. Eppure qualcosa di nuovo c’è. Quand’essi entrarono nella sinagoga, parlarono in modo tale che “un gran numero di Giudei e di pagani credettero”. Molti però li rifiutarono e aizzarono i pagani contro i credenti. Ma si tratta solo di ostilità aperta che non impedisce di rimanere per molto tempo sul posto e di annunciare la Parola con franchezza, libertà, coraggio e audacia. Sono quattro parole che vogliono rendere tutta la ricchezza del verbo greco: parressiazomai.
Alla fine però la città si divise e alcuni si schierarono dalla parte dei Giudei, mentre altri dalla parte degli “apostoli”. Abbiamo scritto in neretto l’ultimo termine per sottolineare che è la prima volta che Luca chiama Paolo e Barnaba con la parola “Apostoli”, finora riservata ai Dodici. La situazione poi precipitò e i due se ne andarono a Listra e Derbe.

LISTRA (14,8-20)
Una città totalmente pagana. Ora possiamo ascoltare una piccola catechesi fatta ai pagani e assistere al primo scontro con l’idolatria. Mentre Paolo sta parlando, vede davanti a sé uno storpio e zoppo e si accorge che in quell’uomo c’è la fede per essere salvato. Allora con forte voce gli dice: “Alzati diritto in piedi. Quell’uomo si alzò e si mise a camminare”. Quei pagani, dediti all’idolatria, si mettono a urlare: “Gli dèi sono scesi in mezzo a noi e pensarono che Barnaba fosse Giove e Paolo Mercurio” e decidono di offrire loro un sacrificio. Barnaba e Paolo si stracciano le vesti e corrono verso la folla urlando: “Che cosa fate? Anche noi siamo uomini come voi. Solo vi annunciamo che dovete convertirvi da queste vanità”, da questi dèi inesistenti, privi di senso e valore.
Ecco che cos’è l’idolatria per gli annunciatori del Vangelo: Vanità; gli idoli non esistono, il vero culto può essere reso solo “al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che in essi esiste. Egli ha sempre dato prova di sé beneficandovi, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di gioia i vostri cuori”.
Queste parole di Paolo sono un vero spunto di preevangelizzazione, fatto partendo dalla natura “la Bibbia dei pagani”. In un simile ambiente politeista non era opportuno parlare di Cristo; era sufficiente un invito ad adorare l’unico Dio.
Così calmano la folla e impediscono che si offra loro un sacrificio. Ma ecco arrivare da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei che aizzano e sobillano il popolo tanto che si mettono a lapidare Paolo e quando sembra loro che fosse morto lo trascinano fuori della città. Qui c’è una frase sorprendente: “Gli si avvicinarono i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città e il giorno dopo si diresse verso Derbe con Barnaba”. Ciò significa che Luca si è limitato a narrare un solo episodio, in realtà c’è stata una vera evangelizzazione che ha fatto nascere una piccola comunità.

DERBE (14,21-28)
Luca ha voglia di concludere perché si limita a dire che dopo aver evangelizzato questa città e fatto un numero considerevole di discepoli prendono la via del ritorno, facendo il cammino a ritroso. In ogni città, già evangelizzata rianimano i discepoli esortandoli a rimanere saldi nella fede. E soprattutto danno alle comunità un’organizzazione. Imposero le mani sui presbiteri eletti per il servizio e “dopo aver pregato e digiunato li affidarono al Signore nel quale avevano creduto”. Poi si fermano a Perge e vi annunziano la Parola di Dio. Quindi scendono ad Attalia e prendono la nave per Antiochia di Siria dove “erano stati affidati alla grazia di Dio” e lì raccontano ai fratelli non quello che essi avevano fatto, ma quello che Dio aveva fatto per mezzo di loro. Tutto è stato opera di Dio e dello Spirito.

PREGHIAMO
Signore, com’è meravigliosa la tua Chiesa apparsa in queste pagine che abbiamo meditato. Tutti sanno che sei Tu a camminare con loro nella storia e hanno esperienza che anche il Padre e lo Spirito Santo sono con loro. Gli Apostoli, nel loro lavoro apostolico, non si sentono protagonisti, ma collaboratori di Dio. Quel bene che essi compiono, in realtà è Dio che lo compie ed essi gioiscono di questa intimità divina. Signore, sappiamo che tutto ciò si realizza anche oggi, ma i cristiani ne hanno coscienza? Sono davvero convinti di questa tua presenza e sanno renderla vera esperienza di vita? O Signore, fa’ che quanti hanno meditato queste pagine vivano questa realtà e fa’ che coloro che hanno il compito primario dell’annuncio del Vangelo ricordino che la Chiesa, imponendo loro le mani, li ha “affidati allo Spirito Santo”. O Signore, rendici convinti di questo dono e fa’ che sia in noi fonte di gioia. Amen!

ATTI DEGLI APOSTOLI: IL RITORNO A GERUSALEMME (Lectio)

http://www.indes.info/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/Il_ritorno_a_Gerusalemme.html

LECTIO DIVINA: ATTI DEGLI APOSTOLI 2003-04

IL RITORNO A GERUSALEMME                    

di Pino Stancari                                    

Paolo è impegnato oramai nei suoi grandi viaggi missionari. Siamo al suo terzo grande viaggio missionario. Ogni viaggio ha la sua particolare fisionomia pastorale, ogni viaggio diventa occasione di crescita nella contemplazione dell’evangelo, ogni viaggio diventa momento di rivelazione per quanto riguarda la novità di cui Dio è protagonista nella storia degli uomini per la salvezza di tutte le genti.
Paolo è spettatore di quello che succede e diviene testimone che prende su di sé la responsabilità di accompagnare il cammino di coloro che si convertono nell’ascolto della parola di Dio e nell’esperienza della comunione che oramai coinvolge tutti gli uomini con la Pasqua del Figlio di Dio, Gesù Cristo, Signore di tutti.
A EFESO
Partito da Antiochia Paolo è ritornato ad Antiochia (18,22). Dal versetto seguente ha inizio il terzo grande viaggio. Ancora una volta siamo alle prese con una geografia impegnativa, frastagliata, in certi momenti un po’ impervia. In questo caso, nel corso di questo terzo grande viaggio missionario, ci sono momenti di sosta relativamente prolungati in località adatte all’attività pastorale di Paolo. In particolare una lunga sosta che trattiene Paolo ad Efeso, capoluogo della provincia d’Asia. Per quanto riguarda il valore narrativo, che è valore teologico delle pagine che leggeremo, le strade che Paolo percorre si internano sempre più profondamente nel mistero della coscienza umana, del cuore umano, nel mistero della condizione umana che è visitata dall’evangelo, là dove gli orizzonti non sono calcolabili secondo le misure della geografia, ma secondo le misure della teologia. E’ il mistero di Dio che Paolo insegue, che Paolo contempla, di cui Paolo è testimone, è il mistero di Dio nel cuore degli uomini, nella storia degli uomini, è il mistero di Dio nelle vicende che coinvolgono l’attività umana, l’attività professionale, le relazioni domestiche, le relazioni sociali, le dimensioni politiche, e il linguaggio, nel significato più ampio del termine, il linguaggio degli uomini, gruppi, popoli, una moltitudine di culture.
Paolo affronta, in modo sempre più risoluto e anche sempre più maturo, il viaggio missionario come impegno a scandagliare la profondità del cuore umano. Sorprese sempre più affascinanti e sempre più preoccupanti, per altro verso, quelle che si prospettano.
«Trascorso colà un po’ di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli».
Il terzo viaggio ha avuto inizio. Di nuovo Paolo attraversa la penisola anatolica, le regioni centrali. Nel viaggio precedente non aveva potuto raggiungere Efeso. E’ la meta che invece costituisce l’obiettivo della sua missione nella prima parte del viaggio. Questa volta la meta verrà sollecitamente raggiunta. Paolo punta verso Efeso, capoluogo della provincia d’Asia, vi sosterà per poco più di tre anni.
Nel frattempo l’attenzione si sposta per l’appunto verso Efeso, dal momento che in 18,14 Luca ci fornisce una notizia concernente la presenza e la permanenza ad Efeso di un personaggio singolare, di nome, Apollo, mentre Paolo è in viaggio.
APOLLO
«Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, versato nelle Scritture». Egli era educato alle scuole dell’arte oratoria, alle scuole della retorica ellenistica, personaggio prestigioso. Fatto sta che il caso di Apollo viene messo in evidenza per un motivo particolare. Questo tale era stato ammaestrato nella via del Signore, dunque già è venuto in contatto con i discepoli di Gesù che a loro modo, lo avrebbero evangelizzato, ma questa evangelizzazione ha avuto un effetto molto parziale, non si potrebbe nemmeno parlare di una evangelizzazionema di un complesso di notizie che gli sono state offerte a riguardo di Gesù il maestro e che negli anni precedenti ha svolto una sua preziosa opera di predicazione e di insegnamento nella terra d’Israele. Notizie che Apollo ha recepito restando assai ammirato e si è dato da fare per rilanciare il messaggio, si è reso egli stesso disponibile con tutte le sue competenze di studioso e di biblista, aggiungendo oltretutto la competenza che gli deriva dall’aver frequentato le scuole alessandrine, dunque la competenza nella tecnica espositiva. Egli approfitta di tutto questo per insegnare con grande fervore «ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni». E’ una conoscenza parziale, anzi diremmo che proprio ciò che è essenziale, costitutivo di quella novità per cui l’evangelo è coinvolgimento nell’opera che Dio ha compiuto una volta per tutte nella storia degli uomini, instaurando il suo regno, chiamando l’umanità intera a intraprendere la strada del ritorno alla vita, quella novità evangelica che coincide con l’evento pasquale che si è compiuto una volta per tutte, ebbene di queste cose Apollo non è informato. Egli parla di Gesù e poi con grande stima rilancia l’insegnamento di quel maestro fascinoso di cui ha avuto notizia con grande trasporto, ma è l’insegnamento di un maestro, una dottrina morale, è per di più un insegnamento che ha trovato conferma nella testimonianza integerrima in quel personaggio eccezionale di cui Apollo è ammiratore a distanza. Ma l’evangelo è un’altra cosa. Apollo conosce soltanto il battesimo di Giovanni, è un indizio, quello che stiamo percependo, che poi verrà ulteriormente confermato: l’evangelizzazione è in corso ma poi si dà il caso che l’evangelo venga proposto in modo parziale e quindi in realtà inconcludente, in qualche caso si potrebbe addirittura ritenere che l’evangelo si proposto in modo ambiguo e quindi pericoloso, perché viene barattato come evangelo di Gesù un messaggio che in realtà è ancora ripiegato su moduli antichi, e in sé e per sé radicalmente insufficienti.
Ci accostiamo alla problematica di una evangelizzazione rimasta a metà strada, sospesa per aria. L’evangelo non è passato, non è penetrato, non ha raggiunto il cuore degli uomini, si è trasformato in un prontuario di norme, utili per rispettare un certo ordine morale delle cose. L’evangelo si è ridotto a una proposta di vita generosa e intraprendente, ma indipendentemente da quella che è la novità risolutiva, cioè il coinvolgimento nella Pasqua del Figlio di Dio che è morto e risorto. L’evangelo è rimasto a metà. Il caso di Apollo è già esemplare.

Il viaggio di Paolo si svolge in modo tale da costringerlo a prendere atto di questa situazione. Sono passati ancora pochi anni, ma già viene registrata da Paolo una preoccupante distanza tra la novità evangelica nella sua pregnanza feconda per la salvezza e un certo modo di proporre dei comportamenti, degli impegni di ordine morale. Apollo conosce soltanto l’evangelo di Giovanni. A Efeso sono presenti Priscilla e Aquila, Paolo si è avvicinato a loro a Corinto, hanno lavorato insieme durante quel soggiorno. Adesso si trovano a Efeso, lo ascoltano, mentre Apollo si dà un gran daffare nella sinagoga. Lo prendono in disparte e «gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. Poiché egli desiderava passare nell’Acaia». Apollo adesso si rende conto di come stanno le cose e Priscilla ed Aquila a loro modo, ma con molta onestà e coerenza, e con l’autenticità della loro testimonianza di discepoli del Signore, comprendendo il valore straordinario del personaggio con cui hanno a che fare, si dedicano a lui per aiutarlo a immergersi nella relazione con il mistero del Signore vivente. E’ la novità Pasquale, è la novità evangelica, la novità della vita cristiana. Apollo riparte da Efeso per recarsi a Corinto, quando Paolo scriverà qualche tempo dopo la lettera ai Corinti segnalerà il passaggio di Apollo a Corinto. Apollo è molto intraprendente, tutto preso dalle sue scoperte, viene da Efeso da parte di coloro che già compongono la ecclesia di Efeso, dove già esiste una comunità di discepoli del Signore, ma con tutte quelle incertezze, quelle soluzioni ancora approssimative, grezze, con tutte quelle forme grossolane ancora proprie di una vita che si propone come novità ed invece ancora è carica di compromessi con gli equilibri antecedenti. Fatto sta che da quella comunità di Efeso Apollo viene aiutato a trasferirsi a Corinto e si dà un gran daffare «confutando vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo».
I CRISTIANI DI EFESO
Cap. 19, «mentre Apollo era a Corinto», a Efeso giunge Paolo. L’episodio di Apollo adesso sta sullo sfondo di quanto avviene dal momento in cui Paolo si trova egli stesso a Efeso, dopo aver attraversato le regioni dell’altopiano. A Efeso Paolo trova alcuni che sono già discepoli del Signore, già fanno parte di una prima comunità che è stata fondata in seguito a una prima evangelizzazione. Questi discepoli vengono interrogati da Paolo: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede? Gli risposero: Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo».
Ci sono dei cosiddetti discepoli che non hanno l’esperienza della vita nuova. L’esperienza del battesimo di Giovanni, come diceva Apollo. Il battesimo di Giovanni è un battesimo di penitenza, è un battesimo che esprime il ravvedimento di una vita che vuole intraprendere orami un nuovo cammino, ma è ben altra cosa.
“Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo”. Luca fin dall’inizio degli Atti degli apostoli, ci ha aiutati a considerare che proprio in forza dello Spirito Santo si realizza quel contatto vitale tra noi uomini. Il contatto vitale con colui che oramai è passato attraverso la morte, vittorioso, intronizzato, nella gloria, asceso al cielo e tra lui e noi c’è una comunicazione diretta, un coinvolgimento vitale nello Spirito Santo. Paolo continua:«Quale battesimo avete ricevuto?. Il battesimo di Giovanni, risposero». Come nel caso di Apollo poco prima.
«Disse allora Paolo: Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù».
Paolo interviene per precisare: se il messaggio ricevuto da questi cristiani è stato da qualcuno proposto come un evangelo, si rende conto che è un evangelo menomato, mutilato, avvilito, è un evangelo che non si esprime nella sua autentica novità, dunque non è più un evangelo. E si dà il caso che oramai, e siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione, si tratti di fare i conti con una evangelizzazione che si è svolta nei suoi dati empirici, ma che ha ottenuto come risuultato delle situazioni di vita che non realizzano la novità del Signore nella storia umana. L’evangelo è rimasto a metà. Siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione e Paolo fronteggia una constatazione del genere, che è più che mai preoccupante, addirittura angosciante, che diventa motivo di ripensamento radicale. Pensate come la questione sia attuale per noi dopo tanti secoli. L’evangelo è passato, ma non ha preso, non ha afferrato, non è sceso, non è penetrato, non ha raggiunto il fondo, non ha coinvolto la radice del cuore umano. L’evangelo è passato, sì, ma è come avere a che fare con una spolverata un po’ superficiale, qualche volta anche con riscontri di generosità interessanti, ammirevolissimi, ma non è la novità evangelica.
PAOLO DI DÀ DA FARE:
«Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano».
C’è di mezzo una imposizione delle mani che rinvia a una organizzazione comunitaria, la quale diventa comunicazione tra diversi, c’è una esperienza di gioia intrattenibile, c’è un’ulteriore rilancio della evangelizzazione che rende profeti coloro che sono stati raggiunti dalla profezia che evangelizza, «erano in tutto circa dodici uomini». E’ come se in piccolo, ad Efeso, Luca ci riproponesse la scena della Pentecoste, di quella che è stata la prima pentecoste, ma è sempre pentecoste, è una pentecoste permanente: a Gerusalemme all’inizio, a Efeso, pentecoste sarà sempre dappertutto. La vita cristiana è la vita nuova di coloro che man mano vengono coinvolti nella profezia dell’evangelo là dove con la forza misteriosa dello Spirito Santo gli uomini sono condotti a incontrare il Signore vivente e a vivere oramai in comunione con lui. Gli uomini nella loro precarietà, nella loro debolezza, nella loro miseria, gli uomini che devono ancora affrontare la morte, ma che già sono chiamati a vivere in comunione con il Signore glorioso, intronizzato. E’ il mistero della vita cristiana. Ebbene erano circa 12 uomini come all’inizio, è sempre e ancora pentecoste.
Anche se l’apparenza è così dimessa, anche se ci sembra di avere a che fare con personaggi molto modesti e molto condizionati, è sempre ed ancora la pentecoste. Paolo rimane a Efeso, si dà un gran daffare, qui il suo ministero apostolico si sviluppa, ha a che fare con la sinagoga dei giudei a Efeso. Ci sono momenti di polemica molto serrata.
«Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore».
E’ un ministero molto ricco, un ministero molto fecondo: la evangelizzazione promossa da Paolo si irraggia in tutto il territorio circostante. Efeso è capoluogo della provincia e questo consente anche da un punto di vista tecnico una proiezione su tutto il territorio circostante, di città in città, di villaggio in villaggio, ai bordi delle strade. Così Paolo a Efeso.
MAGHI ED ESORCISTI
L’episodio che segue (18,11-20) ci riporta brutalmente a confermare l’impressione che avevamo avuto fin dall’inizio: una evangelizzazione rimasta a metà. Intanto c’è una crescita, non c’è dubbio. E’ una crescita benefica, una crescita entusiasmante in estensione, ma rimane una problematica a cui non ci si può sottrarre per quanto riguarda la penetrazione in profondità dell’evangelo. Cosa succede qui?
«Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano».
Per le mani di Paolo passano le opere potenti di Dio. Una scena questa che ci affascina in modo clamoroso, ma già percepiamo che affiorano delle ambiguità, si dà spazio a dei fraintendimenti. A riguardo di tutto questo poi, Paolo è più insofferente che mai. Paolo in nessun modo vuole dare adito a soluzioni che equivochino circa l’autenticità dell’evangelo che egli ha ricevuto ed accolto e di cui è profeta con tutta la partecipazione del suo vissuto. Ed ecco un episodio, sintomatico:
«Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi».
E’ proprio vero, il fraintendimento è all’ordine del giorno. Qui compaiono questi esorcisti giudei, che come evidentemente erano abituati a comportarsi, ancora una volta abusano della superstizione popolare e invocano anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, «dicendo: Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Procedure di tipo magico, approfittano della creduloneria della gente, approfittano di quello che è un animo generoso comunque aperto all’esperienza religiosa, subito compromesso da soluzioni di tipo superstizioso. E questo è un fenomeno che non riguarda soltanto le persone poco acculturate. Questo è un fenomeno che riguarda spesso proprio gli uomini dotati della cosiddetta alta cultura, non meno e non di più, e in modo tragicamente drammatico.
Gli uomini colti sono molto spesso estremamente superstiziosi. Il caso di Apollo già ci é stato presentato in concomitanza con l’inizio del terzo viaggio missionario, come una indicazione programamtica. Fatto sta che questo era il comportamento di «sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo». Giudei della diaspora, abbastanza disarticolati nei loro comportamenti. Situazioni più o meno corrotte rispetto alla coerenza della tradizione di fede che è ricchezza inconfondibile e tale rimane, del popolo d’Israele. Questi tali in qualche modo hanno captato qualche cosa della predicazione di Paolo e hanno trasformato quel messaggio in uno strumento di cui adesso si sono appropriati e che intendono utilizzare ad uso e consumo delle loro procedure magiche. E qui succede, v. 15, l’episodio che adesso assume delle movenze un po’ grottesche, se non addirittura ridicole:
«Ma lo spirito cattivo rispose loro: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?. E l’uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso».
Giudei e greci, questo è un fatto che riguarda la cittadinanza efesina in tutte le sue componenti. Lo scalpore è generale. L’episodio in sé e per sé è molto circoscritto, però allude a quelle situazioni di ambiguità che dimorano nella coscienza comune degli uomini a causa del linguaggio religioso diffuso, che ottiene il consenso più ampio, se non addirittura generalizzato. E’ quel certo linguaggio religioso che deve fare i conti con un incidente sconcertante e angosciante.
«Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso e tutti furono presi da timore e si magnificava il nome del Signore Gesù». C’è comunque un appello nel nome del Signore, la magnificenza del nome del Signore viene proclamata, c’è un Magnificat che viene cantato al nome del Signore Gesù. Ma c’è un piccolo particolare di cui bisogna tener conto: il Magnificat è cantato dalla Madre del Signore nella sua piccolezza. Come si può proclamare la magnificenza del Signore Gesù senza esporre, senza consegnare, senza affidare la propria piccolezza? Come si può proclamare il Magnificat rimanendo ancorati ad un atteggiamento magico e superstizioso ? Tutto ciò che ha a che fare con la magia o la superstizione riguarda l’uso del potere. Qui viene proclamata la magnificenza del nome del Signore Gesù, ma rimanendo all’interno di un certo dinamismo della coscienza umana per cui gli uomini aspirano in tutti i modi a ottenere quel potere. Questo atteggiamento così ambiguo è quanto mai diffuso.
«Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d’argento. Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava».
Cresceva e si rafforzava, ma Paolo si rende conto che i tempi si allungano, si rende conto che in un primo momento si era prospettata la sua attività di evangelizzazione missionaria come una corsa mirata a ottenere dei frutti definitivi, ora capisce che il cuore umano ancora non è stato penetrato in profondità, la situazione dei credenti è stata condizionata ancora da complicazioni di ordine magico. C’è una religiosità diffusa che non è stata affatto coinvolta nella novità evangelica. Paolo se ne accorge. E qui una svolta.
E’ il terzo grande viaggio missionario, passano alcuni anni. Luca ci dà di Paolo una immagine pensosa, meditativa. Paolo sta ripensando alle sue cose, alla sua attività di evangelizzatore, sta ripensando al suo impegno. Fa bene ogni tanto. Paolo anche in queste cose è esemplare. v. 21, finalmente Paolo ha preso una decisione dopo un ripensamento intenso, drammatico. E’ un nuovo programma apostolico quello che si prospetta.
BISOGNA TORNARE A GERUSALEMME
«Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: Dopo essere stato là devo vedere anche Roma». Invia due dei suoi, Timoteo ed Erasto, e lui si trattiene ancora per qualche tempo ad Efeso, ma ha preso una decisione. C’è una svolta.
Paolo, giunto a questo punto della sua attività missionaria, decide di tornare indietro, bisogna tornare a Gerusalemme. Non è mica una decisione da poco, questa! Fino a questo momento abbiamo l’impressione che Paolo è proiettato verso mete sempre più remote, una periferia sempre più lontana geograficamente e anche culturalmente, sempre passando attraverso le sinagoghe, là dove trova appoggio e possibilità di dialogo, e poi superando la sinagoga per rivolgersi ai pagani, lungo tutte le strade, lungo tutte le direzioni, fino agli estremi confini della terra. Questo sembrava un programma già elaborato da Paolo e dagli altri con lui. Ora Paolo cambia programma: bisogna tornare indietro, bisogna ritornare da capo. Quello che mi sembra importantissimo è diventare anche noi accompagnatori di Paolo in questa sua vicenda, mentre si interroga, appronta delle soluzioni, elabora dei programmi e poi si accorge che i programmi vengono man mano ridimensionati e sconfessati dai fatti. Paolo si trova sempre più esposto alla esperienza di una novità, quella vera novità che appartiene soltanto la Signore e che sbaraglia tutte le possibili programmazioni pastorali. L’evangelo ancora non ha ottenuto i frutti desiderati. Come è possibile questo?
Paolo si rende conto che c’è uno slittamento in avanti. Nel primo periodo Paolo si comporta come se tutto dovesse risolversi nel corso di pochi anni, entro la sua generazione, ora si accorge che i tempi si allungano, che i disegni della storia umana sono altri, che la provvidenza del Signore che si è manifestata a noi attraverso l’incarnazione del Figlio e la potenza dello Spirito Santo, la provvidenza del Signore guida i disegni della storia futura secondo scadenze e mediante modalità di cui Paolo non si era ancora reso conto.
E intanto bisogna ritornare indietro, ritornare a Gerusalemme, ripartire dalla radice, ripartire dalle fondamenta. Bisogna affrontare il fondo del cuore umano. Paolo ha un unico obiettivo davanti a sé che è la salvezza universale. Bisogna che lo sopportiamo con questa sua pretesa. D’altra parte, se noi, nel nostro piccolo, siamo i cristiani al seguito dell’evangelo, è perché abbiamo anche lo stesso problema: la salvezza universale. Paolo, nel suo piccolo, ha pensieri grandi, ha una prospettiva immensa. Ha davanti a sé il problema della salvezza universale, bisogna ripartire da capo, bisogna ripartire da Gerusalemme, bisogna ripartire da Israele. E quando Gerusalemme sarà evangelizzata ecco … Come gli antichi profeti avevano annunciato, Gerusalemme si solleverà verso l’alto, splenderà. Ecco un punto di riferimento, un segnale sulla scena del mondo, e tutti i popoli vi accorreranno. Allora la evangelizzazione dei pagani sarà come una specie di girotondo che risponderà ai ritmi determinati da quel segnale luminoso e inconfondibile. Così si esprimevano già i profeti dell’epoca antica.
C’è ancora qualche incertezza per quanto riguarda il discernimento per quanto riguarda il tempo:
«si trattenne ancora un po’ di tempo nella provincia di Asia». Ed ecco: «Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina».
Mentre Paolo ha ancora qualche incertezza circa il kronos, intanto il kairos, come dice qui, irrompe. In italiano abbiamo un unico termine: tempo, in greco abbiamo kronos e kairos. Paolo si sta ancora interrogando circa la disposizione dei tempi all’interno di un disegno e intanto accade il kairos. E’ un tempo che si impone come una scadenza che interseca i disegni misurati dall’iniziativa umana. Paolo rimane spettatore di un evento sbalorditivo.
GLI EFESINI IN RIVOLTA
A Efeso un bel giorno una sommossa popolare. Tumulto, confusione, è un caos infernale. E’ proprio il caso di usare questo aggettivo. La consorteria degli artigiani, argentieri, dediti alla costruzione di certi oggetti relativi al culto della dea Artemide, la dea degli efesini, protestano. La scena pubblica della città è sconvolta, la folla accorre nel teatro, nessuno capisce più niente di quello che sta succedendo, ma è uno sconquasso generale. Paolo non ha mai assistito a un fenomeno del genere. E’ proprio il mondo dei pagani, il « mondo ». Paolo ha sempre avuto a che fare con i giudei, i suoi avversari, che sono quelli della sua gente. E poi si è rivolto ai pagani, i pagani lo hanno accolto, riconosciuto, accettato, seguito. E’ su quest’onda che Paolo ha impostato il suo ministero apostolico fino a questo momento. E adesso sta ripensando tutto, è come se gli esplodesse la terra sotto i piedi, è come se all’improvviso Paolo si rendesse conto che sta camminando su un vulcano ancora in attività. E il vulcano esplode. Paolo vorrebbe scendere in campo, andare in piazza e lo trattengono. Paolo rimane al suo posto, non perché abbia paura. Ha dimostrato in tanti modi di sapere affrontare la folla. Tra l’altro il tumulto popolare viene sedato perché certi personaggi, responsabili dell’amministrazione pubblica, sanno come gestire la cosa. Ma rimane il fatto in sé come clamorosa espressione di questa infernale ostilità del cuore umano. E’ proprio vero, il cuore umano non si è proprio convertito. Qui abbiamo a che fare con un mostro. E’ proprio vero, qui noi stiamo cavalcando un’onda tempestosa. E’ proprio vero, qui i tempi si allungano. Ma come funziona l’evangelo in questo contesto, in questa storia? Cosa resta di quella corsa fino agli estremi confini della terra per raccogliere tutto e tutti a Gerusalemme? Questo disegno non corrisponde alla realtà, viene smentito in modo sfacciato, in modo violento, demoniaco. C’è di mezzo la città di Efeso, c’è di mezzo l’identità di tutta una popolazione, c’è di mezzo la storia umana, c’è di mezzo il cuore umano. A parte la dea Artemide e le sue prerogative cultuali, c’è di mezzo il cuore umano. Paolo è spettatore di questa improvvisa esplosione di ostilità, di insofferenza, di rifiuto. Babelico rifiuto.
Non si capiscono nelle cose che dicono, eppure schiamazzano, gridano, strepitano e tutta la città è scoppiata come la pancia di un mostro. E’ una storia vecchia questa. Quante immagini nell’AT! Giona nella pancia del mostro. Qui è Paolo che si ritrova improvvisamente nella tempesta che sconquassa la scena pubblica della storia umana. Si ritrova alloggiato nella pancia di un mostro.
LA CRISI DI PAOLO
Il suo programma pastorale deve essere nuovamente registrato in base ad altri riferimenti. E infatti, cap. 20.
«Appena cessato il tumulto, Paolo mandò a chiamare i discepoli e, dopo averli incoraggiati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia».
Paolo parte, una partenza affrettata. Paolo è accompagnato da molti pensieri, da molti interrogativi. Non è spaventato per quel che è successo. Anzi da parte sua sarebbe pronto ad affrontare la scena pubblica. Non è questo il suo problema. Paolo non sa più esattamente in quale prospettiva deve inserirsi il suo ministero apostolico, all’interno di quale disegno la evangelizzazione che è affidata a lui, e quella che è affidata ad altri accanto a lui, si inserisce. Da Efeso in Macedonia, in Acaia, Corinto. Rimane a Corinto alcuni mesi, sono i mesi in cui scrive la lettera ai Romani. Da Corinto riparte, ritornerà indietro, per tornare a Gerusalemme. Abbiamo a che fare con un Paolo meditabondo, un Paolo che sembra come raccolto nell’impegno di un discernimento interiore che ancora non lo soddisfa. Era giunto a quella soluzione, l’aveva individuata come risposta alla problematica messa a fuoco precedentemente e ora bisogna tornare a Gerusalemme! Gerusalemme è il punto di partenza, ma è anche la meta: il resto sarà soltanto una corsa agevole e disinvolta attraverso i popoli della terra per raccoglierli e convogliarli alla città del Signore. Questo programma è già saltato per aria, è già frantumato, è già esploso insieme con gli eventi di cui Paolo è stato spettatore e in cui Paolo è stato coinvolto a Efeso. Nel cap. 20 il viaggio di Paolo è segnato da un costante riferimento all’eucarestia. Paolo celebra l’eucarestia. Partito da Efeso, Macedonia, Acaia, sosta a Corinto, riparte. Luca non accenna espressamente alla colletta di aiuti che Paolo ha messo insieme per portarli a Gerusalemme, ma è implicita questa attività che Paolo ha promosso nel corso del suo viaggio per portare alla chiesa madre di Gerusalemme quei soccorsi di cui ha bisogno. Qui sono coinvolti i collaboratori di Paolo che provengo da vari luoghi, varie città, come se fossero una piccola avanguardia dei popoli della terra che accorrono a Gerusalemme, che portano i propri doni, che contribuiscono con la propria collaborazione. Un modo per ricostruire immagini che provengono dalla predicazione degli antichi profeti, fino al momento in cui, 20,5: «Questi però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade». Si deve notare la prima persona plurale. Luca usa la prima persona plurale quando ciò che scrive comporta un diretto coinvolgimento di lui, scrittore e narratore, e di noi lettori.
Ci attendevano a Troade. Paolo a Filippi e Luca con lui e noi con Paolo. «Noi invece salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi». Questo ultimo scorcio del viaggio si svolge adesso tra Pasqua e Pentecoste,«li raggiungemmo in capo a cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana». Più volte Luca accenna alla settimana. La settimana è quel periodo di tempo che è segnato dal rinnovarsi del giorno del Signore, il giorno del Vivente, il giorno dell’eucarestia. Da Pasqua a Pentecoste, 20,16: «Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia d’Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste».
Ed ecco: da Pasqua a Pentecoste, per essere a Gerusalemme a Pentecoste. Pasqua-Pentecoste, di settimana in settimana, mentre viene celebrata l’eucarestia. A Troade, l’episodio del ragazzino che cade dalla finestra e Paolo interviene. E’ un segno di vita non un segno di morte. Tuttavia man mano che Paolo procede lungo il suo viaggio, indizi di morte sempre più vistosi, sempre più invadenti, anche direi sempre più scandalosi, si fanno avanti. E’ il mistero della vita che Paolo cerca, che Paolo testimonia: è la strada del ritorno alla vita, è la strada aperta dal Signore risorto dai morti che ci coinvolge con potenza di Spirito Santo. Questo vale per la storia di tutti gli uomini, per la storia umana, per la storia dei popoli. Paolo intanto vede calare sullo sviluppo del suo cammino un’ombra di morte. Il viaggio, ancora una volta, è caratterizzato da questo atteggiamento pensoso del nostro Paolo. Il cuore degli uomini non si è convertito. L’evangelizzazione prosegue, ma il cuore degli uomini ancora non si converte. Ha approntato una soluzione e si è accorto che era del tutto approssimativa e già svuotata di validità. E adesso sta rielaborando, rimeditando, cercando di mettere a fuoco un altro programma pastorale, perché il povero Paolo, cosa volete mai, di un programma ha bisogno, di un disegno ha bisogno, deve riuscire in qualche modo a chiarire a se stesso come vanno le cose e in quale prospettiva si inserisce la sua fatica quotidiana. Di tappa in tappa, segni di morte. E Paolo celebra il mistero della vita, non c’è dubbio, non ci si può confondere a questo riguardo. Non è l’umore cupo, tetro, amaro, avvelenato, di un uomo deluso. Non è così. Paolo non è un uomo deluso, eppure le cose non sono andate come lui desiderava.
Ritorna in Asia, procede parzialmente per via di terra, poi si imbarca per girare al largo da Efeso. Non può entrare ad Efeso con tutto quello che è successo, sono passati mesi. Sbarca a Mileto, qui vanno a visitarlo gli anziani della chiesa di Efeso. Qui il famoso discorso agli anziani di Efeso, responsabili della comunità, a Mileto (20,17-35). Il discorso è veramente splendido. Paolo parla a cuore aperto anche se in un contesto che di per sé denuncia la fatica del ministero, perché non ha potuto recarsi ad Efeso per evitare disordini e complicazioni. Comunque grande trasparenza nel suo linguaggio, grande lucidità nel suo discernimento.
«Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno.. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà».
Io mi trovo in queste condizioni, non so cosa sta succedendo. Nello stesso tempo però, mi rendo conto che «lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni». Sono incatenato, so questo: che vado incontro a dei guai, ma non so perché, con quali risultati, per quale obiettivo pastorale? Perché corri a
IN VISTA DI GERUSALEMME
Gerusalemme? Nello stesso tempo tutto mi lascia intendere che a Gerusalemme per me le cose si mettono male. Che senso ha questo viaggio, il mio presente.
«Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio».
Paolo è ancora risoluto, nulla e nessuno potrà fermarlo. D’altra parte, in un contesto di oscurità, Paolo si rende conto che dinanzi a lui si delinea un itinerario pericoloso, un itinerario luttuoso. «Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto». Questo è un vero e proprio annuncio di morte, «voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero». E’ un testamento questo discorso. Paolo va a Gerusalemme, non sa come andranno certe cose, però intuisce di andare incontro alla morte. E ne parla in maniera comprensibilissima: non vedrete più il mio volto. E intanto resta a voi l’incarico pastorale di cui Paolo parla qui nei versetti seguenti .
Dal v. 29 l’esortazione che è rivolta a questi anziani della chiesa efesina, perché rimangano vigilanti, perché si assumano il rischio della loro presenza in seno alla chiesa: «Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi ». E poi ancora l’esortazione a mantenersi in un atteggiamento di gratuità, come si è comportato lo stesso Paolo: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani», ecc. ecc.
«Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave». Commozione generale, avevano capito bene cosa avesse detto loro. Paolo va incontro alla morte. La tristezza che appanna la vista è come un velo di lacrime, o anche se non piangono non riescono più a sollevare lo sguardo e a guardare in faccia a Paolo, perché Paolo è sottratto alla relazione con loro. Paolo oramai va incontro alla morte.
Così ha dichiarato il nostro apostolo impegnato in questo che dovrebbe essere il suo ultimo viaggio. Le cose non andranno in questo modo. I programmi di Paolo non sono adeguati alla realtà dei fatti. Il disegno delle cose corrisponde a una iniziativa di Dio che rimane gratuita e travolgente rispetto a qualunque tentativo di programmazione umana. E’ vero che Paolo ci ha messo tutto il suo discernimento, ci ha messo tutta la sua partecipazione orante, ci ha messo tutta la sua intelligenza pastorale, è vero. Però ancora una volta il programma di Paolo non corrisponde alla verità del disegno provvidenziale che è nelle mani di Dio.
LE INCOGNITE DEL PIANO DI DIO
Giunti a questo punto siamo almeno arrivati a stringere qualche nodo. Quel grande programma pastorale, di tono un po’ trionfalista diremmo noi, senza giudicare nessuno, si è dimostrato inconcludente già in partenza. Quest’altro programma pastorale sembra essere subentrato: debbo salire a Gerusalemme perché là vado incontro alla morte. E in un modo che io non conosco, in base a un disegno che lo Spirito di Dio gestisce a suo modo, nella economia dei suoi doni, questo mi è chiesto, in questo modo debbo rendere testimonianza, debbo salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte. Prospettiva del martirio. C’è una bella differenza. I programmi si sono succeduti capovolgendo in qualche modo l’orientamento. Dalla prospettiva di un disegno pastorale che da Gerusalemme giunge a Roma e di là dilaga fino agli estremi confini della terra e ritorna a Gerusalemme a questa prospettiva di salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte.
I programmi pastorali Paolo se li gioca nell’intimo, nel suo discernimento, nella sua preghiera, nella sua ricerca interiore, nella sua partecipazione al vissuto di altri.
E adesso, cap. 21, «Appena ci fummo separati da loro, salpammo e per la via diretta giungemmo a Cos, il giorno seguente a Rodi e di qui a Pàtara. Trovata qui una nave che faceva la traversata per la Fenicia, vi salimmo e prendemmo il largo. Giunti in vista di Cipro, ce la lasciammo a sinistra e, continuando a navigare verso la Siria, giungemmo a Tiro, dove la nave doveva scaricare». Da notare la prima persona plurale: sbarcano, ripartono; tutti passaggi che sono segnati, quand’è il caso, dall’incontro con una comunità di discepoli presenti in quella località, l’eucarestia, giungono a Tolemaide, l’attuale Akko (21,7) «Terminata la navigazione, da Tiro approdammo a Tolemàide, dove andammo a salutare i fratelli e restammo un giorno con loro».
Lungo il percorso parecchi sono intervenuti con Paolo dicendo: non è il caso che tu vada. Cosa vai a fare a Gerusalemme, se le cose stanno così? Già quelli di Efeso che sono andati incontro a Mileto si sono inginocchiati con lui in preghiera, piangendo. Ma perché? Adesso, espressamente, altri si fanno avanti: ma non andare, non andare. Siamo ad Akko e per via di terra, Paolo con altri, Luca è tra quelli, giunge a Cesarea.
«Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarea», là dove per la prima volta un pagano è stato evangelizzato da Pietro. Cesarea è la località nella quale è andato a dimorare Filippo, di cui leggemmo le avventure nel cap. 8. Cesarea è dunque un punto di riferimento. Cesarea è anche la sede del procuratore romano, una città in crescita, un porto famosissimo costruito da Erode il grande. Cesarea è l’ultima tappa prima di salire a Gerusalemme, «ed entrati nella casa dell’evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui». Paolo sta recuperando, ripassando tutto quello che è successo, sta rileggendo gli Atti degli apostoli, sta rileggendo il vangelo secondo Luca, sta ritornando a Gerusalemme, che vuol dire ritornare all’inizio degli Atti, ritorna per Pentecoste, che poi è la fatica di ciascuno di noi che si mette in questione e cerca di ritrovare il filo conduttore della propria vita cristiana nel proprio servizio. Come facciamo? Ritorniamo la principio degli Atti. E Paolo sta ritornando e man mano affronta gli strati del percorso che si sono oramai trasformati in narrazione. E dunque Filippo, Pietro, e tutti quelli che ha incontrato lungo il percorso, tutti quelli che costituiscono oramai l’antefatto della sua vita cristiana, perché deve entrare alla radice: ma io, che cristiano sono?
Filippo, uno dei sette, a casa sua, «aveva 4 figlie (vergini) nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani. All’udir queste cose, noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme».
Cosa vai a fare a Gerusalemme se sarai esposto a questi inconvenienti. «Ma Paolo rispose: Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». In modo più esplicito di così Paolo non poteva esprimersi. Io salgo a Gerusalemme proprio per questo, perché mi sono reso conto che questo è il senso del mio cammino, che questa è la prospettiva che mi si apre dinanzi, per questo devo salire a Gerusalemme, per morire nel nome del Signore Gesù. Prospettiva del martirio per Paolo a Gerusalemme. C’è solo questo come obiettivo che possa e debba perseguire: il martirio nel nome di Gesù.
In realtà i fatti non vanno in questo modo, ancora una volta Paolo si sbaglia. Anzi, c’è una nota un po’ grottesca, un po’ ironica, un’ironia molto benevola, quell’ironia di cui è capace il nostro evangelista Luca. La storia di un cristiano che man mano elabora programmi e man mano scopre che la novità dell’evangelo.

NOI VI ANNUNCIAMO… (At 13,32)

http://www.parrocchiadisancesareo.it/san_paolo.html

(Parrocchia San Giuseppe, San Cesareo, RM)

E  NOI VI ANNUNCIAMO… (At 13,32)

Carissimi catechisti, sabato 4 aprile ci troveremo insieme ai nostri ragazzi, in giro per la città di Roma, in cerca della Basilica di San Paolo fuori le mura per vivere il Giubileo di San Paolo, in quest’anno 2009, accogliendo l’invito che ci ha fatto Papa Benedetto XVI.
La figura di San Paolo è straordinariamente ricca sia per la personalità di quest’uomo, sia per la missione che gli è stata affidata da Gesù, portare la Buona Novella fino ai confini della terra, cioè, predicare ai pagani.
Lo scopo della lettura che vi propongo, non è altro che quello di aiutarci a vivere meglio il nostro giubileo Paolino, conoscendo più a fondo la figura del nostro Santo Apostolo. Quindi, buona lettura e buon giubileo!  
Paolo di Tarso è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza, colui che dopo l’incontro con il Risorto, ha sentito l’urgenza di portare il Cristo e il suo Vangelo a tutti i popoli fino agli estremi confini della terra. Possiamo dire, senza dubbio, che la storia della nostra stessa Europa, non sarebbe la stessa senza i viaggi missionari di Paolo.  
Paolo ricorda più volte nelle sue lettere l’incontro con Cristo che gli ha cambiato la vita, ma non descrive né le circostanze, né dove si trovava.
E’ Luca a fornirci queste informazioni, e non una volta soltanto: per ben tre volte infatti racconta l’evento (Atti 9.22.26); già da sola questa ripetizione mostra l’importanza che tale evento ha nell’ottica di Luca, come fatto davvero decisivo per la corsa della Parola dell’evangelo, da Gerusalemme fino a Roma.  
Oggetto della predicazione di Paolo è essenzialmente la persona stessa di Gesù, morto e risorto per noi.
Più di tutti gli autori del Nuovo Testamento Paolo insiste sull’ebraicità di Gesù e sulla irrevocabilità delle promesse fatte a Israele, ma è soltanto in Cristo che ogni altra cosa, a partire dall’eredità religiosa del giudaismo, acquisisce il colore e la preziosità che essa possiede.

(Lettura biblica: Atti 13,16-39)

Alla luce del brano ascoltato ci chiediamo cosa intendeva Paolo per Vangelo di Gesù Cristo, quando lo annunciava con così grande energia, vitalità e passione?

Per lui il Vangelo era
- dono gratuito del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe;
- la rivelazione sua e del suo amore fedele;
- giustizia in Gesù Cristo, crocifisso e risorto, radice della libertà dal peccato e liberatore dalla morte;
- giustificazione, cioè fondamento di un nuovo rapporto con Dio per mezzo della fede.

Paolo si era reso conto prima di altri, prima ancora dello stesso Pietro, che la radicale gratuità della salvezza, proposta da Cristo nel Vangelo, sta all’origine della sua universalità. Un così grande annuncio di liberazione non poteva essere per uno sparuto numero di persone; la salvezza che nasceva dall’immensa sofferenza della morte del Figlio di Dio non poteva essere per pochi intimi.
Il Vangelo diventa forza di Dio per la salvezza di tutti i credenti, non importa di quale popolo o nazione, non importa se greci o romani, se vicini o lontani. Paolo conosce la potenza di Dio e della Parola del Cristo e come un vaso ricolmo, non può trattenere solo per sé o per pochi amici questa notizia traboccante. Vorrebbe dire il Vangelo a qualunque uomo o donna e sente questo come un peso, una responsabilità. Un’urgenza senza pari che vediamo anche dai suoi scritti: “Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti; sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il Vangelo anche a voi di Roma”
(Rm1,14- 15).          
Dopo Damasco, Paolo, avrebbe potuto rimanere nella beatitudine di aver conosciuto, incontrato il Cristo, si sarebbe potuto dedicare a vita privata per poter vivere fino alla fine nella preghiera e nella solitudine. Ma ciò che conta è che Paolo non è stato così! O ancora. Dato il grande dono che Dio gli aveva fatto poteva ergersi in un atteggiamento di superbia e di pseudo-santità e sentirsi maestro sopra gli altri. Ma Paolo non fa neanche questo.  
Egli sceglie la condizione di prigioniero del Signore perché, come apostolo di Gesù Cristo, vuole essere libero da tutti. Essere servo per Paolo significa condividere la condizione dei destinatari del vangelo, sia Giudei, osservanti della legge, sia Greci, estranei alle prescrizioni della legge giudaica. Paolo è sicuro e pieno di passione per ciò che predica perché lo ha sperimentato. Sarebbe capace, e in realtà lo è stato, di farsi uccidere per ciò che annunciava.
Il Vangelo di Gesù Cristo, il Crocifisso risuscitato da Dio, fonda anche il suo metodo di comunicazione. Un metodo che può essere definito solidale con la condizione di vita dei destinatari. L’efficacia della comunicazione di Paolo non dipende da un metodo “retorico”.  
Probabilmente come Mosè o Samuele, non era neanche un abilissimo parlatore, un incantatore, tanto che molte volte, come accadde a Efeso, è dovuto andar via di corsa dal grande teatro, prima che lo catturassero, perché ciò per cui la gente lo sentiva non erano le belle parole che tanto ci attraggono oggi, capaci cioè, di accontentare tutti in una sorta di compromesso che non cambia nulla. I suoi dialoghi con gli altri erano improntati e definiti dalla libertà di amare. Paolo aveva ben compreso e vissuto il concetto moderno di inculturazione e lo accompagnava a quello di una verità gioiosa immutabile che nasce dall’amore di Dio. La motivazione di questa scelta deriva dalla prospettiva missionaria: “salvare ad ogni costo qualcuno”.  
Per Paolo aver incontrato il Signore Risorto sulla via di Damasco è stata l’unica grande esperienza religiosa della sua vita, che gli ha cambiato i connotati spirituali. Cambiati in meglio, naturalmente, visto che da quel momento in poi egli ha orientato tutto se stesso alla conoscenza di Colui dal quale era stato conosciuto, alla diffusione di quella “bella notizia” che gli era stata annunciata, alla missione che gli era stata affidata.  
La missione di Paolo non fu qualcosa da fare, ma il suo nuovo modo di essere, l’unico modo per continuare a vivere in modo conforme alla chiamata ricevuta. Sotto questo profilo le sue lettere possono essere considerate quasi come un diario della sua attività missionaria. Se poi le intrecciamo con quello che Luca ci fa conoscere negli Atti (13-28) allora il quadro si completa..  
Missionari, dunque, si diventa non per scelta propria o per una mera iniziativa umana, ma solo ed esclusivamente per volontà di Dio, solo per iniziativa di Colui che, solo per amore nostro, ha creato il mondo e lo vuole ricreare in Cristo Signore, nella potenza dello Spirito Santo.  
Il messaggio di Paolo si sprigiona non solo dalle sue lettere, ma dalla sua persona e dalla sua opera missionaria. Possiamo dire che la sua attualità è innegabile ed evidente.
Paolo ancora oggi non cessa di parlare alle Chiese e alla Chiesa; non cessa di suscitare meraviglia e stupore, non cessa di provocare le coscienze di molte persone.  
Anzitutto ci ricorda che ciò che vale ed è determinante nella vita di un credente è l’incontro personale con Gesù: un incontro più o meno drammatico, più o meno eclatante, ma pur sempre personale, decisivo.
In secondo luogo ci avverte che la missione nella Chiesa manifesterà tutta la sua efficacia solo se ispirata e animata dalla spiritualità del mistero pasquale, cioè vissuta come partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Gesù. Proprio come ha fatto lui!
In terzo luogo Paolo, che più volte si qualifica come il “prigioniero di Cristo”, ci ricorda che per vivere il cristianesimo nella sua vera natura, non dobbiamo preoccuparci tanto di ciò che riusciamo a fare da soli o con gli altri, quanto di quello che siamo dinanzi al Signore, prigionieri solo del suo amore.  
In questo anno in cui si celebra il bimillenario paolino, i nostri sentimenti dovrebbero essere gli stessi di Paolo, la nostra energia spirituale dovrebbe venire corroborata dalle sue parole, dalla sua schiettezza e dal suo amore, perché altro non sono che un rimando all’amore stesso che Dio ha per noi e che nella sua misericordia ha voluto manifestare in, con e per Cristo, immagine viva e tangibile del Padre.  
Dobbiamo pur dire che per un cristiano e ancor più per un missionario, misurarsi con la figura e l’opera di Paolo è difficile e faticoso, ci si sente piccoli, insignificanti, di fronte a colui che viene unanimemente riconosciuto non solo come Apostolo delle genti, ma come chi attraverso i suoi viaggi portò il Vangelo di Gesù di Nazareth dalla Palestina, una delle province più periferiche e sperdute, al cuore delle città dell’Asia Minore e della Grecia, per arrivare infine a Roma, capitale dell’impero.  
Una delle cose che colpisce in Paolo è la determinazione delle sue scelte. Determinato come giudeo osservante nel perseguitare la nascente comunità cristiana, ancor più determinato nell’annunciare la Buona Novella di Cristo dopo Damasco.
Proviamo a chiederci: quanto di questa sua determinazione alberga dentro i nostri cuori oggi?  
Un altro aspetto della personalità di san Paolo che balza sotto i nostri occhi, è il suo carattere. Di solito si dice che una persona che ha carattere, ce l’ha pessimo, quello di Paolo doveva essere terribile! Lo scontro con Pietro e i riverberi con questo e quell’altro discepolo ci mostrano un San Paolo che nella franchezza del linguaggio e nel coraggio nell’esporre le proprie idee era un testimone straordinario del fascino che Cristo aveva esercitato su di lui. Quanti di noi possono dire lo stesso? Nonostante il suo carattere forte e deciso seppe trasformare i suoi conflitti in una fonte di spiritualità, arrivando ai suoi interlocutori utilizzando un linguaggio carico di attenzione e tenerezza.
Quanti di noi riescono a fare altrettanto?  
Abituati come siamo ad utilizzare mezzi di trasporto superveloci, non riusciamo più a percepire la straordinaria vitalità di quest’uomo che, a piedi, a cavallo, o su imbarcazioni alquanto malsicure, seppe percorrere nei suoi molteplici viaggi, le vie consolari dell’Impero e muoversi nel mar Mediterraneo come se fosse un lago. Gli itinerari di San Paolo portano dritti nelle grandi città del tempo ed è proprio in queste città: Antiochia, Corinto, Efeso, Atene, ecc. che Paolo si misura con la cultura del suo tempo e a viso aperto propone l’annuncio del Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani!  
Questo suo atteggiamento è ancora patrimonio comune per i cristiani, oppure siamo lentamente scivolati nella tentazione di addolcire o meglio annacquare il messaggio di Gesù così da offuscarne lo splendore originario?  
Un altro aspetto caratteristico di San Paolo rivendicato con forza da lui stesso, è quello in cui Paolo sottolinea il fatto di essere un lavoratore che annuncia il Vangelo, Paolo non era un predicatore itinerante, un estroso cantastorie che si spostava di città in città contando belle storielle, era un uomo chiamato da Cristo a portare il Vangelo nel cuore stesso dei popoli estranei a Israele, e per fare questo egli si guadagnava da vivere svolgendo un lavoro manuale che gli consentiva di non pesare su alcuno.  
Questa sua indipendenza lo metteva nella condizione di essere libero interiormente ed esternamente di fronte a qualsiasi interlocutore.

“Vivo ma ormai non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me”;
“Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo”;
“Quando mi sento debole allora sono veramente forte”;
“Fede, speranza, amore, il più grande dei tre è l’amore”.

Basterebbero queste poche citazioni tratte dall’immenso epistolario paolino, per capire quanto ancora oggi ognuno di noi deve misurarsi su questi nodi cruciali che interpellano la nostra vita e pongono delle domande inevitabili nel contesto della realtà nella quale siamo inseriti.  
Anche oggi ci sono delle Agorà, delle piazze, nelle quali scendere e dentro le quali misurarsi con la cultura dominante, anche oggi ci sono città sterminate, dove la “Plantatio Ecclesiae” ovvero il germe di una piccola, magari insignificante comunità di gente che vive nel nome di Cristo è seme di un germoglio che darà i suoi frutti proprio come avvenne al tempo di Paolo; occorre crederci, e ancor di più occorre gettare questo seme sui vasti terreni che lo Spirito Santo ci indica continuamente. Affidiamoci all’intercessione di san Paolo per ottenere dal Signore i doni necessari per annunciare con le parole e con la vita che Dio è padre, ci ama da sempre e per questo ha mandato il suo Figlio Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza.

ATTI DEGLI APOSTOLI – Cap 28 – (Malta)

http://www.homolaicus.com/storia/antica/atti_apostoli/commenti1/cap_28.htm

ATTI DEGLI APOSTOLI – Cap 28

Testo – Morte di Pietro – Morte di Paolo

La baia fra la Punta di Koura e Salmonetta, presso l’isola di Malta, ove approdarono i naufraghi, si chiama ancora oggi « Baia di San Paolo ».
Vengono accolti « con rara umanità »(v. 2) dagli abitanti del luogo, perché in genere i naufraghi venivano spogliati dei loro beni se non addirittura uccisi. Luca fa qui capire che, nonostante l’arretratezza di quegli indigeni, rispetto alla civiltà greco-romana, la loro umanità era spiccata e genuina.
L’isola di Malta era, originariamente, una colonia fenicia. Cadde nelle mani di Cartagine nel 402 a. C. e fu ceduta a Roma nel 241 a. C. Il suo tempio di Giunone, molto importante e ricco, fu saccheggiato da Verrei, pretore romano della Sicilia. I maltesi quindi parlavano o greco o latino, o addirittura entrambe le lingue, visto che erano quelle ufficiali di chi li governava. E’ strano che qui Luca li definisca col termine di « barbari », allora usato in maniera convenzionale, per indicare quanti non parlavano una di queste due lingue. Non è da escludere che questi indigeni siano popolazioni primitive, dedite a caccia e pesca.
Luca tuttavia approfitta della loro ignoranza per descrivere un episodio indegno di uno scrittore del suo talento, ma è probabile che i versetti siano stati aggiunti in un secondo tempo, in quanto non hanno un nesso organico col resto del capitolo. A meno che non si tratti di un racconto molto particolare, che cerca di mascherare la fine improvvisa e inaspettata dell’apostolo: una morte banale che non poteva essere divulgata in quanto non conforme alla sua grande personalità.
« Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: « Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere ». Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male. Quella gente si aspettava di vederlo gonfiare e cadere morto sul colpo, ma, dopo avere molto atteso senza vedere succedergli nulla di straordinario, cambiò parere e diceva che era un dio »(vv. 3-6).
Luca parla proprio di « vipera » e non di un serpentello qualunque, per quanto nel testo greco non sia così evidente ch’egli fosse stato proprio morso (la serpe infatti, contrariamente al suo naturale comportamento, gli rimase attaccata alla mano). Qui comunque il redattore ha tutto l’interesse a mostrare la superiorità del cristianesimo sul paganesimo, che è idolatra per definizione (quando non videro gli effetti immediati del veleno, i maltesi cominciarono a pensare che Paolo fosse un dio, al pari di Apollo o Esculapio, che passavano per divinità con potestà sopra i serpenti). Soprattutto Luca ha necessità di mostrare come Paolo si fosse comportato, durante il naufragio, come delatore, sventando il tentativo di liberazione dei prigionieri, perché godeva di una particolare protezione divina, infinitamente superiore a quella che poteva offrire la dea « Giustizia » o Nemesi, figlia di Giove e di Temi.
L’altro episodio fantastico che accadde sull’isola e che vede protagonista, ovviamente, lo stesso Paolo, è relativo alla guarigione del padre di Publio (quest’ultimo rappresentante del pretore della provincia di Sicilia, da cui Malta dipendeva), che era stato colpito da febbre maltese.
Anche qui gli Atti non hanno dubbi di sorta nel paragonare Paolo a Gesù Cristo. Sembra anzi che quanto più egli frequenti gli ambienti pagani, tanto più sia facile far vedere a questi ambienti superstiziosi, di alto o di basso rango, quanto sia superiore la civiltà ebraico-cristiana. Ma se il primo racconto è un camuffamento della morte di Paolo, questo rappresenta una sorta di canonizzazione.
E’ straordinario vedere con quale spregiudicatezza Luca (o chi per lui) si prenda gioco della creduloneria degli abitanti dell’isola e degli stessi lettori degli Atti. Qui infatti è evidente che se anche Paolo fu in grado di risolvere, con la sua scienza, un caso di difficile soluzione per una cultura primitiva come quella degli abitanti dell’isola, ciò non avrebbe dovuto in alcun modo favorire atteggiamenti ancora più superstiziosi di quelli consueti: « anche gli altri isolani che avevano malattie accorrevano e venivano sanati »(v. 9). Questo poi senza considerare che tutte le culture primitive hanno sempre avuto conoscenze mediche di tutto rispetto, da cui allora dipendeva la medicina delle civiltà più avanzate.
A parte queste stravaganze, che difficilmente potrebbero essere attribuite a una persona seria come Luca, per di più medico di professione, non può certamente sfuggire al lettore che l’autore di questo capitolo non dice assolutamente nulla della fine che fecero i 276 naufraghi (che salparono dopo ben tre mesi), in quanto là dove si scrive che Publio li ospitò per tre giorni (v. 7), occorre intendere, al massimo, soltanto Paolo, Giulio e lo stesso Luca. Solo in alcuni manoscritti è stato aggiunto, evidentemente per colmare una lacuna macroscopica, che « il centurione, arrivato a Roma, consegnò i prigionieri al prefetto del Pretorio ».
Sia come sia, la comitiva riuscì a riprendere il viaggio imbarcandosi su una nave alessandrina, che caricava il grano e faceva commerci fra Egitto e Italia e che aveva svernato sull’isola. La prima tappa fu Siracusa, una delle città più floride della Sicilia, dove stanno tre giorni, poiché aspettavano il vento favorevole al proseguimento del viaggio. La seconda tappa fu Reggio Calabria, dove si fermavano sempre le navi che da Alessandria venivano in Italia.
Poi, levatosi l’Austro, il vento di mezzogiorno, fu la volta di Pozzuoli, il porto principale di Roma e grande emporio ove convenivano la navi egizie recanti il grano che sostentava il popolo romano. Qui inspiegabilmente gli Atti affermano che Paolo e Luca (di Aristarco non si dice più nulla) furono ospiti, addirittura per una settimana, di « alcuni fratelli »(v. 14). Evidentemente Paolo godeva di ampia fiducia da parte di Giulio, anche se evidentemente non doveva mancare la scorta, come infatti risulta al v. 16.
Ma chi siano queste persone non è dato sapere: molto probabilmente sono degli ebrei chiamati « fratelli » solo in senso lato, che non sapevano nulla di Paolo (come risulta dal v. 21) o che forse lo conoscevano solo come persona autorevole o addirittura come persecutore dei cristiani. Qui non viene neppure ricordata l’importantissima Lettera ai Romani ch’egli scrisse a Corinto negli anni 57-58. C’è però da dire che Luca non cita mai alcuna lettera di Paolo.
I « fratelli » di Pozzuoli avvisano quelli di Roma, affinché si preparino ad ospitare Paolo e Luca. A Roma s’incontrano, molto stranamente, con due diverse comitive nei pressi del Foro di Appio e alle Tre Taverne: il primo, a 43 miglia da Roma, era luogo dove i venditori girovaghi e i mercanti si fermavano a bere; le Tre Taverne invece distavano circa 33 miglia da Roma. E con questi Paolo ha una prima breve conferenza, in cui spiega loro, molto genericamente, ch’era a causa della speranza d’Israele ch’egli portava le catene, « senza aver fatto nulla contro il popolo e contro le usanze dei padri »(v. 17).
A Roma, nel suo alloggio, Paolo ha una seconda conferenza, e questa volta sono presenti anche i capi giudei della comunità locale, che vogliono conoscere in dettaglio il motivo del suo arresto. Naturalmente Paolo dà la sua versione dei fatti, che i giudei lì presenti, non conoscendoli, non possono smentire, non avendo avuto di lui – anche questo molto stranamente – alcuna notizia negativa, per quanto sappiano che la setta del cristianesimo incontri ovunque forti opposizioni (v. 22). Egli comunque presume di dimostrare che « la legge e i profeti » avevano trovato il loro lento, graduale e sicuro compimento non in un regno terreno, politico-nazionale, ma in un regno dei cieli, di tipo etico-religioso: Gesù è l’unico vero figlio di dio, quindi più grande di tutti i patriarchi, di Mosè, di tutti i re e profeti che Israele abbia mai avuto, semplicemente perché è « risorto ».
Come si può notare, Paolo iniziò a comportarsi coi giudei di Roma esattamente come fino a quel momento aveva fatto coi giudei della diaspora. Infatti, dopo aver parlato con lui « alcuni aderirono alle cose da lui dette, ma altri non vollero credere e se ne andavano discordi tra loro »(vv. 24-25).
La chiusa degli Atti – come si può notare – è un semplice replay di altre analoghe conclusioni di precedenti capitoli, al punto che si ha l’impressione che Paolo sia già morto o sia diventato un soggetto che ormai ha fatto il suo tempo, in quanto i nuovi cristiani di origine pagana non cercano neppure un rapporto col mondo ebraico. Si ha quasi l’impressione che a Roma abbiano celebrato il suo funerale.
Luca e Paolo vogliono far sembrare il cristianesimo un inveramento o superamento dell’ebraismo classico, ma il tentativo – come al solito – viene condiviso solo da un’infima minoranza, al punto che viene citato Isaia ad uso e consumo della propaganda ideologica del cristianesimo paolino, cioè senza alcun riferimento contestuale. Il v. 28 infatti sarebbe stato improponibile anche per il profeta più progressista.
Ma la cosa più curiosa viene detta nell’ultimo versetto, in quanto Luca fa capire che Paolo a Roma poté sfruttare le sue conoscenze tra i romani, la sua stessa cittadinanza romana per poter predicare nel proprio alloggio preso in affitto per ben due anni, « con tutta franchezza e senza impedimento »(v. 31). Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che un accusato politico fosse tenuto prigioniero a Roma per ben due anni, senza che un qualche atto di procedura fosse fatto.
Gli esegeti si sono lamentati assai di questa laconicità di Luca, di questa conclusione repentina del romanzo, della voluta assenza di riferimenti circa la fine dell’apostolo. In realtà più chiaro di così Luca, che a Roma non andò mai, non poteva essere.
Secondo alcuni esegeti Paolo scrisse a Roma le Lettere agli Efesini e ai Colossesi, il biglietto a Filemone (con cui rimanda al padrone lo schiavo Onesimo, ch’era fuggito), e forse anche le Lettere ai Filippesi. Altri pensano che tutte queste lettere siano state scritte a Cesarea. Dopo i due suddetti anni sarebbe andato in Spagna (come da Rm 15,24). Dopo il 62-63 avrebbe scritto, forse dalla Macedonia, la prima Lettera a Timoteo e quella a Tito. Più tardi, di nuovo a Roma, la seconda Lettera a Timoteo, e nella capitale sarebbe morto sotto Nerone dopo una seconda prigionia.

ATTI DEGLI APOSTOLI (I) : IN OCCIDENTE (Paolo)

http://www.indes.info/lectiodivina/2003-04_Atti_degli_Apostoli/In_Occidente.html

[questo è il programma che ho trovato, la parte precedente deve essere stata fatta nell’anno liturgico precedente, all’inizio c’è una presentazione, poi posto anche gli altri 6:

2003-04 – Atti degli Apostoli
14 novembre 2003 – In Occidente, Pino Stancari
dicembre 2003 – Il ritorno a Gerusalemme, Pino Stancari
febbraio 2004 – Quale Evangelo?, Pino Stancari
marzo 2004 – Nella luce vedo la luce, Pino Stancari
aprile 2004 – La tempesta, il vento, lo spirito, Pino Stancari
maggio 2004 – Con tutta franchezza e senza impedimenti, Pino Stancari
giugno 2004 – Tutto nel racconto è teologico, Pino Stancari]

ATTI DEGLI APOSTOLI (I)

(14 novembre 2003)

IN OCCIDENTE

di Pino Stancari

Abbiamo letto fino al cap. 15,35. Noi abbiamo incontrato dei personaggi, delle situazioni, delle vicende, la rivelazione di questa potenza di Dio che opera nella vita degli uomini e suscita frutti di conversione, nel senso che gli uomini ritornano alla vita, è nella loro vita che si manifesta la potenza di Dio, ma è proprio la vita umana che deve essere ricomposta, deve essere rieducata, deve essere restaurata. Gli uomini ritornano alla pienezza della vita dal momento che sono chiamati a percorrere l’itinerario che è stato aperto una volta per tutte dal Figlio nella carne umana, da Gesù il Signore che è risorto dai morti. E’ con potenza di Spirito Santo che la nostra realtà umana è sigillata nella comunione con lui vivente e glorioso. L’evangelizzazione è in corso.
Questa volta affrontiamo il secondo grande viaggio missionario di Paolo. Abbiamo incontrato l’ambiente nel quale la prima evangelizzazione di insedia a Gerusalemme. Abbiamo assistito al configurarsi della prima comunità dei discepoli del Signore, là dove viene invocato il nome di Gesù, là dove i discepoli del Signore si rendono conto di essere inseriti in quel giorno nel quale si è compiuta una volta per tutte la visita di Dio per la salvezza degli uomini. Quel giorno oramai costituisce un oggi definitivo, oggi eterno. Ed ecco la vita nuova, la vita di coloro che si rendono conto di essere inseriti in quell’oggi. E’ un evento profetico, è un evento che si manifesta passando attraverso il vissuto di persone che sono in grado oramai di testimoniare quale cambiamento è avvenuto, quale cambiamento sta avvenendo in loro stessi, e così in grado di testimoniare quale trasformazione è oramai donata in prospettiva a tutti gli uomini.

A Gerusalemme
Abbiamo incontrato Pietro, ma il personaggio che emerge come figura dominante nel corso della narrazione è Paolo. E la presenza così paziente, capillare e comunque necessaria degli evangelizzatori si configura come testimonianza contemplativa a quell’opera di cui Dio solo è protagonista. Tornano ad Antiochia, ed ecco cap. 15 a Gerusalemme la grande assemblea, nella quale sono convocati i rappresentanti della chiesa di Antiochia, così come gli altri apostoli ed anziani, per discutere la questione riguardante la circoncisione che qualcuno vorrebbe imporre anche ai pagani, mentre la decisione va in direzione esattamente opposta, così come, per altro, Paolo e Barnaba sostengono, ma prima ancora di loro Pietro e lo stesso Giacomo.
E proprio in quel contesto a Gerusalemme, in occasione di quella grande assemblea, che ancora una volta i nostri evangelizzatori Paolo e Barnaba danno conto della loro esperienza contemplativa, raccontano ciò che hanno vissuto, ciò di cui sono stati spettatori ed hanno a che fare con interlocutori silenziosissimi presi, conquistati anch’essi dal racconto che ascoltano in modo da divenire partecipi anch’essi di quell’esperienza contemplativa. E siamo al secondo grande viaggio missionario. Le pagine con le quali dobbiamo fare i conti: 15,36-18,22.

Ritorniamo: un cammino di conversione
Notate l’avvio di questa nuova tappa nella grande narrazione lucana: «Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la parola del Signore, per vedere come stanno» (15,36). Questo versetto può servire come titolo del racconto che segue del secondo grande viaggio missionario. Ritorniamo a far visita ai fratelli. Il verbo ritornare allude a un’azione di valore pastorale immediatamente comprensibile per noi. Si tratta di stabilire un contatto con quelle chiese che sono state fondate precedentemente e nel frattempo stanno crescendo e maturando nella loro vocazione. E quindi: ritorniamo. Il verbo usato qui indica quel certo modo di ritornare che noi altrimenti chiameremmo conversione. Ritorniamo a far visita: è un ritorno non soltanto nel senso oggettivo di un viaggio che dev’essere intrapreso per ristabilire un contatto diretto con quelle chiese, ma è un ritorno che già qui ci viene proposto come un cammino di conversione. In tutte le città nelle quali l’evangelo è stato annunciato, là dove man mano si sono costituite delle comunità che attualmente stanno crescendo, là dove la novità della vita cristiana si è oramai radicata anche se in modo un po’ nascosto, con tanti limiti, con tante insufficienze, con tante incertezze, in queste città Paolo intende compiere la visita. Per questo si è rivolto a Barnaba. La visita ai fratelli si inserisce in un quadro complessivo che è già annunciato come un itinerario di conversione.
Luca che racconta, ci mette già sull’avviso: secondo viaggio missionario, un cammino di conversione per Paolo e per gli altri con lui. Le pagine che leggeremo ci aiuteranno a costatare come il grande viaggio missionario è il viaggio che in primo luogo e in maniera davvero radicale determina la esperienza di conversione che interpella e struttura la vita nuova di coloro che a quell’opera di evangelizzazione sono consacrati, sono riservati: un cammino di conversione. Ma che vuol dire questo?

Il distacco di Barnaba
Qui c’è di mezzo un problema per quanto riguarda la partecipazione di Barnaba al viaggio. Barnaba vorrebbe portare il nipote, Giovanni detto Marco, che nel viaggio precedente in un certo momento si era ritirato. Paolo non ne vuole sapere. Paolo è risoluto, intransigente a riguardo di queste faccende e allora si separano. E’ un addio piuttosto brusco e doloroso quello che segna l’inizio del nuovo viaggio. Barnaba con Marco si imbarcano per Cipro, Paolo invece (15,40): «scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore». Questa volta per via di terra, non si imbarcano, visitano le chiese già fondate nel viaggio precedente, partendo da Antiochia e rimanendo nei territorio della Siria, della Cilicia, all’interno della penisola anatolica per via di terra.
Il fatto che il secondo viaggio missionario sia inaugurato da un evento che in sé e per sé è piuttosto increscioso, la separazione da Barnaba, è significativo per noi. E’ davvero un viaggio che già in base a questa scena introduttiva possiamo cominciare a delineare come il viaggio nel corso del quale strappi analoghi a questo si ripeteranno provocando un dissesto che li per li potrebbe davvero diventare catastrofico, ma che diviene poi l’occasione preziosa perché una nuova prospettiva si illumini e strade nuove di delineino nell’intimo del cuore, le strade della conversione. E non senza sorprese, non senza insofferenze, non senza tanto dolore.

A Derbe e a Listra
Cosa succede qui adesso? «E attraversando la Siria e la Cilicia, dava nuova forza alle comunità». Paolo in viaggio, Sila è con lui. Adesso sono a Derbe e a Listra. Si aggrega Timoteo al gruppetto degli evangelizzatori e quindi così passano di chiesa in chiesa (16,5): «Le comunità intanto si andavano fortificando nella fede e crescevano di numero ogni giorno». E’ una crescita nella visibilità nelle cose, ma è una crescita sempre riportata alla fortificazione della fede, una crescita di cui si ha un riscontro oggettivo, numerico, precisa il nostro narratore Luca, ma è una crescita che si attesta nella sua qualità decisiva là dove l’invisibilità del cuore umano si apre, si spalanca, si esprime oramai con il nuovo linguaggio della fede.

Attraverso la Frigia a la Galazia fino a Bitinia
«Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia». Il viaggio prosegue per via di terra percorrendo le regioni centrali della immensa penisola anatolica, l’attuale Turchia. Venendo da Antiochia, Siria, Cilicia, ecco Frigia e Galazia. Tutto lascia intendere che Paolo voglia puntare direttamente su Efeso, che è il capoluogo della provincia di Asia. Questa è la direzione, la direzione che comporta la fatica di un lungo viaggio, ma è una direzione piuttosto limpida, l’obiettivo verso cui è mirato il viaggio di Paolo è più che comprensibile. Sembra proprio del tutto logico che Paolo intenda recarsi ad Efeso per poter irraggiare la opera di evangelizzazione in tutto il territorio circostante. Soltanto che le cose non vanno così.
Ci sono dei contrasti. Questi incidenti, che possono essere avvenuti per motivazioni interiori e indecifrabili, costringono Paolo a cambiare strada. Vedete come dice qui? «avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia». Dunque la provincia d’Asia è irraggiungibile, Di Efeso non se ne parla. Raggiunta la Misia sono dirottati verso nord. Il percorso procede a zig zag. Non sa dove andare, non sa perché, non si spiega come mai le cose vadano in modo così diverso rispetto alla programmazione. Programmazione di per sé rispettabilissima, anzi doverosa e in qualche modo geniale. «Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia». La Bitinia sta sulla costa del Mar Nero. E’ questa la meta che bisogna raggiungere. Ma non è nemmeno così che vanno le cose, perché «lo Spirito di Gesù non lo permise loro». Di nuovo il vento contrario, ed è un vento energico, che parla a Paolo con la intensità della comunione che lo lega a Gesù. Eppure Paolo non sa darsi una spiegazione. «così, attraversata la Misia, discesero a Troade». Qui devono fermarsi per forza perché qui c’è il mare. La strada finisce lì dove il mare. Di nuovo il mare. Neanche Paolo sa perché. «Durante la notte apparve a Paolo una visione: gli stava davanti un Macedone e lo supplicava: Passa in Macedonia e aiutaci!».

In Occidente: la Macedonia
La Macedonia è la regione che sta dall’altra parte del mare, perché Troade si trova in quella zona del mar Egeo, a nord, che guarda verso l’Europa. Dall’altra parte del mare la Macedonia; dall’altra parte c’è l’Europa, dall’altra parte c’è l’occidente. Asia ed Europa, oriente e d occidente, categorie un po’ generiche a dire il vero, però niente affatto banali. C’è una storia che passa attraverso i secoli e i millenni che sta alle spalle di Paolo, sta ancora alle spalle nostre. Ancora noi registriamo il valore di certi confini per cui c’è un fronte meridionale e uno settentrionale del Mediterraneo. E’ vero che i romani dicevano che il mare è nostro, però è poi vero che il complesso di eventi storici che sono consumati nell’arco di pochi secoli non contraddicono il significato di una storia che passa attraverso i millenni.
Fatto sta che per Paolo è giunto il momento di varcare quella soglia e di entrare in Europa, è giunto il momento di affrontare l’occidente. E questo passaggio non è affatto banale. Tenete conto del fatto che Paolo è un asiatico, è un uomo dell’oriente. Sono particolari su cui noi normalmente non riflettiamo. Paolo è un asiatico. E’ vero che è un giudeo, con tutto quello che significa essere giudeo e quindi criteri particolari che servono a distinguerlo,a identificarlo nella sua appartenenza al popolo d’Israele, ma è pur sempre anche Israele una realtà dell’oriente, una realtà dell’Asia. Sono millenni di storia della civiltà umana, è un linguaggio, un modo di vedere, di sentire, un modo di affrontare il mondo, mondi che si oggettivano nei comportamenti degli uomini, comportamenti che riguardano il vissuto personale, quello comunitario, il movimento dei popoli, le grandi istituzioni. Asia. Anche Gesù è un asiatico. Anche su questo noi non sempre riflettiamo abbastanza: Gesù è un orientale.
Fatto sta che c’è un macedone nel sogno che invita Paolo, incoraggia Paolo ad attraversare il mare. Non ci vuole molto dal punto di vista tecnico, è un’impresa di poco conto, in poche ore si attraversa, il mare Egeo che è sempre stato molto navigabile. Contatti frequentissimi e molto disinvolti tra le due sponde, ma mondi diversi. E’ vero, c’è uno spostamento dell’occidente in oriente, attraverso le coste che vengono colonizzate; per altro verso c’è una pressione dell’oriente sull’occidente, conflitti e momenti di temporanea assimilazione, più dichiarata che reale. Alessandro Magno conquista tutto l’oriente, ma in realtà il suo impero si sfalda nel giro di una generazione. Il racconto del secondo viaggio missionario ci costringe ad accompagnare Paolo in questo passaggio, nel superamento di questa soglia e questo episodio acquista un valore, per così dire, apocalittico, rivelativo. E tutto questo nella prospettiva che Luca ci aveva già suggerito fin dall’inizio. E’ un mondo nuovo per Paolo, è gente diversa, è un’altra storia. Adesso ce ne renderemo conto e Luca molto sapientemente ci istruisce a riguardo di queste cose.
Paolo per la prima volta entra in Europa, affronta il mondo occidentale, è tutto diverso, è tutto strano, tutto strambo. Non solo, ma strano e strambo è lui per gli occidentali. E come Paolo si presenta in Europa, subito viene riconosciuto. E’ un altro di quelli per come parla, per come veste, per come si muove, per la puzza che emana, per i riferimenti che ritiene vitali di cui va in cerca, e che sono in realtà esotiche e addirittura ridicole, ma che fanno parte del suo mondo orientale. Subito Paolo è identificato. Paolo è una persona seria, non è mica un uomo qualunque qualsiasi. Paolo è una persona dignitosa, è un uomo rispettabile, Paolo è una persona di cultura, ha anche tutti i documenti in regola. E’ addirittura cittadino romano. Soltanto che appena si presenta subito è identificato all’interno di quel certo schema interpretativo per cui non gli viene dato non solo il tempo di tirar fuori i documenti, ma nemmeno il tempo di aprire la bocca, perché è un orientale, è uno di quelli.
Non è affatto comodo per Paolo l’impatto con l’occidente, è anzi per certi versi, una vera e propria apocalisse, una rivelazione che lo espone al contatto con realtà che non avrebbe mai sospettato. Non è mica un ignorante Paolo, in realtà parla greco, che è la lingua degli occidentali fin dalla nascita, quindi non gli mancano nemmeno gli strumenti per entrare in contatto. Paolo è greco di formazione, di cultura giudeo, è un orientale. «Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore». Qui Luca usa per la prima volta la prima persona plurale, e quando Luca fa così il coinvolgimento è particolarmente pressante. E’ evidente che siamo alle prese con un passaggio decisivo. Lui, noi. Il racconto è impostato in modo tale che non possiamo non esserci partecipi.

Un mondo tutto nuovo
«Cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore». «Salpati da Troade, facemmo vela verso Samotracia e il giorno dopo verso Neapoli e di qui a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia». Paolo si muove su quelle strade, incontra quella gente, guarda quelle facce, ascolta quelle parlate, cerca di capire come funziona quel mondo, è tutto nuovo, tutto diverso. Un impianto sociale a cui Paolo non è abituato. C’è anche un quadro politico a cui Paolo non è abituato. Tante regioni dell’oriente sono sottoposte al potere di Roma, ma è un’altra cosa, è un’altra civiltà. Per Paolo questo impatto diviene un motivo provocatorio, nel senso che Paolo si rende conto che qui si tratta per lui di quel processo di conversione di cui Luca ci parlava fin dall’inizio. Paolo si rende conto che per quanto lui parli il greco, per quanto lui sia cittadino romano, per quanto sia lui convinto di essere una persona onesta, si tratta di affrontare un mondo che al primo impatto ti considera un malfattore, un ladro, un disgraziato, un furfante, un uomo pericoloso. Sei subito insidiato, minacciato, inseguito, braccato, bastonato, buttato in prigione, non esisti, sei un seccatore, disturbatore della quiete pubblica. Accettare queste cose non è uno scherzo. Smetti di considerare te stesso, come tu sei; tu oramai sei un uomo diverso. Non puoi importi in base ai tuoi criteri, che sono condizionati culturalmente, dipendono da una storia, da una civiltà, da un linguaggio, da un modo di impostare la vita, da un modo di impostare le relazioni, devi rinunciare a far valere i tuoi criteri, perché tu qui non conti più niente.
Questa non è l’avventura di un turista, è l’esperienza dell’evangelizzazione di chi al servizio dell’evangelo è coinvolto in un processo che lo espropria di tutto quello a cui è abituato, di cui è convinto e che comunque non è l’evangelo, ma è proprio al servizio dell’evangelo che Paolo adesso scoprirà di essere sempre più povero. E’ vero scoprirà che gli rimane sempre e soltanto l’evangelo e per il resto sempre più sguarnito, indifeso, sempre più contestato, e sempre più consapevole di non potere fare appello a quelle certezze che hanno costituito per lui, e per tanta gente come lui, dei riferimenti inequivocabili validi quasi come degli assoluti e non è così.

A Filippi
Paolo è a Filippi, gironzola dentro Filippi. «Restammo in questa città alcuni giorni». Cosa fa Paolo? Come sempre in tutti i luoghi, attraverso i quali procede nei suoi viaggi, Paolo cerca in primo luogo la sinagoga, cerca i suoi. L’oriente è caratterizzato da una presenza diffusa, capillare, di sinagoghe. Minoranze di giudei sono presenti dappertutto, qualche volta sono minoranze qualificate, che esprimono città per città figure di spicco, magari sono figure che governano la stessa amministrazione cittadina. Paolo si guarda attorno e a Filippi non c’è una sinagoga. Si guarda attorno ma intanto gli altri guardano lui. «Il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne colà riunite». Se ci sono dei giudei, il sabato si riuniscono per la preghiera.
Attenzione, questo versetto porta con sé una forza esplosiva intanto perché le donne colà riunite sono in preghiera, questo in oriente non avviene. Non solo, ma «sedutici rivolgevamo la parola alle donne colà riunite». Questo in oriente non avviene e non può avvenire. Ancora oggi nelle sinagoghe osservanti le donne sono contenute in spazi loro riservati, ma la preghiera è degli uomini, non delle donne. Cosa c’entra la donna con la preghiera? Da quando si raggiunge l’età del bar-mitzvà, non si tratta più con una donna. E Paolo non ha mai trattato con una donna perché Paolo è celibe. E’ uno dei pochi celibi del Nuovo Testamento. Dopo sua madre, che ha salutato a 12 anni, lui, Paolo, non ha mai più aperto bocca con una donna. Il fatto interessante è che adesso, al momento in cui è entrato in Europa, Paolo avrà costantemente a che fare con delle donne: di tappa in tappa compaiono delle donne. A Filippi donne in preghiera e noi parlavamo con loro, dialogavamo con loro. Ancora noi oggi siamo stupefatti per certe cose che riguardano certi mondi orientali che non sono più incivili del nostro mondo. Soltanto che sono mondi determinati da una certa interpretazione della realtà, delle relazioni, del maschile e del femminile. Di questo si può discutere, ma è così. Fatto sta che nel momento stesso in cui Paolo entra in Europa: donne. Sono cose nuove, non glielo ha insegnato nessuno. Non è automatico per un uomo come lui intrattenere una relazione diretta, una conversazione con una donna. Anzi, a Filippi, addirittura, c’è una donna che fa da capofamiglia, una industriale: «C’era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo esser stata battezzata insieme alla sua famiglia». Forse Lidia è vedova, ma fa da capofamiglia, questo in oriente non succede. Potremmo dire: sono banalità. No! Non sono banalità perché il viaggio missionario di Paolo passa attraverso questa sconcertante scoperta. C’è un altro impianto sociale.
Queste cose Paolo le vive tutte in prima persona, lo provocano, lo scuotono, lo interpellano, lo mettono in discussione, lo consumano, lo smontano in tutte le sue costruzioni culturali. Perché questo? E’ l’evangelo in un altro mondo. L’evangelo in quest’altro mondo è il motivo per cui il mondo di Paolo è rimesso totalmente in questione. Senza dare giudizi di valore. Tra l’altro Paolo affronta situazioni molto penose, è trattato in modo veramente volgare, quindi subisce dei danni che sarebbero insopportabili, ma non si tratta di stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Si tratta di andare sempre più a fondo nel discernimento del cuore umano e nell’obbedienza all’evangelo, che passa attraverso le originalità più inimmaginabili nella grande vicenda delle civiltà.
Questa Lidia di Filippi, battezzata «ci invitò: Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa. E ci costrinse ad accettare». Piuttosto energica questa Lidia, capofamiglia. Un giudeo non entra nella casa di una donna: ci costrinse ad accettare! Adesso, sempre a Filippi,nel giro di pochi giorni Paolo e Sila si ritrovano in galera. Anche qui c’è di mezzo una donna: Paolo interviene nei confronti di una schiava che era dotata di certe capacità divinatorie, per cui i padroni la sfruttavano. Questo è l’altro volto dell’emancipazione femminile, c’è Lidia, capofamiglia, emancipata, ed ecco la schiava che viene strumentalizzata nel modo più spietato e Paolo interviene e si prende cura di questa donna, di questa schiava e i padroni protestano in nome della difesa dell’ordine pubblico, e dicono: Paolo turba l’ordine pubblico. In realtà non è l’ordine pubblico, è l’interesse privato, ma i padroni di quella schiava hanno buon gioco perché subito scendono in piazza (16,19). Anche questa è un’immagine che serve a suo modo a descrivere, con un’indicazione ulteriore, l’impatto con il mondo occidentale: la piazza, il pubblico. Ma quale concetto di pubblico è questo, che cosa vuol dire il pubblico e cosa vuol dire il privato in oriente e in occidente?
«Presentandoli ai magistrati dissero: Questi uomini gettano il disordine nella nostra città; sono Giudei e predicano usanze che a noi Romani non è lecito accogliere né praticare». Turbano l’ordine pubblico, in realtà hanno compromesso il loro interesse economico privato.
«La folla allora insorse contro di loro, mentre i magistrati, fatti strappare loro i vestiti, ordinarono di bastonarli e dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia». Sono in prigione, non hanno neanche fatto in tempo ad aprire bocca.
«Verso mezzanotte Paolo e Sila, in preghiera, cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli». Cantano le nenie della propria tradizione giudaica. Durante la notte «d’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti». E’ una scena qui che Luca ci descrive nel seguito del cap. 16, un processo sismico che ha le sue caratteristiche oggettive. E’ un processo sismico che serve benissimo a simboleggiare quale terremoto produce la presenza di un uomo come Paolo nella prigione di Filippi. Che cosa c’è al di sotto di quella piazza, di quel mondo, quella città, quell’ambiente, là dove gli equilibri dell’organizzazione sociale sono stabiliti in quel modo. Sotto cosa c’è? Sotto c’è la galera. Questo è l’occidente come lo sta sperimentando Paolo. Paolo non se ne viene fuori con delle sentenze di ordine generale, non se ne viene fuori nemmeno con una proposta di trasformazione sociale, non se ne viene fuori con una rivendicazione di carattere ideologico. Paolo dentro a questo mondo diverso che non riesce a ricondurre alle sue categorie culturali, è sempre più espropriato di tutto perché è sempre più radicato nell’evangelo. Tant’è vero che il carceriere si commuove. Il mattino dopo i magistrati dicono: adesso liberateli e fateli partire. Paolo pretende che vengano loro. I magistrati quando vengono a sapere che Paolo è un cittadino romano si spaventano, subito si precipitano, per poco non subiscono un infarto. Alla fine Paolo deve andarsene: anche per dei cittadini romani come voi qui non c’è spazio. La formalità giuridica funziona soltanto per coloro che già sono inseriti in un contesto culturale, su delle premesse che non stanno scritte in nessuna formula giuridica e quindi da qui dovete sparire.

A Tessalonica
Paolo parte da Filippi e si reca a Tessalonica, (17,1ss), segue la via di Anfipoli, di Apollonia, «giunsero a Tessalonica, dove c’era una sinagoga dei Giudei». Bisogna che mettiamo a fuoco un altro aspetto: in quell’atteggiamento di disprezzo nei confronti del mondo orientale e di coloro che sono considerati come degli asiatici pericolosi, in quell’atteggiamento di disprezzo c’è una particolare nota di risentimento che riguarda la presenza dei giudei in quanto giudei. Paolo questo non l’aveva mai sperimentato, in oriente non avviene questo. Dal momento in cui viene in occidente l’antigiudaismo è dominante. Questi giudei di Tessalonica esistono, però sono molto preoccupati e la presenza di Paolo diventa per loro motivo di disagio angosciante, perché la presenza di Paolo mette tutto in discussione. Loro a Tessalonica, hanno cercato di ritagliarsi un piccolo spazio nascosto, segreto dove comunque possono sopravvivere, perché per il resto non possono esporsi. Adesso è arrivato Paolo e Paolo fa cose sue con libertà incontrastata, se nonché poi trascina dietro di sé altri e mette a repentaglio la stessa stabilità della sinagoga. Per questo avviene che i più feroci avversari di Paolo in questo contesto, diventino quelli della sua gente, del suo popolo, del suo ambiente: gli altri giudei che considerano Paolo come un pericolo. Intanto ci sono alcuni tra i pagani che gli vanno dietro. Si tratta di rimettere in discussione tutti gli equilibri a cui si eravamo aggrappati e nei quali potevano sopravvivere. Non è più così. I Tessalonicesi non sopportano Paolo. Già precedentemente, ricordate, a Paolo è stato detto: voi siete giudei.
Paolo ha la sua posizione: è determinato dalla necessità di evangelizzare, quindi affronta la polemica con quelli della sua gente, gli altri giudei come lui. E’ una polemica disgustosa, deludente, una polemica che lo offende. Nello stesso tempo Paolo non riesce a capire perché in quel mondo nel quale adesso è entrato i giudei, che per altro verso sono diventati quelli del suo popolo e della sua storia, quelli che condividono la sua radice, sono diventati suoi nemici.

A Berea
Paolo deve partire anche da Tessalonica, si trasferisce a Berea. Sta percorrendo la via Egnazia, una delle grande vie dell’impero che attraversa tutta la penisola balcanica fino a Durazzo dove ci si imbarca per arrivare in Italia e si prosegue fino a Roma. Ma deve ancora una volta cambiare strada. Diremmo: ma queste chiese nascono o non nascono? l’evangelizzazione procede o non procede? lui ottiene o non ottiene frutti? la gente si converte o non si converte? Sì, qua e là, qualcosa, qualcuno. Certo piccole chiese che diventano le grandi chiese del Nuovo Testamento: chiesa dei Filippesi, dei Tessalonicesi. Il racconto è impostato in modo tale da lasciare, per così dire, in una zona un po’ appartata, in primo piano c’è il vissuto di Paolo, l’evangelizzatore che sempre più è espropriato di tutte le sue presunzioni, sicurezze, garanzie, tutte le sue aspettative, capacità di programmare. A Berea, le cose vanno in modo tale che deve cambiare strada e viene trascinato fino ad Atene.

Ad Atene
Paolo ad Atene, tutto solo. Anche questo particolare è significativo, lascia per la strada Sila e Timoteo e (17,16): «Mentre Paolo li attendeva ad Atene». E’ tutto solo, e deve fare i conti anche con questa solitudine. Ad Atene si guarda attorno, come sta facendo a più riprese di tappa in tappa. Atene è una città universitaria: scuole, ambienti accademici. Paolo comincia a guardare quello che succede, interviene, dice la sua. A un certo momento lo notano, lo osservano, lo chiamano a rispondere davanti a una specie di senato accademico su cosa stia cercando. Non è un tribunale in senso giudiziario, è un senato accademico con tutta la prosopopea degli accademici e tutto il fastidio che dimostrano gli uomini della accademia quando siedono in commissione. Ascoltano Paolo e lo interrogano. Paolo fa un bellissimo discorso, una catechesi splendida. Potremmo dire che Paolo va cercando di mediare le cose, vuole annacquare l’evangelo, vuole fare un discorso che possa catturare l’interesse del pubblico, per così guadagnarsi un minimo di credibilità. Non è così. Paolo non media proprio niente, dice le cose come sono, e le dice con una disinvoltura, con una lucidità, trasparenza, autenticità davvero meravigliosa. 17,32): «Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: Ti sentiremo su questo un’altra volta». Paolo ce l’ha messa tutta, ha dato prova di essere un conferenziere di altissimo livello, è in grado di interloquire con i rappresentanti più qualificati di quel mondo universitario ateniese, non serve a nulla. L’evangelo non ti fornisce nessuno strumento particolarmente convincente, che sia persuasivo, che sia in grado di attirare o addirittura sbaragliare e conquistare gli animi di coloro cui ti rivolgi. L’evangelo ti riduce in modo sempre più preciso e sempre più rigoroso, in uno stato di povertà che, come dire, è uno stato di silenzio. Questo non vuol dire che allora non hai niente da dire né da fare. Paolo ha da dire e da fare le sue cose, ma sei sempre più povero e sei sempre più consapevole che l’autenticità dell’evangelo, cui tu sei consacrato, non ti consente di strumentalizzare il linguaggio, le opinioni, gli strumenti di comunicazione e tutto il resto: non serve a niente. C’è una crescita straordinaria nel vissuto interiore di Paolo. E’ un viaggio missionario, ma dove stanno i frutti!? E’ una crescita che si consuma nell’intimo di Paolo. Luca fa in modo di farci intendere che il valore decisivo di questo viaggio missionario sta in quel processo di conversione che scuote e squarcia l’animo di Paolo, sempre più povero.

A Corinto
Cap. 18, «Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto», con la coda tra le gambe. Corinto è il capoluogo della provincia di Acaia. Due province in Grecia: Macedonia al nord, capoluogo Tessalonica; Acaia al sud, capoluogo Corinto. Corinto è una metropoli e Paolo si trova a Corinto. Tutto solo, si guarda attorno e se la fa con dei profughi, sono quelli con cui può trattare a tu per tu, sullo stesso livello, profughi: «Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla, in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei». Profughi. E’ una situazione quella di Paolo a Corinto tale per cui può soltanto avvicinarsi a dei profughi come lui, che non contano niente, questo è il suo ambiente, questo è il suo spazio, questa è la realtà con cui può interloquire. E per di più Paolo deve mettersi a lavorare per sbarcare il lunario, perché non sa più come sopravvivere.
«Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricatori di tende», stuoie, tappeti. Si mette a lavorare, perché se no non sa come mangiare e sopravvivere. E poi di sabato in sinagoga. E’ di nuovo la questione con i giudei. Nel frattempo arrivano gli altri amici e quindi Paolo è più libero e si dedica più abbondantemente alla sua opera di evangelizzazione: è il suo lavoro di studio e il suo commento delle Scritture, la sua proposta, la sua offerta, il suo dialogo. Questo in misura crescente, man mano che passa il tempo. Aumentano i contrasti con i giudei. In quella particolare debolezza la minoranza giudaica avverte la presenza di Paolo come una minaccia, quindi cercano di contenerlo, cercano addirittura poi di espellerlo. Nel frattempo però ci sono anche conversione assai qualificate (18,8): «Crispo, capo della sinagoga, credette nel Signore insieme a tutta la sua famiglia; e anche molti dei Corinzi, udendo Paolo, credevano e si facevano battezzare. E una notte in visione il Signore disse a Paolo». Abbiamo incontrato un altro sogno, a Troade. Qui: «Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città».
Paolo è circoscritto entro i limiti di una solitudine amarissima, espulso anche dai suoi, gli altri della sinagoga come lui, malvisto, minacciato, messo alle strette anche dal punto di vista della pura sopravvivenza materiale. E il Signore gli dice: Io sono con te, e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città. Io ti ho condotto fino a qui apposta, io ti ho dato appuntamento proprio perché qui dovevi arrivare, io ti aspetto, ti ho aspettato, ti aspetterò qui, in questa città c’è un popolo numeroso, che tu non vedi, non conosci, di cui non hai nemmeno il sentore. C’è un popolo numeroso, queste sono cose mie, spiega il Signore. E tu sei qui apposta, un popolo numeroso.
«Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio». Diciotto mesi, un periodo lunghissimo, stando alle abitudini del nostro Paolo. Qui si aggiunge un episodio che in qualche maniera è ricapitolativo di tutto quello che abbiamo potuto intravedere leggendo queste pagine.
«Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione». E’ un riferimento storico molto utile agli storici, perché in base alla data del proconsolato di Gallione, si stabiliscono tutti gli altri episodi, prima e dopo. Questa è una data certa, è stata ritrovata l’iscrizione. Gallione, anno 51-52 proconsole in Acaia, non si discute, questo è l’anno. Anno 50 il viaggio di Paolo, adesso siamo nel 51, Gallione proconsole, suprema autorità, magistrato, rappresentante dell’impero. «I Giudei insorsero in massa contro Paolo», lo condussero al tribunale dicendo: Costui persuade la gente a rendere un culto a Dio in modo contrario alla legge».
Lo accusano dinanzi al magistrato romano: lui è un uomo pericoloso, bisogna espellerlo. Attenzione. «Paolo stava per rispondere». Paolo adesso ha organizzato il suo discorso difensivo, vuol dire come stanno le cose. Intanto vuole uscire dall’ambiguità, quale legge? con chi ce l’hanno? perché ce l’hanno con lui? «Paolo stava per rispondere, ma Gallione disse ai Giudei: Se si trattasse di un delitto o di un’azione malvagia, o Giudei, io vi ascolterei, come di ragione. Ma se sono questioni di parole o di nomi o della vostra legge, vedetevela voi; io non voglio essere giudice di queste faccende». Al magistrato romano non gli interessa niente: perché mi seccate? perché mi piantate grane che non sono di mia competenza? «E li fece cacciare dal tribunale. Allora tutti (tutti i greci, tutti quelli dell’Acaia, quelli che non sono giudei) afferrarono Sòstene, capo della sinagoga». «e lo percossero davanti al tribunale ma Gallione non si curava affatto di tutto ciò». In piazza tutti sghignazzano perché è preso a legnate un giudeo! A cosa servono i giudei nel nostro mondo? A niente. E così servono finalmente a qualcosa di positivo, a farci ridere.
Paolo così è sollevato. E’ vero che da un punto di vista pratico Paolo non ha avuto bisogno di rispondere, quell’imputazione non esiste, lui è automaticamente scagionato, però in modo profondo Paolo è sconcertato, disgustato, esterrefatto: ma che mondo è questo? D’altra Paolo è cittadino romano e non scende in piazza per dire: ecco, bisogna cambiare. Non riesce neanche a pensare cosa possa voler dire questo ipotetico cambiamento. Mentre vengono meno tutti i riferimenti a cui era così abituato per antiche consuetudini culturali, gli rimane l’evangelo, solo l’evangelo e il Signore Gesù, ed è tutto. Quando qualche tempo dopo Paolo scriverà ai corinti, la prima lettera ai Corinti, Paolo dice: accanto a me c’è Sostene. E’ molto probabilmente questo stesso capo della sinagoga che nel frattempo si è avvicinato a Paolo, si è convertito. Fatto sta che qualche anno dopo si trova ad Efeso accanto a Paolo e Paolo scrive ai Corinti e dice: sapete chi c’è qui con me, c’è quel tale che sulla piazza di Corinto è stato bastonato, ma questi sono i miei amici, con questi io posso farmela, con questi io mi intendo, con questi sono in grado di condividere la vita, perché le cose dell’evangelo vanno così.

Paolo si ferma ancora qualche giorno e poi parte da Corinto e porta con sé l’esperienza di un impatto drammatico, apocalittico, l’esperienza di come la novità evangelica che ha conquistato la sua vita, lo ha condotto lungo un itinerario di conversone sempre più radicale, non ha più niente da pretendere, non ha più garanzie a cui ricorrere, non ha più strumenti per difendersi .

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