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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE

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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE

(13 maggio 2012: Sesta di Pasqua)

At 26,1-23; 1 Cor 15,3-11; Gv 15,26-16,4

Per comprendere il brano degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci propone in questa domenica come prima lettura bisognerebbe fare qualche passo indietro.
Paolo viene arrestato dal tribuno romano per proteggerlo da una sommossa popolare scatenata dai giudei. Prima o poi doveva succedere: l’apostolo ogni giorno predicava una Parola, quella di Cristo, che stava veramente provocando le ire dei capi. Viene condotto nella fortezza Antonia perché possa chiarire le vere motivazioni della sommossa. Prima però chiede di poter parlare al popolo per difendersi dalle accuse. Pronuncia così il primo dei tre discorsi in sua difesa. Il secondo lo pronuncerà davanti al procuratore Felice e il terzo davanti al re Agrippa e al procuratore Festo.
Quali sono le accuse che gli sono state rivolte? Sovvertire il popolo, violare la legge e aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario, accuse che potevano costare la morte. Anzitutto: sovvertire il popolo. Come vedete, siamo sempre alla solita accusa, quella di sovvertire l’ordine pubblico, un’accusa che fa sempre comodo e che può interessare sia la religione che lo stato. La religione può anche accontentarsi di difendere l’ordine diciamo dottrinale (l’Inquisizione insegna), ma allo Stato interessa in modo particolare l’ordine pubblico. Comunque, anche le eresie dottrinali fanno paura allo stato, in quanto creano un certo scompiglio tra la gente. Se poi le cosiddette eresie mettono in discussione lo stesso sistema statale, allora lo stato è sempre pronto a dare una mano alla religione per sradicarle. Seconda accusa: violare la legge, in particolare quella del sabato. D’altronde l’ordine pubblico non è forse fondato sulla legge? È sempre pericoloso parlare di Coscienza, perché la Coscienza mette in crisi ogni regime. Ogni regime è fondato sull’ordine, sull’obbedienza, sul rispetto del sistema: non sopporta gli spiriti liberi che agiscono in nome della Coscienza. Terza accusa: aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario.
Appena Paolo, sulla spianata del tempio, cerca di spiegare alla folla la sua missione tra i pagani, su un ordine ben preciso di Cristo, la folla non lo ascolta più, rompe il silenzio e, tra urla e gesti isterici, reclama la morte dell’apostolo. A irritarla non è il fatto che Paolo apra le porte ai gentili, ma che insegni loro, su ordine di Dio, che non sono tenuti a osservare la legge di Mosè. Ecco dove sta veramente il vizio di ogni religione, diciamo il suo più grosso peccato: pretendere che gli estranei, quelli di un’altra fede religiosa, si convertano caricandosi di tutti i pesi della propria religione. Il punto di riferimento è sempre, ad ogni costo, la religione. Qui bisognerebbe una buona volta chiarire il termine “evangelizzazione”. Già la parola dice che si tratta del Vangelo, ovvero della Buona Novella di Cristo. E che cos’è la Buona Novella di Cristo? Perché identificarla con la dottrina della Chiesa, che, in quanto struttura religiosa, sarà sempre tentata di far propria la stessa verità? Il Vangelo precede ogni struttura, precede la stessa Chiesa, la quale, se ha ricevuto una missione da Cristo, non è senz’altro quella di fare proselitismo, di andare alla ricerca di nuovi convertiti. Anche qui vedete: se capissimo che cos’è umanesimo nella sua pienezza, non confonderemmo il Vangelo con la Chiesa struttura.
Noi cristiani siamo chiamati a portare il messaggio rivoluzionario di Cristo senza per questo battezzare i pagani legandoli ad una struttura che di per sé, come struttura, non potrà mai esaurire il Vangelo di Cristo, che va ben oltre. Perché abbiamo dimenticato le dure parole di Cristo con cui si è scagliato contro i farisei e i dottori della Legge? «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Il tribuno, di fronte alle ire della folla, fa portare Paolo all’interno della fortezza. E qui lo sottopone ad un interrogatorio ricorrendo anche alla forza: lo fa flagellare. La flagellazione era una procedura permessa contro schiavi e stranieri, ma severamente proibita dalla legge Porcia nei confronti di un condannato munito di cittadinanza romana. E è a questa legge che Paolo si appella, avvertendo il centurione di trovarsi di fronte a “un cittadino romano”. Non solo: egli dichiara che neppure come castigo accetterà la flagellazione, non essendo stata ancora pronunciata una sentenza giudiziaria. Il tribuno chiede a Paolo spiegazioni, e l’apostolo conferma di essere un cittadino romano, non per aver comperato tale diritto, ma per diritto di nascita. Come vedete, l’apostolo sapeva far valere i propri diritti. Ma qui occorre chiarire una cosa. Perché Paolo si è appellato al suo diritto di cittadino romano? Se doveva essere condannato, solo il tribunale di Cesare a Roma poteva emettere un verdetto, e questo permetterà all’apostolo di recarsi nella capitale per divulgare anche là il Vangelo. Questo era il suo sogno. E il sogno si avvererà. Ma prima l’apostolo dovrà subire altre umiliazioni e minacce.
Il tribuno Lisia fa condurre Paolo dalla fortezza Antonia nell’aula del sinedrio con l’intento di capire quali siano le vere accuse che i capi ebrei gli hanno rivolto. Paolo, tra l’altro anche scaltro, riesce a dividere tra di loro gli stessi componenti del sinedrio, in parte farisei e in parte sadducei. Paolo affermando la sua fede nella risurrezione, si attira le simpatie dei farisei e le antipatie dei sadducei. Ne nasce un tumulto. Il tribuno è costretto a intervenire per proteggere l’apostolo, e lo riporta in caserma.
E non è finita. Una quarantina di giudei fanatici ordisce un’altra congiura ai danni di Paolo. Si impegnano con giuramento a ucciderlo. Giuramento cosiddetto esecratorio. Per farlo uscire dalla fortezza Antonia, organizzano un secondo interrogatorio, sempre nella sala delle adunanze del sinedrio, dato che il primo è degenerato in baruffa. Pensavano: durante il tragitto di trasferimento non sarebbe stato difficile sopprimerlo. Ma la congiura viene sventata da un nipote di Paolo, il quale avverte il tribuno, che, per garantire più sicurezza all’apostolo, lo fa trasferire sotto scorta a Cesarea, presso il pretorio di Erode: era un palazzo-fortezza fatto costruire da Erode il Grande, dove ora risiedevano e amministravano la giustizia i procuratori romani. Il sinedrio di Gerusalemme non molla, e invia a Cesarea una delegazione che, davanti al procuratore Felice, rinnova le accuse a Paolo, e Paolo di nuovo si difende. Le solite accuse: è un perturbatore della quiete pubblica, è uno dei capi della setta dei Nazirei (così era visto il cristianesimo, una setta!), infine un profanatore del Tempio. Il procuratore non crede alle accuse dei membri del Sinedrio o, meglio, a lui non interessano le questioni religiose. Però tiene Paolo ancora in carcere, e per ben per due anni. La politica prevale su ogni giustizia. Il procuratore doveva tenere buoni gli ebrei, che non erano molto contenti del suo governo.
Subentra a Felice un nuovo governatore, di nome Festo, il quale, a pochi giorni dal suo insediamento, si reca a Gerusalemme per farvi la prima visita. Subito i capi giudei colgono l’occasione per rinnovare l’accusa contro Paolo, e gli chiedono di condurre Paolo a Gerusalemme per essere di nuovo giudicato dal tribunale ebraico. Festo, dopo altri tentativi, fa la proposta a Paolo di salire a Gerusalemme. A questo punto Paolo, come era suo diritto, si appella al tribunale di Roma. Festo informa il Consiglio, e il Consiglio approva. Paolo sarà dunque inviato a Roma. Non è finita. La storia è davvero appassionante. Nel frattempo giungono a Cesarea il re Agrippa e la sorella Berenice. Il procuratore Festo espone al re il “caso di Paolo”. Il re Agrippa esprime il vivo desiderio di vedere l’apostolo. Il giorno seguente Agrippa e la sorella Berenice realizzano il loro desiderio: poter ascoltare Paolo. La cosa interessante, diciamo impressionante è il contesto in cui è avvenuto l’incontro. Non in via privata, ma ufficiale. L’incontro si svolge in una grande sala del palazzo di Erode, presenti i cinque comandanti di ognuna delle coorti di stanza a Cesarea, e gli uomini più rappresentativi della città. Davanti a loro Paolo fa la sua terza autodifesa. È il brano di oggi.
Vorrei ora fare qualche brevissima riflessione. Ciò che mi ha colpito dell’apostolo Paolo è la sua serenità interiore. Una serenità proveniente certamente dalle sue profonde convinzioni, ma in particolare dalla forza della Parola che egli annunciava. Una Parola-Verità, ma non basta: una Parola che salva. Una Verità che resta astratta a che serve? A dare forza è la Verità che salva, che libera, che rende umani. C’è un’altra riflessione. Sarebbe interessante soffermarsi un po’ sui vari personaggi “politici” che entrano ed escono dal racconto degli Atti degli Apostoli. Più che descrivere le loro nefandezze (ne sappiamo qualcosa di più grazie agli storici del tempo) Luca sembra che ci dica: Vedete questi “poveri” potenti? Nonostante la loro miseria morale, non hanno potuto fare a meno di riconoscere l’innocenza di Paolo! I potenti “corrotti” non hanno trovato colpe in Paolo, mentre gli ebrei “puri” (così si ritenevano!) hanno inventato accuse su accuse pur di uccidere l’apostolo. Sapete quel è il nemico che la verità e la giustizia temono maggiormente? Più che la depravazione morale è l’orgoglio, l’ostinazione mentale, l’accecamento del cuore. Ultimamente ho avuto una forte sensazione. I potenti di una volta, pur corrotti – non dimentichiamo comunque i tempi – sembravano particolarmente attratti dalla santità dei giusti. Se leggi la storia, ne incontrerai di re e di regine che hanno sentito il bisogno di consigliarsi con persone di diversa estrazione sociale, digiune di politica, aliene da ogni aspirazione connessa col potere, ma dotate di un grande dono, quello della saggezza e della profezia. Anche i buffoni di corte avevano il compito di dire la verità al sovrano. A me non sembra che oggi sia così. C’era uno in Italia che ultimamente si era circondato solo di galoppini, di gente pagata per dire ciò che gli faceva comodo, gente pronta a riverirlo in ogni suo capriccio, di prostitute e di avvocati disposti a falsificare la verità. La santità è sparita dai nostri palazzi politici. Anzi, i “puri” si sono contaminati appena si sono avvicinati al potere. I sovrani un tempo erano curiosi di conoscere i profeti, li ascoltavano, ne rimanevano anche affascinati, anche se poi gli interessi del potere avevano sempre il sopravvento. Oggi nei palazzi di potere è sparita perfino la saggezza, che è lasciata a quei pochi pazzi che vorrebbero un mondo diverso.

LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:   “Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15)  Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?  Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona. Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo. E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.  Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI.  Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?  Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto. Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.   E veniamo al Papa.  Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”  Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù. In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui. Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza:  - la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22  - la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39  - l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11   ALCUNE CONSEGUENZE FORTI DELL’INCONTRO CON CRISTO – Una grande umiltà che si traduce in obbedienza a Cristo Gesù nella consapevolezza che è Lui che dà la vita, è Lui che ci sostiene, è soltanto in Lui che troviamo salvezza. L’unica cosa che noi possiamo fare per la salvezza nostra e degli altri, è lasciarci amare da Lui ed è collaborare con Lui, mettendo tutta la nostra fiducia nella potenza dello Spirito.  - La contemplazione di Cristo per rivestirci di Lui. Nel nostro ordine di valori e di realtà importanti, abbiamo tre elementi che presento secondo la loro importanza: la mistica (l’esperienza spirituale del lasciarci amare da Dio); l’etica (che indica ciò che è per la gloria di Dio e ciò che è bene per noi e per gli altri. A me piace mettere l’etica nel contesto di Mi 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare teneramente e camminare umilmente con il tuo Dio”; l’ascetica (disciplina spirituale, cammino di vita nello Spirito del Signore).  - Il passaggio dalla prospettiva dell’autoreferenzialità, alla prospettiva ‘aperta’ che ci fa considerare prima di tutto Cristo e l’altro. Siamo strumenti vivi di salvezza nelle mani di Cristo Gesù per gli altri e con gli altri.  - Il bisogno di evitare ogni estraneità, ogni stile ‘assente’ nel relazionarci agli altri, valorizzando così il Vangelo e considerando le persone che incontriamo, come grandi doni di Dio e nelle situazioni concrete della loro vita. Ciò significa comunicazione e comunione. – Il passaggio dall’atteggiamento di chi “lavora per Dio” – che presenta il pericolo dell’attivismo e dell’amare più la vigna del Signore che il Signore della vigna – a quello di chi “fa il lavoro di Dio” – che implica discernimento – e poi a quello di chi ha questo grande desiderio: lasciare che “Dio lavori in lui e per mezzo di lui”.  E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci fa essere contemplativi in azione e che fa sì che il nostro apostolato sia un condividere con gli altri ciò che Dio ci dona nella contemplazione (l’unico apostolato che è efficace!).   Paolo, apostolo per vocazione! E anche noi chiamati come lui. La vocazione di ogni apostolo: un dono di grazia e un impegno esigente. Ma niente paura! Ricordiamo la profonda convinzione di Paolo: Quando ci fidiamo del Signore, non possiamo essere delusi.   L’INCONTRO DI CRISTO CON PAOLO E IL NOSTRO INCONTRO CON LUI   (Da MISSIONE COME INCONTRO di Nicoletta Gatti in COMUNIONE E MISSIONE, della diocesi di Trento) Riporto questo testo perché, nella sua semplicità e chiarezza – così mi sembra -, fa sentire l’incontro di Cristo con Paolo non solo come missione, ma anche come conversione: «E avvenne che mentre era in viaggio e stava per avvi­cinarsi a Damasco all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”» (At 9,3-4). C’è un incontro nella vita di Paolo che costituisce un punto di non ritorno. Continuamente nelle sue lettere si riferisce a questo momento, come se la sua esistenza, la sua preghiera e il suo annuncio fossero una continua e crescente interiorizzazione dell’esperienza vissuta (Gal 1,15-17; Fil 3,7-13). Ma cosa accade lungo la strada? Paolo sperimenta la vicinanza di Dio, incontra il Messia a lungo atteso, l’Emmanuele annunciato dai profeti. Lo incontra come il Figlio crocifisso e Risorto, il Figlio dato per la salvezza del mondo. Da questo momento Paolo vive per Lui: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore manifestato nella croce diviene la forza trainante della sua esistenza: «…l’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14). Nella lettera ai Romani (8,35-37), leggiamo parole che deve aver ripetuto a se stesso migliaia di volte: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la per­secuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati». Persecuzione e sofferenza sono accolte come partecipazione alla passione di Cristo (1Tes 2,8; 2Cor 4,10), come immersione nella sua morte (Rom 6,4-6), perché una cre­atura nuova possa venire alla luce: una persona che ha come proprio io, l’io di Gesù. In Lui, Paolo può vivere persino la prigio­nia e la morte come un’occasione per crescere nella «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), ed imparare a condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): lo svuotamento, l’incarnazione, l’umiltà, l’obbedienza, il farsi «tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).  Dall’intimità con Gesù, nasce la missione. La passione bruciante per l’annuncio, la gelosia materna verso le Chiese da Lui fondate, i viaggi continui, i pericoli affrontati… tutto scaturisce dall’amore sovrabbondante che sperimenta nella relazione con Cristo. Da questa relazione parte ed a questa relazione vuole ricondurre le comunità da lui fondate.  Luca ha compreso bene questo: nel libro degli Atti, l’at­tività di Paolo è descritta come «testimonianza» (cfr. 18,5; 20,21.24; 23,11) e «servizio» (cfr. 20,19; 26,16). Afferrato e posseduto da Cristo è posto come segno della potenza di Dio dinanzi alle nazioni (cfr. 13,47):… Paolo è «servo del Dio Altissimo» (At 16,17), un Dio che lo ha conquistato (Fil 3,12), trasformando il suo cuore nel cuore di Cristo.  Credo che questo sia il segreto di Paolo. Egli ripete anche a noi che la Missione nasce, cresce e respira a tu per tu con una persona: Cristo…”   “O Dio che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi a noi di essere testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo. Per Cristo nostro Signore.” (dalla liturgia)

IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO – .At 20,17- 35

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IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO.

At 20,17- 35

Da Mileto, Paolo mandò a chiamare subito ad Efeso i presbiteri della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio (la diakonia) che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al vangelo della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi (vescovi “episcopoi”) a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.

Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati.

Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia (makarion) nel dare che nel ricevere!».

Appunti per la lectio
Il discorso d’addio di Paolo si rifà al testamento di Giacobbe (Gen 47,29-50); di Mosè (Dt 31-34); di Gesù (Gv 13-17); e soprattutto di Samuele, di cui si riportano alcune frasi (1Sam 12,1-4).

È il terzo grande discorso di Paolo negli Atti:
- Il primo rappresentava la sua predicazione davanti ai Giudei (c. 13),
- il secondo la sua predicazione davanti ai pagani (c. 17);
- il terzo costituisce il suo testamento pastorale (c. 20).

Paolo raccomanda agli anziani di Efeso – e attraverso loro a tutti i pastori delle Chiese – vigilanza, disinteresse e carità. Atteggiamenti che acquistano maggior valore dagli stessi esempi dell’Apostolo, del quale il discorso ci offre uno splendido profilo.

Paolo, modello di ogni ministro nella Chiesa
L’Apostolo, in tutto il suo impegno ministeriale e pastorale per le sue Comunità, non pretende altro che “servire il Signore” Gesù Cristo (cf. Rm 1,1; Fil 1,1; Gal 1,10). Questa “diakonia” implica un atteggiamento di obbedienza estrema verso Dio e una disponibilità assoluta verso i fratelli per i quali si svolge il ministero. Per questo va donata “in tutta umiltà”, con la consapevolezza che la propria debolezza (cf. 2Cor 12,9s), accettata davanti a Dio e agli uomini, ci renderà miti e capaci di edificare la fraternità (cf. Fil 2,3).

Ministero sempre difficile

Lo Spirito Santo, non salva il missionario dalle “prove” e dalle persecuzioni, perché queste lo rendono più simile al Cristo (cf. Lc 22,28). All’apostolo non saranno neanche risparmiate lacrime vere, come quelle di cui parla Paolo in 2Cor 2,4 e Fil 3,18, e quelle di Gesù stesso (Eb 5,7).

Senza discriminazioni

Il Vangelo non è dottrina esoterica riservata ad un’élite, esso è annuncio di salvezza universale. L’apostolato è, dunque, impegno e dono per tutti e per ciascuno:
- In ogni forma: annuncio ed istruzione;
- in tutti i modi: pubblico e privato;
- a tutti i destinatari: Giudei e Greci;
- con tutto il contenuto: di conversione e di fede.

Come Paolo, l’evangelizzatore chiederà a tutti di «convertirsi a Dio (come se tutti fossimo ancora pagani) e di credere nel Signor nostro Gesù Cristo (come se ci fossimo fermati alla Legge dei Giudei)». Infatti non c’è fede senza conversione, e la conversione non è possibile senza la fede (cf. l’appello di Gesù in Mc 1,15).

Il pastore buono
I presbiteri che presiedono le Comunità hanno l’impegno di essere “episkopoi”, cioè custodi nella Chiesa (cf. Tt 1,7; 1Tm 3,2). Ma, per coerenza, essi devono prima “vegliare” su se stessi e, solo dopo, su chi è loro affidato. Ricordando che questi sono coloro che Cristo «si è acquistato con il suo sangue» (cf. Ap 5,9s).
I nemici da cui guardarsi perché attentano alla Comunità, sono quei “lupi rapaci” (cf. Mt 7,15; Gv 10,12) che diffondono dottrine perverse (cf. 1Gv 2,19). Ma il più terribile nemico del Vangelo può essere lo stesso evangelizzatore, quando lo strumentalizza il suo ministero per “attirare discepoli dietro sé” e non dietro Cristo! [Confronta, invece, l’atteggiamento di Maria alle nozze di Cana (Gv 2,11)].

Il far memoria dell’atteggiamento di Paolo, diventa incentivo per imitarlo nella sua dedizione pastorale. Con ciò si imita lo stesso Cristo Gesù. Conseguentemente il vero apostolo:
- È un uomo “avvinto dallo Spirito”, strumento docile per portare ovunque la Parola che salva.
- È un fondatore di Chiese che, tuttavia, “non ritiene la propria vita meritevole di nulla”, sentendosi veramente “servo inutile” (Lc 9,24); attento solo ad annunciare Cristo (cf. Fil 1,20).
- È un missionario che, come Cristo, annuncia a tutti “il regno di Dio”, gratuitamente, in modo che a tutti si riveli “il Vangelo della grazia di Dio” (cf. Rm 3,22ss).

Tuttavia, anche il più zelante degli apostoli sa che la salvezza è, prima di tutto, opera di Dio (cf. 1Cor 3,6). Per questo, nel suo testamento, Paolo non affida la Parola ai presbiteri, ma questi alla protezione e alla forza salvifica della Parola. Infatti in essa, Dio stesso opera, salva ed edifica, cioè costruisce, la Chiesa.

La “povertà” paolina
Paolo, con un rimando, quasi letterale al Testamento di Samuele (1Sam 12,3) e a ciò che di se stesso afferma nelle sue lettere (cf. 1Cor 9,11-12), dice di non aver cercato dai suoi discepoli «né argento né oro…». Egli è povero come Pietro e Giovanni che «non hanno né argento né oro, ma solo Cristo» (At 3,6). In più, con l’orgoglio di chi è stato alla scuola del grande Gamaliele, può affermare: «Alle necessità mie e di quelli che erano con me, hanno provveduto queste mie mani»(cf. 2Ts 3,8). Non è soltanto il distacco tutto lucano dalle ricchezze terrene, è anche il bisogno paolino di evitare qualsiasi strumentalizzazione che mettesse in ombra la gratuità dell’impegno apostolico.
Questo comportamento viene assunto dal monachesimo e, specificamente, dalla Regola di san Benedetto, il quale afferma: «Se le esigenze locali o la povertà richiedono che i fratelli si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle loro mani come i nostri Padri (Antonio, Pacomio) e gli Apostoli» (RB 48,7-8). E, aggiungiamo noi, come Gesù, “il falegname” (Mc 6,3), conosciuto come «il figlio del carpentiere» (Mt 13,55).
Proprio la testimonianza di quella che il Codice di Diritto Canonico, rivolgendosi a noi Religiosi, chiama “povertà operosa”, permette a Paolo di trasmetterci un “agrafon” (un detto di Gesù al di fuori dei Vangeli) che sintetizza bene l’insegnamento sociale del Cristo (cf. Lc 6,30.34-35.38), e l’atteggiamento pastorale di Paolo: «Si è più beati (makarion) nel dare che nel ricevere». Beatitudine che ci assimila a quella «benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo, il quale da ricco che era si fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9).
La povertà è, per Paolo, conseguenza della scelta radicale per il Cristo e il suo Vangelo. Anzi è essa stessa evangelo, perché s’inserisce in quella gratuità propria del “Vangelo della grazia” annunciato dall’Apostolo quale superamento della Legge.
Per noi Consacrati il testamento di Paolo è un’occasione ottima per rivedere il nostro modo di vivere il voto di povertà. Esso non può essere fine a se stesso, né semplice libertà dalle cose, piuttosto, esso deve seguire, come sua conseguenza il voto di castità, l’avere il cuore indiviso per Cristo (cf. 1Cor 7,32-34).

Per l’oratio
Propongo il Salmo 71: la preghiera di un vecchio.
Oppure il Salmo 112: essere trasparenza di Dio.

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850) SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

http://www.disf.org/Documentazione/87.asp  

RESTARE SOLI A TU PER TU CON IL NUOVO TESTAMENTO (1850)    SØREN KIERKEGAARD, DIARIO

2955. La cosa è semplicissima. Il Nuovo Testamento è facilissimo da capire. Ma noi siamo dei bricconi matricolati e fingiamo di non capire, perché sappiamo che se lo capissimo sui serio, dovremmo anche subito metterlo in atto. Ma per rifarci un po’ con il Nuovo Testamento — perché esso non se l’abbia a male e non ci accusi di malafede! — ecco che lo lusinghiamo e andiamo raccontando che è tanto meravigliosamente profondo, tanto inscrutabilmente sublime ecc.: press’a poco come quando un bambino fa finta di non capire gli ordini che riceve, e poi ha la furberia di lusingare papà. Dunque noi altri uomini facciamo finta di non capire il Nuovo Testamento: non vogliamo capirlo. Ecco il compito della scienza cristiana. La scienza cristiana è l’invenzione enorme dell’umanità per difendersi contro il Nuovo Testamento, per assicurarsi di poter continuare ad essere cristiani, senza però che il Nuovo Testamento ci venga troppo vicino. La scienza cristiana è stata inventata allo scopo d’interpretare, chiarire, illuminare meglio ecc. ecc. il Nuovo Testamento. Grazie tante! Già, noi uomini siamo dei furfanti matricolati — e Nostro Signore è l’ingenuo; quell’ ingenuo però che non si lascia menare per il naso! Prendi qualsiasi parola del Nuovo Testamento: dimentica tutto il resto e ingègnati a vivere in conformità… Ohibò, si dirà, ma questo sarebbe un far arenare nello stesso momento tutta la mia vita temporale e terrestre… Che fare allora? Oh, scienza impagabile: che sarebbe di noi, poveri uomini, se tu non ci fossi? “è orrendo cadere nelle mani del Dio vivente” [Eb 10,31] — ma è già orrendo star soli con il Nuovo Testamento. Non mi faccio migliore di quel che sono; io confesso (eppure potrebbe darsi che qui da noi io fossi uno dei più coraggiosi) che non ho osato ancora di starmene assolutamente solo con il Nuovo Testamento. Stare solo con esso, significa come se fossi solo in tutto il mondo, e come se Dio mi stesse seduto accanto e mi dicesse: “Vuoi tu avere la compiacenza di osservare ciò che vi sta scritto e riflettere che devi vivere in conformità?”. Solo con esso! … cioè come se io fossi solo in tutto il mondo e come se Cristo stesse in mia compagnia per impedire di svignarmela, dimenticando che quanto sta scritto si deve anche fare, come mostra l’esempio di Cristo. Oh, ma quanti son quelli che in 1800 anni di Cristianesimo hanno usato stare soli con il Nuovo Testamento? A quali tremende conseguenze non potrebbe portarmi questo ribelle e tiranno libro, se si deve stare soli con esso a questo modo. Come la situazione cambia invece completamente, se prendo in mano un libro di concordanze, un dizionario, un paio di commenti, tre traduzioni: il tutto per capire questa cosa profonda, meravigliosamente bella, quest’altezza inaccessibile! “Perché (lo dico candidamente!) basta che io ‘capisca’ il Nuovo Testamento: quanto al farlo… ci penserò poi e saprò ben cavarmela!”. In verità, che fortuna e che consolazione unica, che sia tanto difficile comprendere il Nuovo Testamento! È la causa dell’umanità che io difendo quando dico: “stiamo uniti, impegniamoci per la cosa più sacra e manteniamo questa promessa di nulla risparmiare, non fatiche, né veglie, per rendere il Nuovo Testamento sempre più difficile da comprendere. Se per spiegare e interpretare la S. Scrittura non bastassero le scienze inventate finora, inventiamone delle altre!” Io apro il Nuovo Testamento e leggo: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quel che hai e dàllo ai poveri e seguimi” [Mt 19,21]. Gran Dio! Tutti i capitalisti, tutti i funzionari, anche quelli in pensione, tutta l’umanità, eccettuati i mendicanti: tutti saremmo perduti, se qui non ci fosse la scienza. La scienza! Questa parola ha un suono magnifico. Onore a chiunque consacra le sue forze a servizio della scienza! Lodato sia chiunque contribuisce a rafforzare la considerazione della scienza fra gli uomini! La scienza che trattiene il Nuovo Testamento, questo libro – che la scienza afferma “ispirato”; cioè quest’impiastro di libro, che in quattro e quattr’otto ci butterebbe tutti a terra se io si sciogliesse, cioè se la scienza non lo trattenesse! Invano il Nuovo Testamento fa sentire la sua voce, che grida al cielo più alta del sangue di Abele [Eb 12,24], invano comanda con autorità, invano ammonisce, e supplica: noi non lo sentiamo, cioè sentiamo questa voce soltanto attraverso la scienza. Come uno straniero che difende davanti a una Maestà Reale il suo diritto nella sua lingua materna, quando la passione lo spinge a dire la parola audace, l’interprete non osa tradurla al re e vi sostituisce qualcos’altro: così tuona il Nuovo Testamento attraverso la scienza. Come quel grido dei suppliziati nel toro di Falaride aveva il suono di soave musica agli orecchi del tiranno, così l’autorità divina del Nuovo Testamento attraverso la scienza è un lieve tintinnare di sonagli o come un nulla [1Cor 13,1 ss.]. Attraverso la scienza; … sì, perché noi uomini siamo astuti. Come si rinchiude il pazzo perché non abbia a disturbare la gente, come il tiranno allontana l’uomo franco perché non si possa sentire la sua voce, così noi abbiamo rinchiuso il Nuovo Testamento con la scienza. Invano grida, s’arrovella, strepita e gesticola: non serve, noi non lo intendiamo che attraverso la scienza; e per metterci del tutto al sicuro diciamo ch’è precisamente essa ad aiutarci a capirlo meglio e così potremo udirne la voce… Oh nessun pazzo, nessun prigioniero politico è stato mai rinchiuso così! Perché nessuno nega che costoro siano rinchiusi; ma nei riguardi del Nuovo Testamento la cautela è ancora maggiore; lo si rinchiude, ma si dice che si fa il contrario, che si fa di tutto perché possa avere il potere e il dominio. Tuttavia, e questo è intuitivo, nessun pazzo, nessun prigioniero politico sarebbe per noi tanto pericoloso come il Nuovo Testamento se fosse lasciato a piede libero. Veramente noi protestanti facciamo molto perché possibilmente ciascuno abbia il Nuovo Testamento. Ma cosa anche non facciamo per inculcare a tutti che il Nuovo Testamento non sia capito che attraverso la scienza? Voler capire il Nuovo Testamento, cercare di considerare subito ciò che vi si legge come un comando, voler agire subito in conformità: che sbaglio! No, il Nuovo Testamento è una dottrina, ed è necessario il rincalzo della scienza per comprenderlo! Ecco, si tratta di questo, e quel po’ ch’io ho creduto di poter fare, è presto detto. Ho voluto spingere gli uomini a fare ciascuno questa confessione: per parte mia trovo che il Nuovo Testamento è facilissimo da capire, ma finora quando si tratta di dover fare alla lettera secondo quel che non è difficile capire, ho trovato in me stesso difficoltà enormi. Avrei forse potuto prendere un’altra strada, cercar d’inventare una nuova scienza: ma mi soddisfa di aver fatto questa confessione.   Søren Kierkegaard, Diario , a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia 1981 vol. 7, pp. 184-187 [X3 A 34].

ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12 – LA PASSIONE DI PAOLO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/01-Passione_di_Paolo.html

ATTI DEGLI APOSTOLI 21,1-25,12

LA PASSIONE DI PAOLO

Usiamo la parola Passione  per aiutare a leggere l’intera sezione. Luca, nei primi 16 versetti, pone in evidenza come nel discepolo si rifletta la passione di Gesù.
Nel Vangelo vi sono tre solenni annunci della Passione di Gesù, e qui Luca ne presenta tre che annunziano quella di Paolo.
Il primo l’abbiamo già letto nel discorso di addio agli anziani di Efeso: «Lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che catene e tribolazioni mi attendono» (20,23).
Durante il viaggio tra Mileto e Cesarea evidenziamo la sosta a Tiro. Qui i cristiani che li accolsero erano già stati avvisati dallo Spirito Santo e perciò dicono a Paolo “di non salire a Gerusalemme”. È logico che Paolo non accetti. “Allora ci accompagnarono verso la nave e, giunti sulla spiaggia ci inginocchiammo e pregammo”. Luca usa il noi perché è presente. “Giunti a Cesarea ci restammo sette giorni, nella casa di Filippo, uno dei sette” (6,5).
Ma ecco che dopo alcuni giorni giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Questi prese la cintura di Paolo, si legò mani e piedi e disse: «Così dice lo Spirito Santo: in questo modo i Giudei in Gerusalemme legheranno l’uomo a cui appartiene questa cintura». Luca continua: «Noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non salire a Gerusalemme, ma non riuscimmo a dissuaderlo. Allora dicemmo: “Sia fatta la volontà di Dio”. Vennero con noi anche alcuni discepoli di Cesarea».

L’incontro con i cristiani (21,17-25)
Al loro arrivo a Gerusalemme “i cristiani li accolsero festosamente”. È facile pensare che si tratta di giudeo-cristiani ellenisti. Non così il giorno dopo quando Paolo si recò da Giacomo. Riuscì a raccontare un po’ “quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo suo”.
Un po’. Infatti, l’impressione che dà il testo è che questo non interessava a Giacomo, a lui interessavano solo i giudeo-cristiani: «Essi hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei, sparsi tra i pagani, di abbandonare Mosè, dicendo di non fare circoncidere più i loro figli e di non seguire più le usanze tradizionali. Che facciamo?». Ascoltando Giacomo dire: “Che facciamo?”, pare di vedere una Chiesa chiusa nella fedeltà alla Legge di Mosè e a quelle tradizioni che, secondo Gesù, impediscono il vero culto a Dio (Mc 7,7).
Giacomo invita Paolo a sottomettersi a quei riti di purificazione che ogni buon ebreo deve fare quando dal mondo pagano giunge a Gerusalemme. Paolo con la sua predicazione si era davvero immerso in quel mondo, ma l’aveva santificato con l’annuncio del Vangelo. Comunque, seguendo il suo principio: “farsi ebreo con gli ebrei” (1 Cor 9,21) si sottomise alla purificazione pur sapendo che la si può ottenere solo in Cristo. Ancor più, si sente ricordare da Giacomo la lettera che “lui”, non il Concilio, ha inviato ai pagani di “astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal mangiare sangue, ecc…”. Paolo deve aver costatato con tristezza che i giudeo-cristiani non conoscono ancora la libertà che si ha in Cristo e non sanno che Dio ha reso puro ogni cibo, anche se debbono aver sentito Pietro parlare di quello che gli è capitato a Ioppe e a Cesarea.

Paolo arrestato nel Tempio (21,26-40)
Paolo stava concludendo la sua purificazione quando lo videro alcuni giudei della provincia romana dell’Asia. Lo arrestarono e si misero a urlare: «Aiuto! Uomini di Israele. Questo è l’uomo che, ovunque, va insegnando a tutti una dottrina contraria alla Legge e a questo luogo, e ora lo ha profanato introducendo dei pagani». Lo trascinarono fuori e tentavano di ucciderlo quando il comandante della coorte accorse con i soldati, lo liberò dalla folla e lo arrestò. Egli cercò di avere informazioni dalla folla, ma chi diceva una cosa e chi un’altra, mentre il popolo urlava: “A morte, a morte!”. Nel caso di Gesù dicevano: “In croce, in croce!”.
I soldati lo portarono via, ma quando stava per entrare nella fortezza, Paolo disse al comandante: «Permettimi di rivolgere la parola al popolo». Glielo permise.

Il discorso di Paolo (22,1-21)
Quando la gente udì che parlava in ebraico fece silenzio e Paolo disse: «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa: Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma educato in questa città ai piedi di Gamaliele nelle più rigide norme della Legge». Gamaliele era un uomo zelante e di grande spiritualità. La tradizione rabbinica dice: “Quando egli morì, la gloria della Legge cessò e la purità e l’astinenza morirono”. Perciò Paolo può dire: «Educato da un così grande maestro ero pieno di zelo per Dio, come lo siete tutti voi oggi. Per questo ho perseguitato fino alla morte coloro che seguono questa Via». Si tratta della via della salvezza insegnata da Gesù, ma egli in coscienza sentiva che doveva perseguitarla e lo faceva con accanimento come «lo può dimostrare il sommo sacerdote e tutti gli anziani. Da loro ho ricevuto lettere per i nostri fratelli in Damasco con l’intenzione di condurre a Gerusalemme i prigionieri che fossi riuscito a fare. Ma mentre mi stavo avvicinando a Damasco una grande luce rifulse dal cielo attorno a me. Caddi a terra e udii una voce che mi diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Risposi: “Chi sei, Signore?”. Mi disse: “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti”». Continuò a raccontare la sua chiamata così come l’abbiamo letta in 9,1-18. Ma è interessante annotare come qui, per attirare l’attenzione, qualifica Anania: «Uomo devoto osservante della Legge e di buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti». Ebbene lui mi battezzò e mi disse: «Il Dio dei nostri padri (significativo per gli uditori) ti ha condotto per mano a conoscere la sua volontà e a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito». È un testo molto importante. Esso esprime che la testimonianza che dovrà dare a Gesù tra i pagani è secondo la volontà del Dio dei Padri. Perciò non c’è nessuna rottura con la storia. Per dirla in altre parole: Gesù è la pienezza della Legge, il suo vero compimento. Chi lo rifiuta è in rottura con Dio, non cammina più con Dio nella storia.
Con questo Paolo ha spiegato il suo cambiamento da osservante giudeo a cristiano, ma ha ancora una grande esperienza da raccontare. «Quando tornai a Gerusalemme e stavo pregando nel Tempio, entrai in estasi e vidi il Signore che mi diceva: “Affrettati, lascia Gerusalemme perché non accetteranno la tua testimonianza”. E io risposi: “Ma essi sanno che ero solito imprigionare quelli che credono in te e che ho approvato coloro che versavano il sangue di Stefano”. Ma il Signore mi disse: “Va’ perché io ti mando tra i pagani”». A questo punto la folla alzò la voce e urlando disse: “Togli di mezzo costui, non deve vivere”. È risuonato come per Gesù il “Crocifiggilo, Crocifiggilo”.

Cittadino romano (22,24-29)
Il comandante lo fece riportare nella fortezza per salvarlo dalla folla, ma comandò che fosse interrogato a colpi di flagello. Voleva capire perché la folla urlava tanto. «Ma Paolo disse al centurione che gli stava accanto: “Avete il diritto di flagellare un cittadino romano?”».
Ci si chiede: “Perché Paolo solo ora fa valere la sua cittadinanza romana?”. Ma forse è Luca che ha preferito trattare a parte questo tema. Lo evidenzia solo ora per fare meglio risaltare un dato decisivo che segna una svolta nella vicenda processuale di Paolo al punto da farlo giungere in modo impensato a Roma (23,11).
Ora Paolo è sicuro. Nessuno potrà incatenarlo e flagellarlo se prima non è stato giudicato e dichiarato colpevole. È quello che cerca di fare il tribuno convocando i sommi sacerdoti e tutto il Sinedrio.

Paolo di fronte al Sinedrio (23,1-11)
L’inizio di questa scena ricorda subito Gesù di fronte al Sinedrio. Appena Paolo si trovò davanti al Sinedrio disse: «Fratelli, io ho vissuto la mia vita in perfetta rettitudine davanti a Dio fino ad oggi». Sentendo questo il sommo sacerdote ordinò di percuoterlo sulla bocca. Gesù davanti al Sinedrio fu schiaffeggiato (Gv 18,22). Paolo continua a difendere la sua innocenza dicendo: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei e oggi sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (v. 6). Queste parole furono una bomba. Paolo lo sapeva che sarebbe stato così (v. 5).
Tra gli uditori, infatti, c’erano molti sadducei e farisei. I primi sostengono che non c’è risurrezione, né angeli, né spiriti. I farisei invece sostengono il contrario. Le parole di Paolo suscitarono una tale disputa che rese impossibile la prosecuzione del processo, tanto più che i farisei dichiaravano Paolo innocente. Allora il tribuno comandò ai soldati di scendere e di ricondurre Paolo nella fortezza. La conclusione è che la notte seguente gli si presentò il Signore e gli disse: «Coraggio, come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma». Ma perché questo avvenga ci vorrà ancora molto tempo.

Complotto contro Paolo (22,12-34)
L’avventura continua: l’odio dei Giudei era arrivato a un punto tale che alcuni «giurarono solennemente di non toccare né cibo né bevanda fino a che non avessero ucciso Paolo». Si presentarono ai capi dei sacerdoti e dissero: «Voi dovete dire al comandante che ve lo riporti qui col pretesto di esaminare meglio il caso. Noi siamo pronti a ucciderlo prima che arrivi qui». Ma il figlio della sorella di Paolo riuscì a sapere dell’agguato e andò da Paolo e Paolo lo mandò dal centurione che, informatosi bene, fece preparare duecento soldati e settanta cavalieri e di notte fece condurre Paolo fino a Cesarea dal governatore Felice. Con una lettera informò il governatore della situazione e comunicò agli accusatori che deponessero contro Paolo davanti al governatore Felice a Cesarea.
Il processo davanti a Felice (24,1-22)
Continua a realizzarsi quanto Gesù ha vissuto e annunciato ai suoi discepoli: «Vi perseguiteranno e vi porteranno nelle loro sinagoghe e prigioni, Vi trascineranno davanti a re e governatori a causa del mio nome. Avrete allora occasione per dare testimonianza di me» (Lc 21,12s). Paolo si trova ora davanti a un governatore dopo essere stato presentato davanti al Sinedrio come Gesù.
L’accusa è composta dal sommo sacerdote e dagli anziani che ora si servono di un avvocato chiamato Tertullo, il quale comincia a parlare lodando il governatore come uomo di pace per poi accusare Paolo come un sedizioso. Dice infatti: «Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste che fomenta continui dissensi tra i giudei che sono nel mondo. Egli è il capo della setta dei Nazorei e ha tentato di profanare il Tempio. Per questo l’abbiamo arrestato».
Paolo non ha un avvocato, ma sa difendersi: «Sono solo dodici giorni che mi sono recato a Gerusalemme per il culto e nessuno mi ha trovato nel Tempio a discutere con qualcuno. È vero che è secondo la “Via”, che loro chiamano setta, che io adoro il Dio dei miei antenati… Dopo molti anni di assenza sono venuto a offrire sacrifici e mentre ero impegnato nei riti di purificazione alcuni Giudei della provincia di Asia mi incontrarono. Sono loro i testimoni oculari che dovrebbero comparire davanti a te. Questi invece non hanno alcun motivo per farlo a meno che si tratti di ciò che gridai davanti a loro: “È a motivo della risurrezione dai morti che vengo giudicato davanti a voi”».
Il governatore Felice capì quello che Lisia gli aveva scritto: «L’ho condotto davanti al Sinedrio e mi sono accorto che le accuse riguardavano questioni della loro Legge e che non c’erano imputazioni meritevoli di morte o di prigione. Lo mando da te solo per salvarlo da un complotto contro di lui». Anche il governatore ora ha le stesse convinzioni. Interrompe la seduta e la aggiorna alla venuta del comandante Lisia, mai avvenuta.

Conoscere la Via (24,23-27)
Ora Paolo è veramente più libero. Il governatore infatti diede ordine al centurione che Paolo venisse custodito e che la sua prigionia risultasse mitigata senza impedire ai suoi di prestargli servizio. E forse è dalla conoscenza delle persone che frequentavano Paolo, che lui e la sua convivente Drusilla incominciarono a frequentarlo, sperando di avere da lui del denaro.
Ma Paolo conosceva la loro vita dissoluta (Drusilla infatti era stata rubata a suo marito per mezzo di un mago) e ne approfittò per approfondire con loro la “Via” cioè la dottrina della fede cristiana. Qualcosa già conoscevano e l’approfondimento dovette procedere bene fino a quando Paolo incominciò a parlare di giustizia, di continenza e di giudizio. La conseguenza è che il governatore non discusse più con Paolo e che il suo ultimo atto di governatore nei riguardi di Paolo fu un’ingiustizia. Paolo avrebbe dovuto essere lasciato libero perché non si trovò nessun motivo di condanna contro di lui. Ma Felice lasciò Paolo in prigione per fare un piacere ai Giudei e consegnò il suo mandato nelle mani di Porcio Festo.

Paolo si appella a Cesare (25,1-12)
Con il nuovo governatore i capi dei Giudei tornarono alla carica e gli chiesero di trasferire Paolo a Gerusalemme. Questo perché avevano disposto un tranello per ucciderlo durante il trasferimento. Festo dispose che il giudizio si facesse a Cesarea. Allora i Giudei scesero a Cesarea e gli imputarono numerose e gravi colpe senza riuscire a provarle, mentre Paolo disse: «Non ho commesso alcuna colpa né contro la Legge, né contro il Tempio, né contro Cesare». Festo allora per dimostrare ai Giudei che voleva aiutarli, chiese a Paolo se voleva salire a Gerusalemme per essere processato là. Ma Paolo tirò fuori i suoi diritti di cittadinanza romana e rispose: «Mi trovo davanti al tribunale di Cesare. Nessuno ha il diritto di consegnarmi a loro. Mi appello a Cesare». E Festo a lui: «Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai».
La parola di Gesù: «Devi darmi testimonianza anche a Roma» adesso può diventare realtà. Al di là di tutte le trame umane è sempre il Signore che ha l’ultima parola. E Paolo continua a sperimentare che davvero cammina con Cristo nella Storia.

Preghiamo
Signore, com’è stato bello vedere trasparire il tuo volto sul volto di Paolo. Adesso si comprende perché Paolo abbia detto ai cristiani: «Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo». Ma questo, quando, con la nostra vita, noi sacerdoti riusciremo a dirlo ai fedeli?
Signore, insegnaci la contemplazione di te quando meditiamo il tuo Vangelo e allora, a poco a poco, riusciremo a imitarti sempre più e compiremo la volontà del Padre che vuole renderci simili a te.
Ora ti rivolgiamo questa preghiera pensando ai destinatari della nostra missione: hanno bisogno di vederci come veri modelli del gregge, sottoposti all’azione dello Spirito.
Signore Gesù, ascoltaci!
Amen!

  Mario Galizzi

RIVISTA MARIA AUSILIATRICE 2005-1

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 26 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI: 18,23-20,28 – TERZA MISSIONE DI PAOLO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/11-Atti_Paolo_Terza_Missione.html

( siamo sempre su studi paolini, tuttavia il sito di Don Bosco di Torino mi piace molto)

ATTI DEGLI APOSTOLI: 18,23-20,28

TERZA MISSIONE DI PAOLO

È stato facile determinare il limite del primo e secondo viaggio, sia perché il punto di partenza e quello di arrivo era Antiochia di Siria, sia perché i due erano dotati di un’introduzione. Ma non così per quello che gli studiosi chiamano “il terzo viaggio”. Per noi inizia a 18,23 e si conclude a 21,38, secondo le indicazioni offerte da Paolo a Efeso: “debbo andare a Gerusalemme e poi a Roma” (19.21).
Se il primo viaggio ha avuto il suo culmine nel discorso ad Antiochia di Pisidia (13,16-41) e il secondo nel discorso di Atene (17,22-34), il terzo viaggio trova il suo apice nel discorso di Paolo agli Anziani di Efeso (20,18-37). Siamo di fronte a una bellissima sezione e invitiamo il lettore a mettersi in contemplazione di Dio, dello Spirito e della Potenza della Parola che, come Verità, s’impone da sé senza alcuna coercizione.

Galazia e Frigia (18,23)
L’inizio del viaggio suscita non poche difficoltà: «Paolo partì percorrendo una dopo l’altra le regioni della Galazia meridionale e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli». Stupisce che Paolo sia solo e anche che rinvigorisca nella fede i discepoli. Questo suppone che lì ci siano delle comunità, ma chi le ha fondate? È probabile che le abbia fondate Paolo durante il secondo viaggio, quando attraversò queste due regioni (16,6). Il fatto è che ora deve aver incontrato certe difficoltà nella fede dei Galati, perché, “giunto a Efeso” (19,1) scrive loro una lettera nella quale afferma che “non c’è un altro vangelo” (Gal 1,7).
A questo punto c’è un brano (18,24-28) che tralasciamo perché sembra un masso erratico avulso dal suo contesto, senza alcun collegamento con quanto precede e quanto segue. Comunque ci offre una notizia utile: Efeso non è un campo incolto per Paolo; già altri hanno annunciato Gesù.

Primo contatto con la città (19,1b-10)
Giunto a Efeso s’incontrò con alcuni discepoli e chiese loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Una simile domanda suppone che Paolo già sapeva che c’erano dei cristiani, così detti “giovannei” anche fuori della Palestina e subito fu riconfermato in questo quando si sentì rispondere «Non abbiamo mai udito dire che esista uno Spirito Santo. Ma quale battesimo avete ricevuto? Essi risposero: “Il battesimo di Giovanni”». Paolo allora cercò di far loro capire il senso del battesimo di Giovanni «il quale battezzò con un battesimo di conversione dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù». Essi accolsero con fede la parola di Paolo. Perciò “furono battezzati e subito scese su di loro lo Spirito Santo”. Fu una vera Pentecoste. Infatti, si misero a parlare in lingue e a profetare. Immersi dallo Spirito in piena comunione con il Padre e il Figlio pregavano in modo estatico, mentre il dono della profezia dava loro la capacità di essere costruttori di comunità.

“Prima ai Giudei” (19,8-10)
Paolo non riesce a dimenticare il suo popolo. Ora però cambia metodo. Non parla di Gesù, ma, “usando argomenti persuasivi parla loro di ciò che riguarda il Regno di Dio”. Questo tema è tale da suscitare l’interesse dei Giudei essendo ben radicato nelle Scritture. Esso esprime il dominio spirituale di Dio sulla mente e le intelligenze e con il tempo giunse anche ad esprimere la speranza escatologica nel tempo in cui la salvezza si sarebbe pienamente realizzata. Ed è a questo punto che dev’essere passato a parlare di Gesù, suscitando un’enorme reazione da parte dei Giudei: si irrigidirono e davanti a tutti rifiutarono di credere e sparlavano della “Nuova Via di salvezza”.
Paolo se ne andò con quelli che avevano accolto il messaggio e ogni giorno per due anni continuò a discutere con loro. Il risultato fu enorme: tutti gli abitanti della provincia romana di Asia, greci e giudei, ascoltarono la Parola del Signore. Luca parla solo di Paolo, ma è logico che abbia avuto come collaboratori Timoteo ed Erasto (19,22), Gaio e Aristarco (19,29) ed Epafra che hanno evangelizzato l’entroterra efesino, cioè le città di Colosse, Laodicea e Gerapoli.

La vittoria sulla magia (19,11-22)
L’inizio del brano è solenne: «Dio operava prodigi non comuni per opera di Paolo al punto che mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano». Ora, ci furono alcuni esorcisti giudei che si sentivano squalificati dall’agire di Paolo e che tentarono di imitarlo. Questo a Efeso, la città della magia per eccellenza, piena di libri che insegnavano ad usare le giuste formule magiche per riuscire. Ebbene questi esorcisti dissero agli spiriti cattivi: «Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Solo che per loro la formula era qualcosa di magico; era essa la parola potente che guariva, mentre in Paolo era la potenza del Signore. Perciò fallirono e lo spirito cattivo disse loro: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?». Subito l’indemoniato si lanciò su di loro li malmenò in modo tale che fuggirono via nudi e pieni di lividi.
In Efeso tutti ne sentirono parlare e furono pieni di paura e «molti si misero a glorificare il nome di Gesù». Capirono che la potenza di Gesù era superiore a ogni magia. «E molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato arti magiche, portavano i propri libri e li bruciavano davanti a tutti». La conclusione è più che ovvia: «La Parola del Signore cresceva e si moltiplicava».
Dopo questi fatti Paolo cominciò a sentire la preoccupazione per le chiese e decise di partire per la Macedonia e l’Acaia, cioè Corinto, dicendo: «Dopo essere stato là devo raggiungere Gerusalemme e Roma». Si fece precedere in Macedonia da Timoteo ed Erasto, mentre egli rimase ancora un po’ di tempo a Efeso. Poté così assistere a un grandioso evento.

La vittoria della fede sull’idolatria (19,21-40)
Le vendite degli oggetti religiosi attorno al grande santuario della Dea Artemide di Efeso calavano a vista d’occhio. Demetrio, il capo degli argentieri, convocò tutti gli operatori del commercio e puntò il dito accusatore su Paolo, dicendo: “Vi accorgete che non solo in Efeso, ma in tutta l’Asia, questo Paolo ha sviato molta gente dicendo che gli dèi manufatti non sono affatto dèi. C’è pericolo non soltanto per i nostri affari, ma anche che il santuario della grande Artemide cada in discredito. Colei che tutta l’Asia e tutto il mondo adorano rischia di essere privata della sua Maestà”.
Gli ascoltatori infuriati si misero a percorrere la città urlando: “Grande è l’Artemide degli Efesini”. Si trascinarono dietro, andando verso il teatro, Gaio e Aristarco compagni di Paolo, per presentarli ai magistrati. Una grande folla si unì al corteo, ma in realtà non sapeva perché stessero manifestando. Paolo voleva entrare nel teatro e parlare alla gente, ma alcuni funzionari imperiali, che gli erano amici, glielo impedirono. Solo l’abilità del Cancelliere della città riuscì a calmare la gente e ad affermare che né Gaio né Aristarco erano colpevoli. Nessuno di loro aveva rubato nel tempio e tanto meno insultato la grande Dea. Quest’assemblea non ha ragion d’essere. Anche qui il risultato è evidente: la fede cristiana, nel suo cammino, distrugge ogni idolatria. Paolo, dopo aver costatato la vittoria della fede, partì.

Visitando le comunità (20,1-16)
Qui basta osservare la cartina del terzo viaggio per capire il testo. Paolo attraversa le regioni della Macedonia e poi arriva in Grecia, pensiamo a Corinto dove si fermò tre mesi. Quindi non salpò verso la Siria a causa di un complotto dei Giudei contro di lui, ma ritornò attraverso la Macedonia e sostò sette giorni a Troade.
Qui, racconta Luca, “il primo giorno della settimana ci riunimmo per spezzare insieme il pane”, cioè per celebrare l’Eucaristia, che già allora, era preceduta dalla Liturgia della Parola. Era sera e la predica di Paolo durò fino a mezzanotte interrotta da un ragazzino che si addormentò sulla finestra e cadde dal terzo piano. Paolo scese di corsa, si gettò su di lui e lo strinse a sé e poi disse: «C’è ancora vita in lui». «Quindi risalì, spezzò il pane, mangiò e dopo aver parlato ancora fino all’alba, partì».
Luca annota: «Noi partimmo per nave fino ad Asso, dove dovevamo prendere a bordo Paolo che fece il viaggio via terra… Da Asso continuammo per nave tutti insieme fino a Mileto».

L’addio di Paolo (20,17-38)
Da Mileto, Paolo mandò a chiamare gli anziani di quelle Chiese che lui aveva contribuito a edificare durante i tre anni di permanenza a Efeso. E qui, Luca riporta il suo discorso altamente personalizzato. Egli vuole che Paolo sia ricordato non soltanto da coloro che lo stanno ascoltando, ma anche dai suoi lettori, da noi tutti. Non la si può toccare questa pagina, bisogna leggerla tutta tenendo conto delle sue quattro articolazioni:

1. Paolo inizia con uno sguardo retrospettivo del suo apostolato a Efeso (vv. 18-21):
Voi sapete come mi sono comportato tra voi fin dal giorno in cui ho messo piede in Asia. Ho servito il Signore con tutta umiltà, nelle lacrime e tra le prove che mi hanno procurato i Giudei. Sapete che non mi sono sottratto a ciò che vi poteva essere utile, quando si trattava della predicazione o dell’insegnamento da farvi in pubblico o in privato. Con insistenza ho invitato Giudei e pagani a convertirsi a Dio e a credere nel Signore nostro Gesù». Non è una difesa del suo comportamento, semplicemente propone ai capi delle chiese come anch’essi debbono comportarsi: “servire il Signore”. Tutto è un servizio. E quando parla delle “lacrime e prove”, ricorda la sua più grande sofferenza: il contrasto con quelli del suo popolo. Mai nessuno ha amato tanto il suo popolo come Paolo (Rm 9,1-3), e mai nessuno è stato odiato e trattato da traditore dal proprio popolo come Paolo. Anche oggi.

2. Uno sguardo sul presente (vv. 22-24):
«Ed eccomi ora prigioniero dello Spirito: sto andando a Gerusalemme senza sapere quale sarà la mia sorte in quella città. Comunque so che in ogni città lo Spirito Santo mi attesta che catene e tribolazioni mi attendono. Da parte mia non faccio nessun conto della mia vita, purché porti a termine la mia corsa e il servizio che ho ricevuto dal Signore Gesù di rendere testimonianza del Vangelo della grazia di Dio». Ad Antiochia di Siria, prima di iniziare insieme con Barnaba, la sua prima missione, “Sono stati affidati dalla comunità allo Spirito Santo”.
Dopo tanti anni Paolo continua ad agire guidato dallo Spirito Santo. Si chiama, pensiamo con gioia, “prigioniero dello Spirito”, perché è con la sua potenza che egli ha operato e da cui ora ascolta il primo annuncio della sua passione. Non ha mai camminato alla cieca; ora sa che cosa l’attende a Gerusalemme. Anche Gesù lo sapeva, e lui, come Gesù, vuole solo portare a termine la sua corsa come testimonianza al Vangelo. Per i capi delle comunità di Asia è questo un impegno che debbono assumere. E lo deve assumere ogni apostolo, perché la propria attività ha senso solo se è servizio e donazione sino alla fine.

3. Ora guarda il futuro: la Chiesa e i suoi Pastori (vv. 25-31):
«Ed ecco, ora io so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunciando il Regno. Per questo oggi vi dichiaro che non ho alcuna responsabilità se qualcuno di voi viene meno al suo dovere. Mai infatti mi sono sottratto al compito di annunciarvi la volontà di Dio. Abbiate cura di voi stessi e di tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo vi ha costituiti sorveglianti (significato allora del letterale: vescovi) per pascere la Chiesa che Dio si è acquistata per mezzo del sangue del proprio Figlio. Io so che dopo la mia partenza si introdurranno tra di voi lupi rapaci, che devasteranno il gregge. E anche tra voi sorgeranno uomini che insegneranno dottrine perverse, attirando dietro di sé i discepoli. Perciò vegliate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, non ho cessato, tra le lacrime di esortare ciascuno di voi». Come Gesù ha messo in guardia i discepoli contro i falsi profeti, “che vengono a voi in veste di pecora, ma dentro sono lupi rapaci” (Mt 7,15) e contro i falsi Messia che si presentano nel suo nome per trascinare dietro a sé i discepoli (Mc 13,22), così Paolo sa che avverrà lo stesso nella Chiesa di Efeso. Perciò li esorta a vedere il proprio atteggiamento pensando che lo Spirito Santo li ha costituiti Pastori e il Pastore deve vegliare come ha fatto Paolo per tre anni.

4. Ultime raccomandazioni (vv. 32-35):
E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati. Non ho desiderato né argento, né oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che i deboli si debbono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”». È bella l’immagine di Paolo che presentando le sue mani dice: “alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani”. Non si riesce proprio a capire come abbia fatto a guadagnarsi da mangiare con le sue mani e a predicare giorno e notte. Però il sapere provvedere a se stessi senza pesare sugli altri è molto importante soprattutto se si tratta di aiutare i deboli.

Conclusione (vv. 36-38):
Ora la sua parola si fa preghiera: «Si inginocchiò con tutti e pregò. Tutti scoppiarono in pianto e gettandosi al collo di Paolo, lo baciarono addolorati perché aveva detto che non avrebbero più visto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave».
Dopo questa lettura, dobbiamo essere riconoscenti a Luca, probabilmente presente, perché nel versetto seguente c’è di nuovo il “noi” (21,1), come c’era quando sono arrivati a Mileto (20,15). Luca sintetizzando con abilità il discorso di Paolo ci ha dato di lui la più bella immagine, ma anche il modello più efficace per chi sa donare la sua vita per il Vangelo.

Preghiamo
A questo punto, o Signore, penso a me e a tutti coloro che hanno il compito di annunciare il tuo Vangelo. Fa’ che meditando questa pagina possiamo davvero riflettere a fondo sulle nostre responsabilità. Donaci di non perdere mai di vista i destinatari della nostra missione e aiutaci a tradurre il messaggio alle loro capacità di comprensione. Donaci il coraggio di vegliare giorno e notte su di loro perché non si sentano abbandonati nella loro vita cristiana. E poi concedi a noi di avere il coraggio, come l’hai avuto tu, di portare a termine nella fedeltà la nostra corsa, cioè il servizio che ci hai affidato. Che possiamo sempre sentire che la comunità ci affida in continuità alla potenza dello Spirito. Amen!

 Mario Galizzi SDB

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO » – DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

http://www.christusrex.org/www1/ofm/pope2/syria/GPsyr13.html

IL SENSO DELL’ »EVENTO DI DAMASCO »

DI ALFIO MARCELLO BUSCEMI

dal libro: San Paolo. Vita opera messaggio

(SBF Analecta 43), 2a edizione, Gerusalemme 1997

Molti hanno parlato e continuano a parlare di conversione, ma il termine non si adatta bene al caso eccezionale di Paolo. Anzi, genera confusione e tradisce il senso profondo dei testi, sia delle Lettere che degli Atti. Per Paolo non si trattò di passare da una religione ad un’altra: fino a quel momento il cristianesimo non aveva ancora operato nessuna rottura ufficiale con il giudaismo e quindi al massimo Paolo sarebbe passato da una setta giudaica ad un’altra setta giudaica; né si trattò di una crisi religiosa – il testo di Rom 7,7-25 non ha certamente valore autobiografico – che determinò il passaggio da una fede mediocre ad un’esistenza religiosamente più impegnata: Paolo è sempre stato un uomo zelante di Dio e della sua legge.
Il mutamento di Paolo è stato qualcosa di più radicale: a contatto con Cristo egli è divenuto una « creatura nuova ». Dio, facendo irruzione nella sua vita per mezzo di Cristo, ha determinato in lui una nuova creazione, qualitativamente e radicalmente diversa. Paolo stesso, forse richiamandosi a questa sua esperienza damascena, dirà in 2Cor 5,17: « Chi è in Cristo, questi è una nuova creatura ». La luce del volto di Cristo brillò per opera di Dio nella sua vita: « Iddio che ha detto: ‘Dalle tenebre lampeggi la luce’ (Gen 1,3), proprio lui ha brillato nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo » (2Cor 4,6). « Da quel momento considerai tutto una perdita di fronte alla suprema cognizione di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ho stimato come immondizia allo scopo di guadagnare Cristo e ritrovarmi in lui non con la mia giustizia che deriva della legge, ma con quella che si ottiene con la fede » (Fil 3,8-9). Il fariseo Paolo, che fino allora aveva esaltato al di sopra di ogni cosa la legge, da quel momento in poi dirà: « La mia vita è Cristo » (Fil 1,21), « perché niente ha valore né l’essere ebreo né gentile, ma ciò che conta è essere una nuova creatura » (Gal 6,15); nessun’altra sapienza di questo mondo ha più importanza, se non conoscere Gesù Cristo, anzi Gesù Cristo crocifisso (1Cor 2,2); e rifiutando il vanto della legge dirà: « Quanto a me, di nessun’altra cosa mi glorierò se non della Croce del Signore nostro Gesù Cristo, sulla quale il mondo per me fu crocifisso e io per il mondo » (Gal 6,14). Cristo è divenuto per lui il « termine della legge » (Rom 10,4): ha finito il suo ruolo di « pedagogo » (Gal 3,24) e ha trovato il suo totale perfezionamento nella « legge di Cristo » (Gal 6,2), nella legge dell’amore (Gal 5,14).
È Paolo stesso che ci offre una simile interpretazione di quest’esperienza che ha rivoluzionato la sua vita, scrivendo ai Galati: « Poi, quando Colui che mi scelse dal seno di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia si compiacque di rivelare in me il suo Figlio affinché lo annunziassi tra le genti, subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue… » (Gal 1,15-16). Quindi, Paolo vede « l’evento di Damasco » non come una conversione, ma come il culmine della sua esistenza: dalla nascita egli è stato condotto da Dio lentamente e pazientemente a questo momento decisivo, in cui il Cristo l’ha afferrato e l’ha fatto suo per sempre (Fil 3,12). L’iniziativa è di Dio, che sceglie chi vuole e quando vuole: l’imperscrutabile e libera decisione divina aveva un disegno concreto su di lui e lo ha realizzato « quando si compiacque di farlo ». In quel momento tutto è cambiato: « Tutte quelle cose che per me erano guadagni, io le ho stimate invece una perdita per amore di Cristo » (Fil 3,7). Sta qui, nell’amore di Cristo la chiave interpretativa di tutto « l’evento di Damasco », quell’evento che ha reso Paolo un innamorato di Cristo e un apostolo infaticabile del suo Signore.
Gli Atti degli Apostoli, con la triplice narrazione di quest’ »evento » non si distaccano molto dall’interpretazione che Paolo ha dato di esso. Pur non essendo una copia conforme, l’opera lucana presenta « l’esperienza di Damasco » come un incontro di Cristo con Paolo, durante il quale l’apostolo viene investito della missione tra i gentili. La concordanza essenziale tra Gal 1,15-16 e At 26,12-18, sotto quest’aspetto, mi sembra evidente: una visione e l’investitura per una missione. È vero che, rispetto alle Lettere, l’autore degli Atti insiste soprattutto nella descrizione della visione oggettivando fortemente il dato esperienziale del « rivelare in me il suo Figlio » di Gal 1,16, ma nonostante ciò è proprio la descrizione di Atti che si mantiene ad un livello molto più prudente di quanto non fa Paolo. Egli continuamente ripete nelle sue Lettere: « io ho visto il Signore » (1Cor 9,1; 15,8-9; Gal 1,15-16), fondando così la sua posizione di apostolo delle genti (Gal 2,8-9) nella chiesa, mentre gli Atti si limitano a dire soltanto che l’apostolo fu avvolto in una grande luce e sentì la voce del Cristo che lo investiva della missione delle genti (9,3b-6; 22,6b-10; 26,13-18). Ciò è molto significativo per noi e ci induce a pensare che Luca sia rimasto molto fedele alla sua fonte storica, anche se da un punto di vista letterario ha dovuto fare le sue scelte. Gli accenni all’ »evento di Damasco » nelle « lettere paoline » sono tutti occasionali, negli Atti invece fanno parte integrante di un preciso programma letterario, che ci presenta « l’evento » sotto forma di « racconto », al momento in cui esso sembra inserirsi nello sviluppo storico della Chiesa primitiva, e sotto forma di « discorso apologetico », largamente interpretato teologicamente, quando Paolo ha da rendere la sua testimonianza dinanzi ai giudei, ai re e ai gentili.
Non è questo il luogo di addentrarci in minuziose analisi, per dimostrare l’attendibilità storica dei testi. Molti autori, hanno già svolto questo lavoro con molta competenza e acume. A noi interessa qui ribadire un concetto fondamentale: la triplice narrazione dell’ »evento di Damasco », fatta dagli Atti, non deve essere considerata né come l’esatta relazione cronachistica degli avvenimenti né come una pura invenzione. Luca riferisce una tradizione storicamente bene attestata dalle lettere di Paolo e la inserisce nel contesto vitale dello sviluppo della Chiesa primitiva, interpretandola e attualizzandola alla luce dei racconti veterotestamentari delle vocazioni profetiche e di quelle del servo sofferente di Jahwè.

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