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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE – OMELIA SU ATTI 26, 1 ss

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LA « PARRESIA » DI SAN PAOLO, OVVERO IL CORAGGIO DI DIRE LA VERITÀ ANCHE DAVANTI AL POTERE – OMELIA SU ATTI 26, 1 ss

13 maggio 2012: Sesta di Pasqua

At 26,1-23; 1 Cor 15,3-11; Gv 15,26-16,4

Per comprendere il brano degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci propone in questa domenica come prima lettura bisognerebbe fare qualche passo indietro.
Paolo viene arrestato dal tribuno romano per proteggerlo da una sommossa popolare scatenata dai giudei. Prima o poi doveva succedere: l’apostolo ogni giorno predicava una Parola, quella di Cristo, che stava veramente provocando le ire dei capi. Viene condotto nella fortezza Antonia perché possa chiarire le vere motivazioni della sommossa. Prima però chiede di poter parlare al popolo per difendersi dalle accuse. Pronuncia così il primo dei tre discorsi in sua difesa. Il secondo lo pronuncerà davanti al procuratore Felice e il terzo davanti al re Agrippa e al procuratore Festo.
Quali sono le accuse che gli sono state rivolte? Sovvertire il popolo, violare la legge e aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario, accuse che potevano costare la morte. Anzitutto: sovvertire il popolo. Come vedete, siamo sempre alla solita accusa, quella di sovvertire l’ordine pubblico, un’accusa che fa sempre comodo e che può interessare sia la religione che lo stato. La religione può anche accontentarsi di difendere l’ordine diciamo dottrinale (l’Inquisizione insegna), ma allo Stato interessa in modo particolare l’ordine pubblico. Comunque, anche le eresie dottrinali fanno paura allo stato, in quanto creano un certo scompiglio tra la gente. Se poi le cosiddette eresie mettono in discussione lo stesso sistema statale, allora lo stato è sempre pronto a dare una mano alla religione per sradicarle. Seconda accusa: violare la legge, in particolare quella del sabato. D’altronde l’ordine pubblico non è forse fondato sulla legge? È sempre pericoloso parlare di Coscienza, perché la Coscienza mette in crisi ogni regime. Ogni regime è fondato sull’ordine, sull’obbedienza, sul rispetto del sistema: non sopporta gli spiriti liberi che agiscono in nome della Coscienza. Terza accusa: aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario.
Appena Paolo, sulla spianata del tempio, cerca di spiegare alla folla la sua missione tra i pagani, su un ordine ben preciso di Cristo, la folla non lo ascolta più, rompe il silenzio e, tra urla e gesti isterici, reclama la morte dell’apostolo. A irritarla non è il fatto che Paolo apra le porte ai gentili, ma che insegni loro, su ordine di Dio, che non sono tenuti a osservare la legge di Mosè. Ecco dove sta veramente il vizio di ogni religione, diciamo il suo più grosso peccato: pretendere che gli estranei, quelli di un’altra fede religiosa, si convertano caricandosi di tutti i pesi della propria religione. Il punto di riferimento è sempre, ad ogni costo, la religione. Qui bisognerebbe una buona volta chiarire il termine “evangelizzazione”. Già la parola dice che si tratta del Vangelo, ovvero della Buona Novella di Cristo. E che cos’è la Buona Novella di Cristo? Perché identificarla con la dottrina della Chiesa, che, in quanto struttura religiosa, sarà sempre tentata di far propria la stessa verità? Il Vangelo precede ogni struttura, precede la stessa Chiesa, la quale, se ha ricevuto una missione da Cristo, non è senz’altro quella di fare proselitismo, di andare alla ricerca di nuovi convertiti. Anche qui vedete: se capissimo che cos’è umanesimo nella sua pienezza, non confonderemmo il Vangelo con la Chiesa struttura.
Noi cristiani siamo chiamati a portare il messaggio rivoluzionario di Cristo senza per questo battezzare i pagani legandoli ad una struttura che di per sé, come struttura, non potrà mai esaurire il Vangelo di Cristo, che va ben oltre. Perché abbiamo dimenticato le dure parole di Cristo con cui si è scagliato contro i farisei e i dottori della Legge? «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Il tribuno, di fronte alle ire della folla, fa portare Paolo all’interno della fortezza. E qui lo sottopone ad un interrogatorio ricorrendo anche alla forza: lo fa flagellare. La flagellazione era una procedura permessa contro schiavi e stranieri, ma severamente proibita dalla legge Porcia nei confronti di un condannato munito di cittadinanza romana. E è a questa legge che Paolo si appella, avvertendo il centurione di trovarsi di fronte a “un cittadino romano”. Non solo: egli dichiara che neppure come castigo accetterà la flagellazione, non essendo stata ancora pronunciata una sentenza giudiziaria. Il tribuno chiede a Paolo spiegazioni, e l’apostolo conferma di essere un cittadino romano, non per aver comperato tale diritto, ma per diritto di nascita. Come vedete, l’apostolo sapeva far valere i propri diritti. Ma qui occorre chiarire una cosa. Perché Paolo si è appellato al suo diritto di cittadino romano? Se doveva essere condannato, solo il tribunale di Cesare a Roma poteva emettere un verdetto, e questo permetterà all’apostolo di recarsi nella capitale per divulgare anche là il Vangelo. Questo era il suo sogno. E il sogno si avvererà. Ma prima l’apostolo dovrà subire altre umiliazioni e minacce.
Il tribuno Lisia fa condurre Paolo dalla fortezza Antonia nell’aula del sinedrio con l’intento di capire quali siano le vere accuse che i capi ebrei gli hanno rivolto. Paolo, tra l’altro anche scaltro, riesce a dividere tra di loro gli stessi componenti del sinedrio, in parte farisei e in parte sadducei. Paolo affermando la sua fede nella risurrezione, si attira le simpatie dei farisei e le antipatie dei sadducei. Ne nasce un tumulto. Il tribuno è costretto a intervenire per proteggere l’apostolo, e lo riporta in caserma.
E non è finita. Una quarantina di giudei fanatici ordisce un’altra congiura ai danni di Paolo. Si impegnano con giuramento a ucciderlo. Giuramento cosiddetto esecratorio. Per farlo uscire dalla fortezza Antonia, organizzano un secondo interrogatorio, sempre nella sala delle adunanze del sinedrio, dato che il primo è degenerato in baruffa. Pensavano: durante il tragitto di trasferimento non sarebbe stato difficile sopprimerlo. Ma la congiura viene sventata da un nipote di Paolo, il quale avverte il tribuno, che, per garantire più sicurezza all’apostolo, lo fa trasferire sotto scorta a Cesarea, presso il pretorio di Erode: era un palazzo-fortezza fatto costruire da Erode il Grande, dove ora risiedevano e amministravano la giustizia i procuratori romani. Il sinedrio di Gerusalemme non molla, e invia a Cesarea una delegazione che, davanti al procuratore Felice, rinnova le accuse a Paolo, e Paolo di nuovo si difende. Le solite accuse: è un perturbatore della quiete pubblica, è uno dei capi della setta dei Nazirei (così era visto il cristianesimo, una setta!), infine un profanatore del Tempio. Il procuratore non crede alle accuse dei membri del Sinedrio o, meglio, a lui non interessano le questioni religiose. Però tiene Paolo ancora in carcere, e per ben per due anni. La politica prevale su ogni giustizia. Il procuratore doveva tenere buoni gli ebrei, che non erano molto contenti del suo governo.
Subentra a Felice un nuovo governatore, di nome Festo, il quale, a pochi giorni dal suo insediamento, si reca a Gerusalemme per farvi la prima visita. Subito i capi giudei colgono l’occasione per rinnovare l’accusa contro Paolo, e gli chiedono di condurre Paolo a Gerusalemme per essere di nuovo giudicato dal tribunale ebraico. Festo, dopo altri tentativi, fa la proposta a Paolo di salire a Gerusalemme. A questo punto Paolo, come era suo diritto, si appella al tribunale di Roma. Festo informa il Consiglio, e il Consiglio approva. Paolo sarà dunque inviato a Roma. Non è finita. La storia è davvero appassionante. Nel frattempo giungono a Cesarea il re Agrippa e la sorella Berenice. Il procuratore Festo espone al re il “caso di Paolo”. Il re Agrippa esprime il vivo desiderio di vedere l’apostolo. Il giorno seguente Agrippa e la sorella Berenice realizzano il loro desiderio: poter ascoltare Paolo. La cosa interessante, diciamo impressionante è il contesto in cui è avvenuto l’incontro. Non in via privata, ma ufficiale. L’incontro si svolge in una grande sala del palazzo di Erode, presenti i cinque comandanti di ognuna delle coorti di stanza a Cesarea, e gli uomini più rappresentativi della città. Davanti a loro Paolo fa la sua terza autodifesa. È il brano di oggi.
Vorrei ora fare qualche brevissima riflessione. Ciò che mi ha colpito dell’apostolo Paolo è la sua serenità interiore. Una serenità proveniente certamente dalle sue profonde convinzioni, ma in particolare dalla forza della Parola che egli annunciava. Una Parola-Verità, ma non basta: una Parola che salva. Una Verità che resta astratta a che serve? A dare forza è la Verità che salva, che libera, che rende umani. C’è un’altra riflessione. Sarebbe interessante soffermarsi un po’ sui vari personaggi “politici” che entrano ed escono dal racconto degli Atti degli Apostoli. Più che descrivere le loro nefandezze (ne sappiamo qualcosa di più grazie agli storici del tempo) Luca sembra che ci dica: Vedete questi “poveri” potenti? Nonostante la loro miseria morale, non hanno potuto fare a meno di riconoscere l’innocenza di Paolo! I potenti “corrotti” non hanno trovato colpe in Paolo, mentre gli ebrei “puri” (così si ritenevano!) hanno inventato accuse su accuse pur di uccidere l’apostolo. Sapete quel è il nemico che la verità e la giustizia temono maggiormente? Più che la depravazione morale è l’orgoglio, l’ostinazione mentale, l’accecamento del cuore. Ultimamente ho avuto una forte sensazione. I potenti di una volta, pur corrotti – non dimentichiamo comunque i tempi – sembravano particolarmente attratti dalla santità dei giusti. Se leggi la storia, ne incontrerai di re e di regine che hanno sentito il bisogno di consigliarsi con persone di diversa estrazione sociale, digiune di politica, aliene da ogni aspirazione connessa col potere, ma dotate di un grande dono, quello della saggezza e della profezia. Anche i buffoni di corte avevano il compito di dire la verità al sovrano. A me non sembra che oggi sia così. C’era uno in Italia che ultimamente si era circondato solo di galoppini, di gente pagata per dire ciò che gli faceva comodo, gente pronta a riverirlo in ogni suo capriccio, di prostitute e di avvocati disposti a falsificare la verità. La santità è sparita dai nostri palazzi politici. Anzi, i “puri” si sono contaminati appena si sono avvicinati al potere. I sovrani un tempo erano curiosi di conoscere i profeti, li ascoltavano, ne rimanevano anche affascinati, anche se poi gli interessi del potere avevano sempre il sopravvento. Oggi nei palazzi di potere è sparita perfino la saggezza, che è lasciata a quei pochi pazzi che vorrebbero un mondo diverso.

 

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 19 février, 2015 |Pas de commentaires »

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI – (Atti 20,34) (2000)

http://www.piccoloeremodellequerce.it/Pagine_Bibliche/Ho_lavorato.doc.

Contributo della Comunità
al sussidio per l’evangelizzazione dei giovani lavoratori
Le mani del giovane e il cuore del Cristo,
pubblicato dall’Ufficio Nazionale CEI e dall’Ufficio Regionale della Calabria
per i Problemi Sociali e il Lavoro,

Maggio 2000.

HO LAVORATO CON QUESTE MIE MANI – (Atti 20,34)

1. Il fatto
« Sarebbe assurdo che, mentre tutti gli altri uomini provvedono a mantenere mogli e figli a costo di grandi fatiche e patimenti, ed inoltre pagano le tasse, offrono a Dio le primizie e per quel che possono alleviano la miseria dei mendicanti; sarebbe assurdo, dicevo, che i monaci non debbano procurarsi il necessario con il loro lavoro… e debbano invece restarsene seduti, a braccia conserte, sfruttando il lavoro degli altri » .
Sapete dove ho sentito queste ‘opinioni’? No, non in piazza, mentre passava il prete con la macchina sportiva e il cellulare in mano. Questi discorsi provengono da molto lontano nel tempo, quando, nei primi secoli del cristianesimo, si cominciavano a vedere uomini di chiesa che avevano fatto « dell’ozio un’arte di vivere » . E la gente ne era giustamente scandalizzata e indispettita.
E sapete perché?
In principio non era così. I primi cristiani sapevano bene quanto fosse necessario « mangiare il proprio pane », vivere cioè lavorando, e non alle spalle degli altri. E questo valeva non solo per i cristiani della domenica, ma anche per gli apostoli.
Prendiamo il caso di san Paolo.
Sulla via di Damasco fa un’esperienza travolgente: gli appare Gesù (At 9,1-19). Ne rimane folgorato e cambia vita: da persecutore dei cristiani diventa apostolo delle genti e fondatore di nuove comunità cristiane. Siamo intorno al 36 d.C.
Dal 46 comincia a viaggiare in lungo e in largo per tutto il Mediterraneo orientale. Obiettivo: dare testimonianza a Cristo e costruire la sua Chiesa. Si calcola che i suoi itinerari abbiano raggiunto gli oltre diecimila miglia (più di 15000 km: un’impresa, per quei tempi!), fra pericoli d’ogni genere, fatiche e persecuzioni. Ed è grazie a lui che noi occidentali siamo diventati cristiani!
Ma cos’è che ci lascia stupiti di quest’uomo infaticabile che ha saputo trovare il tempo per pregare e predicare, fondare nuove comunità e seguire il loro cammino, scrivere lettere d’incoraggiamento e discutere questioni difficili con gli altri apostoli, affrontando persino la tensione di processi ingiusti, i trasferimenti da un carcere all’altro ed, infine, la condanna a morte?
Che, pur facendo tutto questo, abbia voluto a tutti i costi guadagnarsi da vivere, lavorando con fatica e sforzo notte e giorno. Per non essere di peso a nessuno. E dare l’esempio.
Come hanno fatto Gesù e Giuseppe, in quell’umile bottega di Nazareth.

2. Il testo
Molte volte san Paolo tira fuori la questione del lavoro nelle sue lettere. E lo fa per esortare chi già lavora, per mettere in guardia i cristiani dall’insidia dell’ozio e bacchettare i perditempo che vivevano disordinatamente. Ed ogni volta si pone sempre come esempio per far capire che l’apostolo non deve essere un professionista ‘pagato’ della religione, ma un uomo a servizio di tutti, che vive come tutti. E se questo lo deve fare un apostolo, che in fondo avrebbe anche il diritto di essere ‘sostenuto’ nel suo ministero, a maggior ragione il cristiano ‘semplice’…
Da queste lettere abbiamo estratto alcune frasi per dare un’idea di questa sua insistenza sulla necessità del lavoro.
« Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. » (At 20,34)
« Ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. » (1Cor 4,12)
« Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. » (Ef 4,28)
« Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. »(1Ts 2,9)
« Ma vi esortiamo, fratelli, …a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato, al fine di condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e di non aver bisogno di nessuno. » (1Ts 4,11.12)
« 7 …noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, 8 né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. 9 Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. 10 E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. 11 Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. 12 A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. 13 Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. » (2Ts 3,7-13)
« Sfòrzati di presentarti davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi,… » (2Tm 2,15)

3. La spiegazione
Come abbiamo visto da questi testi, l’apostolo Paolo ci tiene a far sapere alle sue comunità che egli non dipende da nessuno, ma che si sostiene con il lavoro delle sue mani:  » Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani » (At 20,34).
Dal libro degli Atti degli Apostoli sappiamo inoltre che il suo mestiere era quello di fabbricatore di tende. Anzi nel testo troviamo quest’altra notizia: a Corinto era stato ospitato in casa di Aquila e Priscilla e, « siccome faceva lo stesso mestiere, rimase con loro e li aiutava a fabbricare tende » (At 18,3). Erano, insomma, in sintonia l’uno con l’altro, nello stile dell’accoglienza reciproca e della condivisione, mettendo sulla stessa tavola il pane della cooperazione e il vino della solidarietà.
Fabbricatore di tende: un mestiere duro, che richiedeva abilità manuale. Non solo, bisognava maneggiare strumenti di lavoro pesanti. E le mani a sera erano così intorpidite che non riusciva neanche a scrivere. A quei tempi, poi, dato che di solito si scriveva sul papiro, mettere nero su bianco era così lento e faticoso che si impiegava un’ora per buttar giù 72 parole. E a quanto pare l’apostolo, non riuscendo per la stanchezza, dettava le sue lettere ai discepoli o agli amici e, alla fine, firmava di suo pugno, aggiungendo appena un saluto.
Quelle sue mani malferme, le dita stanche… secondo voi, poteva evitarseli certi fastidi, visto che già faceva molto per le sue comunità? Oppure faceva bene ad agire così, dato che quello era una specie di ingrediente educativo, indispensabile per poter dire con libertà e senza mezzi termini: « Chi non vuol lavorare, neppure mangi »?
In ogni caso, ciò che deve farci riflettere è che in diverse occasioni egli sottolinea l’aspetto lavorativo della sua vita e, pur avendo a disposizione alcuni fondi o contributi delle comunità, decide di farne a meno. Perché agisce così? Ce lo dice lui stesso: per non compromettere l’annuncio del vangelo, innanzi tutto (cfr. 1Ts 2,9); per essere d’esempio; perché è questo che dà decoro all’uomo, cioè dignità. Anzi, condivide il suo guadagno con i poveri, con la spontaneità del padre attento alle necessità dei figli e con la tenacia dell’uomo che ha fatto una scelta chiara di ben-essere e non di bene-stare, che vuol dire dare precedenza assoluta all’essere (dignità, solidarietà, sobrietà) e non all’avere (denaro, potere e piacere!).
Qual è allora il messaggio?
Semplice: « non mangiare gratuitamente il pane », ma vivere del lavoro delle proprie mani.
E per voi giovani vuol dire non dipendere dalla famiglia e cominciare a darsi da fare. Non continuare a chiedere a papà la paghetta settimanale né a far diventare lo studio una giustificazione perenne alla pigrizia.
In pratica, anche se state ancora sui libri, trovatevi, magari part-time (o d’estate, come fanno in molti), un lavoretto da fare per dare una mano a far quadrare i conti di casa. E se già lavorate, mettetevi nelle condizioni di poter fare del bene, condividendo ciò che guadagnate con chi non riesce ancora a spuntarla. Condividere è ciò che dà senso al vostro produrre. E non solo per una questione di solidarietà. Nella logica della condivisione, infatti, sia pur a lungo termine, si finisce per produrre di più e quindi guadagnare di più, perché si crea una forza-lavoro più numerosa, compatta, solidale, unita e quindi più capace di proporsi efficacemente.
Ecco il senso del cooperare, che continuamente rimbalza in queste nostre riflessioni. Certo, bisogna credere che la « perseveranza nella carità non è ingenuità »; pagare di persona, buttarsi con gratuità, sognare con semplicità. Ma bisogna anche riconoscere i propri limiti, preventivare con lucidità e…, alla fine, azzardare il rischio di vie nuove, custodendo sempre la convinzione che la provvidenza aiuta gli audaci e che tutto quanto abbiamo seminato, anche se con qualche lacrima, tutto raccoglieremo nella gioia .
Non mancherà la fatica. E la fatica esige costanza. San Paolo ce lo ricorda, con la saggezza di chi l’ha già sperimentato in prima persona. Ecco perché dice con forza persuasiva: « Non stancatevi di fare del bene ».
Questa espressione – « Non stancatevi » – deriva da un verbo che, nella lingua originale greca, descrive l’atteggiamento del lottatore che si trova in palestra o sul ring. Non riuscendo più a sostenere la violenza dell’avversario, si lascia andare, rinuncia alla lotta, si rassegna a perdere. Nel nostro contesto, « non stancatevi » è in un invito a non mollare dinanzi ad un lavoro duro, a non rassegnarsi ad una occupazione precaria, ma allo stesso tempo suona come un ammonimento tagliente, senza peli sulla lingua: non lasciarti prendere dall’avidità dell’avere, ma tieni aperta la porta alle esigenze degli altri, perché ognuno possa sentirti amico lungo il cammino, e tu possa sperimentare l’amicizia di chi, nella vita, si è fatto già strada.
Ascoltiamo Graziella, una giovane lavoratrice della cooperativa « Neilos » di Rossano (Cs). La sua esperienza è un esempio tipico di cooperazione, in cui il bene comune si sposa felicemente con quello individuale, e ognuno riesce a tirar fuori il meglio di sé, vincendo timidezze e paure.
« Insieme ai miei amici del gruppo parrocchiale abbiamo fatto una revisione di vita sulla nostra condizione di disoccupazione, è nata così l’idea di fare una cooperativa di servizi turistici per la nostra città.
Ci siamo preparati cercando di conoscere a fondo la storia della nostra città, ci siamo divisi i compiti e abbiamo iniziato le attività. Questo lavoro mi dà molte soddisfazioni. A volte non penso che il mio sia un lavoro, perché lo vivo così bene che non mi pesa. Le decisioni le prendiamo tutti insieme, mi sento sempre partecipe. A volte mi stupisco di me stessa; riesco a parlare davanti a tante persone quando faccio la guida turistica. E pensare che prima ero timida! Il lavoro sicuramente mi ha fatto crescere come persona. Mi sento realizzata. Sento che questa è la mia vocazione ».

4. È vero che…
 » Cosa si cerca di solito nel lavoro: guadagno, carriera, realizzazione personale, collaborazione…?
 » Quali sono per te gli aspetti più importanti del lavoro?
 » In che modo nel lavoro entrano in gioco i rapporti con gli altri? Come attraverso il lavoro possiamo costruire relazioni nuove con gli altri?
 » Attraverso l’esperienza di Paolo scopriamo che il lavoro non è una dimensione staccata dalla vita di fede. Che significato ha oggi la fede cristiana rispetto al lavoro ed ai problemi ad esso collegati (disoccupazione, giustizia, rispetto della dignità, costruzione di un mondo nuovo…)?

5. Impegni da prendere
Cerca, insieme con le persone che ti stanno accanto e che con te lavorano o come te cercano lavoro, spazi di dialogo, d’informazione e di formazione.
Dialogo: per entrare in sintonia l’uno con l’altro, accogliersi, acquisire insieme la capacità di analisi, imparare a programmare con responsabilità e verificarsi con schiettezza e ricerca sincera della verità.
Informazione: per diventare competenti in ciò che si fa, correggere il tiro se è il caso, e saper valorizzare opportunità e risorse.
Formazione: per dare un’anima a ciò che si fa e scoprire « le cose nuove per le quali il Signore ci chiama a operare in fedeltà » .

6. Preghiamo insieme
Signore, sono un giovane lavoratore; da quando ho 16 anni sono operaio in una piccola azienda. Ti ringrazio, perché per me il lavoro è una cosa molto importante, perché mi sento utile e posso aiutare la mia famiglia ad andare avanti.
Nel lavoro condivido la mia vita con altri lavoratori, e in loro ho la possibilità di incontrarti. Ti ringrazio, perché attraverso l’ascolto della tua Parola ho imparato a scorgere i segni del Regno nella fatica quotidiana dei miei compagni. Da quando ho cominciato a lavorare ho la fortuna, con un gruppo di giovani del mio quartiere, di confrontare la mia esperienza con la Tua Parola, Questo mi aiuta a vivere la mia fede nella realtà del mondo del lavoro, dove sento di poter partecipare alla costruzione del Tuo progetto di vita piena e gioiosa per l’uomo. In questi anni ho scoperto che non per tutti il lavoro è un’esperienza positiva. Spesso, sperimentiamo la solitudine, e molti di noi, lavorando in piccole aziende dove il sindacato non può entrare, vivono situazioni pesanti, ritmi massacranti, costretti a fare tante ore dl straordinario che lasciano pochissimo tempo al riposo, all’incontro con gli amici e allo stare in famiglia. Dove lavoro io, siamo a contatto con acidi e vernici, ma i controlli sulla salute e sugli impianti sono inesistenti. Non sempre siamo solidali tra noi, anche perché abbiamo paura di pagare di persona e dì rimetterci del nostro. Signore, aiutaci a non cedere davanti alle difficoltà; aiutaci a capire che il lavoro, come il sabato, deve essere a servizio dell’uomo; aiutaci a continuare a lottare, seguendo il tuo esempio, perché queste situazioni di sofferenza e di ingiustizia trovino sempre più dei militanti credenti che se ne facciano carico in un progetto di liberazione e di costruzione del Regno.

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 10 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI 15,1-35: LA CHIESA A CONCILIO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/9-Concilio_Gerusalemme.html

ATTI DEGLI APOSTOLI 15,1-35: LA CHIESA A CONCILIO

Quanto viene narrato nel capitolo 15 si trova intenzionalmente al centro degli Atti e costituisce un punto di svolta nel racconto lucano. Il Collegio apostolico e presbiterale di Gerusalemme riconosce ufficialmente l’evangelizzazione dei pagani iniziata da Pietro e portata avanti su ampia scala da Barnaba e Paolo. Essa porta la Chiesa alla rottura definitiva dalla sua matrice giudaica.
Ma come si è arrivati a queste decisioni? I cristiani d’origine pagana e quelli di origine ebraica sentivano che non avevano le stesse idee. Alcuni, come i giudeo-cristiani continuavano a considerare la Legge di Mosè e le loro tradizioni come mezzi necessari alla salvezza. Paolo invece insegnava che «in Gesù abbiamo la salvezza, cioè il perdono dei peccati, e quella giustizia che la Legge di Mosè non può dare ma che ora è possibile a chiunque crede in Gesù» (13,38). È il valore assoluto della Legge e delle tradizioni ebraiche che viene annullato; è l’identità ebraica che viene messa in discussione. Questo il grande contrasto tra chi crede in Gesù e gli Ebrei, un contrasto che è fortemente latente tra i cristiani di origine pagana e i giudeo-cristiani, anche se esteriormente sembra dibattersi su cose più secondarie. Si pensi a Pietro quando ritornò a Gerusalemme da Cesarea; la comunità gli rinfacciò: «Sei stato nella casa di persone incirconcise e hai mangiato con loro» (1l,3). Secondaria è pure la questione sollevata da quei «giudeo-cristiani che sono scesi da Gerusalemme ad Antiochia di Siria e che insegnavano ai fratelli: “Se non vi fate circoncidere secondo la Legge di Mosè non potete essere salvi”».
Ci si chiede: «È vero quanto ha detto Pietro di fronte al Sinedrio: “Non c’è altro nome in cielo e sulla terra nel quale possiamo essere salvi” o è vero quanto dicono gli ebrei cristiani: “Se non vi fate circoncidere non potete essere salvi”? Per essere cristiani e avere la salvezza in Cristo, è proprio necessario diventare prima Ebrei e accettare le tradizioni ebraiche? Il contrasto tra Paolo e Barnaba con quelli che erano discesi dalla Giudea fu assai duro. Però nessuno voleva una rottura nella Chiesa, perché sentivano l’unità della Chiesa come un bene da salvare a ogni costo, ma qual è la via per risolvere i loro contrasti? Risposta:
Andiamo a Gerusalemme! (15,1-3)
Le due parti in contrasto stabilirono che «Paolo e Barnaba e alcuni di loro (cioè i contrari a Paolo) andassero a Gerusalemme dagli Apostoli per discutere tale questione». La Chiesa Madre continua con gli Apostoli a svolgere il ruolo di guida di tutta la cristianità. Paolo in particolare sente il bisogno di un incontro con gli Apostoli. Egli non va a Gerusalemme solo come un inviato della Chiesa di Antiochia, ma anche in forza di una rivelazione. Ce la racconta lui stesso: «Dopo quattordici anni salii di nuovo a Gerusalemme insieme con Barnaba, vi andai però a motivo di una rivelazione ed esposi privatamente alle persone più autorevoli il Vangelo che io predicavo ai pagani per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano» (Gal 2,2). Paolo sapeva che il suo modo di predicare il Vangelo poteva sembrare una rottura nella Chiesa e sentiva personalmente il bisogno di un’approvazione ufficiale. Anche per Paolo l’unità della Chiesa era un bene massimo.

Eccoci a Gerusalemme (15,4-12)
«Giunti a Gerusalemme furono accolti dalla Chiesa, dagli Apostoli e dai presbiteri ed essi riferirono tutto ciò che Dio aveva fatto per mezzo loro» (v. 4). Ci sembra ovvio che abbiano anche raccontato di avere insegnato che la salvezza è solo in Gesù e non nella Legge di Mosè. Questo dato, taciuto qui da Luca, ci sembra che crei meglio il contrasto con quanto dicono quei cristiani che provengono dalla setta dei farisei: «È necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la Legge di Mosè»
(v. 5). L’opposizione è radicale. Qui c’è solo da stabilire quale posizione sia valida. La discussione dev’essere stata assai dura se Paolo nella lettera ai Galati dice: «Ad essi non cedemmo in nulla, neppure un istante, perché la verità del Vangelo continuasse salda tra di voi» (2,5).
Dopo lunga discussione ecco riapparire Pietro, nella pienezza del suo potere, il quale parla di “quello che Dio ha fatto per mezzo suo”. La stessa frase usata da Paolo e Barnaba, una frase che gli oppositori non possono usare perché ripiegati su un passato che oramai è giunto al suo compimento. La parola di Pietro è incisiva. Traduciamola letteralmente: «Fratelli, voi sapete che fin dai giorni antichi tra noi Dio ha scelto di far ascoltare per mezzo della mia bocca la parola del Vangelo ai pagani e di farli diventare credenti. E Dio che legge nei cuori ha reso testimonianza concedendo anche a loro lo Spirito Santo come a noi. E non ha fatto nessuna discriminazione tra loro e noi e “ha purificato i loro cuori con la fede”, sottinteso: senza la Legge di Mosè». E qui, rivolgendosi ai giudeo-cristiani morbosamente attaccati alla Legge e alle loro tradizioni, dice: «Perché tentate Dio imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo riusciti a portare?».
Sembra di sentire Gesù che dice ai farisei: «Legano pesi gravi e insopportabili e li accollano sulle spalle degli uomini, ma essi non li vogliono toccare neppure con un dito» (Mt 23,4). Bello se Pietro continuasse a dire: “Buttiamo via il passato e viviamo la libertà in Cristo”. Ma è troppo presto per dire questo e lo toccheremo subito con mano. In Paolo c’è questa voglia, ma forse anche lui non riesce ancora a formularla bene, un giorno però nella Lettera ai Filippesi lo dirà con parole chiare: «Ho ubbidito alla Legge di Mosè con lo scrupolo di un fariseo, fui zelante fino a perseguitare la Chiesa di Dio; mi consideravo giusto perché seguivo la Legge di Mosè in modo irreprensibile. Ma tutte queste cose che avevano per me un grande valore, ora che ho conosciuto Cristo, le vedo come iattura, le ritengo da buttar via» (3,5-7). Sentendo Pietro, Paolo accetta senz’altro la sua conclusione: «Noi crediamo che è per la grazia del Signore Gesù che siamo salvati, e allo stesso modo anche loro». Paolo ha capito di aver raggiunto lo scopo per cui era andato a Gerusalemme. Ma anche tutti i presenti si sentirono in sintonia con Pietro e «stettero ad ascoltare Paolo e Barnaba che raccontavano quanti segni e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro». L’autore di ogni cosa continua ad essere Dio.

La Parola a Giacomo (15,13-21)
La fede di tutti è ora chiara, ma la messa in pratica non è facile. È assai difficile per i giudeo-cristiani buttar via in un giorno le tradizioni in cui sono stati educati sin dall’infanzia; e di questo debbono tener conto i cristiani di origine pagana. Si pensi a quale conversione è stato chiamato Pietro nella visione di Ioppe. Lui, che aveva udito gli insegnamenti di Gesù che rendeva puro ogni cibo (Mc 7,19) e che diceva ai farisei: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate le tradizioni degli uomini» (Mc 7,8). Ebbene, Giacomo, che sente profondamente e anche personalmente queste stesse difficoltà che vengono da una lunga educazione, cerca un punto di equilibrio.
Innanzitutto, come tutti gli altri, approva pienamente quanto ha detto Pietro, dicendo: «Da molto tempo Dio si è scelto tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome», una frase già usata nell’A.T. per indicare che Israele, il popolo di Dio, era stato scelto tra i pagani (Dt 14,2). Il senso è chiaro: ora il popolo di Dio è formato da coloro che nella fede hanno accolto Gesù, e tra costoro, anche se il testo non lo dice, ci sono pure quei giudeo-cristiani che sono stati scelti per grazia (Rm 11,15). Giacomo, con fine intuito, commenta questa scelta dei pagani come compimento della profezia di Amos 9,11-14. In essa si parla della ricostruzione della casa di Davide totalmente distrutta e che Dio ora, in Cristo discendente di Davide, ha ricostruito «perché il resto degli uomini cerchino il Signore e anche tutte le genti su cui è stato invocato il mio nome». È chiaro che qui il nuovo popolo di Dio appare come continuazione dell’antico e nasce perché parte della ricostruita casa o famiglia di Davide.
Dopo questo, Giacomo, rispondendo ai giudeo-cristiani dice «che non si debbono importunare quelli che tra i pagani si convertono a Dio», quindi parlando a questi convertiti dal paganesimo dice di «astenersi dalle carni sacrificate agli idoli e da quelle di animali soffocati, dal mangiare sangue e dall’immoralità». Queste disposizioni si fondano su una precisa costatazione. Come Pietro a Cesarea è entrato nella casa di un incirconciso e ha mangiato con lui, così ad Antiochia i cristiani tante volte si riuniscono per un pasto comune o per l’Eucaristia, che allora si celebrava durante una comune cena. In questo caso è bene che la libertà ottenuta in Cristo sia vissuta nella carità, tenendo conto che i giudeo-cristiani sin da piccoli sono stati educati a sentire ripugnanza per i cibi indicati come impuri e che, anche se vogliono, non è loro facile superare in poco tempo questa difficoltà. Si parla anche di evitare “l’immoralità”, traduzione di un termine che può essere reso anche diversamente, ma che sempre indica qualcosa che tutti debbono evitare.

Il decreto conciliare (15,22-29)
La narrazione di Luca è molto lineare: all’inizio (15,4) si è detto che la Chiesa di Gerusalemme, gli apostoli e i presbiteri hanno accolto gli inviati dalla Chiesa di Antiochia. Ora, dopo aver vagliato a lungo la loro problematica e aver preso posizione con gli interventi di Pietro e Giacomo, «gli apostoli e i presbiteri insieme a tutta la comunità decidono di eleggere alcuni di loro e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba. Furono eletti Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli. A loro diedero una lettera» che inizia sullo stile di ogni lettera antica: «Gli Apostoli e i presbiteri, vostri fratelli, ai fratelli di origine pagana di Antiochia, di Siria e della Cilicia, salute!». Chiamano “fratelli” i cristiani di origine pagana perché oramai li sentono parte viva del popolo di Dio. E poi affrontano il motivo di ciò che è avvenuto e condannano coloro che, senza alcun mandato, sono scesi dalla Giudea ad Antiochia e hanno turbato la vita dei fratelli sostenendo che la circoncisione è necessaria per la salvezza. Quindi dicono: «abbiamo pensato bene di inviarvi alcune persone insieme a Paolo e Barnaba uomini che hanno votato la loro vita al nome del Signore nostro Gesù Cristo». Non è una semplice lode, ma un riconoscimento ufficiale della loro missione e del contenuto del loro annuncio che Pietro ha bene evidenziato quando ha detto: «Noi crediamo che è per la grazia del Signore Gesù che siamo salvati» (15,11). La lettera continua così: «Vi mandiamo dunque Barsabba e Sila che vi riferiranno anche a voce quanto abbiamo deciso».
L’inizio del decreto: «Allo Spirito Santo e a noi» è straordinario. Esso continua a farci toccare con mano come i credenti siano convinti e – direi – vivano l’esperienza dello Spirito Santo nella vita della Chiesa. Ripetiamo: «Allo Spirito Santo e a noi è parso bene di non imporvi alcun altro obbligo al di fuori di ciò che è strettamente necessario: astenersi dalle carni sacrificate agli idoli, dalle carni di animali soffocati, dal mangiare sangue e dall’immoralità».
Il decreto ha destinatari ben precisi: i cristiani di origine pagana di Antiochia di Siria e quelli delle province della Siria e della Cilicia. Essi formano fin dall’inizio delle comunità miste che hanno sempre saputo camminare insieme come ha fatto per alcuni giorni Pietro a Cesarea, poi contestato dalla comunità di Gerusalemme (11,1). Non sappiamo con certezza quando ciò sia avvenuto, ma ad Antiochia a Pietro successe anche il contrario. La lettera ai Galati (2,11-14) afferma che «Cefa prima che giungessero alcuni del partito di Giacomo mangiava con i cristiani di origine pagana, ma dopo la loro venuta cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte per timore dei circoncisi e così fecero anche gli altri credenti di origine ebraica, compreso Barnaba. Paolo affrontò Pietro e gli disse: “Se tu che sei ebreo vivi come i non ebrei, come puoi costringere i pagani a vivere da ebrei”».
Forse questo è il contesto giusto per capire il decreto conciliare. Esso non vuole obbligare i cristiani di origine pagana a diventare ebrei e neppure affermare che l’osservanza delle quattro norme sia necessaria alla salvezza. Il decreto si limita a dire: «Farete bene a osservare queste cose» (15,29). In tal modo inculca una distinzione cruciale che i cristiani di ogni epoca debbono ricordare: ci sono delle esigenze della vita cristiana che sono essenziali e alcune, come queste quattro, che pur non essendo essenziali possono contribuire a conservare l’armonia e la pace e a vivere una vera comunione di vita. E che queste norme non siano mai state veramente essenziali appare dai manoscritti antichi. Nei più recenti, quelle norme hanno assunto una natura etico morale e sono state espresse con i termini: idolatria, adulterio, omicidio, norme che hanno un valore perenne. Nel codice occidentale poi sono state interpretate alla luce della “regola aurea”: non fare agli altri quanto non si vuole fatto a noi. Lo scopo del decreto conciliare è proprio questo: vivere la libertà che si ha in Cristo nella carità.

Di nuovo ad Antiochia (15,30-35)
Quando gli inviati dalla Chiesa di Gerusalemme giunsero ad Antiochia consegnarono la lettera e appena l’ebbero letta, “tutti si rallegrarono per l’incoraggiamento che infondeva”. Bastano queste parole per capire che il decreto conciliare lancia la chiesa cristiana sull’autonomia dalla sua matrice giudaica: la Legge di Mosè e le tradizioni ebraiche non sono necessarie per essere cristiani e per salvarsi. Allo stesso tempo capirono che la libertà che essi hanno in Cristo esige un atteggiamento di vera carità e di comunione fraterna.
Barsabba e Sila vissero questi momenti di gioia e di grazia; incoraggiarono i fedeli e li esortavano a rendere in loro salda la fede. Poi tornarono a Gerusalemme, mentre Paolo e Barnaba continuarono ad Antiochia a insegnare e annunziare insieme a molti altri la Parola del Signore.

Preghiamo
O Signore, dopo aver percorso questa lunga pagina degli Atti, sgorga dal cuore una sola preghiera:
Fa’, o Signore, che i cristiani di oggi sentano la bellezza dell’unità della tua Chiesa e sappiano costruirla con un serio confronto delle loro differenza dando importanza al molto che hanno in comune e che non può essere oscurato da ciò che divide. Il cammino non è certo facile, ma quando si sceglie di vivere la libertà che abbiamo in Cristo nella carità, allora tutto si appiana e ognuno capisce che per ottenere l’unità bisogna un po’ morire a se stessi e non essere morbosamente attaccati all’identità della propria chiesa.
È l’unità che conta e questa si ottiene solo se ogni comunità cristiana sa davvero convertirsi a Gesù, come ha detto Papa Luciani. O Signore fa’ che queste verità entrino profondamente nel cuore di ogni cristiano, perché solo se saranno “una sola cosa”, come tu hai detto, il mondo crederà che il Padre ti ha mandato. Amen!

Mario Galizzi

Publié dans:LETTURE DAGLI ATTI DEGLI APOSTOLI |on 10 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

CADERE DALLA FINESTRA DEL TERZO PIANO – EUTICO – (ATTI 20, 7-12)

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CADERE DALLA FINESTRA DEL TERZO PIANO – EUTICO – (ATTI 20, 7-12)

Fra i vari personaggi biblici “nascosti”, sia dell’Antico Testamento che del Nuovo Testamento, vi è un giovane di nome Eutico. Di lui non sappiamo nulla. La Scrittura non c’informa quando si era convertito, da quanto tempo frequentava la Chiesa, come e attraverso chi aveva ascoltato il messaggio della salvezza. Nondimeno, i pochi versetti che parlano di lui e della sua triste esperienza, ci aiutano a fare delle importanti considerazioni per la nostra vita spirituale Atti 20:7-12 “Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Nella sala di sopra, dov’eravamo riuniti, c’erano molte lampade; un giovane di nome Eutico, che stava seduto sul davanzale della finestra, fu colto da un sonno profondo, poiché Paolo tirava in lungo il suo dire; egli, sopraffatto dal sonno, precipitò giù dal terzo piano, e venne raccolto morto. Ma Paolo scese, si gettò su di lui, e, abbracciatolo, disse: «Non vi turbate, perché è ancora in vita». Poi risalì, spezzò il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato lungamente sino all’alba, partì. Il giovane fu ricondotto vivo, ed essi ne furono oltremodo consolati”.
Alla luce di quanto letto, si potrebbe affermare che Eutico, rischiò di morire per colpa dell’apostolo Paolo, particolarmente logorroico. Qualcuno potrebbe pensare che l’apostolo Paolo quando predicava, somigliava a quei « predicatori » che oltre che dimenticare l’orologio, avrebbero bisogno del calendario; somigliava a quei predicatori che non considerano l’uditorio e le sue reazioni, ma vanno avanti per la loro strada, facendo violenza alle elementari regole di omiletica. Non credo, però, che Paolo e gli altri quella notte la pensassero allo stesso modo, infatti, risulta che non aspettarono che Eutico si riavesse completamente, per riprendere il loro ragionamento, anzi lo prolungarono fino all’alba; altro che preoccuparsi di essere prolissi Atti 20:11-12 “Poi risalì, spezzò il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato lungamente sino all’alba, partì. Il giovane fu ricondotto vivo, ed essi ne furono oltremodo consolati”.
Un’altra importante considerazione, è che quella di Paolo non era una predicazione ma piuttosto uno studio biblico perché è scritto che “ragionava con loro”, quasi ad indicare una serie di domande e risposte e per esperienza possiamo dire che molto spesso i nostri incontri sono più lunghi se trattasi di uno studio biblico piuttosto che di una predicazione.
Dobbiamo, allora, cercare altrove le cause che portarono al sonno quel povero ragazzo. Per farlo è necessario meditare più profondamente sul testo biblico, scopriremmo che l’esperienza di Eutico non è molto diversa da quella che possiamo fare noi.

IL SONNO E LA TENTAZIONE.
Si sa che dormire è un’esigenza per noi tutti. Tuttavia, il rischio di addormentarsi spiritualmente risulta essere grave, come questa storia biblica ci dimostra. Infatti, la presenza di Paolo, avrebbe dovuto creare in questo giovane, un ardente desiderio di ascoltare dalla bocca dell’apostolo delle genti, il messaggio dell’Evangelo, invece egli si addormenta.
A causa del sonno, da una condizione di felicità (Eutico significa felice), potremmo passare ad un’altra disperatamente triste e se per Eutico il problema fu il sonno fisico, per noi potrebbe essere quello spirituale. In questo caso il rischio non é quello di cadere dal terzo piano, ma di cadere nella tentazione Matteo 26:38-41 “Allora disse loro: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate con me». E, andato un po’ più avanti, si gettò con la faccia a terra, pregando, e dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Ma pure, non come voglio io, ma come tu vuoi». Poi tornò dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me un’ora sola? Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
La tentazione cerca di cogliere il credente sempre, ma sicuramente si fa incisiva quando ci addormentiamo spiritualmente 1Pietro 5:8-11 “Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, gira come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo. Or il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente. A lui sia la potenza, nei secoli dei secoli. Amen”.
Non deve sorprenderci se a volte vediamo credenti consacrati “cadere dalla finestra”. A volte ci meravigliamo come questo possa accadere ma dimentichiamo che la Scrittura ci presenta molti casi simili. Sicuramente spicca l’esperienza di Sansone che continuamente si addormentava sulle ginocchia di Dalila. Il sono spirituale, oltre che quello fisico lo condussero alla rovina completa Giudici 16:19-21 “Lei lo fece addormentare sulle sue ginocchia, chiamò un uomo e gli fece tagliare le sette trecce della testa di Sansone; così giunse a domarlo; e la sua forza lo lasciò. Allora lei gli disse: «Sansone, i Filistei ti sono addosso!» Egli, svegliatosi dal sonno, disse: «Io ne uscirò come le altre volte, e mi libererò». Ma non sapeva che il SIGNORE si era ritirato da lui. I Filistei lo presero e gli cavarono gli occhi; lo fecero scendere a Gaza e lo legarono con catene di bronzo. Ed egli girava la macina nella prigione”.
Quando uno dorme, potrebbe essere facilmente immobilizzato, potrebbe facilmente “cadere dal terzo piano”. Per questo vi è un invito continuo a rimanere sobri, a vegliare del continuo Giosuè 23:11 “Vegliate dunque attentamente su voi stessi, per amare il SIGNORE, il vostro Dio”.

IL SONNO E LA SUPERFICIALITA’.
Non era frequente che Paolo si fermasse per lungo tempo in quella zona, inoltre, sarebbe ripartito di lì a poco. Così tutti, presi dal ragionamento e interessati a quello che si stava dicendo, non si accorsero che il tempo era passato. Tutti tranne uno: Eutico. All’inizio, probabilmente, anche Eutico avrà seguito il discorso ma per la sua superficialità, si addormentò. A Troas, quella notte, certamente il Signore stava benedicendo, ma Eutico non stava realizzando nulla. Il sonno spirituale conduce le persone a diventare superficiali, a tollerare il peccato. Abbiamo tanti esempi biblici di persone ed anche di Chiese ormai divenute superficiali Apocalisse 3:14-18 «All’angelo della chiesa di Laodicea scrivi: Queste cose dice l’Amen, il testimone fedele e veritiero, il principio della creazione di Dio: Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente io ti vomiterò dalla mia bocca. Tu dici: « Sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente! » Tu non sai, invece, che sei infelice fra tutti, miserabile, povero, cieco e nudo. Perciò io ti consiglio di comperare da me dell’oro purificato dal fuoco, per arricchirti; e delle vesti bianche per vestirti e perché non appaia la vergogna della tua nudità; e del collirio per ungerti gli occhi e vedere”.
La tiepidezza, è smarrire l’intensità delle esperienze fatte con il Signore Apocalisse 2:4-5 “Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi”.
Ecco dove conduce il sonno, a divenire superficiali ed a credere che in fondo questa superficialità alla fine ripaga, ma non è così, perché il Dio della Bibbia, il nostro Dio non è mai tollerante. La verità è che la superficialità porta alla morte e colui che è approssimativo, prima o poi “cadrà dal terzo piano” Ecclesiaste 10:8 “Chi scava una fossa vi cadrà dentro, e chi demolisce un muro sarà morso dalla serpe”.
Dio ci liberi dalla sindrome di Peter Pan, il bambino che non voleva crescere perché desiderava restare in quel mondo di fantasia e spensieratezza e ci aiuti a passare dalla fase di pubertà alla maturità, dal latte al cibo sodo Ebrei 5:12-14 “Infatti, dopo tanto tempo dovreste già essere maestri; invece avete di nuovo bisogno che vi siano insegnati i primi elementi degli oracoli di Dio; siete giunti al punto che avete bisogno di latte e non di cibo solido. Ora, chiunque usa il latte non ha esperienza della parola di giustizia, perché è bambino; ma il cibo solido è per gli adulti; per quelli, cioè, che per via dell’uso hanno le facoltà esercitate a discernere il bene e il male”.

IL SONNO E LA PIGRIZIA.
Abbiamo letto che Eutico scelse di sedersi sul davanzale della finestra. Perché scelse questa strana “sedia?” Scopriamolo insieme Atti 20:8 “Nella sala di sopra, dov’eravamo riuniti, c’erano molte lampade”.
Ciò significa che c’era molto calore. Certamente non doveva essere molto comodo sedersi insieme agli altri, mentre sedersi sul davanzale della finestra sarebbe stata la soluzione più conveniente. Tutti sanno, però, che le posizioni comode, purtroppo, facilitano il sonno. Per alcuni è molto più comodo godere della luce, della meravigliosa presenza di Dio, ascoltare la Sua Parola, ma non essere troppo coinvolti, non stare in mezzo. Significherebbe, sicuramente, dover affrontare qualche sacrificio, spendere qualche goccia di sudore. Sono molte, infatti, le attività di una comunità e quasi tutte richiedono del tempo e qualche volta del danaro, cose che, spesse volte, devono essere tolte alle nostre attività e questo non è molto comodo. Probabilmente, molti in quella sala, non si trovavano a loro agio, ma questo per loro non era importante, perché erano così presi dal discorso che non si accorsero del caldo. Lo stesso vale anche per noi, se siamo così presi nel servire il Signore, nel conoscere la Sua volontà, non faremo caso né ai sacrifici, né ai difetti dei fratelli. Dobbiamo, inoltre, ricordare che se la presenza di Dio e la Sua Parola da un lato sono fonti di benedizione, dall’altro ci richiamano alla consacrazione e al servizio. Non è possibile, quindi, pensare di poter godere della luce delle lampade e nello stesso tempo evitarne il calore. Dio ci aiuti a impegnarci nell’opera Sua e a non isolarci ma ad essere coinvolti, facendo nostro il principio biblico Ecclesiaste 9:10 “Tutto quello che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze”.
Altrimenti il rischio è la pigrizia. Taluni, sono amanti del letto. Dormono ore ed ore. La loro vita è il letto. Eutico, è il solo che si è disposto su quel davanzale “per stare comodo”. Quanti credenti vogliono stare “comodi” in Chiesa. Lla loro pigrizia è così tanta che si stancano persino a venire ai culti con la Bibbia e fanno finta di leggere sulla Bibbia degli altri oppure sbarrano i loro occhi facendo credere che sono più attenti loro degli altri, ma quando si « risiedono sul loro davanzale », subito si riaddormentano. La pigrizia fa da padrona nella loro vita e la pigrizia conduce alla povertà Proverbi 6:6-11 “Va’, pigro, alla formica; considera il suo fare e diventa saggio! Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone; prepara il suo nutrimento nell’estate e immagazzina il suo cibo al tempo della mietitura. Fino a quando, o pigro, te ne starai coricato? Quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare…La tua povertà verrà come un ladro, la tua miseria, come un uomo armato”.
Il capitolo 26 dei Proverbi, descrive ulteriormente le caratteristiche del pigro Proverbi 26:14-16 “Il pigro dice: «C’è un leone nella strada, c’è un leone per le vie!» Come la porta si volge sui cardini, così il pigro sul suo letto. Il pigro tuffa la mano nel piatto; e gli sembra fatica riportarla alla bocca. Il pigro si crede più saggio di sette uomini che danno risposte sensate”.
Citiamo spesso l’esempio delle cinque vergine stolte, che non avevano portato l’olio di scorta. Io credo che una delle ragioni è da ricercare proprio nella loro pigrizia e il sonno li portò lontano da Dio Matteo 25:1-13 «Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono a incontrare lo sposo. Cinque di loro erano stolte e cinque avvedute; le stolte, nel prendere le loro lampade, non avevano preso con sé dell’olio; mentre le avvedute, insieme con le loro lampade, avevano preso dell’olio nei vasi. Siccome lo sposo tardava, tutte divennero assonnate e si addormentarono. Verso mezzanotte si levò un grido: « Ecco lo sposo, uscitegli incontro!” Allora tutte quelle vergini si svegliarono e prepararono le loro lampade. E le stolte dissero alle avvedute: « Dateci del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Ma le avvedute risposero: « No, perché non basterebbe per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene!” Ma, mentre quelle andavano a comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entrarono con lui nella sala delle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi vennero anche le altre vergini, dicendo: « Signore, Signore, aprici!” Ma egli rispose: « Io vi dico in verità: Non vi conosco” Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”.
Questa parabola termina con un invito preciso: “Vegliate!”

IL SONNO E LA REALTÀ.
Chi dorme ha perso i contatti con la realtà. Si racconta di un uomo che dopo molti anni, si risvegliò dal coma nel quale era entrato a causa di un brutto incidente stradale. Quando tornò a casa, scoprì che tante cose erano cambiate, finanche la sua abitazione aveva subito radicali modifiche. Quando uno dorme perde i contatti con la realtà. Nelle cronache quotidiane, a volte leggiamo di ladri che hanno derubato appartamenti mentre i proprietari dormivano o viaggiatori che sono stati derubati nelle cuccette dei treni. A volte, credenti addormentati pensano di essere quello che in realtà non sono. Eutico era membro di Chiesa, prendeva parte ai culti, quella sera era presente ad una delle più importanti riunioni della sua chiesa, ma si mise comodamente seduto sul davanzale della finestra del terzo piano da dove poi cadde. Il sonno ci fa perdere contatto con le realtà spirituali Isaia 29:8 “Come un affamato sogna ed ecco che mangia, poi si sveglia e ha lo stomaco vuoto; come uno che ha sete sogna che beve, poi si sveglia ed eccolo stanco e assetato, così avverrà della folla di tutte le nazioni”.
Quando il sonno prende il posto della realtà diventiamo poco realistici. Abbiamo precedentemente citato Sansone. Anche lui si “addormentò, e quando si svegliò e si ritrovò con i capelli tagliati e legato da funi, pensò che si sarebbe liberato come tutte le altre volte ma questo non avvenne perché lo Spirito di Dio si era allontanato da lui. Così accade a chi si è addormentato spiritualmente. Crede di avere la stessa forza, la stessa comunione con Dio e poi si accorge che non é così. Il nemico, approfitta del sonno Matteo 13:25-28. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e seminò le zizzanie in mezzo al grano e se ne andò. Quando l’erba germogliò ed ebbe fatto frutto, allora apparvero anche le zizzanie. E i servi del padrone di casa vennero a dirgli: « Signore, non avevi seminato buon seme nel tuo campo? Come mai, dunque, c’è della zizzania?” Egli disse loro: “Un nemico ha fatto questo”.

IL SONNO E LA MORTE.
Quel posto alla finestra, gli permetteva di restare nella sala e contemporaneamente lanciare, ogni tanto, uno sguardo fuori e vedere che cosa accadeva. Il tempo, però, passava e quando ormai era sceso il buio, non avendo più nessun interesse, fu vinto dal sonno e morì.
Questa triste esperienza ne ricorda un’altra molto simile Genesi 34:1-2 “Dina, la figlia che Lea aveva partorita a Giacobbe, uscì per vedere le ragazze del paese. Sichem, figlio di Camor l’Ivveo, principe del paese, la vide, la rapì e si unì a lei violentandola”.
La stessa posizione di Eutico, è assunta da alcuni credenti; posizione non chiara, ambigua, che lascia spazio a perplessità e dubbi sulla loro effettiva esperienza cristiana. Il voler avere la possibilità di guardare contemporaneamente dentro e fuori, essere sì di Dio, ma allo stesso tempo non essere veramente separati dal mondo, li porta ad assumere una posizione molto pericolosa e più indugiano in essa più la loro anima è in pericolo di morte. Dobbiamo ricordare che la nostra natura tende verso il mondo ed ad allontanarsi dalla presenza di Dio. Se ne sottovalutiamo la pericolosità, anzi l’alimentiamo con pensieri, desideri e comportamenti mondani, potremmo ritrovarci nella condizione di non avere nemmeno la forza di elevare il nostro pensiero a Dio. Eutico cadde dal terzo piano e morì Atti 20:7-9 “Il primo giorno della settimana, mentre eravamo riuniti per spezzare il pane, Paolo, dovendo partire il giorno seguente, parlava ai discepoli, e prolungò il discorso fino a mezzanotte. Nella sala di sopra, dov’eravamo riuniti, c’erano molte lampade; un giovane di nome Eutico, che stava seduto sul davanzale della finestra, fu colto da un sonno profondo, poiché Paolo tirava in lungo il suo dire; egli, sopraffatto dal sonno, precipitò giù dal terzo piano, e venne raccolto morto”.
Eutico, fu raccolto morto. Il sonno porta alla morte spirituale. Dio ci chiama stasera a non addormentarci spiritualmente parlando, perché esso è pericoloso. Nessuno dica che questo problema non riguarda la sua vita perché tutti noi siamo passati attraverso quest’esperienza 1Corinzi 10:12 “Perciò, chi pensa di stare in piedi, guardi di non cadere”.
Facciamoci disciplinare dalla Parla di Dio 1Corinzi 9:24-27 “Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio, corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo. Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa; e quelli lo fanno per ricevere una corona corruttibile; ma noi, per una incorruttibile. Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato”.

IL RISVEGLIO DI EUTICO.
La sua morte fu constatata da tutti i credenti, quando raggiunsero il suo corpo, ma Dio nella sua grande benignità, com’era avvenuto durante il ministerio di Elia, di Eliseo e dello stesso Gesù, lo risorse Atti 7:10-12 “Ma Paolo scese, si gettò su di lui, e, abbracciatolo, disse: «Non vi turbate, perché è ancora in vita». Poi risalì, spezzò il pane e prese cibo; e dopo aver ragionato lungamente sino all’alba, partì. Il giovane fu ricondotto vivo, ed essi ne furono oltremodo consolati”.
Dio desidera che nessuno di noi si addormenti e inoltre vuole che chi si è addormentato si risvegli Efesini 5:14 “Per questo è detto: «Risvégliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti inonderà di luce».
È bello l’accostamento che l’apostolo Paolo fa fra il capitolo della Genesi che parla della creazione della luce e la luce di Dio nei nostri cuori. Come la luce risveglia colui che dorme, così Dio vuole che ci risvegliamo mediante la Sua meravigliosa luce. Il Risveglio è come un terremoto che cambia la fisionomia di un paese. Il terremoto abbatte gli edifici deboli ma lascia in piedi quelli che hanno un buon fondamento. Dio non vuole rattoppare le cose ma le vuole fare interamente nuove

CONCLUSIONE.
La nostra preghiera al Signore è che mai, nel nostro cammino cristiano, possiamo fare l’esperienza di Eutico. Perciò desideriamo, innanzitutto, crescere nella fede, essere sempre impegnati nel servizio e coerenti con la chiamata che Dio ci ha rivolto. Se ci siamo addormentati, svegliamoci e torniamo al nostro primo amore Apocalisse 2:4,5 “Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi”.

DISCORSO DI S. PAOLO ALL’AREOPAGO:

http://www.rivistazetesis.it/Sordi_SanPaolo.htm

DISCORSO DI S. PAOLO ALL’AREOPAGO:

PRIMO DOCUMENTO DELL’INCONTRO TRA MONDO GRECO E ANNUNCIO CRISTIANO.

Marta Sordi

Il primo incontro tra mondo greco e cristiani ci è documentato dal cap. 17 degli Atti degli Apostoli: da una parte ci sono filosofi stoici ed epicurei, i dotti del tempo che, sentendo San Paolo discutere ogni giorno sulla piazza con. quelli che incontrava, si chiedono: « Cosa vuoi dire questo spe?µat?????? (ciarlatano)? ». E lo condussero all’Areopago.
Dall’altra parte c’è San Paolo che, originario di Tarso, luogo di incontro tra cultura greca e mondo ebraico, doveva ben conoscere il poeta e filosofo stoico Arato che cita nel rispondere al dotto pubblico ateniese. Di questo poeta, tipico rappresentante della cultura ellenistica, Paolo assume il linguaggio, le categorie, i concetti, ma caricando ogni sua parola di una valenza nuova ed estranea a Stoici ed Epicurei, della novità portata dal fatto di Cristo.
Il pubblico ateniese lo segue senza interromperlo finché San Paolo parla di Resurrezione. A questo punto alcuni ridono, altri si allontanano, altri gli dicono :  » Di questo ti ascolteremo un’altra volta ». Pochissimi si unirono a lui e Paolo lasciò Atene per dirigersi a Corinto.

Paolo di Tarso
San Paolo originario di Tarso doveva ben conoscere quel poeta e filosofo stoico o stoicizzante Arato di Soli che cita nella prima parte del suo discorso. A Tarso, infatti, lo stoicismo ebbe seguaci e maestri, e Tarso, come ha rnesso in evidenza lo Scarpat [1], fu un sicuro punto di contatto tra cultura greca e mondo ebraico.
La prima parte del discorso di Paolo, che prende spunto da una iscrizione al « Dio ignoto » da lui vista nelle vie di Atene, è una lettura in chiave giudaico-cristiara dei primi 19 versi (il cosiddetto Inno a Zeus) dei Phaenomena di Arato. E Paolo in effetti deriva da Arato non solo la citazione esplicita (Atti 17,28) del v. 5, ma anche l’immagine del Dìo provvidente che fissa agli uomini i tempi prestabiliti. In Arato – v. 10 sgg. – si tratta degli astri e dei segni nel cielo che distinguono il corso dell ‘ anno e delle stagioni.

Paolo davanti all’Areopago
Il viaggio di Paolo ad Atene è collocabile verso la fine del 49 e gli inizi del 50: esso precede infatti il soggiorno a Corinto che inizia appunto ai primi del 50 [2] e termina nell’estate del 51 poco dopo l’arrivo del nuovo proconsole Gallione [3].
Al tempo di Paolo, nel I sec. d.C., Atene era ormai soltanto una fiorente città turistica e universitaria: già alla fine del IV sec. a.C., decaduta dalla sua antica potenza militare e politica, Atene aveva assunto un atteggiamento filoromano, e fin dal tempo delle guerre macedoniche e dopo l’annessione della Grecia alla provincia di Macedonia nel 146, era rimasta civitas libera et foederata. Sotto il controllo romano aveva ottenuto prosperità e privilegi e ricambiato i romani con una costante fedeltà. Solo nell’88 a.C., al tempo dell’invasione della Grecia da parte di Mitridate, Atene aveva defezionato; riconquistata da Silla era stata perdonata in nome dei suoi antenati [4] e aveva ottenuto nuovamente quella libertà e quell’autonomia che secondo Stradone conservava ancora all’epoca di Augusto.
In realtà sembra che l’intervento di Silla abbia corretto in senso oligarchico la costituzione ateniese, alimentando in modo particolare i poteri della Bulé [5] e dell’Areopago [6].
Quest’ultimo appare in effetti nelle iscrizioni e nelle fonti letterarie del I sec. a.C. il consiglio per eccellenza dello stato ateniese: oltre ai poteri giudiziari che esercita ancora per lo meno nel 17 d.C. [7], l’Areopago onora gli stranieri e sorveglia i costumi. Una particolare sorveglianza l’Areopago sembra aver esercitato sugli insegnamenti riservati alla gioventù. Sono queste competenze dell’Areopago che spiegano la decisione degli ascoltatori di Paolo di condurlo davanti all’Areopago [8] per dar ragione della nuova dottrina da lui insegnata. E’ dunque possibile che il discorso di Paolo sia stato tenuto veramente in mezzo all’Areopago e che non si tratti di una finzione letteraria, come alcuni credono, anche se il discorso non sembra comportare una seduta formale del consiglio areopagitico: la presenza di una donna tra gli ascoltatori di Paolo – Damaride – rivela infatti il carattere informale dell’assemblea.

Rapporti tra Paolo e gli Stoici di Roma
Il dialogo di Paolo con gli Stoici, interrotto bruscamente ad Atene, sembra essere stato ripreso a Roma dove lo stoicismo era la filosofia dominante. Esso era presente come dottrina morale e politica più che come spiegazione teoretica della realtà, e appariva perciò connaturale alla mentalità vetero-romana della classe dirigente.
Un clima di rapporti e dialogo tra stoici romani e cristiani è attestato da una serie di fatti:
- dalla stima che il martire Giustino (II sec.) mostra per il filosofo stoico Musonio Rufo vissuto il secolo precedente e da lui chiamato martire inconsapevole di Cristo, e dal giudizio di Tertulliano su Seneca, che chiama saepe noster.
- dalla concordanza che lo stesso Giustino rileva a più riprese nelle sue apologie tra morale stoica e morale cristiana Giustino rileva a più riprese nelle sue apologie tra morale stoica e morale cristiana.
- dall’accordo esistente tra la concezione politica degli Stoici e in particolare il loro concetto di libertas e 1′atteggiamento dei Cristiani verso lo Stato così come ci è rivelato dalla I lettera di Pietro e dalla lettera ai Romani di San Paolo.
- dalla quasi coincidenza negli stessi anni della persecuzione contro i Cristiani e contro gli Stoici sotto Nerone e Domiziano. In questi anni infatti Cristiani e Sroici caddero vittime dell’incomprensione e dell’impopolarità delle folle.
Ma alcuni elementi in particolare permettono di dare fondamento alla tradizione di un’amicizia tra il filosofo stoico Seneca e Paolo, che trova la sua esplicitazione nell’epistolario a loro attribuito:
- Seneca era fratello di Gallione, con cui Paolo aveva avuto rapporti a Corinto, ed era amico di Burro, prefetto del pretorio al tempo della prima prigionia romana di Paolo. Lo stesso Burro fu responsabile del trattamento liberale riservato a Paolo (gli Atti insistono sulla parresia, la libertà di parola con cui Paolo poté durante questa prigionia predicare il Vangelo) e con ogni probabilità responsabile della sua assoluzione.
– Lo Scarpat [9] osserva che l’uso del termine caro (“carne”) in Seneca è affine a quello paolino di s??? (“carne”) e di probabile influenza giudeo-ellenistica. Un’ulteriore conferma si ha in un altro stoico romano contemporaneo di Paolo, il poeta Persio, che ricorda con lo stesso significato paolino di “carne” la pulpa scelerata che impedisce agli uomini una retta e pura pratica religiosa, e sembra anche in altri passi riecheggiare concetti della predicazione cristiana.
Possiamo quindi concludere che Paolo ebbe contatti con lo stoicismo romano e quasi certamente conobbe Seneca.

[1] G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca, Brescia 1977, p.74
[2] Subito dopo l’espulsione degli Ebrei da Roma nel 49: Suet. Claud. 25
[3] Il governo di Gallione in Acaia durò dall’estate del 51 al 52.
[4] App. Mitr. 38
[5] Bulé: consiglio cittadino dell’antica polis
[6] Areopago: sede del più antico tribunale di Atene su una collinetta presso l’acropoli.
[7] Tac. Ann. II, 55
[8] Atti 17, 19
[9] Op. cit.p. 77 sgg.

 

L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

http://www.storialibera.it/epoca_antica/cristianesimo_e_storicita/simon_pietro/articolo.php?id=558

L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

tratto da: Paolo BREZZI, Il Papato, Studium, Roma 1967, p. 17-23.

Il gruppo dei superstiti discepoli di Gesù si ritrovò a Gerusalemme dopo le turbinose vicende della Pasqua e dei quaranta giorni successivi; resi forti dall’infusione dello Spirito, questi uomini, che fino a quel momento non avevano ancor dimostrato di comprendere appieno quale fosse il loro compito, incominciarono a svolgere opera di apostolato. Pietro ne dirigeva i movimenti.
Una narrazione storica, gli Atti degli Apostoli, ci permette di seguire da vicino l’attività di Pietro almeno fino all’anno 50 d.C.; gravi dubbi vennero elevati da esegeti razionalisti sulla validità di quella fonte, ma ormai anche queste difficoltà sono state quasi completamente superate da una sana critica storica e l’attendibilità delle informazioni degli Atti è sicura. Gli episodi principali della vita di Pietro qui registrati sono: l’iniziativa del completamento del collegio dei dodici (anteriore alla discesa dello Spirito Santo); il grande discorso dopo la Pentecoste ed altri tenuti in varie occasioni e davanti a pubblici diversi per razza e per preparazione; numerosi miracoli; la difesa davanti al Sinedrio; la condanna di Anania e Saffira, che erano dei fedeli che avevano tentato di ingannare gli Apostoli sul ricavato della vendita di un loro podere; la prigionia e la liberazione miracolosa; la scelta dei diaconi; la missione insieme a Giovanni nella Samaria e le severe parole rivolte ad un Simone che aveva tentato di comprar con denaro le virtù carismatiche degli Apostoli; i primi contatti con il neo convertito Paolo; altre missioni a Lidda e a Joppe con miracoli e conversioni; l’accoglienza nella comunità del centurione Cornelio e le vivaci polemiche che ne seguirono sull’opportunità o meno di estendere anche ai Gentili la predicazione della parola di Dio; una nuova prigionia per opera del re Erode Agrippa ed una nuova miracolosa liberazione.
A questo punto gli Atti, dopo aver detto che Pietro «partitosi andò altrove», incominciano a seguire Paolo nelle sue peregrinazioni e nominano ancora l’altro apostolo soltanto in occasione del concilio di Gerusalemme, di cui riparleremo; di conseguenza è possibile fissare soltanto pochi punti della successiva biografia di Pietro sulla base di altre fonti o di indicazioni indirette, ma, prima di proseguire, è necessario ritornare sul già detto, per sottolineare l’importanza di alcuni atteggiamenti da lui assunti in quei primi anni, decisivi per tutto l’ulteriore orientamento della vita della a chiesa».
[...]
è noto che alcuni studiosi hanno imbastito un vero romanzo storico sull’ipotetico contrasto di tendenze tra i giudaizzanti e gli ellenizzanti in seno alla primitiva comunità ed hanno considerato Pietro come uno degli esponenti della prima corrente.
Le cose sono più semplici, anche se non meno interessanti; già in Gesù vi è una predicazione a carattere universalistico, ma tra i suoi discepoli vi furono quelli che pretesero una iniziazione al Giudaismo come premessa indispensabile per diventar cristiani e continuarono a conservare l’antico sospetto che era nutrito dai membri del «popolo eletto» verso i Gentili. Pietro, avendo visto per chiari segni divini che tutti potevano essere chiamati alla penitenza ed alla nuova vita (Atti, II, 18), accettò senz’altro la conversione dei Gentili, ma più tardi ritenne più opportuno seguire la prassi normale, facendo precedere la circoncisione al battesimo, ed infine, dopo uno scambio di vedute con Paolo, che non fu privo di momenti drammatici, ritornò al suo primo modo d’agire facendolo sanzionare ufficialmente da un solenne consesso. Si tratta di alternative naturali, data la delicatezza della decisione da prendere, né queste oscillazioni rendono meno simpatico il loro protagonista, anzi lo avvicinano a noi, lo presentano in tutto il suo aspetto umano senza intaccare, con questo, le sue prerogative, non essendo egli mai caduto in errore né avendo insegnato il falso.
Tra Pietro e Paolo, anche quando più vivo fu il contrasto, non si trattò mai di radicale diversità di dottrina, ma di differente attitudine, di divergenze tattiche; Paolo non aveva torto a rimproverare al confratello le contraddizioni della sua condotta pratica, ma non pensò mai, per questo, di contestare la legittimità della posizione di primo piano goduta dall’altro; anzi, anche questo episodio conferma l’importanza di Pietro, il peso da lui rappresentato nella vita della comunità, le conseguenze derivanti da ogni suo gesto, il valore attribuito alle sue decisioni. Ma quest’autorità eccezionale, che tutti gli riconoscevano, doveva derivare da qualche ragione profonda; il prestigio goduto era effetto di una prerogativa speciale, e questa non poteva essere fondata che sulla scelta fatta da Gesù, sul mandato affidatogli personalmente dal Maestro e ben presente nel cuore di tutti i discepoli.
Poiché si è già fatto incidentalmente più volte riferimento a Paolo, è doveroso ricordare la cura particolare da lui posta nel mantenere i contatti con Cefa (è questo il nome aramaico grecizzato che ricorre nelle lettere paoline, che furono scritte anteriormente al Vangelo di Matteo e possono quindi costituire una riprova dell’autenticità dei passi di questo sopra esaminati); in quella specie di autodifesa premessa all’epistola ai Galati, l’apostolo delle genti dichiara infatti che dopo la sua conversione ed il ritiro di preparazione «tre anni dopo andai a Gerusalemme per visitare Pietro e stetti presso di lui quindici giorni: non vidi alcun altro degli Apostoli, ma solo Giacomo fratello del Signore» (Gal., I, 18).
Dove andò Pietro allorché dovette allontanarsi da Gerusalemme per motivi prudenziali? Più volte è stata ripresa dagli storici l’ipotesi che egli si sia diretto a Roma e, sulla base di scarne notizie di S. Girolamo e di Eusebio, si è dissertato a lungo circa un primo soggiorno romano dell’Apostolo. Sia permesso di lasciare molto in forse la cosa limitando la menzione ai dati più certi; così, ad esempio, è indubbia la permanenza ad Antiochia di Siria ed è più che probabile che Pietro si sia spinto nelle regioni del Ponto, della Galazia e della Cappadocia perché in caso contrario non si comprenderebbe la ragione che lo mosse più tardi ad indirizzare «agli eletti stranieri della diaspora» di quelle sole terre una lettera; anche il tono di questa fa pensare che l’autore fosse già noto ai corrispondenti. Forse Pietro fu pure a Corinto, dato che in questa città si era formato un partito di Cefa, come attesta Paolo, benché potrebbe trattarsi solamente di immigrati che, giungendo colà, si stupirono del grande ascendente goduto a Corinto da quest’ultimo e si richiamarono invece all’autorità dell’altro apostolo.
Intorno all’anno 50 Pietro era di nuovo in Palestina, e presiedette quello che fu chiamato il concilio di Gerusalemme, convocato per risolvere la questione dell’obbligatorietà dell’osservanza delle leggi mosaiche; il suo discorso è molto esplicito e non privo di durezza contro i rigidi: «Dio non fece differenza alcuna tra loro (Gentili) e noi, purificando con la fede — cioè non con i riti giudaici — i loro cuori. Perché tentate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare?». Ma gli effetti furono immediati e decisivi: «tutta la moltitudine si tacque» ed anche Giacomo aderì, salvo qualche riserva, all’indirizzo fissato «di non imporre altro peso fuori delle cose necessarie», come aveva appunto suggerito Pietro. Si tratta di una riunione importante, che non dovette essere priva pure di una certa solennità, vedendo raccolti tutti gli esponenti più autorevoli della nuova società cristiana; era in gioco l’interpretazione di tutto il messaggio di Gesù e non si poteva tardar oltre ad imboccare la via giusta. Anche in questo caso Pietro agì con franchezza ed audacia, dimostrandosi autorizzato a risolvere le questioni più delicate che insorgevano nella vita delle comunità, pur mantenendo una forma collegiale all’esercizio dei poteri, per tenere conto dei privilegi spettanti anche agli altri apostoli; ciò dimostra che esisteva un doppio ordine di giurisdizioni, quella primaziale, che il Maestro aveva conferito individualmente a Pietro, e quella pastorale, che era propria di tutto il collegio apostolico. Non ebbe torto il protestante Heiler a dire che in tutto questo vi è già «il cattolicesimo in divenire» nel senso che embrionalmente si scoprono qui presenti i vari elementi caratteristici della costituzione cattolica quale apparirà in piena luce dopo aver raggiunto la sua completa efficienza nel corso dei secoli.

IL RITRATTO DELLA COMUNITÀ CRISTIANA IN ATTI 2,42-48

http://www.saveriane.it/paginebibliche/nuovotestamento/attidegliapostoli/At%202,42-48%20lungo.doc.

« CON LETIZIA E SEMPLICITÀ DI CUORE »

IL RITRATTO DELLA COMUNITÀ CRISTIANA IN ATTI 2,42-48

42 Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46 Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. 48 Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

12. UNO SGUARDO GENERALE
È il primo dei tre « sommari » o quadri riassuntivi, mediante i quali Luca descrive, in un quadro ideale, la prima comunità cristiana a Gerusalemme. I verbi all’imperfetto e al participio, le costruzioni perifrastiche indicano una situazione stabile, quotidiana. Luca generalizza episodi concreti avuti dalla tradizione, idealizzando il comportamento della comunità di Gerusalemme, perché sia da modello ad ogni futura comunità cristiana .
Appare il tema già accennato dello stare insieme e della concordia (cf. At 1,14; 2,1) e quello della riunione dei salvati apparso nel discorso di Pietro (cf. At 2,21.40.41) Insieme, sono annunciati temi che saranno sviluppati successivamente (cf. At 4,32-35; 5,12-14; 5,42). Approfondiamo qui in particolare il v. 42.
. »Il v. 42 viene generalmente inteso come l’enumerazione dei quattro ‘fondamenti’ della chiesa. Con ogni probabilità ci troviamo di fronte a una ripresa di quelli che sono i ‘tre pilastri del mondo’ secondo la tradizione giudaica: « Il mondo è fondato su tre realtà: la Legge (Torah), il culto (‘Abôdâh) e le opere di misericordia (Gemilut hasadîm) » . La Torah si rivolge allo spirito dell’uomo; la si ricollega a Giacobbe, considerato come l’uomo perfetto, il padre del popolo eletto. Il culto del tempio – e poi la preghiera che sostituisce i sacrifici – riguarda l’anima dell’uomo; è un attributo di Abramo, con riferimento alla sua ospitalità. Nei tre pilastri si riconosce anche l’attivazione delle tre dimensioni dell’uomo: rapporto con se stesso (studio, approfondimento personale), rapporto con Dio (adorazione e ogni forma di culto), rapporto con gli altri e col mondo (apertura agli altri, solidarietà e beneficenza). Il v. 42 presenta una rilettura di questi tre principi fondamentali: l »insegnamento degli apostoli’, che riguarda la persona di Gesù, il suo messaggio e la sua azione, conferma e porta a compimento quello della Torah; le opere di misericordia sono diventate la ‘comunione’ fraterna (la koinonia), mentre il culto, già sdoppiato in sacrifici e preghiere a partire dall’esilio, ora si sviluppa in ‘frazione del pane’ e ‘preghiere’. Il radicamento della comunità nel giudaismo viene ancora una volta sottolineato da Luca, che mette in luce allo stesso tempio le differenze. »

2. COMPOSIZIONE
Ecco il testo in una traduzione letterale e nella sua composizione:
+ 42 Ed erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle preghiere.
= 43 E c’era timore in ogni persona, molti miracoli e segni avvenivano attraverso gli apostoli.
44 E tutti i credenti erano nello stesso (luogo) e avevano tutte le cose comuni 45 e vendevano le proprietà e le sostanze e le dividevano tra tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
+ 46 Ogni giorno (erano) perseveranti unanimemente nel tempio, spezzando il pane in ogni casa, prendevano cibo con gioia e semplicità di cuore, 47 lodando Dio
= e avendo favore presso tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno al gruppo coloro che erano salvati.
Il testo si compone di tre parti concentriche: A: 42-43; B: 44-45; A’: 46-47.
La prima e l’ultima comprendono due brani paralleli:
42 // 46-47a: in entrambi appare « perseveranti », la « comunione » è espressa da « unanimemente » e da « prendevano cibo con gioia e semplicità di cuore » (46); la « frazione del pane » appare in 42 come sostantivo e in 46 come verbo; le « preghiere » (42) richiamano il « tempio » e « lodando Dio » (46; 47a). Ci sono anche differenze: il v. 42 parla dell’insegnamento degli apostoli, il v. 46 aggiunge il tema della gioia e della semplicità di cuore.
43 // 47b: parlando della reazione del popolo: il timore è frutto della percezione della presenza di Dio nell’agire degli apostoli (46); tutta la comunità riscuote la simpatia del popolo. Il Signore conduce l’azione, aggiungendo alla comunità i salvati.
Il centro (44-45) descrive il risvolto economico della vita comune, tema caro a Luca.
3. At 2,42a: « Erano assidui nell’insegnamento degli apostoli… »

Erano assidui: o partecipavano con perseveranza. La costruzione è perifrastica: verbo essere + participio. Il verbo pros-karterein significa rimanere forte, perseverare, resistere, avere costanza; esprime dunque attaccamento perseverante. Questo verbo si ripete due volte in questi versetti , ed era già apparso in 1,14 . In At in parte il verbo viene usato con il significato del tutto profano di indicare una durata , ma altrove designa l’atteggiamento spirituale della comunità. « L’elemento fondamentale che qualifica la comunità è la perseveranza o fedeltà nell’impegno assunto…. Il verbo… con una risonanza liturgica e cultuale, sottolinea… l’atteggiamento di dedizione costante e impegnata dei convertiti. »
all’insegnamento (didachê) degli apostoli: il termine didachê nella lingua greca significa « insegnamento e dottrina comunicata per mezzo dell’istruzione ». In Atti 2,42 e 5,28 didachê indica l’insegnamento degli apostoli riguardo a Gesù. « Con questa espressione bisogna intendere una realtà differente dalla proclamazione iniziale della buona novella (il kerygma), che ha portato gli ascoltatori alla fede e al battesimo. Si tratta di un’istruzione in profondità dei nuovi cristiani » . « Il contenuto abbraccia la rilettura dei testi biblici alla luce del Cristo, il richiamo degl’insegnamenti di Gesù per guidare le scelte pratiche dei credenti. » « Non si limita dunque all’insegnamento di Gesù che gli apostoli sono chiamati a trasmettere, o alla catechesi della comunità, ma include l’insieme della predicazione apostolica diventata normativa per l’intera chiesa » .
Dal Concilio Vaticano II: La chiesa venera le Scritture
« La Chiesa ha sempre venerato le Divine scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la Sacra tradizione, la chiesa ha sempre considerato e considera le Divine scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, impartiscono immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare, nelle parole dei profeti e degli Apostoli, la voce dello Spirito Santo. E’ necessario dunque che la predicazione ecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura. Nei Libri Sacri infatti, il Padre celeste che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli e discorre con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pure e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla Sacra Scrittura ciò che è stato detto: « vivente ed efficace è la parola di Dio » (Eb 4,12), « che ha la forza di edificare e di dare l’eredità tra tutti i santificati » (At 20,32; cf. 1 Tess 2,13). » (Dei Verbum, 21)
« Questo è certo, che quando una comunità… vive respirando Cristo, dimorando nella Parola, attingendo alla sua linfa vitale, diventa un segno trasparente delle realtà eterne, un anticipo dei nuovi cieli e della nuova terra; diventa l’albero rigoglioso che il salmista contempla lungo corsi d’acqua, carico di buoni frutti in ogni stagione, che accoglie alla sua ombra, per ristorarli, molti viandanti esausti. In realtà, chi coltiva assiduamente la Parola, da essa si trova coltivato e diviene un giardino di delizie in cui Dio stesso ama scendere e riposare » (Anna Maria Canopi).

4. At 2,42b: Assidui nell’unione fraterna
1. La comunione o koinonía
Il termine « unione fraterna » traduce la parola greca koinonía. La koinonía è:
- la relazione fraterna: « Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me la destra in segno di comunione… » (Gal 2,9).
- l’aiuto concreto dato ai fratelli e sorelle in difficoltà: »La Macedonia e l’Acaia hanno voluto fare una colletta a favore di poveri che sono nella comunità di Gerusalemme » (Rm 15,26).
- la relazione con Gesù, a cui Dio ci ha chiamati: »Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro! » (1Cor 1,9). « Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1Cor 10,16s).
- frutto dell’annuncio: »Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta. … Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. Se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, sia in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato » (1Gv 1,3…7).
La koin?nía avviene grazie allo Spirito Santo: « La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi » (2Cor 13,13).

I Vescovi italiani: Comunità casa e scuola di comunione
Scrivono i Vescovi italiani nel documento per il decennio 2001-2010 « Comunicare il vangelo in un mondo che cambia »:
« Raggiunti dall’amore di Dio « mentre noi eravamo ancora peccatori » (Rm 5,8) siamo condotti ad aprirci alla solidarietà con tutti gli uomini, al desiderio di condividere con loro l’amore misericordioso di Gesù che ci fa vivere. La Chiesa è totalmente orientata alla comunione. Essa è e dev’essere sempre, come ricorda Giovanni Paolo II, « casa e scuola di comunione » (NMI 43). La Chiesa è casa, edificio, dimora ospitale che va costruita mediante l’educazione a una spiritualità di comunione. Questo significa far spazio costantemente al fratello, portando « i pesi gli uni degli altri » (Gal 6,2). Ma ciò è possibile solo se, consapevoli di essere peccatori perdonati, guardiamo a tutta la comunità come alla comunione di coloro che il Signore santifica ogni giorno. L’altro non sarà più un nemico, né un peccatore da cui separarmi, bensì « uno che mi appartiene ». Con lui potrò rallegrarmi della comune misericordia, potrò condividere gioie e dolori, contraddizioni e speranze. Insieme, saremo a poco a poco spinti ad allargare il cerchio di questa condivisione, a farci annunciatori della gioia e della speranza che insieme abbiamo scoperto nelle nostre vite grazie al Verbo della vita. Soltanto se sarà davvero « casa di comunione », resa salda dal Signore e dalla parola della sua grazia, che ha il potere di edificare (cf. At 20,32), la Chiesa potrà diventare anche « scuola di comunione ». È importante che ciò avvenga: in ogni luogo le nostre comunità sono chiamate a essere segni di unità, promotori di comunione, per additare umilmente ma con convinzione a tutti gli uomini la Gerusalemme celeste, che è al tempo stesso la loro « madre » (Gal 4,26) e la patria verso la quale sono incamminati… (65). Questo nostro cammino avviene sotto lo sguardo di Maria, la madre del Signore, e conta sulla sua intercessione. » (68)
« Ciò che rende felice un’esistenza, è avanzare verso la semplicità: la semplicità del nostro cuore e quella della nostra vita. Perché una vita sia bella, non è indispensabile avere capacità straordinarie o grandi possibilità; l’umile dono della propria vita rende felici.. Dio si aspetta che siamo un riflesso della sua presenza, portatori della speranza del Vangelo. Chi risponde a questa chiamata non ignora le proprie fragilità, così custodisce nel suo cuore queste parole di Cristo: « Non temere, continua a fidati! »… Entrando nel terzo millennio, riusciamo a comprendere che, duemila anni fa, Cristo è venuto sulla terra non per creare una nuova religione, ma per offrire ad ogni essere umano una comunione in Dio?… Il Cristo ci chiama, noi poveri del Vangelo, a realizzare la speranza di una comunione e di una pace che si diffonda attorno a noi. Anche il più semplice fra i semplici può riuscirci. Avverti una felicità? Sì, Dio ci vuole felici!… e l’umile dono di sé rende felici ».
(Frère Roger, fondatore di Taizé, Lettera da Taizé 2001)

5. At 2,42c: Erano assidui… nella frazione del pane
La frazione del pane
Nel Giudaismo, ‘frazione del pane’ indica generalmente lo spezzare il pane (e la benedizione), con la quale il padre di famiglia dà inizio al pasto. In Luca l’espressione indica (esprimendo la parte per il tutto) la celebrazione eucaristica. , a carattere domestico (« nelle case » At 2,46). « Il termine ‘frazione del pane’, anche se al primo momento richiama il rito sacramentale, in realtà sottolinea l’aspetto di compartecipazione nell’unità, che caratterizza la celebrazione cristiana; dato che anche la vita quotidiana della comunità rispecchiava, secondo Luca, questa unità e questa comunione. Nella linea di pensiero ereditata dagli Ebrei, i cristiani hanno certamente visto nella frazione del pane il simbolo dell’unità cercata da Cristo riunendo i fedeli » .
Un gesto che fa memoria
Spezzando il pane ai figli, il padre e la madre esprimono la sollecitudine per loro. Spezzando il pane per i discepoli, Gesù dice parole che nessuno avrebbe potuto immaginare. « Prendete e mangiate: questo è il mio corpo… » (Lc 22,19p). Una vita può essere un pane? Non ci bastava dunque il pane che già c’era, maturato nei campi, macinato nei mulini, cotto nei forni? Quale pane ancora? Perché il Signore aveva inventato questo gesto?
I discepoli l’hanno compreso dopo la resurrezione, grazie al dono dello Spirito. Gesù ha lasciato il segno di ciò che stava per accadere: la sua vita spezzata per la vita di tutti. L’alleanza nuova celebrata nel suo sangue. L’eucaristia non è solo un segno, ma sacramento, presenza reale di Cristo attraverso e al di là dei segni. L’Eucaristia, a differenza del cibo ordinario che noi trasformiamo in noi stessi, ci assimila a Gesù. Comunicandoci davvero, dovremmo poter dire con Paolo: « Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma cristo vive in me. Questa vita che io vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20). E come unico pane condiviso, l’eucaristia ci cementa fra di noi, come corpo di Cristo. Sulla mano ci viene deposto Cristo nel sacramento del pane, ma anche ogni mio fratello e sorella. Per questo non posso comunicarmi escludendo qualcuno.

Dall’insegnamento della Chiesa: Diventare eucaristia
« Frutto di questa esistenza eucaristica quotidiana sono la fiducia, la libertà di spirito, l’impegno sereno a capire sempre più la realtà, il dialogo, la competenza sul lavoro, la gratuità, il perdono, la dedizione nei rapporti interpersonali, la verità verso se stessi. E’ questo modo di interpretare l’esistenza e di viverla che inserisce l’eucaristia nella vita e trasforma la vita in un permanente rendimento di grazie. » (Doc. Eucarestia, Comunione e Comunità, n. 63).

« Ricordate Oscar Romero? Un attimo prima che venisse ammazzato disse: qui, in questo calice, c’è del vino che attende di diventare sangue. E si abbatté su di lui una scarica di mitragliatrice. Roger Garaudy diceva ai cristiani: Cristo è nel pane. Però ricordate che i discepoli lo riconobbero allo spezzare del pane. Se non c’è frantumazione del nostro pane, della nostra ricchezza, del nostro tempo, difficilmente i discepoli lo riconoscono. (…). Il frutto dell’eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni… Le nostre eucaristie dovrebbero essere delle esplosioni che ci scaraventano lontano e, invece, il Signore dopo cinque minuti ci rivede ancora lì dinanzi all’altare. (…) Chi si comunica dovrebbe farsi commensale di ogni uomo. (…).
(don Tonino Bello)

6. At 2,42d: « Erano assidui … nelle preghiere »
Erano assidui: cf At 6,4: « Noi invece, ci dedicheremo (= saremo assidui) alla preghiera e al servizio della Parola ». Nel Nuovo Testamento, spesso si collega l’assiduità, la perseveranza, alla preghiera:
 » « Pietro dunque era tenuto in prigione, mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui » (At 12,5).
 » « Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera… » (Rm 12,12);
 » « Perseverate nella preghiera » (Col 4,2; cf. Lc 11,1-13; 18,1-8);
 » « Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiera e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi… ».
nelle preghiere: con « le preghiere » (al plurale), Luca si riferisce probabilmente alle preghiere fatte ad ora fissa (tre volte al giorno), secondo l’uso giudaico. In At 2,46 si dice: « Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio » e poco dopo, in 3,1 si dice che « Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio ». Possiamo supporre che i credenti recitavano i salmi, ma anche cantici e suppliche proprie, quali il Padre nostro. La comunità primitiva sembra aver praticato abitualmente la preghiera in comune, sia nel culto (cf. anche 1Cor 11,4s; 14,13-16.26) che in ambito più ristretto: « Pietro si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera » (At 12,12). Luca evidenzia come tutti i momenti importanti della vita di Gesù, dei suoi discepoli e della comunità sono segnati dalla preghiera; tutte le decisioni importanti sono prese nella preghiera. Come è stato per Gesù , cosi è per la comunità .

Un Padre della Chiesa: La preghiera
« La preghiera è comunione con Dio e ci rende una cosa sola con lui… La preghiera non è un atteggiamento esteriore, ma viene dal cuore; non è limitata a ore o tempi determinati, ma si attua ininterrottamente di giorno e di notte. Non basta infatti dirigere prontamente il pensiero a Dio solo nei momenti dedicati alla preghiera; ma anche quando si è impegnati in altre occupazioni, come l’assistenza ai poveri o altri doveri e opere che arrechino aiuto alle persone, è necessario mettervi dentro il desiderio e la memoria di Dio, perché queste occupazioni, rese gustose col sale dell’amore di Dio, diventino per il Signore un cibo piacevolissimo… La preghiera è la gioia del cuore e la pace dell’anima »
(Giovanni Crisostomo, + 407).

« Certo, nelle nostre giornate, esistono minuti particolarmente nobili e preziosi, quelli della preghiera e dei sacramenti. Se non esistessero questi momenti di contatto più efficienti e più espliciti, l’afflusso dell’Onnipresenza divina e la coscienza che ne abbiamo diminuirebbero ben presto; e giungerebbe il momento in cui la nostra più attiva diligenza umana, senza essere assolutamente perduta per il Mondo, sarebbe per noi priva di Dio. Ma, concessa gelosamente una parte alle relazioni con Dio, incontrato, osiamo dire, « allo stato puro » (e cioè in quanto Essere distinto da tutti gli elementi di questo Mondo), come temere che l’occupazione più banale, più assorbente, nonché quella più attraente, ci costringa ad uscire da Lui? Ripetiamolo: per opera della Creazione, e soprattutto dell’Incarnazione, niente è profano, quaggiù, per chi sa vedere. Anzi, tutto è sacro per chi distingue, in ogni creatura, la particella di essere eletto sottoposta all’attrazione di Cristo in via di consumazione. (…) Mai, in nessun caso, « sia che mangiate, sia che beviate », … acconsentite a fare alcuna cosa senza averne riconosciuto prima, e senza ricercarne poi, fino in fondo, il significato e il valore costruttivo in Cristo Yesu. (…) Dalle mani che la impastano fino a quelle che la consacrano, la grande Ostia universale dovrebbe essere preparata e maneggiata solo con adorazione.
Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, pp. 53ss

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