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Bruno Forte, Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo

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Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo

Bruno Forte, 4 novembre 2004

Questo testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.

 Introduzione
 1. Il carattere escatologico della salvezza
 2. Il carattere comunitario della salvezza
 3. La messianicità dei due popoli                                                                                   

          Un’immagine biblica, riletta nell’interpretazione patristica, può introdurci efficacemente nella riflessione sulla questione che ci sta a cuore: quale rapporto la fede cristiana vede fra Israele e la Chiesa? La questione in realtà è complessa e potrebbe essere declinata in molteplici forme: qual è la ragione del significato e della rilevanza continua che Israele ha per la Chiesa? si deve pensare all’economia di un’alleanza unica in cui si muovono entrambi, o plurale è l’alleanza e mutevole e progressivo il senso dell’elezione e il significato delle promesse? e finalmente – in chiave cristiana – è giusto interrogarsi sulla possibilità e i modi di una prossima o remota “conversione” di Israele o si deve concepire una via separata di salvezza per il popolo eletto? L’immagine che ci aiuta a gettare un po’ di luce su questa selva intricata di questioni è quella – tratta dal libro dei Numeri – dei due  esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende il grappolo d’uva, che essi accompagnano col frutto del melograno e il fico: “Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi ”(Num 13,23).
            Nell’asta portata dai due i Padri della Chiesa hanno voluto vedere il legno della Croce, da cui pende Cristo: “Figura Christi pendentis in ligno” [1] , mentre nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: “Subvectantes phalanguam, duorum populorum figuram ostendebant, unum priorem, scilicet vestrum, terga Christum dantem, alium posteriorem, racemum respicientem, scilicet noster populus intelligitur” [2] . In quanto essi marciano l’un dietro l’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa delle cose venienti e nuove, assicurate dalla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che ha in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’antico Israele e della promessa fatta ai padri. Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unica asta che entrambi gli esploratori sostengono, ma anche per l’orizzonte comune cui si rivolge il loro sguardo. L’idea della continuità sarà evidenziata – con una posteriore, suggestiva annotazione – mediante la supposizione che il giubilo del desiderio faccia cantare ad entrambi il medesimo “hosanna” [3] . Uniti nel canto della speranza e dell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dalla Croce di Cristo. Tre elementi di continuità ed insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa vengono così a risaltare dalla densa lettura patristica: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento.

            1. Il carattere escatologico della rivelazione biblica
                     Ciò che unisce i due esploratori in cammino è anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Ma perché fosse così, quella stessa Verità è venuta a consegnarsi alla misura della possibilità umana di accoglierla, ha parlato il linguaggio degli uomini, ha infiammato di desiderio i loro cuori di carne. La premessa al riconoscimento della Verità nella Parola del Dio vivente è, dunque, tanto per l’ebraismo quanto per il cristianesimo, la possibilità che l’infinito si faccia finito per comunicarsi nella fragilità delle nostre parole. Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: “Il piccolo può contenere il grande” [4] . Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: “Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est” [5] . Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano [6] .
            È Isaac Luria il cabalista che nella seconda metà del secolo XVI pone al centro del suo insegnamento l’immagine della “contrazione” divina: l’atto creatore è da lui pensato come un “far spazio” in se stesso da parte di Dio alla creatura, che altrimenti non avrebbe potuto esistere. Se non nel grembo di Dio – contrattosi per ospitare il mondo, analogamente a come una madre accoglie una nuova vita nel suo seno – dove avrebbe potuto dimorare l’universo? ”Zimzum” è dunque l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo dell’immenso che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà: perciò, lo “zimzum” dell’eterno è l’altro nome del Suo amore per gli uomini, espressione di quella misericordia che l’ebraico significativamente rende con l’idea di “viscere materne”(“ rachamim”) e che è anche rispetto e umiltà del Creatore davanti alla Creatura. In forza di questo amore il Signore non disdegna di “attendarsi” in mezzo al Suo popolo, fino a fare della storia d’Israele la storia del proprio impegno per la redenzione del mondo. La  dottrina della divina presenza (“shekinah”) tocca punte struggenti, come nel testo seguente: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekinah, per così dire, andò in esilio con loro. Essi andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekinah… Andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… Andarono in Elam e la Shekinah li accompagnò… Quando tuttavia torneranno, la Shekinah farà ritorno assieme ad essi” [7] .
            L’invocazione di San Francesco “Tu sei Umiltà” (Lodi del Dio Altissimo) mostra come questo messaggio corrisponda in profondità all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nella “kenosi” del Verbo: la Parola si dice in questo mondo per via di “annientamento” (cf. Fil 2,6ss), grazie all’atto per il quale – in nulla costretto dall’infinitamente grande – il Figlio si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo. Veramente divino è questo contrarsi! Questa “estasi” del divino, questo “star fuori”dell’infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, e cioè a quel “trasgredire” della creatura verso il Mistero, che è il rapimento della verità e della bellezza che salva, reso possibile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è per la fede cristiana la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il “Verbum abbreviatum” – “kenosi” del Verbo eterno – rivela la possibilità salutare del “minimo Infinito”!
            Ora, la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo, il Suo “abbreviarsi” per destinarsi agli uomini, si esprime anzitutto nella Parola (“dabar”). Per la fede d’Israele la Parola di Dio è inseparabilmente la Parola che dice, crea, salva. Anche da un semplice approccio ai testi risulta che il termine “dabar” rinvia tanto al contenuto noetico, quanto all’efficacia operativa della parola, che fa quel che dice, incidendo sulla trasformazione del cuore e sugli eventi della storia. Il carattere “informativo” si congiunge a quello “performativo”: è in forza di questa densità che si comprende quanto sia stretta la connessione fra le parole e gli eventi nell’economia della rivelazione. Così, se da una parte tutte le tappe decisive della storia di Israele sono introdotte dalla parola, dall’altra la fede del popolo eletto può esprimersi semplicemente narrando gli eventi salvifici, i “mirabilia Dei”, attuazioni concrete della parola di rivelazione (cf. Dt 26,5_10). In questa luce si comprende anche il carattere fortemente dinamico e personale dell’idea di rivelazione veicolata attraverso l’esperienza della Parola nella vicenda di Israele: la rivelazione mediante la Parola è l’avvento del Dio vivo nel segno delle Sue parole, che raggiunge e trasforma la condizione umana, facendone storia di redenzione e di salvezza per tutti coloro che accolgono la Parola, ma anche esperienza di esilio e di condanna per quanti la rifiutano.
            Il dono della Parola secondo la fede cristiana tocca il suo vertice nell’evento dell’incarnazione del Verbo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14: si noti come anche per il Verbo ci sia una “shekinah”, un “attendamento”). Nel succedersi dei tempi della Parola è questa la “pienezza del tempo” (cf. Mc 1,15; Gal 4,4; Ef 1,10), l’ora del compimento della rivelazione. La Parola fatta carne realizza precisamente i due significati del “dabar” veterotestamentario: Gesù il Cristo non solo parla le parole di Dio, ma è la Parola di Dio, il Verbo eterno divenuto uomo, che comunica se stesso e apre l’accesso all’esperienza vivificante delle profondità divine nel dono dello Spirito. Dal punto di vista noetico_informativo Gesù si presenta come il profeta e il maestro, che annuncia la verità sul Padre e sugli uomini: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). Dal punto di vista dinamico_performativo Gesù è la Parola divenuta carne, che ha messo le sue tende in mezzo a noi (cf. Gv 1,14) e parla con l’autorità di chi realizza ciò che dice (cf. Lc 4,18s. 21). La sua persona è talmente inseparabile da ciò che annuncia, che accogliere le sue parole è accogliere lui e il Padre che lo ha mandato, rifiutarsi alla sua parola è rifiutarsi alla salvezza in lui donata (cf. Mc 16,15s.). Ebraismo e cristianesimo risultano così entrambi fedi di risposta alla Parola di Dio, religioni del Libro del tutto dipendenti dalle Scritture, sia pur nella diversa identificazione della pienezza dell’autocomunicazione divina.
            Oltre che Parola, il Dio biblico è però anche Silenzio [8] : il silenzio divino non è tanto quello che suscita stupore, cui rinvia la silenziosa scrittura dei cieli (cf. Sal 19,2), né è la misteriosa presenza, con cui l’Eterno viene a sconvolgere tutte le possibili attese, offrendosi al suo eletto nella “voce del tenue silenzio” (cf. 1 Re 19,11_13). Il nascondimento del volto divino non è solo l’esperienza psicologica della Sua assenza o una vicenda storica legata al tempo della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione dal popolo eletto: il silenzio divino ha un valore teologico, è una lingua, un invito a credere ed affidarsi all’assente Presenza  ed a perseverare nell’abbandono al Volto cercato, anche quando questo Volto fa sentire tutto il peso tragico del Suo nascondimento: “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui” (Is 8,17). Questo silenzio è uno sperimentare nella drammaticità del fallimento che il linguaggio di Dio non è solo quello della parola e della risposta, ma che anche quello conturbante del silenzio. È perciò che si può riconoscere nella rivelazione biblica la presenza di almeno due fondamentali e diverse concezioni di Dio: “il Dio dei ponti sospesi” e “il Dio dell’arcata spezzata”. “l’una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull’altra riva, di fronte all’alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terra ferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso… L’altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale, non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale…” [9] .
            Il Dio dell’arcata spezzata restituisce all’uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo attento al valore dell’opera presente, a prescindere da ogni risultato o ricompensa promessi. “Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l’uomo, ma, al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio con il silenzio. Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti… Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento ineluttabile, ma è l’appuntamento dell’universo opaco del silenzio” [10] . I tempi del silenzio divino sono i tempi della libertà umana, perché nella loro dolorosa ambiguità pongono l’uomo solo di fronte alle sue scelte, del tutto libero rispetto al Dio che si ritrae. Lo scandalo del silenzio divino rivela così a Israele il suo Dio come il Dio della libertà, che non garantisce nulla, non assicura nulla, ma invita l’uomo a giocare e rischiare tutto nell’opera (“mitzvah”: precetto), che non dà per scontato alcun risultato finale. Così, è il continuo intersecarsi del divino silenzio e della Parola di Dio che fa dell’etica ebraica inseparabilmente l’etica della libertà e l’etica della pura Legge, del comandamento amato più di Dio, perché Dio può ritrarsi e tacere, ma la Parola continua a domandare e ad esigere di essere obbedita: “Amare la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale” [11] .            Anche al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento sta, però, il linguaggio del silenzio: il Vangelo cristiano si offre in pienezza lì dove il silenzio di Dio raggiunge il suo vertice abissale, rotto solo dal grido dell’ora nona, su quella Croce che è supremo scandalo per i Giudei, e non di meno follia per le genti, inaccettabile compromissione di Dio con la passione umana. Il Dio venuto fra gli uomini non si è offerto nelle forme della gran­dezza e della sapienza umana, ma, all’opposto, ha annientato se stesso scegliendo ciò che è debole e stolto per confondere la forza e la saggezza del mondo. Le motivazioni di questa radicale “absconditas Dei sub contrario” sono anzitutto quelle della teo­logia negativa: il negativo veicola meno inadeguatamente il divino, proprio perché esclude ogni confusione di grandezza umana con la Trascendenza di Dio. Ma questa motivazione va saldata a quella propriamente cristologica, all’effettiva cioè “absconditas Dei” in Cristo e nella sua croce: è la dialettica della rivelazione, l’ostendersi del divino nel suo contrario, secondo l’originaria accezione della parola “re-velatio”. In latino il prefisso re- ha il duplice significato di ripetizione dell’identico e di cambiamento di stato (analogamente a quanto significa l’apó nelle parole greche): “revelatio”, come il greco apokálypsis dice allora al tempo stesso un infittirsi ed un cadere del velo, lo svelarsi di ciò che è nascosto e il velarsi di ciò che è rivelato.
            La “re-velatio” non toglie, dunque, la differenza fra i mondi che mediante essa entrano in contatto: Dio resta Dio e il mondo resta mondo, anche se Dio entra nella storia ed all’uomo è offerta la possibilità di partecipare alla vita divina. Questo significa che, se nella rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Parola, autentica auto-comunicazione divina, sta e resta un divino Silenzio. La Parola esce dal Silenzio ed è nel Silenzio che essa viene a risuonare: come c’è una provenienza della Parola dalla silenziosa Origine, così c’è una destinazione della Parola, un suo “avvenire”, come luogo del suo avvento. Il Verbo sta fra due silenzi: gli “altissima silentia Dei” della tradizione mistica cristiana. È precisamente questo gioco dialettico di Parola e Silenzio che è stato perduto nella tradizione teologica della modernità. Cifra di questo destino, dalle conseguenze epocali, è la stessa storia della parola usata per dire l’auto-comunicazione divina: dal momento in cui il termine “Offenbarung” – evocativo dell’atto dell’aprirsi (etimologicamente: “gestazione e apertura dell’aperto”,  da “offen”, aperto, e “bären”, che nel tedesco medievale esprime il “portare in grembo”, l’“esser gravido”) – è stato fissato come equivalente di “revelatio” nella lingua che domina il pensiero critico della modernità, il problema della rivelazione è diventato quello di accogliere il manifestarsi dell’aperto, fino all’interpretazione hegeliana, in cui la rivelazione diventa la fenomenologia dello Spirito assoluto. Nell’ottica della “Offenbarung” l’avvento di Dio viene pensato come esibizione senza riserve: dicendosi, il Mistero assoluto si consegnerebbe alla presa del mondo; l’ingresso dell’eterno nel tempo avrebbe fatto della storia il “curriculum vitae Dei”, il processo di Dio per divenire se stesso.            In tal modo, però, viene perduta la continuità con l’originaria tradizione biblica, secondo cui la “revelatio” è l’offrirsi del Dio rivelato e nascosto: maestro del desiderio, il Dio della rivelazione è Colui che, dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo e attira alla Sua profondità silenziosa e raccolta. Il Dio dell’avvento è il Dio della promessa, dell’esodo e del Regno. Perciò, la Sua rivelazione non è visione totale, ma Parola che schiude i sentieri abissali del Silenzio. Il rinnovato rapporto con l’ebraismo – esperto dei divini silenzi – diventa così una scuola preziosa per il pensiero cristiano per riappropriarsi dell’idea dialettica ed escatologica della rivelazione, per ritrovare i sentieri del Silenzio da cui la Parola proviene ed a cui essa schiude. Tanto per l’ebraismo, quanto per il cristianesimo le parole in cui dimora la Parola divina vanno allora scrutate in un continuo processo di “trasgressione”, che raggiunga la nascosta Provenienza e l’Avvenire in esse custodito: si comprende allora perché l’ebraismo indaghi i settanta significati nascosti in ciascuna delle parole di Dio e la lettura cristiana delle Scritture ne cerchi i molteplici sensi in un gioco infinito di rimandi allegorici e simbolici. Perciò l’ermeneutica – intesa come “trasgressione” della parola, che sola ne scandaglia i significati profondi, i mondi vitali da cui essa proviene e che essa esprime – nasce nella tradizione ebraico cristiana della “lettura infinita” delle Scritture [12] . Se lo sguardo dei due esploratori è rivolto sempre all’ultimo orizzonte ed all’ultima patria, nessuna estasi dell’adempimento, nessuna seduzione del possesso può fermare il loro cammino. Ebraismo e cristianesimo sono religioni aperte all’abisso della Verità divina, accessibile in assoluta obbedienza alla rivelazione biblica, custodita e trasmessa nel popolo santo.

            2. Il carattere comunitario della salvezza               
   In quanto suscita il compito dell’interpretazione inesausta, si può dire che il Dio della rivelazione ebraico-cristiana non è il Dio delle risposte facili e pronte, ma il Dio esigente, che amando e donandosi si nasconde e chiama a uscire da se stessi in un esodo senza ritorno che porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo: un Dio che rende amanti pensosi. Il rapporto con Lui necessita pertanto di essere vissuto in una comunità viva, che – custodendo e riconoscendo il Suo linguaggio – possa insegnarlo ai suoi membri perché se ne facciano a loro volta custodi e trasmettitori creativi. Questa comunità è il popolo di Dio, la “qahal” d’Israele, la Chiesa dei discepoli del Crocifisso Risorto, entrambe suscitate e nutrite dalle parole della lingua sacra, in cui si è fissata per sempre la rivelazione di Dio. Il valore attribuito a quest’appartenenza linguistico-comunitaria non dipende dalla lingua effettivamente usata nella vita ordinaria dei credenti, ma dal loro continuo e necessario apprendere il linguaggio di Dio attraverso le parole – trasmesse e tradotte nella fedeltà all’originale sacro – in cui la Parola si è detta. Appartenere alla comunità non è sacrificio del pensiero, ma condizione ermeneutica per il suo esercizio fecondo: la fede che unisce i credenti è alimento dell’interrogazione e dell’ascolto, grembo capace di ricevere, custodire e interpretare l’intelligenza della Parola di vita, che è intelligenza penetrante della realtà tutta intera.

            Si comprende allora la cura che ebraismo e cristianesimo hanno sempre avuto  per affermare e custodire la lingua delle loro origini divine [13] : la domanda “Che lingua parlano nel giardino del Paradiso Adamo, Eva, Dio e il serpente?” È – per l’ebreo, come per il cristiano – solo apparentemente retorica. La risposta di Agostino – che opta senza esitazioni l’ebraico – vuol unire la lingua del primo Adamo a quella del nuovo Adamo, Cristo, per mostrare come in Lui si compia la nuova creazione: in realtà, però, la densità teologica dell’affermazione contiene conseguenze più ampie, perché l’unità del linguaggio dice l’unità del popolo di Dio e fonda da una parte la comunione dei credenti fra loro nell’israele dell’elezione e nella Chiesa dei discepoli, dall’altra il provvidenziale rapporto fra Israele e la Chiesa. La riprova sta nel fatto che quando l’antisemitismo si è fatto strada nella coscienza cristiana, si sono cercate altre risposte alla domanda sulla lingua del Paradiso, quasi a confermare che dove si perde la forza unificante del linguaggio creato da Dio per dirsi agli uomini, si perde anche l’identità più vera del Suo popolo nella storia. Per ebraismo e cristianesimo l’appartenenza al popolo santo costituisce il circolo ermeneutico che apre l’accesso più ricco ai tesori della Verità: lungi dal mortificare la ragione, la fede condivisa la stimola e la esalta.

            Nel disegno salvifico di Dio Israele ha un ruolo decisivo e centrale come popolo e la Chiesa stessa non potrà comprendere la propria identità e la propria missione senza situarsi in rapporto a quella che Paolo chiama la “santa radice” (Rm 11,16). Con immagine audace, che contrasta manifestamente con l’esperienza, l’Apostolo vede l’oleastro innestato sull’olivo, e non, come sarebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica: ne risulta  l’importanza decisiva che Paolo accorda alla pianta ebraica, non esitando a ricordare alla comunità cristiana che non è lei a portare la radice, ma la radice a portare lei (cf. Rm 11,18). Lo stesso rifiuto d’Israele è considerato dall’apostolo condizione provvidenziale perché la salvezza giunga alle genti (v. 11), che saranno a loro volta pungolo per l’ultima reintegrazione (v. 14). Il motivo profondo di questo misterioso disegno è colto da Paolo nella fedeltà del Dio dell’alleanza: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (v. 29). La complessa teologia della storia della salvezza, che è sottesa a queste riflessioni, afferma dunque la continuità fra Israele e la Chiesa, non meno della novità, che costituisce il popolo dei credenti in Cristo. Pensare la relazione fra i due popoli nell’unico disegno di Dio e il loro specifico ruolo è allora la questione aperta, posta sin dalle origini cristiane alla coscienza della fede, nutrita dall’unico Dio della promessa [14] .
            La continuità si manifesta anzitutto a livello di linguaggio: gli stessi termini  Chiesa e popolo di Dio hanno radici veterotestamentarie. La comunità d’Israele viene designata con le espressioni pressoché equivalenti ‘edah e qahal, delle quali la prima evidenzia lo stato della comunità radunata, la seconda sottolinea il momento attivo della convocazione. I Settanta tradurranno i due termini prevalentemente con synagogé ed ekklesía e sarà questa espressione – in quanto indicativa del momento religioso in cui si costituisce l’assemblea del Signore – ad entrare nell’uso per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (“Chiesa di Dio”), anche perché il vocabolo sinagoga era diventato in ambiente greco il nome proprio della comunità religiosa giudaica e del suo luogo di adunanza. La distinzione fra ‘am e gojîm, designanti rispettivamente il popolo eletto e gli altri popoli, fu resa in greco con i termini entrati nel linguaggio del Nuovo Testamento laós e éthne usati per qualificare il popolo di Dio da una parte e i pagani – o le genti – dall’altra. Già questa terminologia dice quanto la Chiesa si sia riconosciuta in continuità con Israele.
            Al pari di Israele, la Chiesa si concepisce come popolo in esodo, radunato nelle dodici tribù: “Ed ora – dirà Paolo davanti al suo giudice – mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono ora incolpato dai Giudei!” (At 26,6s.). La scelta dei Dodici (cf. Mc 3,13-19 e par.) Mostra come lo stesso Gesù abbia inteso la sua comunità nella continuità con Israele: e come tale essa vive la sua speranza escatologica (cf. Ap 21,12-14). Gerusalemme – percepita nella tradizione ebraica come punto di raccolta dei dispersi e luogo santo della salvezza donata da Dio – resta nella coscienza cristiana la città escatologica, che scende dal cielo (cf. Gal 4,26s.; Ap 21,2), pur essendo al tempo stesso il centro storico in cui si compie la redenzione e da cui parte l’annuncio a tutte le genti. Anche l’idea neotestamentaria di regno di Dio, oggetto e cuore della predicazione di Gesù, è profondamente radicata nell’antico Testamento: e come Israele non si identifica con la regalità dell’eterno, così la Chiesa sa di essere solo il seme e la caparra del Regno (si pensi alle parabole del Regno in Mt 13).
            È soprattutto però la relazione con il Dio dell’alleanza l’elemento di continuità fra le comunità dell’antico e del Nuovo Patto: entrambe sono il popolo di Dio. L’Eterno si è autodestinato a Israele nel legame dell’alleanza: ed Israele riconosce di esistere grazie a Lui e per Lui, come Sua proprietà, Suo alleato, Suo santuario fra i popoli, “regno di sacerdoti e nazione santa” (Es 19,6: cf. 1 Pt 2,9 e Ap 5,10). È parimenti l’esperienza della salvezza che dà alla Chiesa la coscienza di essere il popolo di Dio, concepito con le stesse categorie del popolo eletto: gregge, campo di Dio, vigna scelta, edificio di Dio, Sua dimora, tempio santo, “Gerusalemme che è in alto” e “madre nostra” (Gal 4,26; cf. Ap 12,17), sposa che il Signore “ha amato e per la quale ha dato se stesso, al fine di renderla santa” (Ef 5,25-26) [15] . E come Israele riconosce la sua missione nell’essere il popolo tra i popoli, segno e strumento della salvezza dell’eterno per tutte le genti, pur se in una continua tensione fra particolarismo e universalismo, così la Chiesa si sentirà chiamata a portare la salvezza fino agli estremi confini della terra come segno levato fra le nazioni(cf. Mc 16,15s.; Mt 28,18-20). E come Israele vive nell’attesa vigile e speranzosa del compimento delle promesse di Dio, così la Chiesa è popolo della speranza, teso fra il già del dono del Signore e il non ancora dello shalôm universale (cf. Ad esempio 1 Cor 15,20-28; Ap 22,17. 20). “E così – osserva San Tommaso d’Aquino – i padri dell’antico Patto appartenevano allo stesso corpo della Chiesa al quale noi apparteniamo” [16] .
            Esiste dunque un’unica alleanza, da cui nasce l’unico popolo di Dio nella storia? La continuità fra Israele e la Chiesa autorizzerebbe a pensarlo [17] : e l’argomento decisivo sarebbe l’irrevocabilità dell’elezione e la fedeltà dell’eterno al patto stretto col Suo popolo. Proprio perché entrambe popolo di Dio, le comunità del Primo e del Nuovo Testamento, congiunte in un unico disegno di grazia e di misericordia divine, sarebbero l’unico popolo in cammino verso la stessa patria escatologica, chiamato a un medesimo compito di testimonianza messianica. L’evento Cristo non costituirebbe allora una cesura, ma un approfondimento e soprattutto una dilatazione, in forza della quale l’incontro col Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sarà reso possibile a tutte le genti. Lo scisma intervenuto storicamente fra Chiesa e Israele non rispecchierebbe la volontà divina, secondo la quale le due comunità dovrebbero continuare a svolgere il loro ruolo nella comunione reciproca sotto il segno dell’unico progetto di salvezza del mondo: Israele come radice, tenace testimone del mistero dell’elezione che separa e consacra; la Chiesa come albero, i cui rami si estendono al vento e al sole nello spazio del tempo, fecondo in sempre nuove stagioni. Gesù Cristo, soprattutto nel Suo aspetto di Servo sofferente e di Messia crocifisso, sarebbe l’anello di congiunzione fra le due comunità: sintesi della storia di sofferenza del popolo eletto nella Sua passione, sorgente della missione tesa al compimento della salvezza universale nella Sua resurrezione. “Torah fatta carne” (J. Schoneveld), in Lui il significato più profondo della Legge sarebbe divenuto trasparente alle genti: vivere al cospetto di Dio come autentica immagine di Lui.
            Per quanto suggestiva, una simile lettura non evita due rischi: il primo, di riprendere la vecchia tesi della “sostituzione”, per la quale la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione; il secondo, di ridurre la novità cristiana a una dimensione prevalentemente “quantitativa”, nel senso che ciò che di nuovo avrebbe operato Gesù sarebbe l’ingresso dei pagani nel dono dell’alleanza e nella pratica, autentica e liberante, della Legge. Sotto entrambi i profili, la tesi dell’unicità dell’alleanza, se rende ragione della profonda continuità fra la Chiesa dell’antico e quella del Nuovo Patto, non riesce a spiegare adeguatamente la novità che, proprio distinguendole, le unisce. Occorre allora riconoscere la discontinuità in tutto il suo significato: “Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di storia della salvezza” [18] . Se per Israele – l’esploratore che cammina avanti – il “già” della fede è l’alleanza stretta da Dio con i Padri e il “non ancora” della speranza è il compimento escatologico delle promesse dell’eterno nello shalôm universale, per la Chiesa – l’esploratore che segue dietro l’altro – il “già” è l’avvento del Figlio di Dio nella carne e il realizzarsi del Suo mistero pasquale, che troverà pieno e definitivo compimento nel momento in cui Cristo ricapitolerà tutto in sé e consegnerà tutto al Padre e Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,28). Verso questo “non ancora” dell’ultimo avvento, che sarà il ritorno glorioso del Signore, la Chiesa tende nel pellegrinaggio del tempo. Proprio così, però, i due popoli restano accomunati nel segno di una ricchissima tensione messianica… 

            3. La messianicità dei due popoli                        
            Per la fede cristiana, Gesù è il Messia atteso dalla speranza ebraica, compimento delle promesse fatte ai Padri e al tempo stesso promessa di un nuovo e definitivo compimento, che si consumerà nella gloria dell’éschaton. In questo senso, la Chiesa sa di portare in sé la speranza d’Israele, perché attende il pieno realizzarsi della promessa messianica: e tuttavia, sa di diversificarsi dal popolo dell’antica Alleanza, perché riconosce che l’ultimo tempo è già iniziato nella storia di Gesù, Signore e Cristo, e di questa escatologia in atto di realizzarsi si sente al tempo stesso protagonista e recettiva. La coscienza di questa novità, pur nella continuità col popolo dell’antico Patto, è veicolata chiaramente nel Nuovo Testamento: la Chiesa si riconosce “Israele di Dio” (Gal 6,16), contrapposto all’israele secondo la carne (cf. 1 Cor 10,18), discendenza di Abramo ed erede secondo la promessa proprio in quanto appartenente al Cristo, il Messia venuto (cf. Gal 3,29 e Rm 9,6-8). La sottolineatura di questa novità induce a pensare a due alleanze: all’antico Patto segue il Nuovo, all’economia dell’alleanza sinaitica, la nuova ed eterna alleanza sancita nel sangue di Cristo sulla Croce [19] .
            È da questa “teologia delle due Alleanze” che è stata ispirata la contrapposizione fra ebraismo e cristianesimo, spinta fino a vedere nella Chiesa il nuovo Israele ed a svuotare di ogni valore la permanenza del popolo eletto. Perciò è necessario precisare che le due Alleanze sono e restano all’interno dell’unico disegno di Dio, che raduna il Suo popolo nella storia. Proprio per questo, ebraismo e cristianesimo sono e restano entrambe “istituzioni aperte”, spinte ad essere tali dalla loro radicale dipendenza dall’iniziativa divina nella storia: “Il cristianesimo è un’istituzione aperta, destinata a tutti gli uomini e a tutti i tempi, e relativa ad essi. Esso è qui e nello stesso tempo è ancora sempre in divenire e in crescita… Il cristiano che concepisce e predica la sua Chiesa come un semplice sistema, come un’istituzione statica e completa o come un’ideologia, la degrada e la riduce… Il cristianesimo è aperto in modo speciale sull’ebraismo. La Chiesa è imparentata in maniera unica con esso… I cristiani devono perciò prestare attenzione agli ebrei e all’ebraismo e prenderlo seriamente nella sua autonomia e affinità col cristianesimo. Debbono ascoltare, attendere e credere… Anche l’ebraismo è una comunità aperta. Tale carattere gli è inerente già dal tempo dell’antico Testamento … Come nel caso del cristianesimo, anche l’apertura dell’ebraismo è orientata principalmente al futuro…» [20] . I due esploratori della terra di Canaan dovranno allora continuare a camminare verso la stessa meta, misteriosamente uniti dalla Croce di Cristo e dallo stesso canto: non l’uno contro l’altro, né solo l’uno accanto all’altro, ma l’uno per l’altro, entrambi rivolti al compimento escatologico delle promesse di Dio [21] . Ma come potrà avvenire questo?
            L’affermazione decisiva consiste nel riconoscimento della peculiarità storico-salvifica e del significato religioso permanente dell’ebraismo come dato irrinunciabile per la fede cristiana. L’aver obliato o trascurato questo dato, fondato nelle convinzioni espresse da Paolo nella sua Lettera ai Romani (cap. 11), è stato non solo causa di immani sofferenze per il popolo ebraico, fatto oggetto di rifiuto e di persecuzione, culminati nella tragedia dell’olocausto, ma anche motivo di impoverimento e di alienazione per lo stesso cristianesimo. Si comprende allora come molte delle interpretazioni, proposte nel passato per comprendere la relazione fra Israele e la Chiesa, debbano essere abbandonate o superate. Dal punto di vista storico i modelli interpretativi con cui la comunità cristiana si è rapportata all’antico Testamento sono andati dal dualismo di contrapposizione fra l’antico e il nuovo Israele, all’allegorismo di semplice sostituzione, all’uso strumentale delle testimonianze dell’antico Patto, alla ricerca di un’effettiva complementarità [22] .
            Il modello dualistico contrappone il Nuovo patto all’antico: Marcione e il movimento ereticale a lui ispirato, sviluppatosi intorno alla metà del II secolo, ne sono la rappresentazione emblematica con la tesi espressa dall’uso forzato del testo di  Luca 5,36-39 : “Non si versa il vino generoso del Vangelo nei vecchi otri dell’ebraismo” [23] . L’opera di Gesù sarebbe consistita nel liberare gli uomini dall’opprimente dominio della Legge e dell’implacabile giustizia divina, per offrire loro la buona novella della misericordia e del perdono, raggiungendo anche i lontani con il supremo dono d’amore della Sua morte in Croce. Nelle Antitesi, che faceva precedere al canone biblico da lui fissato, Marcione classificava e selezionava i testi della Scrittura in base a questo fondamentale criterio dualistico, ritenendo di dimostrare così la malvagità del Dio dei giudei, rispetto al quale far risplendere la superiorità  del Vangelo [24] . Per la sua esaltazione della novità evangelica, per il suo forte paolinismo e per la radicalità dei suoi giudizi il marcionismo, sebbene rifiutato dalla Chiesa, eserciterà un grande influsso sulla coscienza cristiana e sarà certamente una delle cause remote dell’antisemitismo che non cesserà di serpeggiare in essa. L’ispirazione gnostica che lo anima, in forza della quale la rivelazione è sottoposta al giudizio più o meno arbitrario di un criterio fissato razionalmente, farà però avvertire in maniera diffusa l’estraneità fra l’atteggiamento dualistico e la coscienza cristiana, che non può tollerare la cancellazione dell’antico Testamento, pena la perdita delle sue stesse radici.
            Anche contro l’arbitrio del modello dualistico si andrà configurando nella storia della teologia cristiana il modello allegorico: l’Antico Testamento è accettato e studiato con amore, ma se ne opera una spiritualizzazione, tesa a spiegare ogni aspetto della lettera veterotestamentaria alla luce dello Spirito del Nuovo Testamento. Eccellerà in quest’opera di simbolizzazione e di progressive inclusioni fra il piano storico e quello cristologico la Scuola alessandrina (Clemente, Origene): la lettera rimanda al senso spirituale. L’uso dell’esegesi allegorica spinge a riconoscere – a volte anche forzatamente – il non detto nel detto (allegoria è, appunto, “dire altro”) [25] . Il risultato del procedimento sarà lo svuotamento dell’antico Testamento, operato non esteriormente per via di semplice soppressione, ma dal di dentro, in quanto lo si priverà della sua intenzionalità propria, immettendovene un’altra, spesso del tutto estranea al senso originario. In tal modo, la sostituzione della Chiesa a Israele sarà compiuta nello stesso testo che è a fondamento dell’identità della fede ebraica. Di questo processo risentirà lo stesso cristianesimo, indebolito nei suoi fondamenti storici: condizionata dal dualismo greco-ellenistico, la tendenza allegorica, spiritualizzando la lettera, finirà col destoricizzare la stessa fede cristiana. Se ciò che è detto nel Nuovo è già presente nell’antico, nella forma del tipo o dell’allegoria, “è abolita non soltanto la storia della salvezza contenuta nel Vecchio Testamento, ma perdono il loro valore di avvenimenti storici anche il fatto unico dell’incarnazione di Gesù Cristo e quello della predicazione di questa incarnazione da parte degli apostoli” [26] .
            Nel modello dualistico gioca dunque una logica di contrasto, come in quello allegorico una logica di sostituzione effettiva. Nel cosiddetto modello antologico è un procedimento di integrazione a prevalere: il resto d’Israele, inteso come il meglio che l’Antico Testamento ha saputo esprimere, viene assunto e integrato nell’identità spirituale della Chiesa. Si opera in tal modo una strumentalizzazione dell’antico Patto e delle sue testimonianze: si ricorre ad esse nel rispetto del loro significato storico, ma se ne fa uso selettivamente, privilegiando ciò che sembra più valido universalmente o ciò che appare più facilmente interpretabile in chiave cristologica. Non si nega Israele del tutto, ma se ne compie un’effettiva cancellazione parziale. Anche qui il rischio che si affaccia è lo svuotamento dell’antica Alleanza e la sua pura e semplice assimilazione alla Nuova. Un’interpretazione della formula “il Nuovo Testamento era latente nell’antico, l’Antico è manifesto nel Nuovo” [27] , che andasse in questa direzione, vanificherebbe il dinamismo in cui si realizza l’economia divina, trascurando il carattere di storicità proprio della rivelazione ebraico – cristiana. L’origine di questo modo di interpretare sembra risalire addirittura al fatto che, quando il canone neotestamentario non era ancora redatto né fissato, i cristiani si sforzavano di cogliere nell’unico canone a loro disposizione, quello veterotestamentario, la storia di Gesù, centro e fondamento della loro fede. Di qui all’interpretazione apologetica dell’antico Testamento il passo fu breve.
            Ciò che occorre allora salvaguardare nel rapporto fra la Chiesa e Israele è il valore dell’antica Alleanza in se stessa e il permanente significato religioso d’Israele, postulato da Paolo in forza della fedeltà di Dio al Suo patto. È il cosiddetto modello della complementarità che qui si affaccia: l’Antico Testamento ha un valore strutturale, fatto proprio dallo stesso Gesù, ebreo ed “ebreo per sempre”. La visione della realtà, caratteristica della radice santa, consta di un elemento fondamentale, che l’esistenza del popolo ebraico ha continuato tenacemente a testimoniare nella storia, nonostante tutti i tentativi di assimilazione o di soppressione compiuti nei suoi confronti. Questo elemento, vero centro e cuore dell’ebraismo, è l’alleanza con Dio. Tutto per l’ebreo si riferisce al Patto: il mondo buono e bello della creazione, la difficile libertà dell’essere umano, il destino del popolo eletto, pur tante volte infedele. Tutto, attraverso l’ascolto dell’eterno, domandato ogni giorno e più volte al giorno nello Shemà, si orienta a Lui, che va amato con tutto il cuore, cioè nell’insieme dei conflitti che attraversano questa sorgente di vita, soggetta all’attrazione del bene e del male, con tutta l’anima, fino al dono di sé, con tutte le forze, senza risparmio di alcuno dei propri mezzi (cf. Dt 6,4s.). Gesù stesso ha vissuto questa spiritualità dell’alleanza: egli è il nuovo Adamo, che obbedisce dove l’altro ha fallito. Gesù è il sì all’alleanza (cf. 2 Cor 1,20), il compimento nella sua stessa persona del patto di amore eterno fra Dio e il suo popolo, l’Israele realizzato secondo il cuore di Dio.
            Il Nuovo Testamento incarna dunque l’Antico nel senso che l’alleanza realizzata in Gesù rende possibile la comprensione del Patto nella pienezza del suo senso più vero. Non è questione di una o due alleanze: l’economia del Patto è una sola e consiste precisamente nel disegno d’amore di Dio per il Suo popolo, in quello che Paolo chiamerà il mistero nascosto dai secoli (cf. Rm 16,25). Ma i tempi, le forme e il grado di realizzazione cambiano: l’alleanza con Noè non è quella con Abramo, e questa non è ancora quella del Sinai. L’alleanza del Golgota e della Pasqua di resurrezione non nega le altre, le porta a compimento. Perciò fra i due popoli dell’economia dell’alleanza non può che esserci complementarità: il Nuovo illumina, l’Antico si lascia illuminare, ma a sua volta è in se stesso indispensabile per comprendere la luce del Nuovo. Grazie a questa funzione ermeneutica, alla luce del Nuovo i testi del Vecchio Testamento verranno ora assunti, ora ridimensionati, ora riportati alla priorità indiscussa dell’amore di Dio: né potrà essere mai obliata la novità dell’incarnazione del Figlio, che sorpassa ogni attesa. L’Antico Testamento resta però nel suo valore di struttura, nel suo fondamentale modo di vedere il mondo, l’uomo, la storia nella luce dell’alleanza con Dio: e questo spiega perché la permanenza d’Israele, testimone tenace di questa visione del mondo fra i popoli, non è minaccia né impoverimento della Chiesa, ma ricchezza per essa, e la Chiesa, popolo di Dio, non è annullamento dell’antico, ma offerta permanente, rispettosa e fiduciosa, della pienezza possibile.
            Perciò, “essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei”, il Vaticano II ha voluto “promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo” [28] . Fatti salvi i cammini individuali sempre possibili e ricchi di senso profetico, i due popoli, come i due esploratori della Terra promessa, dovranno dunque camminare insieme in una sorta di processo di riconciliazione sempre “in fieri”, fino al tempo in cui  confluiranno nell’unico popolo del tempo escatologico, che i cristiani attendono come frutto pieno della riconciliazione attuata nel sangue del Messia crocifisso e risorto, segno levato per attirare a sé tutti i popoli nell’universale pellegrinaggio dei popoli verso la Gerusalemme del compimento finale.
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[1] Così afferma ad esempio Evagrio (verso il 430): Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Cf. H. Leclerq, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, 3, 169s.; C. Leonardi, Ampelos. Il simbolo della Vite nell’arte pagana e paleocristiana, Roma 1947, 149-163.
[2] Ancora Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Stesse idee in S. Massimo di Torino (metà del V sec.): Hom. 79: PL 57,423s.
[3] Y. Congar, Ecclesia ab Abel, in Abhandlungen über Theologie und Kirche. Festschrift Karl Adam, Düsseldorf 1952, 103, n. 65, rimanda a Pietro di Mora (Capuano: 1242) e ad Adamo di S. Vittore. L’allusione è a Mc 11,9: “Qui praeibant et qui sequebantur clamabant dicentes Hosanna”.
[4] Cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9, citati in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999, 391.
[5] Cf. H. Rahner, Die Grabschrift des Loyola, in Stimmen der Zeit 139, 1946-47, 321-339. La frase, riportata in Imago Primi Saeculi Societatis Iesu, Anversa 1640, 280, quale “Elogium sepulcrale S. Ignatii, è stata usata da Hölderlin nel 1794 come esergo al frammento di romanzo Hyperion.
[6] Cf. la presentazione di questa tradizione in G. Scholem, Schöpfung aus Nichts und Selbstverschränkung Gottes, Eranos_Jahrbuch 1956, 87-119. Cf. pure Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, 270ss. Dopo aver notato il capovolgimento operato dai Cabbalisti rispetto all’idea di un “contrarsi” della divina presenza sul Monte Sion (contrazione divina “ad extra”) mediante la dottrina della contrazione divina per così dire “ad intra”, Scholem osserva: “Si è tentati di interpretare questo ritrarsi di Dio nel suo proprio essere in termini di ‘esilio’, di ‘bando’ dalla sua totale onnipotenza nella più profonda solitudine. Considerata così, l’idea dello zim-zum sarebbe il più profondo simbolo pensabile dell’esilio” (271).
[7] Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in Busi, Simboli, cit., 345.
[8] Cf. le tesi di A. Neher, L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, Paris 1970; tr. it.L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Piemme, Casale Monferrato 1983. Cf. pure C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Écriture et Rèvèlation, Paris 1992: tr.it. Alle porte del Silenzio. Scrittura e rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003.
[9] A. Neher, L’esilio della Parola, o.c., 146.
[10] Ib., 178.
[11]   E. Lévinas, Difficile liberté, Paris 1963, 193.
[12] Cf. M.-A. Ouaknin, La “lettura infinita”. Introduzione alla meditazione ebraica, ECIG, Genova 1998.
[13] Cf. la ricerca di M. Olender, Le lingue del Paradiso, Il Mulino, Bologna 1991.
[14] Sulla teologia del rapporto fra la Chiesa e Israele cf. tra l’altro: A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia 1966; N. Lohfink, L’alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991; F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982; Id., Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987; C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983. J.T. Pawlikowski, Judentum und Christentum, in Theologische Realenzyklopädie Band XVII, 3/4, Berlin – New York 1988, 386-403, fornisce, con un’ampia recensione di posizioni, una ricca bibliografia.
[15] Cf. Lumen Gentium, 6.
[16] «Et ita Patres antiqui [veteris Testamenti] pertinebant ad idem corpus Ecclesiae ad quod nos pertinemus»: S. Tommaso, Summa Theol. III, q. 8, a. 3, ad 3um («Utrum Christus sit caput omnium hominum»).
[17] È appunto la tesi dell’alleanza unica, sostenuta ad esempio da Autori come M. Hellwig, M. Dubois, P. van Buren, N. Lohfink, ecc.: cf. l’accurata informazione di J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 393-398.
[18] G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, 107s.
[19] Cf. J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 398ss.: è la posizione delle teologie delle due alleanze, che va dalle contrapposizioni piuttosto semplicistiche di un J. Parkes (l’esperienza del Sinai destinata alla comunità, quella del Golgota al rapporto fra l’individuo e Dio) a un’ampia serie di interpretazioni intermedie, fra cui spiccano quelle di C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983, che evidenzia le scelte operate da Gesù stesso fra le varie forme dell’attesa messianica di Israele (tutt’altro che omogenee fra loro!) e vede la novità cristiana nel fatto che il Profeta galileo annuncia l’avvento del Regno di Dio e lo collega alla Sua persona e alla Sua opera, e quella di F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982 e Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987, che coglie la novità nel profondissimo rapporto di unità che c’è fra Gesù e Dio, e quindi nell’Incarnazione, intesa come radicalizzazione della promessa, più che suo compimento realizzato. A riprova Mussner adduce ad esempio le anticipazioni della “cristologia del Figlio” presenti nella letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (cf. 380-389).
[20] C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, o.c., 204s.
[21] Cf. ib., le tesi della Parte Terza: 162ss. e 188ss.
[22] Cf. C. Di Sante, L’Antica e la Nuova Alleanza. Il rapporto tra i due Testamenti, in Israele e le genti, o.c., 53-71.
[23] Così J. Isaac, Gesù e Israele (1948), Firenze 1976, sintetizza questa posizione: 86. È proprio la persistente influenza della mentalità marcionita che potrebbe rendere equivoco l’uso dell’espressione Nuova Alleanza: cf. N. Lohfink, L’alleanza mai revocata, o.c., 17ss.
[24] Cf. A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, Leiprig 19242. Cf. l’informazione che dà Ireneo di Lione, Adversus Haereses, I, 27, 1-3, classificando Marcione fra gli gnostici.
[25] Cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985.
[26] O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 19694, 163.
[27] Cf. S. Agostino, Quaestiones in Heptateuchum l. 2, q. 73: PL 34,623: “Novum Testamentum in Vetere latebat; Vetus nunc in Novo patet”.
[28] Nostra Aetate, 4. Cf. per la raccolta dei più importanti documenti L. Sestieri – G. Cereti, Le Chiese cristiane e l’ebraismo 1947-1983, Casale Monferrato 1983. Cf. pure M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica. Con una raccolta di testi sul dialogo ebraico-cristiano, Bologna 1994, con presentazione e commento dei documenti ufficiali della Chiesa dal Concilio Vaticano II in poi. 

« SO IN CHI HO POSTO LA MIA FEDE » (2Tim 1,12) Mons. Francesco Moraglia

 http://www.zenit.org/article-33232?l=italian

(alcuni riferimenti a Paolo)

« SO IN CHI HO POSTO LA MIA FEDE » (2Tim 1,12)

Omelia del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede

VENEZIA, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo l’omelia tenuta ieri durante la Solenne Celebrazione Eucaristica in piazza San Marco dal patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede.
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Introduzione
Carissimi,
l’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per essere viva Chiesa del Signore.
Inizio con le parole di Benedetto XVI che nella lettera apostolica Porta fidei – indicendo l’anno – riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al discepolo Timoteo e lo esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF,15). E, poi, continua: “Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie in noi” (PF, 15).
Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani, ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso.
L’Anno della Fede: una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol dire appartenere a Dio e testimoniare con la vita battesimale, il Signore Gesù; per questo necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente, liberi nel coglierlo secondo verità e giustizia.
Ora, la domanda “venga il tuo Regno…” (Mt. 6,10) – che Gesù pone all’inizio del Padre Nostro – non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di verità e di giustizia che sono intorno a noi.
In questo tempo di grazia – che è l’Anno della Fede – pastori e fedeli sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato” (2Tm 1,12). L’Anno della Fede – indetto da Benedetto XVI per celebrare i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre…” (PF, n.1).
Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno. Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi “storicamente” amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più coraggio e fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di riconciliazione.
La questione decisiva, o “caso serio” nel nostro personale cammino verso una fede più matura, richiede di far nostre sine glossa – ossia senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando proprio da quelle sul perdono. Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire vere relazioni personali e comunitarie. Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca estraneità.
“Io credo”, “noi crediamo”: salvati con gli altri
Bisogna – secondo l’esortazione dell’apostolo Paolo – non esser pigri nella fede ma, piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di Dio. La fede non si esaurisce nell’atto personale del credere. L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione comunitaria del credere, vale a dire “noi crediamo”.
La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi, infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno, qualcuno ci ha rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo l’incontro diretto col Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo introdurrà  nella vita di fede, la vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).
Ciascuno di noi, in modo simile, condivide la fede con chi gliel’ha annunciata e con quanti, insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del popolo di Dio che – come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II – va intesa sempre come unione di fedeli e pastori.
Le parole della costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito, sono chiare: “La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG, 12).
Henri de Lubac, grande storico della teologia, circa la connotazione ecclesiale della fede così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non può essere altro che la Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è dunque partecipazione alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede “nella” Chiesa, è fede “della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” (H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano, 1979, 109). Si dice letteralmente: “l’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” e con ciò si riconoscono ed evidenziano gli elementi che, anche storicamente, segnano la vita di fede della Sposa del Signore.
Un pensiero ricorrente nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che l’uomo si pone in relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi, d’altra parte, comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti della fede. Si dice comunemente: crediamo le stesse “cose”. Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa cultura e non parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo, attraverso la loro fede, comunicano fra loro nelle cose più importanti. Condividono, infatti, le risposte alle domande fondamentali dell’uomo: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia fragilità? C’è qualcosa dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il male?
Si manifesta, così, la dimensione comunitaria del credere e Benedetto XVI lo evidenzia. L’uomo non è chiamato da solo alla salvezza ma all’interno della comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo” (PF n.7). Nella Chiesa ogni realtà è personale e, allo stesso tempo, comunitaria. Nulla è individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.
Quando Gesù comincia ad annunziare il Regno, raduna attorno a sé il nuovo popolo di Dio, costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli. Gesù, poi, congiunge il gesto sacramentale del pane spezzato e del vino effuso con la piena comunione ecclesiale. La salvezza non si esprime, così, come la presenza individuale di Gesù nelle coscienze dei singoli ma nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il suo corpo. Sant’Agostino parla, a ragione, della Chiesa come del Christus totus, il Cristo integrale (cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in PL, 36,1081).
La dimensione comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io personale ma fa in maniera che il singolo credente non cada in una fede fai da te, oggi molto di moda. La fede – nella sua dimensione comunitaria e relazionale – è, alla fine, essenziale e permette al soggetto di raggiungere la pienezza umana.  La fede fai da te è comunque rischio ricorrente per la nostra epoca, segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o, più realisticamente, nella cultura dominante del determinato momento storico.
In altri termini – stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù – gli uomini non sono chiamati a una salvezza individuale ma donata a un popolo costituito su un fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici.
Il libro degli Atti degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la diuturna testimonianza: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).
Insieme a un tale quadro idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di Anania e Saffira (cfr. At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di Corinto che vive con la moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni della stessa comunità che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci sorprendono: “…verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che sanno veramente fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. Che cosa volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo? ” (1Cor, 4, 19-21). 
I Dodici rimarranno, comunque, il fondamento: coloro che hanno visto e ascoltato il Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno seguito a Gerusalemme, l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto, l’hanno incontrato nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e, concordi, testimoniano che è apparso a Simone (cfr. Lc. 24,34). La Chiesa è fondata sui Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro successori che continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli estremi confini della terra.
L’Anno della Fede è, nello stesso tempo, itinerario personale del discepolo ed ecclesiale dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che conduce il credente verso un più vero e intenso incontro con la persona di Gesù, la quale dà alla vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione decisiva (cfr. PF n.1).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II – come insegna Benedetto XVI – s’inserisce in un cammino ecclesiale di riforma nella continuità. All’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, troviamo queste parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio… ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura…” (LG n.1).
Cristo – col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” – ci raggiunge tramite la Chiesa e il suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale dei Dodici a partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il giorno successivo al sabato. La Chiesa, negli uomini e donne che la compongono, è la prima destinataria dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr. Lc 24,34). Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio.
Benedetto XVI lo sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei, afferma: “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF n.10).
E’ necessario, all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il richiamo dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del compito e della missione della Chiesa nei confronti dell’annuncio del vangelo cristiano: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10,14-15).
E’, quindi, attraverso la Chiesa che noi incontriamo Dio e possiamo credere in Lui. Ma nonostante ciò – come detto – l’atto di fede rimane gesto della persona, seppur scandito nella comunità ecclesiale e attraverso di essa, mai al di fuori o senza essa. Secondo tale logica, immaginare un incontro con Dio escludendo il prossimo equivarrebbe ad una radicale incomprensione della rivelazione cristiana per la quale gli altri – per la stessa volontà di Gesù – sono segni dell’incontro con l’Altro. Ed è Gesù che ce lo ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).
Dato che la fede di cui parla Gesù è sempre intimamente legata all’amore, allora, nella vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura del cuore. Fede e carità si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede deve essere occasione per crescere nella testimonianza reciproca della carità. Una vita di fede priva delle opere – e per il cristiano la prima opera è la carità – costituisce, di per sé, un’obiezione fondamentale. Si tratterebbe di una contraddizione in termini: non è vera, non è genuina, non è salvifica una fede che sia incapace d’amare. Si può dire piuttosto che è una fede che ha smarrito se stessa (cfr. PF n.14).
In tale prospettiva comprendiamo quanto sia decisivo ciò che Giovanni scrive nella prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).
Così la fede – soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera – conduce a vivere la comunione più intensa con Dio, una comunione che si esprime in una fraternità più grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono coinvolti. Il culto, infatti, non risulta gradito a Dio se non esprime un cuore riconciliato. Il Vangelo di Matteo ci avverte in proposito: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).
La fede, poi, si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente rilevabili: la domenica e le festività proprie della religiosità popolare, gli usi e i costumi di determinate popolazioni e territori ma soprattutto – lo si ribadisce – la domenica, giorno del Signore. Il rischio, soprattutto in epoche che si caratterizzano per la veloce transizione – la cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che esprime la grande Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità.
Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze. Un altro pericolo, sul quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel rischio di confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una determinata popolazione.
Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto, appartengono alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede.
I contenuti della fede
L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.
La lettura meditata delle quattro Costituzioni conciliari e del Catechismo della Chiesa Cattolica ci accompagni lungo l’Anno della Fede sia a livello personale sia comunitario; i due livelli – personale e comunitario – sono, infatti, necessari per una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova condensata la saggezza dell’ultimo Concilio.
E’ vivo desiderio del Santo Padre Benedetto XVI – come lo fu già del suo predecessore, il beato Giovanni Paolo II – fare in modo che il Catechismo, in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, trovi una più grande  accoglienza presso le nostre comunità.
E proprio Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, ricordava come tale idea si manifestò in occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di un’esplicita richiesta proveniente dai padri sinodali. Giovanni Paolo II affermava così d’aver fatto suo il desiderio espresso dal Sinodo dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal modo conferiva a questo desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo Pietro (cfr. Fidei Depositum, Introduzione).
E’ importante che nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa particolare – vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici – trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno sia assunto da tutti e, in modo particolare, dai parroci. Ricordo, pure, che la piena recezione del Vaticano II chiede di promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Ancora il beato Giovanni Paolo II – sempre nella Costituzione Fidei Depositum – si è servito di espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle sue parole: “Il Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la pubblicazione in virtù dell’autorità apostolica, è un’esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa…” (Fidei Depositum, parte IV).
Fin da questi primi mesi il Catechismo della Chiesa Cattolica entri abitualmente nella pastorale ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle associazioni e aggregazioni laicali. Ritengo che un proficuo approccio al testo del Catechismo sia offerto dal Compendio dello stesso Catechismo che, in modo agile e organico, introduce e presenta quanto il testo dice circa la professione di fede, i sacramenti, la vita cristiana e la preghiera della Chiesa.
Cito, infine, il passo con cui si chiude la prefazione del Catechismo della Chiesa Cattolica che assume – e fa suo – il principio pastorale del Catechismo Romano, espressione del Concilio di Trento, promulgato da papa San Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti costituirà – penso – una felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore” (Catechismo Romano, 10).
A tutti auguro un Anno della Fede in compagnia con Maria, la prima discepola del Signore Gesù, il Salvatore del mondo.    

L’EDUCAZIONE ALLA FEDE (PRIMA PARTE) – Mons. Bruno Forte

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L’EDUCAZIONE ALLA FEDE (PRIMA PARTE)

Relazione di monsignor Bruno Forte al Seminario di studio per i Vescovi Italiani

ROMA, domenica, 18 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la prima parte della relazione tenuta martedì 13 novembre a Roma da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, al Seminario di studio per i Vescovi Italiani.
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Il Sinodo dei Vescovi dedicato al tema della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, svoltosi dal 7 al 28 Ottobre 2012, ha rappresentato una straordinaria occasione per condividere esperienze pastorali e delineare vie affidabili per un annuncio della fede alle donne e agli uomini di oggi, annuncio “nuovo” tanto a partire dal rinnovamento dei cuori nello Spirito Santo, che dalla novità delle sfide poste ai credenti dai diversi contesti in cui vivono. Da tutti i partecipanti al Sinodo è stata rilevata nel mondo intero un’attesa – esplicita o celata – di un nuovo risuonare del Vangelo, che dia speranza, gioia e motivazione ai credenti, anche non praticanti, e si offra a chi non crede come proposta di vita e di speranza. Certamente, nella varietà delle situazioni presenti nel “villaggio globale”, la proposta cristiana incontra non poche difficoltà. A volte esse si manifestano sotto forma di una vera e propria persecuzione religiosa; altre volte in una diffusa indifferenza dovuta al rigetto, conseguente alla crisi delle ideologie, nei confronti di ogni visione del mondo totalitaria e violenta; a volte, infine, specialmente nel Nord del pianeta, nella sfida rappresentata dalla cosiddetta “modernità liquida”, in cui ciascuno si sente portatore della propria verità soggettiva, incapace di affidarsi a un progetto comune.
La “globalizzazione”, comunemente intesa nel suo profilo socio-economico, è stata vissuta al Sinodo come un’esperienza unica di coappartenenza a una stessa umanità, vissuta come famiglia di Dio, raggiunta dal dono del Suo amore in Cristo nella varietà delle mediazioni storiche e culturali. Il continuo scambio fra i Padri sinodali ha dato più volte l’impressione intensa di un ritrovarsi fraterno, radicato nell’incontro col Risorto, vivo e presente per la fede nei cuori. In questa luce è emerso con chiarezza il senso vero dell’aggettivo posto davanti al sostantivo evangelizzazione. Non si tratta di una novità cronologica, quasi che si voglia fare quello che prima non si era mai fatto, secondo il significato di novità temporale, espresso nel greco del Nuovo Testamento col termine “neòs”. Ciò che è veramente in gioco è la novità di un cuore “nuovo”, capace di nuovo ardore, di creatività e audacia nuove, secondo il senso della novità qualitativa o escatologica, che il greco biblico esprime con l’aggettivo “kainòs”. È la novità dei “comandamento nuovo” datoci da Gesù, l’“entolé kainé”, nuovo non perché chieda quello che prima non veniva richiesto, l’amore di Dio e del prossimo, ma perché lo chiede a cuori resi nuovi dal dono dello Spirito. In altre parole, questo Sinodo ha domandato alla Chiesa di rinnovarsi nella fede e nella carità, di intraprendere cammini umili e coraggiosi di conversione pastorale, che metta al primo posto l’esperienza dell’amore fraterno, della carità verso Dio e verso i poveri, e lasci trasparire il Vangelo attraverso testimonianze contagiose di gioia e di bellezza, rese sempre con simpatia e amicizia verso i destinatari dell’annuncio.
In questa prospettiva, particolare attenzione è stata manifestata da parte del Sinodo ai giovani, che in considerazione dei processi in atto di estraniamento dalla fede, alcuni già definiscono “la prima generazione incredula”: da più interventi si è sottolineato come alle nuove generazioni bisogna più che mai proporre in maniera credibile l’incontro con Gesù come amore liberante e salvifico, anche se forte ed esigente. In famiglia, nella scuola, nella comunità cristiana, occorre dare ai giovani tempo e ascolto, stabilendo relazioni personali feconde, annunciando la bellezza della sequela del Signore, senza mai scoraggiarsi. La trasmissione della fede alle nuove generazioni diventa così in qualche modo la cartina da tornasole della temperatura spirituale degli evangelizzatori: la loro credibilità, la profondità delle loro convinzioni e la verità dell’amore con cui si dedicato alla causa del Vangelo, emergono qui in primo piano, anche per la singolare capacità che hanno i giovani di discernere l’autenticità di ciò che viene loro proposto a partire dall’autenticità del testimone. Come diceva Paolo VI nella “Evangelii Nuntiandi” (n. 41), “l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”. I giovani stessi, peraltro, sono chiamati a essere soggetto attivo della nuova evangelizzazione, specie fra i loro coetanei: un tale impegno li aiuterà anche a discernere il progetto di Dio su di loro e a corrispondervi come alla vocazione che dà senso e bellezza alla vita. Alla luce di quanto emerso nei lavori sinodali, mi pare allora di poter evidenziare alcune indicazioni di fondo sul tema dell’educazione alla fede specialmente dei giovani.
1. In primo luogo, circa la rilevanza della cosiddetta sfida educativa:essa appare chiara se solo si consideri quanto la trasmissione ai nostri ragazzi e giovani di ciò che per noi veramente conta nella vita risulti oggi più che mai ardua. È come se la distanza fra le generazioni si fosse improvvisamente accresciuta, sia per l’accelerazione dei cambiamenti in atto, sia per la novità dei linguaggi che il mondo del computer e della rete ci va imponendo. I “nativi digitali” – coloro cioè che sono nati nell’era di “internet” e che vi accedono con strabiliante naturalezza – fanno fatica a intendersi con gli abitanti del vecchio pianeta terra, solcato da confini e lontananze, che risultavano spesso difficilmente valicabili. Quanto viene proposto dall’opera di genitori e educatori desiderosi di far bene, rischia di essere volatilizzato dal mondo della “rete” in cui i nostri ragazzi navigano alla grande, spesso senza adeguata cautela e discernimento. Mentre il “villaggio globale” dei giovani è sempre più omologato su modelli planetari, le identità tradizionali, radicate in storia, usi e costumi, appaiono relativizzarsi e perdere d’interesse ai loro occhi. Anche nell’azione pastorale ci sembra a volte di rispondere a domande che nessuno pone o di porre domande che non interessano più nessuno!
L’amore per i nostri ragazzi, che ci motiva a trasmettere loro quanto di più bello abbiamo in cuore, sembra dunque ferito dalla difficoltà di trovare la via giusta perché ciò avvenga. Come vivere questo amore ferito? Come affrontare la sfida che ne consegue? Come dire alle nuove generazioni ciò che veramente ci sta a cuore, la vita della nostra vita, il senso delle nostre fatiche e la speranza dei nostri giorni? È a domande come queste che più volte ha invitato a rispondere Papa Benedetto XVI, che all’educazione alla fede ha dedicato tutta la sua vita di teologo e di pastore. È a tali domande che i Vescovi italiani hanno scelto di prestare la loro attenzione prioritaria in questi “anni dieci” del terzo millennio. È su di esse che vorrei riflettere a partire da un’icona biblica, quella dei discepoli di Emmaus, cui si affianca sulla via un viandante dapprima non riconosciuto, Gesù, che li introduce progressivamente alla realtà tutta intera del suo mistero (Lc  24, 13-35). Mi sembra che il modello del Figlio di Dio, che si fa educatore dei due discepoli tanto simili a noi e ai nostri ragazzi, come noi “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, possa aiutarci a capire come rispondere alla sfida tanto urgente, quanto decisiva dell’educazione.

L’EDUCAZIONE ALLA FEDE (SECONDA PARTE) – Mons. Bruno Forte

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L’EDUCAZIONE ALLA FEDE (SECONDA PARTE)

Relazione di monsignor Bruno Forte al Seminario di studio per i Vescovi Italiani

ROMA, lunedì, 19 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la seconda parte della relazione tenuta martedì 13 novembre a Roma da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, al Seminario di studio per i Vescovi Italiani.
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2. La posta in gioco: il senso della vita. Ciò che il racconto di Emmaus ci fa anzitutto capire è che l’educazione è un cammino: essa non avviene nel chiuso di una relazione esclusiva e rassicurante, decisa una volta per sempre, ma si pone nel rischio e nella complessità del divenire della persona, teso fra nostalgie e speranze, di cui è appunto figura il cammino da Gerusalemme a Emmaus percorso dai due discepoli e dal misterioso Viandante. Siamo tutti usciti dalla città di Dio, in quanto opera delle Sue mani, e andiamo pellegrini verso il domani nell’avanzare della sera, bisognosi di qualcuno che ci stia vicino, sulla cui presenza affidabile poter contare: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto” (v. 29). Tutti siamo incamminati verso l’ultimo silenzio dell’esistenza che muore! Proprio nel confronto con l’enigma della morte, però, si affacciano alla mente e al cuore due radicali e opposte possibilità: ritenersi “gettati verso la morte” (come pensa Martin Heidegger riflettendo sulla condizione umana) o considerarsi “mendicanti del cielo” (come sostiene ad esempio Jacques Maritain), destinati alla vita vittoriosa sulla morte della Gerusalemme celeste. Se l’uomo è solo in questo mondo, l’ultima parola sul suo destino non potrà che essere quella del finale silenzio in cui la sua esistenza si spegnerà. Se invece c’è un Dio che è amore, ogni essere personale è un “tu” unico e singolare cui quest’amore è rivolto, e che come tale vive e vivrà per sempre grazie all’eterna fedeltà dell’interlocutore divino. La tristezza dei due discepoli all’inizio del racconto di Emmaus è quella di chi teme che la morte l’abbia vinta sulla vita; l’entusiasmo con cui ripartono nella notte per andare ad annunciare a tutti di aver incontrato il Risorto è quello di chi sa che la vita ha vinto e vincerà la morte.
Fra le due opzioni la scelta è decisiva e va fatta ogni giorno: ecco perché siamo tutti in cammino sulla via dell’educazione, per scegliere sempre di nuovo ciò su cui sta o cade il senso ultimo della nostra vita. Ed ecco perché l’annuncio della vita vittoriosa sulla morte deve risuonare ogni giorno, in un’incessante testimonianza vissuta nella condivisione del cammino e nella proposta umile e coraggiosa della buona novella dell’amore, fatta nella più ampia varietà di forme, di linguaggi, di esperienze: è questa la “nuova evangelizzazione” di cui ogni generazione ha bisogno. Non va mai dato per scontato l’annuncio del senso e della bellezza della vita, vista nell’orizzonte di Dio e del Suo eterno amore. Ci sarà sempre bisogno di educatori, che siano persone dal cuore nuovo, capaci di cantare il cantico nuovo della speranza e della fede lungo le vie, talvolta tortuose e scoscese, che i pellegrini del tempo sono chiamati a percorrere. Chi educa non dovrà mai dimenticare che la posta in gioco nell’educazione è la scelta decisiva della persona, l’opzione fondamentale che qualificherà il suo stile di vita e le singole decisioni settoriali. Educare vuol dire introdurre al senso della realtà totale, attraverso un processo che aiuti la persona a riconoscere come vere e ad accogliere nella libertà le ragioni di vita e di speranza che le vengono proposte. La meta di un’educazione piena e realizzante non può che essere la scelta libera e fedele del bene, la sola che consenta alla persona di entrare nell’obbedienza al disegno di Dio su di lei, dov’è la sua vera pace. È quanto afferma nella forma più densa e precisa il Poeta: “E in la sua volontade è nostra pace / ell’è quel mar al qual tutto si move / ciò ch’ella cria e che natura face” (Paradiso, Canto III, 85).
3. La condizione base del processo educativo: il dono del tempo. Se educare è introdurre alla realtà totale, colta nel suo senso e nella sua bellezza ultima, si comprende quali possano essere le resistenze e gli ostacoli principali che si frappongono oggi all’impegno educativo. La fine dei “grandi racconti” ideologici, caratteristici dell’epoca moderna, ha lasciato il campo all’esperienza della frammentazione, tipica della cosiddetta post-modernità. La cultura del frammento ha modificato profondamente gli scenari tradizionali dell’educare anzitutto nella concezione del tempo. Questa risulta profondamente segnata dai processi culturali avviatisi a partire dall’Illuminismo: la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, imprime ai percorsi storici di adeguamento del reale all’ideale un’incalzante accelerazione. Questa “fretta della ragione” si esprime tanto nella rapidità dello sviluppo tecnico e scientifico, quanto nell’urgenza e nella passione rivoluzionarie, connesse all’ideologia. Il mito del progresso non è che una forma della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale e ideale, diviene chiave ispiratrice dell’impegno di trasformazione del presente, anticipazione militante di un avvenire dato per certo. Le moderne filosofie della storia non si limitano a interpretare il mondo, ma intendono trasformarlo al più presto, secondo la propria immagine e somiglianza. L’emancipazione -  motivo ispiratore e sempre ammaliante dello spirito moderno -  porta con sé un’indiscutibile carica di urgenza, un’indifferibile accelerazione sui tempi: il divario fra “tempo storico” e “tempo biologico”, ad esempio, è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di soluzioni finali, tipica della religione emancipata del progresso.
Le conseguenze di questa sfasatura di tempi -  di cui l’esempio forse più vistoso è il possibile impiego distruttivo dell’energia nucleare -  non sono riscontrabili solo negli effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale, ma anche nelle prospettive che si disegnano per i soggetti storici. Occorre ritrovare il predominio umano sul tempo, per tornare a dare tempo alla persona e alle esigenze del suo sviluppo integrale. Di fronte a questa urgenza si comprende come la prima e decisiva condizione del processo educativo riguardi proprio l’uso del tempo: occorre aver tempo per l’altro e dargli tempo, accompagnandolo nella durata con fedeltà, vivendo con perseveranza la gratuità del dono del proprio tempo. Oggi si parla di “banca del tempo” per dire quanto è prezioso il mettere a disposizione degli altri gratuitamente anche solo qualche ora della nostra settimana: l’impegno educativo esige un’immensa disponibilità a spendere le risorse di questa banca. Chi ha fretta o non è pronto ad ascoltare e accompagnare pazientemente il cammino altrui, non sarà mai un educatore. Tutt’al più potrà pretendere di proporsi come un modello lontano, alla fine poco significativo e coinvolgente per la vita degli altri. Gesù sulla via di Emmaus avrebbe potuto svelare subito il suo mistero: se non lo ha fatto, è perché sapeva che i due discepoli avevano bisogno di tempo per capire quanto avrebbe loro rivelato, e forse – come diceva Sant’Ireneo agli albori della riflessione cristiana – perché anche Dio ha bisogno di tempo per imparare a farsi vicino alla sua creatura così fragile e incostante. Come in ogni rapporto basato sull’amore, anche nel rapporto educativo il dono del tempo è il segno più credibile del proprio coinvolgimento al servizio del bene dell’altro.

LO SPIRITO E LA CHIESA (SECONDA PARTE)

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LO SPIRITO E LA CHIESA (SECONDA PARTE)

Relazione di mons. Bruno Forte al recente Convegno promosso da RnS

(note sul sito)

ROMA, lunedì, 5 novembre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la seconda parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto (Abruzzo), al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
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2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario
Nella cattolicità della missione si manifesta la ricchezza dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, lo “splendore” della Sua presenza. Questa consapevolezza si è espressa al nostro tempo in maniera altissima nel Concilio Vaticano II: “L’insegnamento di questo Concilio – afferma la Dominum et vivificantem – è essenzialmente ‘pneumatologico’, permeato della verità sullo Spirito Santo, come anima della Chiesa. Possiamo dire che nel suo ricco magistero il Concilio Vaticano II contiene propriamente tutto ciò che lo Spirito dice alle Chiese in ordine alla presente fase della storia della salvezza. Seguendo la guida dello Spirito di verità e rendendo testimonianza insieme con lui, il Concilio ha dato una speciale conferma della presenza dello Spirito Santo consolatore”[1]. Questa presenza è colta a vari livelli: il primo soggetto della missione è la Chiesa universale, la Catholica unita e vivificata dallo Spirito nella comunione dello spazio, espressa dalla comunione delle Chiese locali intorno alla Chiesa di Roma, che presiede nell’amore, “cum et sub Petro”, e nella comunione del tempo, manifestata dalla continuità ininterrotta della tradizione apostolica. La responsabilità di portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra e di impiantare dovunque la Chiesa è di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa.
Tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono donarlo: “Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere per parte sua la fede”[2]. In modo particolare, questa responsabilità missionaria investe il ministero della comunione: il Vescovo di Roma, anzitutto, in quanto ministro dell’unità della Chiesa universale, è caricato della “sollicitudo omnium ecclesiarum”, che si esprime particolarmente nell’ansia missionaria di far crescere ovunque la Catholica, sia nell’integralità della fede e della vita apostolica, che nella sua dilatazione presso tutte le genti. Nella solenne testimonianza della fede, attraverso il suo ministero profetico, liturgico e pastorale, nella promozione e nel sostegno della vitalità missionaria della Chiesa, ovunque diffusa, nell’esercizio del suo ministero universale di unità, il Papa si fa missionario del Vangelo per il mondo intero, come per la Chiesa e nella Chiesa, tutta in missione. Questa responsabilità universale il Vescovo di Roma la condivide con il collegio episcopale, cui spetta non di meno la sollecitudine per tutte le Chiese, e perciò l’impegno in vista dell’attività missionaria intrinseca alla Catholica, in esse presente[3]. Così, attraverso i loro vescovi in comunione col vescovo di Roma, tutte le Chiese partecipano alla sollecitudine dell’evangelizzazione e della missione universali, e sono chiamate a contribuire ad essa secondo i doni che lo Spirito ha dato a ciascuna, nella fecondità della cooperazione e dello scambio reciproco dei doni ricevuti.
Soggetto plenario dell’invio missionario è pure la Chiesa locale o particolare, in cui la Catholica si attua nella concretezza di uno spazio e di un tempo determinati: il popolo di Dio, radunato dalla Parola e dal Pane eucaristico, in cui nello Spirito Cristo si fa presente per la salvezza di tutti, è inviato ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni in cui vive ed opera. Tutta la Chiesa locale è inviata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo: alla cattolicità, propria della Chiesa locale sul piano della “communio”, deve corrispondere la cattolicità sul piano della missione. Che tutta la Chiesa locale sia inviata, vuol dire che, in forza del dono dello Spirito ricevuto nel battesimo e nell’eucaristia, non c’è nessuno nella comunità ecclesiale che possa ritenersi esentato dal compito missionario. Al ministero di unità spetta discernere e coordinare i carismi in vista dell’azione missionaria, a ogni battezzato il compito di mettere i doni ricevuti al servizio della missione ecclesiale. A nessuno è lecito il disimpegno, come a nessuno è lecita la separazione dagli altri. Tutti, nella corresponsabilità e nella comunione, sono chiamati a partecipare attivamente alla missione della Chiesa: se ciò implica da una parte l’esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, esige dall’altra lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione. La missione non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto dallo Spirito. “Tutti i credenti in Cristo – afferma l’Enciclica Dominum et vivificantem – sull’esempio degli apostoli, dovranno mettere ogni impegno nel conformare pensiero e azione alla volontà dello Spirito Santo, principio di unità della Chiesa”[4], soggetto trascendente, vivo e presente della sua missione.
3. La missione, inseparabilmente “kenosi” e “splendore” dello Spirito: la cattolicità del messaggio e dei destinatari
La cattolicità della missione non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo oggetto e i suoi destinatari, nella forza dello Spirito di Cristo: “La pienezza della realtà salvifica, che è il Cristo nella storia, si diffonde in modo sacramentale nella potenza dello Spirito Paraclito. In questo modo lo Spirito Santo è l’altro consolatore, o nuovo consolatore, perché mediante la sua azione la Buona Novella prende corpo nelle coscienze e nei cuori umani e si espande nella storia. In tutto ciò è lo Spirito Santo che dà la vita”[5]. La cattolicità del messaggio, lo “splendore” della verità salvifica, esige che la Chiesa, tutta impegnata nell’annuncio, si faccia portatrice del Vangelo nella sua interezza: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo! La buona novella da annunciare non è una semplice dottrina, ma una persona, il Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l’oggetto della fede e il contenuto dell’annuncio, ed insieme è lui il soggetto che opera nello Spirito in chi evangelizza. Il Cristo evangelizzato è al tempo stesso il Cristo evangelizzante nei suoi testimoni. Ne consegue per la Chiesa l’esigenza di non appartenere che a lui, di essere la sua memoria vivente, lasciandosi sempre nuovamente evangelizzare da lui, per essere sempre di nuovo rigenerata dalla sua Parola (Ecclesia creatura Verbi!). La missione esige la testimonianza integrale del Cristo, che abbraccia la comunione della fede nel tempo e nello spazio ed è voce della comunione dello Spirito, che, attraverso la tradizione apostolica, rende la Chiesa identica a se stessa nel suo principio sempre presente, il Cristo.
La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario della missione: la buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti. “Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19s). Per mezzo del ministero ecclesiale, nella potenza dello Spirito, è Cristo che “predica la Parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede”[6]. Lo scopo della missione non è altro che portare all’incontro con Cristo: essa è diretta alla profonda verità di ogni essere umano, bisognoso di incontrare il Risorto e di farne sempre nuovamente esperienza. La frontiera dell’evangelizzazione non è la linea di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma anzitutto il luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un’esistenza raggiunta dallo Spirito Santo si decide per Cristo. In questa decisione, possibile solo nell’incontro della libertà della persona con la Parola della fede e lo Spirito che dà vita, il tempo quantificato diventa tempo qualificato, ora di grazia, oggi di salvezza: da “krònos”, successione secondo il prima e il poi, si trasforma in “kairòs”, tempo della grazia e della vita nuova (cf. ad esempio Mt 8,29; 26,188; Mc 1,15; Lc 19,44; 21,8; Gv 7,6-8; At 1,7; 1 Ts 5,1ss.; Ef 5,16; Col 4,5; ecc.). La frontiera della missione passa dunque anzitutto nelle scelte fondamentali che qualificano la vita, e perciò anche all’interno della comunità ecclesiale, che, evangelizzando, ha sempre nuovamente bisogno di essere evangelizzata e di decidersi per il suo Signore nel vivo delle situazioni sempre nuove della storia. La Chiesa evangelizza, se continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito: così sta “sub Verbo Dei”, e può celebrare fiduciosamente i divini misteri per la salvezza del mondo.
La costante apertura alla cattolicità del messaggio non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la contemporanea apertura all’ampiezza dei bisogni umani e della destinazione dell’evangelo a tutte le genti: è qui che si pone l’esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per tutta la Chiesa, di impegnarsi affinché l’annuncio raggiunga veramente ogni persona umana. La Parola della salvezza esige la libertà e la generosità audace per essere gridata dai tetti, fino agli ultimi confini della terra. La “kènosi” della Parola e dello Spirito è rivolta a raggiungere ogni creatura in tutto il suo essere. Ciò esige l’impegno in un processo analogo al dinamismo dell’Incarnazione: “La Chiesa, per poter offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita portata da Dio, deve inserirsi in tutti i diversi raggruppamenti umani con lo stesso movimento, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò alle determinate condizioni sociali e culturali degli uomini, con cui visse”[7]. Cattolicità del soggetto, del messaggio e della destinazione della missione vengono così a saldarsi nell’unica cattolicità della Chiesa: se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall’esterno, chiederà loro conto degli evangelizzati. In tal senso, una Chiesa senza urgenza e passione missionaria tradisce la propria cattolicità, oppone resistenza allo Spirito che pour vuole animarla e si trasforma in un campo di morti, contraddicendo la sua natura di comunità dei risorti nel Risorto.
Conclusione
La Chiesa nella storia appare dunque come la “kènosi” e lo “splendore” dello Spirito Santo: “La Chiesa, radicata mediante il suo proprio mistero nell’economia trinitaria della salvezza, a buon diritto intende se stessa come sacramento dell’unità di tutto il genere umano. Essa sa di esserlo per la potenza dello Spirito Santo, della quale è segno e strumento nell’attuazione del piano salvifico di Dio. In questo modo si realizza la condiscendenza dell’infinito amore trinitario: l’avvicinarsi di Dio, Spirito invisibile, al mondo visibile. Dio uno e trino si comunica all’uomo nello Spirito Santo sin dall’inizio mediante la sua immagine e somiglianza. Sotto l’azione dello stesso Spirito l’uomo e, per suo mezzo, il mondo creato, redento da Cristo, si avvicinano ai loro definitivi destini in Dio”[8]. Ecco perché la vita secondo lo Spirito è inseparabile dalla comunione ecclesiale e questa da quella. Afferma Agostino: “Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo”[9]. Il testimone sa, perciò, dove attingere lo Spirito di cui ha bisogno per vivere la propria missione, partecipazione alle missioni divine: “Non separarti dalla Chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza, è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna”[10].
È lo Spirito che agendo nella comunità ecclesiale la rende eternamente giovane e bella! Mossa da questa convinzione, l’Enciclica di Giovanni Paolo II sullo Spirito Santo si conclude così: “La via della Chiesa passa attraverso il cuore dell’uomo, perché è qui il luogo recondito dell’incontro salvifico con lo Spirito Santo, col Dio nascosto, e proprio qui lo Spirito Santo diventa ‘sorgente di acqua, che zampilla per la vita eterna’. Qui egli giunge come Spirito di verità e come Paraclito, quale è stato promesso da Cristo. Di qui egli agisce come consolatore, intercessore, avvocato… Lo Spirito Santo non cessa di essere il custode della speranza nel cuore dell’uomo: della speranza di tutte le creature umane e, specialmente, di quelle che possiedono le primizie dello Spirito e aspettano la redenzione del loro corpo. Lo Spirito Santo, nel suo misterioso legame di divina comunione col Redentore dell’uomo, è il realizzatore della continuità della sua opera: egli prende da Cristo e trasmette a tutti, entrando incessantemente nella storia del mondo attraverso il cuore dell’uomo”[11]. Così lo Spirito nel cuore della Chiesa e di ogni credente è la sorgente sempre viva della giovinezza e della speranza del mondo!
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LO SPIRITO E LA CHIESA (PRIMA PARTE)

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LO SPIRITO E LA CHIESA (PRIMA PARTE)

Relazione di mons. Bruno Forte al recente Convegno promosso da RnS

(sono due parti la seconda domani, note sul sito)

ROMA, domenica, 4 novembre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la prima parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso da mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto (Abruzzo), al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
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1. La missione come “kenosi” dello Spirito: i modelli storici della missione – 2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario – 3. La missione inseparabilmente “kenosi” e “splendore” dello Spirito: la cattolicità del messaggio e dei destinatari – Conclusione
L’invio dello Spirito Santo da parte del Risorto può essere considerato l’inizio stesso della Chiesa: “Il tempo della Chiesa – afferma Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem -ha avuto inizio con la ‘venuta’, cioè con la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme insieme con Maria, la Madre del Signore”[1]. Quest’origine dalla Trinità attraverso le missioni del Figlio e dello Spirito mostra come la Chiesa sia costitutivamente “kenosi” e “splendore”, nascondimento e irradiazione, dell’amore trinitario nella storia[2]. Come nella Trinità così – per una non debole analogia – nella Chiesa, la missione è l’espressione del dinamismo più profondo della comunione, l’irradiazione della sovrabbondanza dell’amore, che in essa è effuso dallo Spirito Santo. Questo dinamismo originario è stato variamente vissuto e pensato nello sviluppo storico del popolo di Dio: nella varietà dei modelli che si sono succeduti nel tempo si realizza, in un certo senso, la “kènosi” dell’azione dello Spirito nella storia; nell’unica pienezza della Catholica e del suo dono al mondo è lo “splendore” dell’essere ecclesiale che viene a esprimersi.
1. La Chiesa come “kenosi” dello Spirito: i modelli storici della sua missione
L’Ecclesia de Trinitate esiste nella storia anzitutto come “kènosi” della gloria divina: la Trinità mette le sue tende nel tempo mediante la Chiesa, con tutti i limiti che derivano dalla dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi” artefice principale è lo Spirito: “Lo Spirito Santo – scrive il teologo ortodosso Vladimir Lossky – si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale e unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero: il mistero dell’esinanizione, della ‘kènosi’ dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se nella ‘kènosi’ del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto ‘le sembianze del servo’, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono ch’Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone”[3]. Proprio così, lo Spirito è la dimensione storica del mistero ed è Lui che la dona alla Chiesa, perché sia il volto – storicamente determinato e soggetto a cambiamento – della vita divina che viene dall’alto per tutti.
Sotto l’azione dello Spirito la tensione missionaria costitutiva dell’essere ecclesiale ha assunto nel tempo forme diverse, sviluppatesi in rapporto alle diverse situazioni storiche del cristianesimo[4]: è possibile individuare – in maniera del tutto generale – alcuni modelli fondamentali di questa “kenosi” dello Spirito nella Sposa, la Chiesa. Il primo modello si afferma nel tempo della Chiesa dei martiri, segnato dalla forte tensione escatologica e dallo slancio teso a offrire al mondo la vita nuova in Cristo fino alla testimonianza suprema del martirio. L’urgenza dominante è quella di portare dovunque il Vangelo e l’attività missionaria della Chiesa è intesa soprattutto come missione in atto, come animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell’essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II sec.): “Ciò che è l’anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L’anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L’anima invisibile è custodita nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio…”[5]. La fecondità della missione scaturisce dunque dalla sovrabbondanza dell’esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è immersi.
Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall’osmosi fra la Chiesa e l’Impero, lo slancio missionario tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall’esterno all’interno della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l’intero spazio del cosmo conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità missionaria della comunità passa dal centro al margine dell’autocoscienza ecclesiale: “L’impegno dell’evangelizzazione… viene pensato come un impegno contingente, che dipende da peculiari condizioni storiche… A sua volta, la concezione della Chiesa non è per nulla determinata dal suo dinamismo missionario. La sua normale principale attività non è la missione né l’evangelizzazione, bensì quella che si chiama l’attività pastorale la quale, presupponendo la fede già predicata ed accolta, comporta impegni ed azioni tesi alla maturazione della fede dei credenti, alla loro santificazione attraverso i sacramenti, alla difesa della loro fedeltà ed alla promozione della loro coerenza con la fede professata”[6]. La “missio ad intra” diventa la forma ordinaria della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. La stessa attenzione alla Terza Persona divina va affievolendosi a favore di una concezione della Chiesa legata quasi esclusivamente all’incarnazione del Figlio (“cristomonismo”).
Col tramonto del Medio Evo la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei modelli, cui si ispira la missione: emergono due atteggiamenti opposti. Da una parte, si delinea la concezione della missione nascosta, che valorizza il protagonismo interiore della soggettività nel servizio alla causa della salvezza del mondo e corrisponde alla generale riscoperta del soggetto tipica dell’evo moderno. Dall’altra e soprattutto, è l’idea della missione “ad gentes” che va imponendosi: i nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla coscienza credente per poter essere eluso. Si va delineando la meravigliosa fioritura missionaria, che porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in se stessa una vigorosa ripresa dell’anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante tutti i limiti e le contaminazioni con l’opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione “ad gentes” implica una forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone una precisa affermazione dell’assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente e opera grazie al suo Spirito.
Il grande merito del modello della missione “ad gentes” è di esplicitare in tutta la sua ricchezza il valore dell’apostolicità della Chiesa: convocata dalla fede degli apostoli e in essa conservata, grazie alla comunione dello Spirito Santo nel tempo e nello spazio, la comunità cristiana si riconosce inviata a testimoniare questa fede fino agli estremi confini della terra ed a suscitare dappertutto presenze della Chiesa, che rendano possibile il ricorso ai mezzi di grazia e l’esperienza salvifica della vita nuova, donata in Gesù Cristo. La “plantatio Ecclesiae” riconosce così il suo modello originario e normativo nella stessa opera missionaria degli apostoli, che predicarono il Vangelo, fondando la Chiesa dovunque andavano e preoccupandosi di assicurarne la sopravvivenza in particolare con la costituzione del ministero apostolico. Proprio per questo, però, il modello vale fin tanto e fin dove ci sia la Chiesa da impiantare: in questo senso, la concezione che sta alla base della “missio ad gentes” non esclude del tutto il rischio di ricadere nell’ideologia della missione compiuta[7].
Si determina così la necessità di integrare il modello della “missio ad gentes” con un modello più consapevolmente pneumatologico, che fondi l’urgenza missionaria come elemento costitutivo dell’essere ecclesiale nella sua pienezza, a prescindere dalle condizioni contingenti che accentuino l’uno o l’altro aspetto dell’azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della missione. Esso salda la nota dell’apostolicità, ispiratrice della “missio ad gentes”, a quella della pienezza cattolica del popolo di Dio, secondo una mutua inabitazione delle proprietà essenziali della Chiesa: l’Una Sancta è anche ed inseparabilmente Catholica et Apostolica. Ciò significa che la raccolta escatologica, che il Signore Gesù viene a compiere, non solo raduna la comunione dei santi nell’unità a immagine della comunione trinitaria, ma esige anche che questa convocazione raggiunga nella forza dello Spirito tutti i tempi e tutti i luoghi mediante la continuità della tradizione apostolica e della successione del ministero in essa e il farsi presente del dono della riconciliazione in ogni tempo e in ogni luogo. La cattolicità della Chiesa è, in altre parole, inseparabilmente un dono e un compito: la Chiesa universale già esiste come Israele finale, popolo del raduno escatologico dei popoli, Catholica presente nella storia grazie alla missione del Figlio e dello Spirito; essa, tuttavia, richiede di attuarsi ancora in pienezza sia dove non esiste, sia dove, sebbene presente, la pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità, carismatiche e ministeriali. In questo senso, dovunque c’è la Catholica, c’è la missione, come realtà in atto o come esigenza imprescindibile: la missione si presenta come l’aspetto dinamico della cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l’azione dello Spirito Santo.
La sfida della concezione pneumatologica della Chiesa, ispirata all’insegnamento del Vaticano II e ripresa dall’Enciclica Dominum et vivificantem non è, allora, quella di sostituire un modello all’altro, fino a svuotare il senso della “missio ad gentes”, quanto piuttosto di mantenere anche in ecclesiologia il principio trinitario della “pericoresi”. La cattolicità non va separata dall’apostolicità, come testimonia la tradizione della Chiesa indivisa, per la quale l’una non può sussistere senza l’altra: la “plantatio Ecclesiae” continuerà ad essere urgenza apostolica ineliminabile dell’attività missionaria; allo stesso modo, l’azione missionaria “ad intra” sarà sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede apostolica e nell’apertura alle sorprese dello Spirito. Questa rinnovata percezione dell’inseparabilità delle due urgenze della missione, “ad intra” e “ad extra”, corrisponde a quella che in modo particolare a partire da Giovanni Paolo II viene detta la “nuova evangelizzazione”. Anch’essa va compresa nella luce del primato dell’azione dello Spirito: l’aggettivo “nuova”, posto innanzi al termine “evangelizzazione” non sta a significare una semplice novità cronologica, quasi che quanto prima fosse sbagliato o parziale, ma vuole evidenziare il bisogno di una novità qualitativa.
Per ricorrere alla terminologia del greco neotestamentario, in gioco è la novità del “kainós”, non quella del “neós”, la novità qualitativa ed escatologica, non quella meramente cronologica del prima e del poi. Non a caso Gesù chiama “kainé” il suo comandamento nuovo (“entolé kainé”: 1 Gv 2,7s), per indicare che solo gli uomini nuovi, resi tali dallo Spirito del Figlio, possono vivere la novità dell’amore da Lui richiesto e darne testimonianza credibile. È lo Spirito Santo, insomma, l’agente principale della “nuova evangelizzazione”, cui aprirsi per realizzare la piena cattolicità della missione ecclesiale di fronte alle sfide dei tempi nuovi nel “villaggio globale”, che è ormai il pianeta. Nella luce di questo dinamismo reso possibile dallo Spirito, si dovrà parlare di una triplice cattolicità della missione: la cattolicità del soggetto missionario; quella legata al contenuto dell’annuncio, che è la fede custodita nella tradizione apostolica; e infine, non meno rilevante, quella del destinatario della missione, che è tutto l’uomo, in ogni uomo. L’approfondimento di questi tre aspetti consentirà di chiarire in che consista lo “splendore” del Paraclito attuato nella missione ecclesiale e come esso si coniughi alla kénosi, di cui si è detto finora.
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« EUCARISTIA, CULTURA E SOCIETÀ » (Bruno Forte)

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« EUCARISTIA, CULTURA E SOCIETÀ »

Relazione di mons. Bruno Forte alla 62a Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale

ROMA, giovedì, 28 giugno 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della relazione tenuta oggi da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, alla 62a Settimana Nazionale di Aggiornamento Pastorale, in corso ad Orvieto.
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Singolare attualità del passato: definirei così l’impressione che lascia la lettura del passo De Civitate Dei in cui Agostino, meditando sul tempo drammatico che gli fu dato di vivere, quello del tramonto dell’impero romano, stigmatizza le ragioni della crisi di cui è spettatore. Queste non vanno cercate nell’impatto esterno dei barbari, elemento solo concomitante, aperto anzi alla potenzialità positiva di immettere linfa nuova nel sangue malato di una civiltà in sfacelo. La profonda causa del declino della cultura e della società dell’antica Roma è per il Vescovo d’Ippona di carattere morale: si tratta dell’attitudine – avallata dai vertici e divenuta mentalità comune – a preferire la vanitas alla veritas, la vanità alla verità. Le due logiche si oppongono: la vanità dà il primato all’apparenza, a quella maschera rassicurante, che copre interessi egoistici e prospettive di corto metraggio dietro proclamazioni altisonanti, misurando ogni cosa sul gradimento dei più. La verità fonda invece le scelte sui valori permanenti, sulla dignità di ogni persona umana davanti al suo destino, temporale ed eterno. Eppure, nel mondo “che va dissolvendosi e sprofonda” (“tabescenti ac labenti mundo”), Agostino riconosce l’opera di Dio, che nel rispetto delle libertà va radunandosi una famiglia per farne la sua città eterna e gloriosa, fondata “non sul plauso della vanità, ma sul giudizio della verità” (“non plausu vanitatis, sed iudicio veritatis”: II, 18, 3).
Lo straordinario affresco di “teologia della storia”, tracciato dal Pastore teologo, mi pare di un’impressionante attualità: all’orgia della frivolezza, che ha celebrato i miti del consumismo esasperato e dell’edonismo rampante, urge opporre scelte fondate sulla verità e sul primato dei valori, a cui a nessuno è lecito sottrarsi. Così, la crisi della politica,davanti a cui ci troviamo, è frutto anche del modo di agire che ha separato l’autorità dall’effettiva autorevolezza dei comportamenti e la rappresentanza democratica dalla reale rappresentatività dei bisogni e degli interessi dei cittadini. Dove l’amministratore o il politico perseguono unicamente il proprio interesse, puntando sull’immagine e sulla produzione del consenso, lì trionfa la “vanitas” a scapito della “veritas”. Il primato della verità esige una politica ispirata alla ricerca prioritaria del bene comune, capace di ascoltare e coinvolgere i cittadini come portatori di bisogni e di diritti, di proposte e di potenzialità, e perciò in grado di dire anche dei “no” per fare ciò che è giusto: e questo è inseparabile dalla tensione etica in grado di anteporre al proprio il bene comune.
Sul piano dei modelli culturali e delle risorse spiritualila “vanitas” trionfa lì dove si privilegia l’effimero a ciò che non lo è, sradicando l’agire dalla memoria collettiva, di cui sono tracce le opere dell’arte e dell’ingegno e le tradizioni spirituali e religiose. Una comunità privata di memoria perde l’identità e rischia di essere esposta a strumentalizzazioni perverse: il trionfo della “veritas” consiste qui nel rispetto e nella promozione del patrimonio culturale, artistico, religioso della collettività, come base per il riconoscimento dei bisogni e delle priorità cui tendere. L’ambito dell’economiaè parimenti luogo della contrapposizione fra “vanitas” e “veritas”: se alla prima s’ispira un’azione economica orientata al solo profitto e all’interesse privato, alla seconda punta un’economia attenta non solo alla massimizzazione dell’utile, ma anche alla partecipazione di tutti ai beni, al rafforzamento dello stato sociale, alla promozione dei giovani, delle donne, degli anziani, delle minoranze. Un’economia di comunione, che miri alla messa in comune delle risorse, al rispetto della natura, alla partecipazione collettiva agli utili, al reinvestimento finalizzato a scopi sociali, al principio di “gratuità” e alla responsabilità verso le generazioni future, può essere il modello della svolta necessaria in questo campo (rilevanti in questa direzione sono le tesi dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate del 29 Giugno 2009).
È, dunque, l’eticail campo di applicazione più profondo della dialettica proposta da Agostino: a una morale individualista e utilitaristica, finalizzata esclusivamente all’interesse dei pochi, occorre opporre un’etica della verità, aperta a valori fondati sulla comune umanità e sulla dignità trascendente della persona. Quest’etica si caratterizzerà per il primato della responsabilità verso gli altri, verso se stessi e verso l’ambiente, per l’urgenza della solidarietà, che pone in primo piano i diritti dei più deboli, e per l’apertura ai valori spirituali.
È sullo sfondo di un tale scenario che vorrei interpretare la domanda, che è alla base della mia riflessione: è possibile motivare a partire dall’eucaristia il senso e le forme dell’impegno cristiano ed ecclesiale per il rinnovamento della cultura, della società e delle singole persone, di cui sentiamo urgente il bisogno? Se sì, come? Ascoltando i testi fondativi della fede, si può affermare che l’eucaristia è l’evento in cui la verità in persona si fa presente nel Corpo e nel sangue del Signore per illuminare, sostenere, trasformare i credenti e la comunità ecclesiale e farne fermento efficace di nuova cultura e di una società meno dissimile dal disegno di Dio.
In questo di ascolto si profila come particolarmente illuminante quel momento della vita del Signore, che per la sua intensità si pone come passaggio fra il Cristo nella carne e il Cristo misticamente prolungato nel tempo: l’Ultima Cena. Essa è certamente per Gesù un punto culmine, da Lui atteso e sospirato a lungo (Lc 22,15), «ora» suprema (Gv 13,1) e definitiva (Lc 22,16.18) della sua esistenza terrena. Al di là della Cena non c’è che l’attuazione di ciò che essa preannuncia e illumina anticipando: la Pasqua di morte e di resurrezione. Perciò si può dire che «il problema dell’Ultima Cena è il problema della vita di Gesù» (Albert Schweitzer). Perciò, la Cena riveste una singolare importanza anche per la vita della Chiesa: soglia fra il Gesù storico e il Cristo attualizzato misticamente nel tempo, essa è il suggello dell’amore del primo e la fonte della vita del secondo. La Cena è l’atto istitutivo fontale della Chiesa, in cui si potranno ritrovare i caratteri e i compiti fondamentali che il Signore dà alla sua comunità. Essa è il culmine e la fonte della vita della comunità cristiana e quindi anche del suo impegno di servizio e di testimonianza in ordine al rinnovamento della cultura e della società in cui è posta.
1. Dall’eucaristia l’impegno per il rinnovamento della società nella prospettiva del primato dello Spirito
Nell’Ultima Cena Gesù, istituendo l’eucaristia, istituisce la Chiesa: non a caso egli sceglie il banchetto pasquale come quadro del suo dono. In tal modo è espressa chiaramente la sua intenzione di sostituire al memoriale pasquale dell’antica alleanza, sorgente del patto con Israele, il memoriale della nuova alleanza nel suo sangue, fonte della vita e della missione della Chiesa. A ciò si aggiunga che i riferimenti al Vecchio Testamento, presenti nei racconti dell’istituzione dell’eucaristia, sono tutti in rapporto all’idea di patto: il richiamo al sangue dell’alleanza, che ricorda Es 24,8, il tema della nuova alleanza, che riprende Ger 31,31 e i numerosi riferimenti ai Carmi del Servo sofferente di Jahvé di Isaia, concordano nel presentare l’eucaristia come memoriale di alleanza. La missione che il Signore confida alla sua Chiesa è tutta compendiata nelle parole che egli pronuncia nell’Ultima Cena: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19 e 1 Cor 11,2425). Con esse Gesù consegna agli apostoli il mandato di celebrare nella storia il memoriale della sua Pasqua1: in questo compito viene come a riassumersi l’intera missione della comunità cristiana nel tempo. La Chiesa dovrà celebrare nella storia il memoriale del suo Signore: questa è la sua ragion d’essere e il suo compito, l’unico cui è propriamente chiamata in vista del servizio da rendere al rinnovamento della comunità degli uomini e alla salvezza del mondo.
In che cosa consiste questo compito? Per comprenderlo, occorre chiarire l’idea biblica di “memoriale”, centrale per l’intelligenza delle intenzioni di Gesù sulla Sua Chiesa: nella Scritture il “memoriale” non è il semplice ricordo di un evento passato, paragonabile all’idea occidentale di memoria, che connota un movimento dal presente al passato, per una sorta di dilatazione della mente. I termini ebraici zikkaron, azkarah, che il greco traduce con anámnesis, mnemósunon, indicano un movimento opposto, il farsi contemporaneo di un evento passato per azione della potenza divina attualizzatrice: il già si ripresenta, si fa contemporaneo alla comunità celebrante. Quest’azione potente dell’Altissimo è chiarita dall’insieme della rivelazione neotestamentaria come irruzione dello Spirito Santo, che attualizza nella storia la Pasqua di Cristo, in cui si compendia tutto il Vangelo. In tal modo il memoriale si presenta come l’evento che sommamente esprime e realizza la missione della Chiesa: celebrando il memoriale del Signore, la comunità cristiana si rende disponibile all’azione dello Spirito, che rende presente nella diversità dei tempi e dei luoghi l’evento di salvezza, oggetto della buona novella.
Se dunque il compito essenziale della Chiesa sta nell’obbedire al comando del Signore: «Fate questo in memoria di me», e se agente e termine del memoriale è Cristo stesso nel suo Spirito, si può affermare che è lo Spirito l’agente primo della missione ecclesiale, perché è Lui a render presente qui ed ora il Cristo del Vangelo. La Chiesa deve lasciarsi plasmare da questo irrompere dello Spirito, invocandolo come colui che realizza la memoria del Signore. Solo a questa condizione la sua missione al servizio dell’umanità rinnovata non sarà vuota parola di carne, ma potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (cf. Rm 1,16). E lo Spirito invocato dalla Chiesa renderà presente quel Cristo che, unto dallo Spirito stesso nei giorni della sua carne (cf. Mt 3,17; 4,1; Lc 4,14.18.21 ecc.), ha effuso a sua volta lo Spirito (cf. Gv 20,22 ecc.). In questa invocazione incessante del Consolatore, in questo ascolto che è attesa e accoglienza feconda, perseverante nella notte della fede, sta il fondamento di ogni azione evangelizzatrice e di ogni servizio ecclesiale alla comunità degli uomini.
Ne consegue che per i credenti il rinnovamento della cultura e della società non è opera delle sole mani dell’uomo: alla luce del sacramento eucaristico, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa, si deve affermare che esso nasce, si realizza e si sviluppa in forza del dono di Dio, da invocare ed accogliere nel primato della dimensione contemplativa della vita. La misura del bene vero e duraturo del singolo e della società va attinta nel riferimento all’ultimo orizzonte e all’ultima Patria, che nell’ascolto perseverante della Parola e nell’esperienza dello Spirito si lasciano intravedere e vengono a giudicare e confortare il nostro presente. Senza la costante attenzione alla dimensione eucaristica e contemplativa della vita, che faccia spazio all’irruzione sempre gratuita e sorprendente dello Spirito, nessun rinnovamento della società e del cuore umano potrà essere autentico e duraturo. Una cultura e una società rinnovate non nasceranno che da una profonda e costante esperienza eucaristica, nutrita di ascolto, di rendimento di grazie e di contemplazione.
2. Dall’eucaristia il rinnovamento sociale nel segno della comunione e della solidarietà
La disponibilità allo Spirito, che la celebrazione del memoriale esige, deve manifestarsi in gesti concreti e in un’attitudine di vita, che riproducano nel tempo l’atteggiamento e le scelte del Cristo nella celebrazione della sua Pasqua. Lo Spirito rende presente il Cristo e suscita la Chiesa lì dove la comunità dei credenti si dispone alla celebrazione del memoriale, rivivendo fedelmente quanto il Signore ha fatto nell’Ultima Cena. Ora, nell’atto dell’istituzione dell’eucaristia Gesù banchetta con i suoi: questo semplice fatto crea fra lui e i convitati un profondo legame di fraternità. In Israele la comunione conviviale è comunione di vita: un pasto preso in comune, soprattutto in una circostanza speciale e solenne, unisce i commensali in una comunità sacra al punto che violarla costituisce una delle colpe più gravi. In modo ancor più particolare la frazione del pane, con la distribuzione di un pezzetto a ciascuno, e la partecipazione allo stesso calice di vino sono segno di una profonda solidarietà, nella comunanza di sorte. Gesù lega così esplicitamente l’istituzione dell’eucaristia al banchetto di fraternità: Egli non sceglie come segno del suo dono un pane e un vino qualunque, nella loro materialità elementare, ma il pane e il calice della fraternità. Ne consegue che la celebrazione della memoria del Signore esige e fonda la comunione a Cristo e fra di loro dei convitati: non si fa il memoriale nella vita, e di conseguenza non si opera per il rinnovamento della cultura e della società, senza questa comunione. È nella testimonianza di una condivisione di sorte, di una solidarietà fattiva, che la Chiesa si fa luogo d’irruzione dello Spirito per render presente nel tempo il Vangelo del Risorto.
Questa comunione ha sempre una dimensione insieme cattolica e locale. In quanto il memoriale rende presente la Pasqua in uno spazio e in un luogo determinati, la celebrazione di esso implica la fedeltà a un concreto «hic et nunc». È così che l’Incarnazione si prolunga analogicamente nella storia degli uomini, assumendo la diversità dei linguaggi e delle culture. Insieme, però, è l’unico Cristo «passus et glorificatus» che nello Spirito si fa presente nella varietà dei tempi e dei luoghi: ciò fonda ed esige la cattolicità di ogni atto di evangelizzazione, cioè la presenza in esso di tutto il mistero cristiano e l’apertura necessaria alla comunione di tutte le chiese e all’insieme dei bisogni umani. La missione ecclesiale cioè deve essere cattolica nel duplice senso di questo termine: deve rendere presente tutto il Cristo (kath’ ólou = in pienezza) per tutto l’uomo, per tutti gli uomini, fino agli estremi confini della terra (katholikós = universale). Non si evangelizza, se non in comunione con tutta la Chiesa, annunciando tutto il Vangelo a tutto l’uomo e almeno in tensione a ogni uomo.
Ciò significa che il rinnovamento culturale e sociale sgorgante dall’eucaristia non potrà essere prodotto se non da chi – muovendo dalla comune partecipazione alla mensa del Signore – opera secondo l’ispirazione di un’etica della comunione e della solidarietà: lì dove prevalesse la logica dell’interesse “particulare”, lì dove si dimenticasse l’esigenza morale di servire e promuovere tutto l’uomo in ogni uomo, specialmente nelle fasce sociali più deboli, il rinnovamento si limiterebbe a operazione di facciata, senza fondamento e credibilità. L’eucaristia insegna a rinnovare l’uomo e la storia nella solidarietà del pane spezzato insieme, del calice condiviso: senza questa compagnia, non si farà che favorire l’egoismo dei pochi, compromettendo alla fine la qualità della vita per tutti. Dal pane di vita eterna condiviso scaturisce insomma una cultura della solidarietà e della comunione, che contesta ogni logica egoistica ed educa al primato del bene comune.
3. Dall’eucaristia un’etica del servizio nutrita dal Pane di vita
La comunione che la Cena fonda fra i convitati e Cristo, esige la partecipazione alla sorte di Lui: i richiami veterotestamentari dei racconti dell’istituzione concordano nel delineare questa sorte come quella del Servo. I Carmi del Servo sofferente del DeuteroIsaia, lasciano infatti intravedere la conclusione di un’alleanza (cf. Is 42.6; 49,8), nuova (cf. 42,9), che si farà nella persona stessa del Servo (cf. 42,6; 49,8) e mentre evocano l’immagine sacrificale dell’agnello (cf. 53,7), insegnano l’espiazione dei peccati mediante sostituzione di una vittima innocente (53,1012), contenendo il perì (upèr) pollón = «per molti» che figura in Mt 26,28 e Mc 14,24. Le influenze della figura veterotestamentaria del Servo sul quadro dell’Ultima Cena sono dunque evidenti: esse vengono peraltro confermate dall’evangelista Luca, che riferisce nel contesto della Cena i due detti sul servizio di coloro che hanno autorità (Lc 22,2427), e da Giovanni, che vede nell’episodio della lavanda dei piedi l’espressione perfetta del senso interiore dell’istituzione eucaristica, di cui egli non parla. In forza della fraternità conviviale, la comunità eucaristica deve comunicare alla sorte del Servo, diventando essa stessa serva: mangiando il “corpo donato” deve diventare, per la forza che esso le comunica, “corpo ecclesiale donato”, “corpo per gli altri”, “corpo offerto per le moltitudini”. Nel memoriale pasquale la Chiesa nasce come popolo servo, comunità di servizio.
Ne derivano importanti conseguenze per la sua missione nei confronti della cultura e della società: celebrare il memoriale del Signore è un «servizio» ed esige perciò dei «servi». Si pone qui l’esigenza di valorizzare i diversi ministeri e carismi che lo Spirito suscita e di vedere lo stesso ministero ordinato all’interno di una Chiesa tutta intera ministeriale. La comune partecipazione dei battezzati alla sorte del Servo evidenzia così la corresponsabilità articolata di tutti i credenti nell’evangelizzazione e nella carità. Inoltre, il carattere di «servizio» fa sì che nella missione evangelizzatrice si risolva il dilemma ecclesiale «identitàrilevanza»: evangelizzando, la Chiesa non solo afferma la propria identità, ma rende anche il servizio più fecondo alla cultura e alla società; e d’altra parte servendo l’uomo e operando per la sua promozione, la Chiesa non perde la sua identità, che è quella di popoloservo, partecipe alla sorte del Cristo servo.
La solidarietà al Servo sofferente del Signore illumina, inoltre, un altro aspetto del compito della Chiesa: quello che può chiamarsi della missione sotto la Croce. Se Gesù nel memoriale si offre come Colui che soffre per amore, la Chiesa, celebrando nella storia il memoriale del suo Signore, sa di dover partecipare al mistero del dolore. Servire la causa di Dio e il rinnovamento della società alla luce del Vangelo non è opera di trionfalismo o di facili conquiste: il Vangelo si rende presente lì dove il popolo di Dio completa nella sua carne la passione del Figlio dell’Uomo. Nella povertà del dolore, nella mancanza dei mezzi umani, nella prova della persecuzione, nella presenza discreta e fedele di un amore apparentemente infecondo, i cristiani celebrano nella vita il memoriale della Croce, e rendono così vivo e presente il Vangelo del dolore di Dio, che è il Vangelo del Suo amore e della nostra salvezza. Alla luce del sacramento eucaristico l’impegno dei cristiani al servizio del rinnovamento della cultura e della società va dunque connotato al tempo stesso e inseparabilmente come servizio e come partecipazione alla Croce del Signore: ciò mostra come si sia totalmente allontanato dall’ispirazione evangelica chi abbia inteso l’impegno sociale e politico come strumento per l’affermazione di sé, dei propri interessi e delle proprie mire predatorie. Nessun rinnovamento sociale si darà veramente senza operatori coraggiosi pronti a vivere la politica e l’impegno per gli altri come carità, ispirata a una logica rigorosa di gratuità e allo spirito del servizio, e pronta a pagare anche il prezzo più alto piuttosto che cedere al compromesso egoistico di un potere perseguito soltanto per se stesso.
4. Dall’eucaristia il rinnovamento sociale all’insegna della permanente riforma e della speranza più grande
Nell’ultima Cena Gesù presenta infine la tensione escatologica propria del suo memoriale: egli annuncia che non berrà più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo con i suoi nel Regno del Padre (cf. Mt 26,29; Mc 14,25), finché cioè il Regno non venga (cf. Lc 22,18). Mangiando il pane e bevendo al calice dell’eucaristia, i credenti annunzieranno la morte del Signore fino al suo ritorno (cf. 1 Cor 11,26). Il banchetto della nuova Pasqua rimanda a un altro banchetto, quello definitivo del Regno, di cui è anticipazione e promessa, e verso il quale fa lievitare la storia del mondo. Il memoriale che Gesù confida alla sua Chiesa si pone così come eucaristia di speranza, apertura al futuro promesso di Dio. Ne consegue per la missione della Chiesa un duplice compito: anzitutto essa dovrà essere sempre annuncio dell’avvento divino, e perciò forza sovversiva del presente, coscienza critica della vicenda umana. Portando in ogni situazione la forza della sua «riserva escatologica», l’annuncio ecclesiale non potrà essere separato dalla denuncia, l’appello al futuro dalla contestazione del presente, in tutto ciò che esso presenta di chiusura all’azione rinnovatrice dello Spirito.
In secondo luogo, celebrare nella vita il memoriale della speranza significherà per la Chiesa proclamare costantemente la propria provvisorietà, nella consapevolezza di essere il Regno incoato, di vivere il tempo «penultimo», la stagione che sta fra il “già”, compiuto nella Pasqua del Cristo, e il “non ancora”, promesso per il Suo ritorno. Deriva da qui per la comunità credente il dovere di vivere in stato di perpetua ricerca e purificazione: fedele al “già”, essa è sempre proiettata verso l’avvenire, tendendo incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole del Signore (cf. Dei Verbum 8). La Chiesa, celebrando nella storia il memoriale della nuova Pasqua, indica la meta futura, giudica il presente, e contagia gli uomini della forza della speranza. In tale maniera, si purifica, perché espone la propria miseria al giudizio salvifico dello Spirito, che in modo sempre nuovo irrompe nel tempo degli uomini e li proietta verso l’avvenire di Dio. L’evangelizzazione richiama costantemente la Chiesa alla sua povertà e insieme alla sua speranza.
In questa luce, il rinnovamento culturale e sociale di cui avvertiamo il bisogno si offre come il frutto della speranza più grande, capace di costituire una sorta di riserva critica nei confronti di tutte le miopi realizzazioni mondane e di sostenere l’impegno di una continua riforma, che non si appaghi dei risultati raggiunti, non ceda all’estasi dell’adempimento e alla seduzione del possesso, ma viva la costante ricerca di un bene più grande per ciascuno e per tutti. La vigilanza critica che il pane eucaristico chiede ai pellegrini di Dio nella loro opera al servizio del rinnovamento della cultura e della società è dunque senza sconti o dispense. Lungi dall’essere a buon mercato, la logica eucaristica che ispira il rinnovamento sociale nella visione di fede è a caro prezzo: solo così, però, essa è all’altezza di un compito, come quello affidato alla Chiesa, che non dovrà mai essere dimentico delle promesse di Dio e delle attese più vere degli uomini.
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L’eucaristia contiene dunque ciò che c’è di più essenziale per la vita della Chiesa e il suo servizio al mondo: perciò, da una celebrazione eucaristica consapevole ed attiva le comunità e i singoli potranno trovare la forza e lo stile di una loro presenza efficace nell’opera di rinnovamento così necessaria alla cultura e alla società in questi anni inquieti di fine millennio. Vorrei ricordare qui l’esempio di Santa Caterina da Siena, riprova vivente di quanto sono andato esponendo. In una lettera indirizzata a Raimondo da Capua, il confessore che più d’ogni altro l’aveva sostenuta nell’amore alla comunione frequente e nell’impegno per il rinnovamento della Chiesa e della società del suo tempo, Caterina, avanzata nel dolore verso l’ultimo passaggio della vita e sempre fervida nell’amore allo Sposo e alla sua gente, scrive, quasi in forma di testamento spirituale di chi dall’eucaristia ha tratto e trae la forza della sua dedizione totale al rinnovamento della Chiesa e della società: «Prego la divina Bontà che tosto mi lassi vedere la redenzione del popolo suo. Quando è l’ora della terza e io mi levo dalla Messa, voi vedreste andare una morta a Santo Pietro; ed entro di nuovo a lavorare nella navicella della Santa Chiesa. Me ne sto così infino presso all’ora del vespero; e di quello luogo non vorrei uscire né dì né notte, infino che non veggo un poco fermato e stabilito questo popolo col Padre loro…»2. Non potrà l’incontro eucaristico essere anche per noi, Chiesa di Dio pellegrina in Italia e nell’intero “villaggio globale” in questa inquieta stagione di cambiamenti, la sorgente di un impegno di rinnovamento culturale e sociale, che sia al tempo stesso contemplativo, solidale, appassionato nel servizio e ricco di speranza, anche sotto il segno della Croce? Lo chiediamo al Signore della storia, ricorrendo alle parole della stessa Santa, che tanto incise sulla cultura e la società del suo tempo, precisamente partendo dall’incontro con Gesù vivo nell’eucaristia:
Spirito Santo, vieni nel mio cuore;
per la Tua potenza tiralo a Te, mio Dio.
Concedimi carità e timore,
custodiscimi, Cristo, da ogni mal pensiero,
infiammami e riscaldami del tuo dolcissimo amore.
A ciò ogni travaglio mi sembri leggero:
assistenza, chiedo, ed aiuto nelle necessità,
Cristo Amore, Cristo Amore!3
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