Bruno Forte, Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo
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Israele e la Chiesa: i due esploratori della Terra promessa. Per una teologia cristiana dell’ebraismo
Bruno Forte, 4 novembre 2004
Questo testo è una versione non rivista di una conferenza data nell’ambito della serie “La Chiesa Cattolica e l’Ebraismo dal Vaticano II ad oggi” offerta dal Centro Cardinal Bea presso la Pontificia Università Gregoriana dal 19 ottobre 2004 al 25 gennaio 2005 in collaborazione con il SIDIC Roma e con il sostegno dell’American Jewish Committee.
Introduzione
1. Il carattere escatologico della salvezza
2. Il carattere comunitario della salvezza
3. La messianicità dei due popoli
Un’immagine biblica, riletta nell’interpretazione patristica, può introdurci efficacemente nella riflessione sulla questione che ci sta a cuore: quale rapporto la fede cristiana vede fra Israele e la Chiesa? La questione in realtà è complessa e potrebbe essere declinata in molteplici forme: qual è la ragione del significato e della rilevanza continua che Israele ha per la Chiesa? si deve pensare all’economia di un’alleanza unica in cui si muovono entrambi, o plurale è l’alleanza e mutevole e progressivo il senso dell’elezione e il significato delle promesse? e finalmente – in chiave cristiana – è giusto interrogarsi sulla possibilità e i modi di una prossima o remota “conversione” di Israele o si deve concepire una via separata di salvezza per il popolo eletto? L’immagine che ci aiuta a gettare un po’ di luce su questa selva intricata di questioni è quella – tratta dal libro dei Numeri – dei due esploratori di ritorno dalla terra di Canaan, che portano insieme un’asta da cui pende il grappolo d’uva, che essi accompagnano col frutto del melograno e il fico: “Giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con una stanga, e presero anche melagrane e fichi ”(Num 13,23).
Nell’asta portata dai due i Padri della Chiesa hanno voluto vedere il legno della Croce, da cui pende Cristo: “Figura Christi pendentis in ligno” [1] , mentre nei due portatori, uniti e separati da quel legno, hanno riconosciuto Israele e la Chiesa: “Subvectantes phalanguam, duorum populorum figuram ostendebant, unum priorem, scilicet vestrum, terga Christum dantem, alium posteriorem, racemum respicientem, scilicet noster populus intelligitur” [2] . In quanto essi marciano l’un dietro l’altro, chi precede guarda solo davanti a sé ed è perciò figura d’Israele, popolo della speranza e dell’attesa delle cose venienti e nuove, assicurate dalla promessa di Dio; chi viene dietro vede, invece, colui che gli sta davanti e l’orizzonte da questi abbracciato attraverso il grappolo appeso al legno ed è perciò figura della Chiesa, che ha in Cristo crocefisso la chiave di lettura anche dell’antico Israele e della promessa fatta ai padri. Col mostrare la differenza, l’immagine afferma non di meno la continuità che esiste fra i due popoli, non solo per il legame dell’unica asta che entrambi gli esploratori sostengono, ma anche per l’orizzonte comune cui si rivolge il loro sguardo. L’idea della continuità sarà evidenziata – con una posteriore, suggestiva annotazione – mediante la supposizione che il giubilo del desiderio faccia cantare ad entrambi il medesimo “hosanna” [3] . Uniti nel canto della speranza e dell’attesa, Israele e la Chiesa avanzano insieme, distinti e congiunti al tempo stesso dalla Croce di Cristo. Tre elementi di continuità ed insieme di discontinuità fra Israele e la Chiesa vengono così a risaltare dalla densa lettura patristica: il carattere escatologico della rivelazione biblica, tanto del Primo quanto del Nuovo Testamento; il carattere comunitario della salvezza, determinato dal principio fondatore dell’alleanza fra l’Eterno e il Suo popolo; il significato messianico dei due popoli, tanto di quello dell’attesa, quanto di quello del compimento.
1. Il carattere escatologico della rivelazione biblica
Ciò che unisce i due esploratori in cammino è anzitutto l’orizzonte cui si volge il loro sguardo: la Verità per cui vale la pena di vivere sta davanti a loro. Verso di essa orientano i loro passi, ad essa anela il loro cuore. Ma perché fosse così, quella stessa Verità è venuta a consegnarsi alla misura della possibilità umana di accoglierla, ha parlato il linguaggio degli uomini, ha infiammato di desiderio i loro cuori di carne. La premessa al riconoscimento della Verità nella Parola del Dio vivente è, dunque, tanto per l’ebraismo quanto per il cristianesimo, la possibilità che l’infinito si faccia finito per comunicarsi nella fragilità delle nostre parole. Questa convinzione è espressa dai maestri ebrei con un assioma ricorrente: “Il piccolo può contenere il grande” [4] . Non diversamente si esprime la sapienza cristiana: “Non coërceri maximo, contineri tamen a minimo, divinum est” [5] . Questa convinzione è alla base della dottrina dello “zimzum”, cara alla mistica ebraica, e dell’idea della “kenosi” del Verbo, centrale nel messaggio cristiano [6] .
È Isaac Luria il cabalista che nella seconda metà del secolo XVI pone al centro del suo insegnamento l’immagine della “contrazione” divina: l’atto creatore è da lui pensato come un “far spazio” in se stesso da parte di Dio alla creatura, che altrimenti non avrebbe potuto esistere. Se non nel grembo di Dio – contrattosi per ospitare il mondo, analogamente a come una madre accoglie una nuova vita nel suo seno – dove avrebbe potuto dimorare l’universo? ”Zimzum” è dunque l’atto del divino contrarsi, quel farsi piccolo dell’immenso che consente alla creatura di esistere davanti a Lui nella libertà: perciò, lo “zimzum” dell’eterno è l’altro nome del Suo amore per gli uomini, espressione di quella misericordia che l’ebraico significativamente rende con l’idea di “viscere materne”(“ rachamim”) e che è anche rispetto e umiltà del Creatore davanti alla Creatura. In forza di questo amore il Signore non disdegna di “attendarsi” in mezzo al Suo popolo, fino a fare della storia d’Israele la storia del proprio impegno per la redenzione del mondo. La dottrina della divina presenza (“shekinah”) tocca punte struggenti, come nel testo seguente: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekinah, per così dire, andò in esilio con loro. Essi andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekinah… Andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… Andarono in Elam e la Shekinah li accompagnò… Quando tuttavia torneranno, la Shekinah farà ritorno assieme ad essi” [7] .
L’invocazione di San Francesco “Tu sei Umiltà” (Lodi del Dio Altissimo) mostra come questo messaggio corrisponda in profondità all’anima cristiana, per la quale la conferma suprema dell’attendarsi di Dio nella fragilità e piccolezza delle misure umane sta proprio nella “kenosi” del Verbo: la Parola si dice in questo mondo per via di “annientamento” (cf. Fil 2,6ss), grazie all’atto per il quale – in nulla costretto dall’infinitamente grande – il Figlio si è lasciato contenere nell’infinitamente piccolo. Veramente divino è questo contrarsi! Questa “estasi” del divino, questo “star fuori”dell’infinito nel finito, è al tempo stesso l’appello più alto che si possa concepire all’estasi dal mondo, e cioè a quel “trasgredire” della creatura verso il Mistero, che è il rapimento della verità e della bellezza che salva, reso possibile dall’“abbreviarsi” del Verbo nella carne. Il tutto dimora nel frammento, l’infinito irrompe nel finito: il Dio Crocifisso è per la fede cristiana la forma e lo splendore dell’eternità nel tempo. Sulla Croce il “Verbum abbreviatum” – “kenosi” del Verbo eterno – rivela la possibilità salutare del “minimo Infinito”!
Ora, la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo, il Suo “abbreviarsi” per destinarsi agli uomini, si esprime anzitutto nella Parola (“dabar”). Per la fede d’Israele la Parola di Dio è inseparabilmente la Parola che dice, crea, salva. Anche da un semplice approccio ai testi risulta che il termine “dabar” rinvia tanto al contenuto noetico, quanto all’efficacia operativa della parola, che fa quel che dice, incidendo sulla trasformazione del cuore e sugli eventi della storia. Il carattere “informativo” si congiunge a quello “performativo”: è in forza di questa densità che si comprende quanto sia stretta la connessione fra le parole e gli eventi nell’economia della rivelazione. Così, se da una parte tutte le tappe decisive della storia di Israele sono introdotte dalla parola, dall’altra la fede del popolo eletto può esprimersi semplicemente narrando gli eventi salvifici, i “mirabilia Dei”, attuazioni concrete della parola di rivelazione (cf. Dt 26,5_10). In questa luce si comprende anche il carattere fortemente dinamico e personale dell’idea di rivelazione veicolata attraverso l’esperienza della Parola nella vicenda di Israele: la rivelazione mediante la Parola è l’avvento del Dio vivo nel segno delle Sue parole, che raggiunge e trasforma la condizione umana, facendone storia di redenzione e di salvezza per tutti coloro che accolgono la Parola, ma anche esperienza di esilio e di condanna per quanti la rifiutano.
Il dono della Parola secondo la fede cristiana tocca il suo vertice nell’evento dell’incarnazione del Verbo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14: si noti come anche per il Verbo ci sia una “shekinah”, un “attendamento”). Nel succedersi dei tempi della Parola è questa la “pienezza del tempo” (cf. Mc 1,15; Gal 4,4; Ef 1,10), l’ora del compimento della rivelazione. La Parola fatta carne realizza precisamente i due significati del “dabar” veterotestamentario: Gesù il Cristo non solo parla le parole di Dio, ma è la Parola di Dio, il Verbo eterno divenuto uomo, che comunica se stesso e apre l’accesso all’esperienza vivificante delle profondità divine nel dono dello Spirito. Dal punto di vista noetico_informativo Gesù si presenta come il profeta e il maestro, che annuncia la verità sul Padre e sugli uomini: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). Dal punto di vista dinamico_performativo Gesù è la Parola divenuta carne, che ha messo le sue tende in mezzo a noi (cf. Gv 1,14) e parla con l’autorità di chi realizza ciò che dice (cf. Lc 4,18s. 21). La sua persona è talmente inseparabile da ciò che annuncia, che accogliere le sue parole è accogliere lui e il Padre che lo ha mandato, rifiutarsi alla sua parola è rifiutarsi alla salvezza in lui donata (cf. Mc 16,15s.). Ebraismo e cristianesimo risultano così entrambi fedi di risposta alla Parola di Dio, religioni del Libro del tutto dipendenti dalle Scritture, sia pur nella diversa identificazione della pienezza dell’autocomunicazione divina.
Oltre che Parola, il Dio biblico è però anche Silenzio [8] : il silenzio divino non è tanto quello che suscita stupore, cui rinvia la silenziosa scrittura dei cieli (cf. Sal 19,2), né è la misteriosa presenza, con cui l’Eterno viene a sconvolgere tutte le possibili attese, offrendosi al suo eletto nella “voce del tenue silenzio” (cf. 1 Re 19,11_13). Il nascondimento del volto divino non è solo l’esperienza psicologica della Sua assenza o una vicenda storica legata al tempo della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione dal popolo eletto: il silenzio divino ha un valore teologico, è una lingua, un invito a credere ed affidarsi all’assente Presenza ed a perseverare nell’abbandono al Volto cercato, anche quando questo Volto fa sentire tutto il peso tragico del Suo nascondimento: “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui” (Is 8,17). Questo silenzio è uno sperimentare nella drammaticità del fallimento che il linguaggio di Dio non è solo quello della parola e della risposta, ma che anche quello conturbante del silenzio. È perciò che si può riconoscere nella rivelazione biblica la presenza di almeno due fondamentali e diverse concezioni di Dio: “il Dio dei ponti sospesi” e “il Dio dell’arcata spezzata”. “l’una, installata nella sicurezza di una fine conciliatrice, che pone sull’altra riva, di fronte all’alfa di questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terra ferma quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso… L’altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa accidentale, non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale…” [9] .
Il Dio dell’arcata spezzata restituisce all’uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo attento al valore dell’opera presente, a prescindere da ogni risultato o ricompensa promessi. “Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l’uomo, ma, al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio con il silenzio. Due esseri di cui l’uno tentava di sfuggire all’altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel rovescio silenzioso dei Volti nascosti… Cessando di essere un rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione. La libertà invita Dio e l’uomo all’appuntamento ineluttabile, ma è l’appuntamento dell’universo opaco del silenzio” [10] . I tempi del silenzio divino sono i tempi della libertà umana, perché nella loro dolorosa ambiguità pongono l’uomo solo di fronte alle sue scelte, del tutto libero rispetto al Dio che si ritrae. Lo scandalo del silenzio divino rivela così a Israele il suo Dio come il Dio della libertà, che non garantisce nulla, non assicura nulla, ma invita l’uomo a giocare e rischiare tutto nell’opera (“mitzvah”: precetto), che non dà per scontato alcun risultato finale. Così, è il continuo intersecarsi del divino silenzio e della Parola di Dio che fa dell’etica ebraica inseparabilmente l’etica della libertà e l’etica della pura Legge, del comandamento amato più di Dio, perché Dio può ritrarsi e tacere, ma la Parola continua a domandare e ad esigere di essere obbedita: “Amare la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale” [11] . Anche al cuore della rivelazione del Nuovo Testamento sta, però, il linguaggio del silenzio: il Vangelo cristiano si offre in pienezza lì dove il silenzio di Dio raggiunge il suo vertice abissale, rotto solo dal grido dell’ora nona, su quella Croce che è supremo scandalo per i Giudei, e non di meno follia per le genti, inaccettabile compromissione di Dio con la passione umana. Il Dio venuto fra gli uomini non si è offerto nelle forme della grandezza e della sapienza umana, ma, all’opposto, ha annientato se stesso scegliendo ciò che è debole e stolto per confondere la forza e la saggezza del mondo. Le motivazioni di questa radicale “absconditas Dei sub contrario” sono anzitutto quelle della teologia negativa: il negativo veicola meno inadeguatamente il divino, proprio perché esclude ogni confusione di grandezza umana con la Trascendenza di Dio. Ma questa motivazione va saldata a quella propriamente cristologica, all’effettiva cioè “absconditas Dei” in Cristo e nella sua croce: è la dialettica della rivelazione, l’ostendersi del divino nel suo contrario, secondo l’originaria accezione della parola “re-velatio”. In latino il prefisso re- ha il duplice significato di ripetizione dell’identico e di cambiamento di stato (analogamente a quanto significa l’apó nelle parole greche): “revelatio”, come il greco apokálypsis dice allora al tempo stesso un infittirsi ed un cadere del velo, lo svelarsi di ciò che è nascosto e il velarsi di ciò che è rivelato.
La “re-velatio” non toglie, dunque, la differenza fra i mondi che mediante essa entrano in contatto: Dio resta Dio e il mondo resta mondo, anche se Dio entra nella storia ed all’uomo è offerta la possibilità di partecipare alla vita divina. Questo significa che, se nella rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Parola, autentica auto-comunicazione divina, sta e resta un divino Silenzio. La Parola esce dal Silenzio ed è nel Silenzio che essa viene a risuonare: come c’è una provenienza della Parola dalla silenziosa Origine, così c’è una destinazione della Parola, un suo “avvenire”, come luogo del suo avvento. Il Verbo sta fra due silenzi: gli “altissima silentia Dei” della tradizione mistica cristiana. È precisamente questo gioco dialettico di Parola e Silenzio che è stato perduto nella tradizione teologica della modernità. Cifra di questo destino, dalle conseguenze epocali, è la stessa storia della parola usata per dire l’auto-comunicazione divina: dal momento in cui il termine “Offenbarung” – evocativo dell’atto dell’aprirsi (etimologicamente: “gestazione e apertura dell’aperto”, da “offen”, aperto, e “bären”, che nel tedesco medievale esprime il “portare in grembo”, l’“esser gravido”) – è stato fissato come equivalente di “revelatio” nella lingua che domina il pensiero critico della modernità, il problema della rivelazione è diventato quello di accogliere il manifestarsi dell’aperto, fino all’interpretazione hegeliana, in cui la rivelazione diventa la fenomenologia dello Spirito assoluto. Nell’ottica della “Offenbarung” l’avvento di Dio viene pensato come esibizione senza riserve: dicendosi, il Mistero assoluto si consegnerebbe alla presa del mondo; l’ingresso dell’eterno nel tempo avrebbe fatto della storia il “curriculum vitae Dei”, il processo di Dio per divenire se stesso. In tal modo, però, viene perduta la continuità con l’originaria tradizione biblica, secondo cui la “revelatio” è l’offrirsi del Dio rivelato e nascosto: maestro del desiderio, il Dio della rivelazione è Colui che, dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo e attira alla Sua profondità silenziosa e raccolta. Il Dio dell’avvento è il Dio della promessa, dell’esodo e del Regno. Perciò, la Sua rivelazione non è visione totale, ma Parola che schiude i sentieri abissali del Silenzio. Il rinnovato rapporto con l’ebraismo – esperto dei divini silenzi – diventa così una scuola preziosa per il pensiero cristiano per riappropriarsi dell’idea dialettica ed escatologica della rivelazione, per ritrovare i sentieri del Silenzio da cui la Parola proviene ed a cui essa schiude. Tanto per l’ebraismo, quanto per il cristianesimo le parole in cui dimora la Parola divina vanno allora scrutate in un continuo processo di “trasgressione”, che raggiunga la nascosta Provenienza e l’Avvenire in esse custodito: si comprende allora perché l’ebraismo indaghi i settanta significati nascosti in ciascuna delle parole di Dio e la lettura cristiana delle Scritture ne cerchi i molteplici sensi in un gioco infinito di rimandi allegorici e simbolici. Perciò l’ermeneutica – intesa come “trasgressione” della parola, che sola ne scandaglia i significati profondi, i mondi vitali da cui essa proviene e che essa esprime – nasce nella tradizione ebraico cristiana della “lettura infinita” delle Scritture [12] . Se lo sguardo dei due esploratori è rivolto sempre all’ultimo orizzonte ed all’ultima patria, nessuna estasi dell’adempimento, nessuna seduzione del possesso può fermare il loro cammino. Ebraismo e cristianesimo sono religioni aperte all’abisso della Verità divina, accessibile in assoluta obbedienza alla rivelazione biblica, custodita e trasmessa nel popolo santo.
2. Il carattere comunitario della salvezza
In quanto suscita il compito dell’interpretazione inesausta, si può dire che il Dio della rivelazione ebraico-cristiana non è il Dio delle risposte facili e pronte, ma il Dio esigente, che amando e donandosi si nasconde e chiama a uscire da se stessi in un esodo senza ritorno che porti negli abissi del suo Silenzio, ultimo e primo: un Dio che rende amanti pensosi. Il rapporto con Lui necessita pertanto di essere vissuto in una comunità viva, che – custodendo e riconoscendo il Suo linguaggio – possa insegnarlo ai suoi membri perché se ne facciano a loro volta custodi e trasmettitori creativi. Questa comunità è il popolo di Dio, la “qahal” d’Israele, la Chiesa dei discepoli del Crocifisso Risorto, entrambe suscitate e nutrite dalle parole della lingua sacra, in cui si è fissata per sempre la rivelazione di Dio. Il valore attribuito a quest’appartenenza linguistico-comunitaria non dipende dalla lingua effettivamente usata nella vita ordinaria dei credenti, ma dal loro continuo e necessario apprendere il linguaggio di Dio attraverso le parole – trasmesse e tradotte nella fedeltà all’originale sacro – in cui la Parola si è detta. Appartenere alla comunità non è sacrificio del pensiero, ma condizione ermeneutica per il suo esercizio fecondo: la fede che unisce i credenti è alimento dell’interrogazione e dell’ascolto, grembo capace di ricevere, custodire e interpretare l’intelligenza della Parola di vita, che è intelligenza penetrante della realtà tutta intera.
Si comprende allora la cura che ebraismo e cristianesimo hanno sempre avuto per affermare e custodire la lingua delle loro origini divine [13] : la domanda “Che lingua parlano nel giardino del Paradiso Adamo, Eva, Dio e il serpente?” È – per l’ebreo, come per il cristiano – solo apparentemente retorica. La risposta di Agostino – che opta senza esitazioni l’ebraico – vuol unire la lingua del primo Adamo a quella del nuovo Adamo, Cristo, per mostrare come in Lui si compia la nuova creazione: in realtà, però, la densità teologica dell’affermazione contiene conseguenze più ampie, perché l’unità del linguaggio dice l’unità del popolo di Dio e fonda da una parte la comunione dei credenti fra loro nell’israele dell’elezione e nella Chiesa dei discepoli, dall’altra il provvidenziale rapporto fra Israele e la Chiesa. La riprova sta nel fatto che quando l’antisemitismo si è fatto strada nella coscienza cristiana, si sono cercate altre risposte alla domanda sulla lingua del Paradiso, quasi a confermare che dove si perde la forza unificante del linguaggio creato da Dio per dirsi agli uomini, si perde anche l’identità più vera del Suo popolo nella storia. Per ebraismo e cristianesimo l’appartenenza al popolo santo costituisce il circolo ermeneutico che apre l’accesso più ricco ai tesori della Verità: lungi dal mortificare la ragione, la fede condivisa la stimola e la esalta.
Nel disegno salvifico di Dio Israele ha un ruolo decisivo e centrale come popolo e la Chiesa stessa non potrà comprendere la propria identità e la propria missione senza situarsi in rapporto a quella che Paolo chiama la “santa radice” (Rm 11,16). Con immagine audace, che contrasta manifestamente con l’esperienza, l’Apostolo vede l’oleastro innestato sull’olivo, e non, come sarebbe naturale, la pianta buona innestata su quella selvatica: ne risulta l’importanza decisiva che Paolo accorda alla pianta ebraica, non esitando a ricordare alla comunità cristiana che non è lei a portare la radice, ma la radice a portare lei (cf. Rm 11,18). Lo stesso rifiuto d’Israele è considerato dall’apostolo condizione provvidenziale perché la salvezza giunga alle genti (v. 11), che saranno a loro volta pungolo per l’ultima reintegrazione (v. 14). Il motivo profondo di questo misterioso disegno è colto da Paolo nella fedeltà del Dio dell’alleanza: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (v. 29). La complessa teologia della storia della salvezza, che è sottesa a queste riflessioni, afferma dunque la continuità fra Israele e la Chiesa, non meno della novità, che costituisce il popolo dei credenti in Cristo. Pensare la relazione fra i due popoli nell’unico disegno di Dio e il loro specifico ruolo è allora la questione aperta, posta sin dalle origini cristiane alla coscienza della fede, nutrita dall’unico Dio della promessa [14] .
La continuità si manifesta anzitutto a livello di linguaggio: gli stessi termini Chiesa e popolo di Dio hanno radici veterotestamentarie. La comunità d’Israele viene designata con le espressioni pressoché equivalenti ‘edah e qahal, delle quali la prima evidenzia lo stato della comunità radunata, la seconda sottolinea il momento attivo della convocazione. I Settanta tradurranno i due termini prevalentemente con synagogé ed ekklesía e sarà questa espressione – in quanto indicativa del momento religioso in cui si costituisce l’assemblea del Signore – ad entrare nell’uso per designare la comunità convocata da Dio mediante l’annuncio della fede pasquale (“Chiesa di Dio”), anche perché il vocabolo sinagoga era diventato in ambiente greco il nome proprio della comunità religiosa giudaica e del suo luogo di adunanza. La distinzione fra ‘am e gojîm, designanti rispettivamente il popolo eletto e gli altri popoli, fu resa in greco con i termini entrati nel linguaggio del Nuovo Testamento laós e éthne usati per qualificare il popolo di Dio da una parte e i pagani – o le genti – dall’altra. Già questa terminologia dice quanto la Chiesa si sia riconosciuta in continuità con Israele.
Al pari di Israele, la Chiesa si concepisce come popolo in esodo, radunato nelle dodici tribù: “Ed ora – dirà Paolo davanti al suo giudice – mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono ora incolpato dai Giudei!” (At 26,6s.). La scelta dei Dodici (cf. Mc 3,13-19 e par.) Mostra come lo stesso Gesù abbia inteso la sua comunità nella continuità con Israele: e come tale essa vive la sua speranza escatologica (cf. Ap 21,12-14). Gerusalemme – percepita nella tradizione ebraica come punto di raccolta dei dispersi e luogo santo della salvezza donata da Dio – resta nella coscienza cristiana la città escatologica, che scende dal cielo (cf. Gal 4,26s.; Ap 21,2), pur essendo al tempo stesso il centro storico in cui si compie la redenzione e da cui parte l’annuncio a tutte le genti. Anche l’idea neotestamentaria di regno di Dio, oggetto e cuore della predicazione di Gesù, è profondamente radicata nell’antico Testamento: e come Israele non si identifica con la regalità dell’eterno, così la Chiesa sa di essere solo il seme e la caparra del Regno (si pensi alle parabole del Regno in Mt 13).
È soprattutto però la relazione con il Dio dell’alleanza l’elemento di continuità fra le comunità dell’antico e del Nuovo Patto: entrambe sono il popolo di Dio. L’Eterno si è autodestinato a Israele nel legame dell’alleanza: ed Israele riconosce di esistere grazie a Lui e per Lui, come Sua proprietà, Suo alleato, Suo santuario fra i popoli, “regno di sacerdoti e nazione santa” (Es 19,6: cf. 1 Pt 2,9 e Ap 5,10). È parimenti l’esperienza della salvezza che dà alla Chiesa la coscienza di essere il popolo di Dio, concepito con le stesse categorie del popolo eletto: gregge, campo di Dio, vigna scelta, edificio di Dio, Sua dimora, tempio santo, “Gerusalemme che è in alto” e “madre nostra” (Gal 4,26; cf. Ap 12,17), sposa che il Signore “ha amato e per la quale ha dato se stesso, al fine di renderla santa” (Ef 5,25-26) [15] . E come Israele riconosce la sua missione nell’essere il popolo tra i popoli, segno e strumento della salvezza dell’eterno per tutte le genti, pur se in una continua tensione fra particolarismo e universalismo, così la Chiesa si sentirà chiamata a portare la salvezza fino agli estremi confini della terra come segno levato fra le nazioni(cf. Mc 16,15s.; Mt 28,18-20). E come Israele vive nell’attesa vigile e speranzosa del compimento delle promesse di Dio, così la Chiesa è popolo della speranza, teso fra il già del dono del Signore e il non ancora dello shalôm universale (cf. Ad esempio 1 Cor 15,20-28; Ap 22,17. 20). “E così – osserva San Tommaso d’Aquino – i padri dell’antico Patto appartenevano allo stesso corpo della Chiesa al quale noi apparteniamo” [16] .
Esiste dunque un’unica alleanza, da cui nasce l’unico popolo di Dio nella storia? La continuità fra Israele e la Chiesa autorizzerebbe a pensarlo [17] : e l’argomento decisivo sarebbe l’irrevocabilità dell’elezione e la fedeltà dell’eterno al patto stretto col Suo popolo. Proprio perché entrambe popolo di Dio, le comunità del Primo e del Nuovo Testamento, congiunte in un unico disegno di grazia e di misericordia divine, sarebbero l’unico popolo in cammino verso la stessa patria escatologica, chiamato a un medesimo compito di testimonianza messianica. L’evento Cristo non costituirebbe allora una cesura, ma un approfondimento e soprattutto una dilatazione, in forza della quale l’incontro col Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe sarà reso possibile a tutte le genti. Lo scisma intervenuto storicamente fra Chiesa e Israele non rispecchierebbe la volontà divina, secondo la quale le due comunità dovrebbero continuare a svolgere il loro ruolo nella comunione reciproca sotto il segno dell’unico progetto di salvezza del mondo: Israele come radice, tenace testimone del mistero dell’elezione che separa e consacra; la Chiesa come albero, i cui rami si estendono al vento e al sole nello spazio del tempo, fecondo in sempre nuove stagioni. Gesù Cristo, soprattutto nel Suo aspetto di Servo sofferente e di Messia crocifisso, sarebbe l’anello di congiunzione fra le due comunità: sintesi della storia di sofferenza del popolo eletto nella Sua passione, sorgente della missione tesa al compimento della salvezza universale nella Sua resurrezione. “Torah fatta carne” (J. Schoneveld), in Lui il significato più profondo della Legge sarebbe divenuto trasparente alle genti: vivere al cospetto di Dio come autentica immagine di Lui.
Per quanto suggestiva, una simile lettura non evita due rischi: il primo, di riprendere la vecchia tesi della “sostituzione”, per la quale la Chiesa realizza compiutamente ciò che è implicito in Israele, e perciò ne prende il posto nel mistero della redenzione; il secondo, di ridurre la novità cristiana a una dimensione prevalentemente “quantitativa”, nel senso che ciò che di nuovo avrebbe operato Gesù sarebbe l’ingresso dei pagani nel dono dell’alleanza e nella pratica, autentica e liberante, della Legge. Sotto entrambi i profili, la tesi dell’unicità dell’alleanza, se rende ragione della profonda continuità fra la Chiesa dell’antico e quella del Nuovo Patto, non riesce a spiegare adeguatamente la novità che, proprio distinguendole, le unisce. Occorre allora riconoscere la discontinuità in tutto il suo significato: “Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di storia della salvezza” [18] . Se per Israele – l’esploratore che cammina avanti – il “già” della fede è l’alleanza stretta da Dio con i Padri e il “non ancora” della speranza è il compimento escatologico delle promesse dell’eterno nello shalôm universale, per la Chiesa – l’esploratore che segue dietro l’altro – il “già” è l’avvento del Figlio di Dio nella carne e il realizzarsi del Suo mistero pasquale, che troverà pieno e definitivo compimento nel momento in cui Cristo ricapitolerà tutto in sé e consegnerà tutto al Padre e Dio sarà tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,28). Verso questo “non ancora” dell’ultimo avvento, che sarà il ritorno glorioso del Signore, la Chiesa tende nel pellegrinaggio del tempo. Proprio così, però, i due popoli restano accomunati nel segno di una ricchissima tensione messianica…
3. La messianicità dei due popoli
Per la fede cristiana, Gesù è il Messia atteso dalla speranza ebraica, compimento delle promesse fatte ai Padri e al tempo stesso promessa di un nuovo e definitivo compimento, che si consumerà nella gloria dell’éschaton. In questo senso, la Chiesa sa di portare in sé la speranza d’Israele, perché attende il pieno realizzarsi della promessa messianica: e tuttavia, sa di diversificarsi dal popolo dell’antica Alleanza, perché riconosce che l’ultimo tempo è già iniziato nella storia di Gesù, Signore e Cristo, e di questa escatologia in atto di realizzarsi si sente al tempo stesso protagonista e recettiva. La coscienza di questa novità, pur nella continuità col popolo dell’antico Patto, è veicolata chiaramente nel Nuovo Testamento: la Chiesa si riconosce “Israele di Dio” (Gal 6,16), contrapposto all’israele secondo la carne (cf. 1 Cor 10,18), discendenza di Abramo ed erede secondo la promessa proprio in quanto appartenente al Cristo, il Messia venuto (cf. Gal 3,29 e Rm 9,6-8). La sottolineatura di questa novità induce a pensare a due alleanze: all’antico Patto segue il Nuovo, all’economia dell’alleanza sinaitica, la nuova ed eterna alleanza sancita nel sangue di Cristo sulla Croce [19] .
È da questa “teologia delle due Alleanze” che è stata ispirata la contrapposizione fra ebraismo e cristianesimo, spinta fino a vedere nella Chiesa il nuovo Israele ed a svuotare di ogni valore la permanenza del popolo eletto. Perciò è necessario precisare che le due Alleanze sono e restano all’interno dell’unico disegno di Dio, che raduna il Suo popolo nella storia. Proprio per questo, ebraismo e cristianesimo sono e restano entrambe “istituzioni aperte”, spinte ad essere tali dalla loro radicale dipendenza dall’iniziativa divina nella storia: “Il cristianesimo è un’istituzione aperta, destinata a tutti gli uomini e a tutti i tempi, e relativa ad essi. Esso è qui e nello stesso tempo è ancora sempre in divenire e in crescita… Il cristiano che concepisce e predica la sua Chiesa come un semplice sistema, come un’istituzione statica e completa o come un’ideologia, la degrada e la riduce… Il cristianesimo è aperto in modo speciale sull’ebraismo. La Chiesa è imparentata in maniera unica con esso… I cristiani devono perciò prestare attenzione agli ebrei e all’ebraismo e prenderlo seriamente nella sua autonomia e affinità col cristianesimo. Debbono ascoltare, attendere e credere… Anche l’ebraismo è una comunità aperta. Tale carattere gli è inerente già dal tempo dell’antico Testamento … Come nel caso del cristianesimo, anche l’apertura dell’ebraismo è orientata principalmente al futuro…» [20] . I due esploratori della terra di Canaan dovranno allora continuare a camminare verso la stessa meta, misteriosamente uniti dalla Croce di Cristo e dallo stesso canto: non l’uno contro l’altro, né solo l’uno accanto all’altro, ma l’uno per l’altro, entrambi rivolti al compimento escatologico delle promesse di Dio [21] . Ma come potrà avvenire questo?
L’affermazione decisiva consiste nel riconoscimento della peculiarità storico-salvifica e del significato religioso permanente dell’ebraismo come dato irrinunciabile per la fede cristiana. L’aver obliato o trascurato questo dato, fondato nelle convinzioni espresse da Paolo nella sua Lettera ai Romani (cap. 11), è stato non solo causa di immani sofferenze per il popolo ebraico, fatto oggetto di rifiuto e di persecuzione, culminati nella tragedia dell’olocausto, ma anche motivo di impoverimento e di alienazione per lo stesso cristianesimo. Si comprende allora come molte delle interpretazioni, proposte nel passato per comprendere la relazione fra Israele e la Chiesa, debbano essere abbandonate o superate. Dal punto di vista storico i modelli interpretativi con cui la comunità cristiana si è rapportata all’antico Testamento sono andati dal dualismo di contrapposizione fra l’antico e il nuovo Israele, all’allegorismo di semplice sostituzione, all’uso strumentale delle testimonianze dell’antico Patto, alla ricerca di un’effettiva complementarità [22] .
Il modello dualistico contrappone il Nuovo patto all’antico: Marcione e il movimento ereticale a lui ispirato, sviluppatosi intorno alla metà del II secolo, ne sono la rappresentazione emblematica con la tesi espressa dall’uso forzato del testo di Luca 5,36-39 : “Non si versa il vino generoso del Vangelo nei vecchi otri dell’ebraismo” [23] . L’opera di Gesù sarebbe consistita nel liberare gli uomini dall’opprimente dominio della Legge e dell’implacabile giustizia divina, per offrire loro la buona novella della misericordia e del perdono, raggiungendo anche i lontani con il supremo dono d’amore della Sua morte in Croce. Nelle Antitesi, che faceva precedere al canone biblico da lui fissato, Marcione classificava e selezionava i testi della Scrittura in base a questo fondamentale criterio dualistico, ritenendo di dimostrare così la malvagità del Dio dei giudei, rispetto al quale far risplendere la superiorità del Vangelo [24] . Per la sua esaltazione della novità evangelica, per il suo forte paolinismo e per la radicalità dei suoi giudizi il marcionismo, sebbene rifiutato dalla Chiesa, eserciterà un grande influsso sulla coscienza cristiana e sarà certamente una delle cause remote dell’antisemitismo che non cesserà di serpeggiare in essa. L’ispirazione gnostica che lo anima, in forza della quale la rivelazione è sottoposta al giudizio più o meno arbitrario di un criterio fissato razionalmente, farà però avvertire in maniera diffusa l’estraneità fra l’atteggiamento dualistico e la coscienza cristiana, che non può tollerare la cancellazione dell’antico Testamento, pena la perdita delle sue stesse radici.
Anche contro l’arbitrio del modello dualistico si andrà configurando nella storia della teologia cristiana il modello allegorico: l’Antico Testamento è accettato e studiato con amore, ma se ne opera una spiritualizzazione, tesa a spiegare ogni aspetto della lettera veterotestamentaria alla luce dello Spirito del Nuovo Testamento. Eccellerà in quest’opera di simbolizzazione e di progressive inclusioni fra il piano storico e quello cristologico la Scuola alessandrina (Clemente, Origene): la lettera rimanda al senso spirituale. L’uso dell’esegesi allegorica spinge a riconoscere – a volte anche forzatamente – il non detto nel detto (allegoria è, appunto, “dire altro”) [25] . Il risultato del procedimento sarà lo svuotamento dell’antico Testamento, operato non esteriormente per via di semplice soppressione, ma dal di dentro, in quanto lo si priverà della sua intenzionalità propria, immettendovene un’altra, spesso del tutto estranea al senso originario. In tal modo, la sostituzione della Chiesa a Israele sarà compiuta nello stesso testo che è a fondamento dell’identità della fede ebraica. Di questo processo risentirà lo stesso cristianesimo, indebolito nei suoi fondamenti storici: condizionata dal dualismo greco-ellenistico, la tendenza allegorica, spiritualizzando la lettera, finirà col destoricizzare la stessa fede cristiana. Se ciò che è detto nel Nuovo è già presente nell’antico, nella forma del tipo o dell’allegoria, “è abolita non soltanto la storia della salvezza contenuta nel Vecchio Testamento, ma perdono il loro valore di avvenimenti storici anche il fatto unico dell’incarnazione di Gesù Cristo e quello della predicazione di questa incarnazione da parte degli apostoli” [26] .
Nel modello dualistico gioca dunque una logica di contrasto, come in quello allegorico una logica di sostituzione effettiva. Nel cosiddetto modello antologico è un procedimento di integrazione a prevalere: il resto d’Israele, inteso come il meglio che l’Antico Testamento ha saputo esprimere, viene assunto e integrato nell’identità spirituale della Chiesa. Si opera in tal modo una strumentalizzazione dell’antico Patto e delle sue testimonianze: si ricorre ad esse nel rispetto del loro significato storico, ma se ne fa uso selettivamente, privilegiando ciò che sembra più valido universalmente o ciò che appare più facilmente interpretabile in chiave cristologica. Non si nega Israele del tutto, ma se ne compie un’effettiva cancellazione parziale. Anche qui il rischio che si affaccia è lo svuotamento dell’antica Alleanza e la sua pura e semplice assimilazione alla Nuova. Un’interpretazione della formula “il Nuovo Testamento era latente nell’antico, l’Antico è manifesto nel Nuovo” [27] , che andasse in questa direzione, vanificherebbe il dinamismo in cui si realizza l’economia divina, trascurando il carattere di storicità proprio della rivelazione ebraico – cristiana. L’origine di questo modo di interpretare sembra risalire addirittura al fatto che, quando il canone neotestamentario non era ancora redatto né fissato, i cristiani si sforzavano di cogliere nell’unico canone a loro disposizione, quello veterotestamentario, la storia di Gesù, centro e fondamento della loro fede. Di qui all’interpretazione apologetica dell’antico Testamento il passo fu breve.
Ciò che occorre allora salvaguardare nel rapporto fra la Chiesa e Israele è il valore dell’antica Alleanza in se stessa e il permanente significato religioso d’Israele, postulato da Paolo in forza della fedeltà di Dio al Suo patto. È il cosiddetto modello della complementarità che qui si affaccia: l’Antico Testamento ha un valore strutturale, fatto proprio dallo stesso Gesù, ebreo ed “ebreo per sempre”. La visione della realtà, caratteristica della radice santa, consta di un elemento fondamentale, che l’esistenza del popolo ebraico ha continuato tenacemente a testimoniare nella storia, nonostante tutti i tentativi di assimilazione o di soppressione compiuti nei suoi confronti. Questo elemento, vero centro e cuore dell’ebraismo, è l’alleanza con Dio. Tutto per l’ebreo si riferisce al Patto: il mondo buono e bello della creazione, la difficile libertà dell’essere umano, il destino del popolo eletto, pur tante volte infedele. Tutto, attraverso l’ascolto dell’eterno, domandato ogni giorno e più volte al giorno nello Shemà, si orienta a Lui, che va amato con tutto il cuore, cioè nell’insieme dei conflitti che attraversano questa sorgente di vita, soggetta all’attrazione del bene e del male, con tutta l’anima, fino al dono di sé, con tutte le forze, senza risparmio di alcuno dei propri mezzi (cf. Dt 6,4s.). Gesù stesso ha vissuto questa spiritualità dell’alleanza: egli è il nuovo Adamo, che obbedisce dove l’altro ha fallito. Gesù è il sì all’alleanza (cf. 2 Cor 1,20), il compimento nella sua stessa persona del patto di amore eterno fra Dio e il suo popolo, l’Israele realizzato secondo il cuore di Dio.
Il Nuovo Testamento incarna dunque l’Antico nel senso che l’alleanza realizzata in Gesù rende possibile la comprensione del Patto nella pienezza del suo senso più vero. Non è questione di una o due alleanze: l’economia del Patto è una sola e consiste precisamente nel disegno d’amore di Dio per il Suo popolo, in quello che Paolo chiamerà il mistero nascosto dai secoli (cf. Rm 16,25). Ma i tempi, le forme e il grado di realizzazione cambiano: l’alleanza con Noè non è quella con Abramo, e questa non è ancora quella del Sinai. L’alleanza del Golgota e della Pasqua di resurrezione non nega le altre, le porta a compimento. Perciò fra i due popoli dell’economia dell’alleanza non può che esserci complementarità: il Nuovo illumina, l’Antico si lascia illuminare, ma a sua volta è in se stesso indispensabile per comprendere la luce del Nuovo. Grazie a questa funzione ermeneutica, alla luce del Nuovo i testi del Vecchio Testamento verranno ora assunti, ora ridimensionati, ora riportati alla priorità indiscussa dell’amore di Dio: né potrà essere mai obliata la novità dell’incarnazione del Figlio, che sorpassa ogni attesa. L’Antico Testamento resta però nel suo valore di struttura, nel suo fondamentale modo di vedere il mondo, l’uomo, la storia nella luce dell’alleanza con Dio: e questo spiega perché la permanenza d’Israele, testimone tenace di questa visione del mondo fra i popoli, non è minaccia né impoverimento della Chiesa, ma ricchezza per essa, e la Chiesa, popolo di Dio, non è annullamento dell’antico, ma offerta permanente, rispettosa e fiduciosa, della pienezza possibile.
Perciò, “essendo tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei”, il Vaticano II ha voluto “promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo” [28] . Fatti salvi i cammini individuali sempre possibili e ricchi di senso profetico, i due popoli, come i due esploratori della Terra promessa, dovranno dunque camminare insieme in una sorta di processo di riconciliazione sempre “in fieri”, fino al tempo in cui confluiranno nell’unico popolo del tempo escatologico, che i cristiani attendono come frutto pieno della riconciliazione attuata nel sangue del Messia crocifisso e risorto, segno levato per attirare a sé tutti i popoli nell’universale pellegrinaggio dei popoli verso la Gerusalemme del compimento finale.
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[1] Così afferma ad esempio Evagrio (verso il 430): Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Cf. H. Leclerq, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et Liturgie, 3, 169s.; C. Leonardi, Ampelos. Il simbolo della Vite nell’arte pagana e paleocristiana, Roma 1947, 149-163.
[2] Ancora Evagrio, Altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175. Stesse idee in S. Massimo di Torino (metà del V sec.): Hom. 79: PL 57,423s.
[3] Y. Congar, Ecclesia ab Abel, in Abhandlungen über Theologie und Kirche. Festschrift Karl Adam, Düsseldorf 1952, 103, n. 65, rimanda a Pietro di Mora (Capuano: 1242) e ad Adamo di S. Vittore. L’allusione è a Mc 11,9: “Qui praeibant et qui sequebantur clamabant dicentes Hosanna”.
[4] Cf. Genesi rabbah V.7 e Levitico rabbah X.9, citati in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino 1999, 391.
[5] Cf. H. Rahner, Die Grabschrift des Loyola, in Stimmen der Zeit 139, 1946-47, 321-339. La frase, riportata in Imago Primi Saeculi Societatis Iesu, Anversa 1640, 280, quale “Elogium sepulcrale S. Ignatii, è stata usata da Hölderlin nel 1794 come esergo al frammento di romanzo Hyperion.
[6] Cf. la presentazione di questa tradizione in G. Scholem, Schöpfung aus Nichts und Selbstverschränkung Gottes, Eranos_Jahrbuch 1956, 87-119. Cf. pure Id., Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, 270ss. Dopo aver notato il capovolgimento operato dai Cabbalisti rispetto all’idea di un “contrarsi” della divina presenza sul Monte Sion (contrazione divina “ad extra”) mediante la dottrina della contrazione divina per così dire “ad intra”, Scholem osserva: “Si è tentati di interpretare questo ritrarsi di Dio nel suo proprio essere in termini di ‘esilio’, di ‘bando’ dalla sua totale onnipotenza nella più profonda solitudine. Considerata così, l’idea dello zim-zum sarebbe il più profondo simbolo pensabile dell’esilio” (271).
[7] Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in Busi, Simboli, cit., 345.
[8] Cf. le tesi di A. Neher, L’exil de la parole. Du silence biblique au silence d’Auschwitz, Paris 1970; tr. it.L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Piemme, Casale Monferrato 1983. Cf. pure C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Écriture et Rèvèlation, Paris 1992: tr.it. Alle porte del Silenzio. Scrittura e rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003.
[9] A. Neher, L’esilio della Parola, o.c., 146.
[10] Ib., 178.
[11] E. Lévinas, Difficile liberté, Paris 1963, 193.
[12] Cf. M.-A. Ouaknin, La “lettura infinita”. Introduzione alla meditazione ebraica, ECIG, Genova 1998.
[13] Cf. la ricerca di M. Olender, Le lingue del Paradiso, Il Mulino, Bologna 1991.
[14] Sulla teologia del rapporto fra la Chiesa e Israele cf. tra l’altro: A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia 1966; N. Lohfink, L’alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991; F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982; Id., Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987; C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983. J.T. Pawlikowski, Judentum und Christentum, in Theologische Realenzyklopädie Band XVII, 3/4, Berlin – New York 1988, 386-403, fornisce, con un’ampia recensione di posizioni, una ricca bibliografia.
[15] Cf. Lumen Gentium, 6.
[16] «Et ita Patres antiqui [veteris Testamenti] pertinebant ad idem corpus Ecclesiae ad quod nos pertinemus»: S. Tommaso, Summa Theol. III, q. 8, a. 3, ad 3um («Utrum Christus sit caput omnium hominum»).
[17] È appunto la tesi dell’alleanza unica, sostenuta ad esempio da Autori come M. Hellwig, M. Dubois, P. van Buren, N. Lohfink, ecc.: cf. l’accurata informazione di J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 393-398.
[18] G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, 107s.
[19] Cf. J.T. Pawlikowski. Judentum und Christentum, o.c., 398ss.: è la posizione delle teologie delle due alleanze, che va dalle contrapposizioni piuttosto semplicistiche di un J. Parkes (l’esperienza del Sinai destinata alla comunità, quella del Golgota al rapporto fra l’individuo e Dio) a un’ampia serie di interpretazioni intermedie, fra cui spiccano quelle di C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, Casale Monferrato 1983, che evidenzia le scelte operate da Gesù stesso fra le varie forme dell’attesa messianica di Israele (tutt’altro che omogenee fra loro!) e vede la novità cristiana nel fatto che il Profeta galileo annuncia l’avvento del Regno di Dio e lo collega alla Sua persona e alla Sua opera, e quella di F. Mussner, Il popolo della promessa. Per il dialogo cristiano – ebraico, Roma 1982 e Die Kraft der Wurzel. Judentum – Jesus – Kirche, Freiburg – Basel – Wien 1987, che coglie la novità nel profondissimo rapporto di unità che c’è fra Gesù e Dio, e quindi nell’Incarnazione, intesa come radicalizzazione della promessa, più che suo compimento realizzato. A riprova Mussner adduce ad esempio le anticipazioni della “cristologia del Figlio” presenti nella letteratura sapienziale dell’Antico Testamento (cf. 380-389).
[20] C. Thoma, Teologia cristiana dell’ebraismo, o.c., 204s.
[21] Cf. ib., le tesi della Parte Terza: 162ss. e 188ss.
[22] Cf. C. Di Sante, L’Antica e la Nuova Alleanza. Il rapporto tra i due Testamenti, in Israele e le genti, o.c., 53-71.
[23] Così J. Isaac, Gesù e Israele (1948), Firenze 1976, sintetizza questa posizione: 86. È proprio la persistente influenza della mentalità marcionita che potrebbe rendere equivoco l’uso dell’espressione Nuova Alleanza: cf. N. Lohfink, L’alleanza mai revocata, o.c., 17ss.
[24] Cf. A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott, Leiprig 19242. Cf. l’informazione che dà Ireneo di Lione, Adversus Haereses, I, 27, 1-3, classificando Marcione fra gli gnostici.
[25] Cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma 1985.
[26] O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 19694, 163.
[27] Cf. S. Agostino, Quaestiones in Heptateuchum l. 2, q. 73: PL 34,623: “Novum Testamentum in Vetere latebat; Vetus nunc in Novo patet”.
[28] Nostra Aetate, 4. Cf. per la raccolta dei più importanti documenti L. Sestieri – G. Cereti, Le Chiese cristiane e l’ebraismo 1947-1983, Casale Monferrato 1983. Cf. pure M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica. Con una raccolta di testi sul dialogo ebraico-cristiano, Bologna 1994, con presentazione e commento dei documenti ufficiali della Chiesa dal Concilio Vaticano II in poi.