Archive pour la catégorie 'ARCIVESCOVI E VESCOVI – CLERO'

Mons. Andreatta: In cammino con Paolo verso Corinto

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-16100?l=italian

In cammino con Paolo verso Corinto

ROMA, martedì, 11 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito larticolo di monsignor Liberio Andreatta, Vicepresidente dellOpera Romana Pellegrinaggi, apparso sul quinto numero di

“Paulus” :

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(novembre 2008) dedicato a Paolo il mistico.

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Paolo arriva a Corinto la prima volta nel corso del suo secondo viaggio missionario. E una città ormai romana, profondamente pagana negli orientamenti di vita, difficile e complessa per la quale egli darà tutto se stesso, con la sua presenza diretta e con le sue lettere.Proprio Corinto è infatti una delle città nella quale Paolo ha risieduto per più tempo: una prima volta per un anno e mezzo e quindi, per tre mesi in occasione del terzo viaggio. Il tempo e i 900 chilometri che separano Neapolis, punto di approdo in Grecia nella Macedonia romana, da Corinto sono un cammino di preparazione segnato da tante prove e sofferenze fisiche e spirituali. Egli raccoglie lungo la strada qualche frutto e qualche consolazione, ma anche tante avversità. Nel viaggio perderà, anche per un certo periodo, il conforto dei suoi compagni Timoteo e Sila che lo raggiungeranno di nuovo a Corinto più tardi. Dopo linsuccesso del suo discorso ai sapienti ateniesi sullAreopago ad Atene, egli giunge a Corinto veramente svuotato di se stesso, conscio dei limiti della sua sapienza umana. Il suo stato interiore allarrivo traspare bene da un passo di 1a Corinzi (2. 1-5): «Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio».

In quel momento, Il Signore lo conforta: «Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città» (Atti 18, 9-10). E così sarà: qui sorgeranno comunità numerose e solide. In questa città il Signore gli ispirerà la lettera ai Romani, nella quale Paolo tradurrà in parole umane ed in maniera unica il mistero di Cristo e dellamore di Dio per luomo.

Il cammino di Paolo da Neapolis verso Corinto è un itinerario di grande interesse spirituale, storico ed artistico ,che ancora oggi è possibile ripercorrere come pellegrini. Filippi, Tessalonica e Atene sono le tappe principali di questo percorso. Ma disponendo di più tempo, è possibile toccare anche altre località che hanno visto il passaggio di Paolo seguendo passo passo, il racconto degli Atti degli Apostoli, (Berea, Anfipoli, Apollonia, ecc.)

La ricerca archeologica e le attività di recupero e restauro di luoghi e monumenti sia di epoca romana che cristiana, oggi permettono ai visitatori di rivivere in maniera più ricca il contesto culturale dei luoghi dove Paolo è passato e di visitare i luoghi dove si è mantenuta viva la tradizione e la devozione allApostolo delle Genti. Ma delle varie tappe di questo percorso di avvicinamento a Corinto parleremo in maniera più specifica nei prossimi numeri. Ora seguiamo Paolo nellultima parte del viaggio in Grecia.Luca nulla dice di come Paolo abbia coperto gli ultimi 80 Km che separano Atene da Corinto: se via terra, passando per Eleusi, famoso centro dei riti misterici dedicati a Demetra e Persefone, o via mare, dal Pireo o dal Falero, verso Cencre, il porto di Corinto sull

Egeo. Quando Paolo arriva a Corinto, la città è una delle più importanti e ricche della Grecia, capitale dellAcaia, provincia romana vastissima che comprende tutto il Peloponneso ed altre zone della Grecia continentale. Fondata, secondo la tradizione, 14 secoli prima di Cristo, dopo aver vissuto con alterne fortune tutte le fasi delle guerre delle città stato greche, era stata distrutta dai Romani nel 146 a.C.

Della città, che per tanti secoli aveva ospitato i gloriosi Giochi Istmici in onore di Poseidone, secondi solo a quelli di Olimpia, per cento anni non rimane che un cumulo di rovine. Giulio Cesare nel 44 a.C., conscio dellimportanza strategica di Corinto, decide di dare alla città nuova vita, fondandovi una colonia romana e ricostruendone la struttura urbana ed i porti che la servivano. Al visitatore che oggi, salito a circa 600 metri sullacropoli della città, lAcrocorinto, getta lo sguardo sullo scenario che si apre intorno, appare chiaro immediatamente il valore strategico di questo luogo.Corinto si estende su una striscia di terra non pi

ù larga di sette chilometri, un ponte naturale che in direzione Nord Sud, collega il Peloponneso alla Grecia continentale. Ad Ovest, si apre il golfo di Corinto in diretta comunicazione con il Mar Ionio. Ad Est si estende il grande Mare Egeo. Praticamente una città a cavallo di due mari e delle due grandi regioni della Grecia.

Attraverso Corinto, le navi provenienti dallItalia e dalla Magna Grecia potevano portare o caricare merci da e per la Grecia e lOriente, evitando il periplo del Peloponneso con un risparmio di circa 400 km. Due porti, Cencre sullEgeo e Lecheo sul golfo di Corinto assicuravano la possibilità di trasbordo delle merci. Anzi i greci, già dal VI secolo a.C., avevano creato un sistema ingegnoso di trasbordare direttamente le navi. Essi crearono sullistmo, in direzione Est-Ovest, un passaggio di blocchi di pietra calcarea, noto come il Diolkos, largo 6 metri, che permetteva di trasportare su apposite piattaforme di legno le navi da un mare allaltro. Ma fu Nerone nell’anno 67 d.C. a pensare ad un vero canale che collegasse i due mari. Egli inviò sul posto 6000 schiavi ad iniziare lo scavo; ma la sua morte bloccò prematuramente e per sempre limpresa. Bisognerà attendere la fine dellXIX secolo perchè venga realizzato il canale artificiale che oggi vediamo.I Romani e gli immigrati che ripopolano la citt

à sanno sfruttare a loro favore questa posizione sul piano dei commerci. Corinto diventa velocemente ricca. Punto dincontro di uomini e culture di tutto il Mediterraneo, la città non è certo una nuova Atene, non si sente legata ormai più di tanto alla cultura greca, anche se mantiene in vita alcune tradizioni del mondo greco, come la prostituzione sacra nel tempio di Afrodite sullAcropoli, per ammantare di unaura di religiosità il suo modo di vita spregiudicato, tutto orientato alla ricchezza ed ai piaceri del mondo.

Ma come vive Paolo a Corinto? In una città decisamente difficile, Paolo trova sulla sua strada una coppia di giudei, Priscilla e Aquila, costretti ad abbandonare l’Italia a causa dell’editto di Claudio. Anche loro, come Paolo, sono artigiani tessitori di tende ed egli si stabilisce e lavora nella loro casa. Tra loro nasce un bellissimo e fruttuoso rapporto che li vedrà insieme nella missione d’evangelizzazione a Corinto, ad Efeso e quindi a Roma.Paolo inizia a predicare ogni sabato nella sinagoga. Quando Sila e Tim

òteo lo raggiungono, egli prende nuova forza e si dedica tutto alla predicazione, raccogliendo frutti tra gli ebrei e tra i pagani. Ma come già avvenuto in molte altre tappe, dopo un anno e mezzo dal suo arrivo, i giudei trascinano Paolo davanti al tribunale del proconsole romano dell’Acaia, Gallione con l’accusa di diffondere un culto eretico rispetto al giudaismo. (At. 18,18)

Gallione non si ritiene competente a giudicare nel merito in quanto ritiene la questione puramente interna alla sinagoga e Paolo ne esce illeso. Dopo questa disavventura, Paolo pensa che sia tempo di proseguire il viaggio verso Efeso e da Cencre, prende la nave che lo porta in Asia. Paolo ritornerà a Corinto durante il suo terzo viaggio. E proprio al termine di questa seconda permanenza, in procinto di partire per Efeso e proseguire per portare la colletta raccolta per Gerusalemme tra le comunità, unaltra minaccia si addensa sul suo capo e questa volta più seria: qualcuno vuole attentare alla sua vita durante il viaggio in mare e cosi Paolo decide di ritornare verso lAsia via terra.Il processo di Paolo davanti a Gallione, cosi come narrato da Luca

è un elemento importante per la cronologia paolina. Infatti Gallione, fratello del filosofo Seneca, è stato proconsole in Acaia tra il 51 ed il 52 d.C., e questo fatto diventa un punto di riferimento essenziale per lo studio della vita di Paolo. Una testimonianza archeologica legata al processo davanti a Gallione, la possiamo ritrovare nella grande agorà , cuore della vita politica e commerciale dellantica Corinto.

Davanti al lungo portico a due piani. posto sul lato Sud , verso il centro della piazza si snoda una lunga serie di botteghe, interrotta a metà da unalta piattaforma: questo è il bema, il luogo, simile ai rostra del Foro Romano, dove Gallione tratta gli affari pubblici e parla al popolo di Corinto. Qui Paolo vive unanteprima di quello che avverrà qualche anno più tardi davanti ai procuratori Felice e Festo a Cesarea Marittima. Saranno ancora le accuse dei suoi ex correligionari a portarlo davanti ad un tribunale romano. Ma questa volta il suo viaggio continuerà verso Roma.

mons. Liberio Andreatta

L’Anno paolino in Turchia come riscoperta dell’identità cristiana (L’Osservatore Romano, intervista a Mons. Padovese)

dal sito: 

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/interviste/2008/015q06a1.html

L’OSSERVATORE ROMANO (18 OTTOBRE 2008)

Intervista a monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico di Anatolia

L’Anno paolino in Turchia come riscoperta dell’identità cristiana

Rosario Capomasi

« Stiamo curando la pubblicazione in lingua turca, per la prima volta, delle Lettere di san Paolo. Questo per far meglio conoscere il suo pensiero tra i cristiani del Paese ». Lo ha rivelato, in un’intervista concessa a « L’Osservatore Romano », monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca, che ha illustrato iniziative ed eventi programmati dalla Chiesa cattolica in Turchia per celebrare il bimillenario della nascita dell’apostolo delle genti. Lo speciale giubileo paolino è stato indetto lo scorso anno da Benedetto XVI, che ha sottolineato la necessaria impronta ecumenica da conferire all’evento.Le Lettere di san Paolo tradotte in lingua turca sono una novità assoluta. Che significato ha questa iniziativa?

Mi aspetto che i fedeli che vivono in Turchia, attraverso la lettura delle parole nella lingua madre, espressione di una forte identità cristiana, possano rafforzare e quindi amare di più la loro identità cristiana. Dalle lettere paoline emerge la grande fatica affrontata dal santo per portare il messaggio di Cristo nelle zone più impervie della Turchia. Se si pensa ai pericoli, all’enorme forza spirituale che ha animato l’apostolato di Paolo nel suo peregrinare da una regione all’altra, non si può non rimanere colpiti, subendo un vero e proprio cambiamento interiore. Il mio desiderio più grande è vedere nel pellegrino che si reca in Anatolia la presa di coscienza che il cristianesimo non è solo un fattore geografico ma anche missione, impegno, difficoltà. Prendendo coscienza di ciò, matura un cristiano più forte.

Quali sono gli altri eventi in programma?

Come primo atto, in attesa dell’apertura vera e propria, il prossimo 25 gennaio, giorno della conversione di san Paolo, si svolgerà a Tarso una celebrazione ecumenica a cui parteciperanno, oltre al sottoscritto, anche il vescovo di Padova, monsignor Antonio Mattiazzo, il vescovo siro-ortodosso di Adiyaman Melki Ürek e il vescovo maronita di Alep, Youssef Anis Abi-Aad. Saranno presenti anche pastori e sacerdoti della Chiesa ortodossa. Ho già incontrato il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, il patriarca della Chiesa armena apostolica, Mesrob II Minas-Vartan Mutafyan, e il metropolita della Chiesa siro-ortodossa di Istanbul, Filuskinos Yusuf Çetin. Tutti mi hanno mostrato grande disponibilità e collaborazione, seguendo quell’indirizzo ecumenico tracciato da Benedetto XVI quando l’anno scorso annunciò ufficialmente l’evento. In seguito verranno seguiti degli itinerari paolini ad Antiochia, Antiochia di Pisidia, Tarso ed Efeso con cerimonie e tavoli di riflessione sul pensiero dell’apostolo. Il 21 giugno vi sarà infine la celebrazione di apertura nella chiesa museo di san Paolo a Tarso a cui parteciperà il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.

Riguardo alla possibilità di celebrazioni nella chiesa di san Paolo a Tarso, come si comportano le autorità politiche?

Ho riscontrato una certa apertura nell’amministrazione comunale e nel governo centrale. Non dimentichiamoci che la chiesa è anche un museo e non è facile ottenere certe autorizzazioni. Ho chiesto espressamente che l’edificio venga concesso non solo ai cattolici ma anche a tutti i cristiani che verranno in pellegrinaggio. Non è proselitismo, ma un doveroso invito a tutto il mondo cattolico a venire ad omaggiare l’apostolo nel luogo dove vide la luce. In questo senso, il primo ministro turco, Recep Erdogan, e il vice prefetto mi hanno assicurato che intorno alla chiesa sorgeranno tutti quei servizi per i turisti come punti ristoro, centri informativi, luoghi di riunione. A giorni, inoltre, attendiamo l’arrivo da Ankara di una commissione governativa che dovrebbe dare l’autorizzazione definitiva alle manifestazioni in programma. L’obiettivo è ottenere un luogo permanente ed esclusivo di culto cristiano a Tarso: un desiderio mio ma anche di quei pellegrini che giungono da ogni parte del mondo, attratti dal misticismo dei luoghi.

Qual è l’attuale situazione della comunità cattolica nel Paese?

La presenza cattolica è purtroppo molto limitata e, se si escludono i grandi centri come Istanbul, Smirne o Ankara, chiese vere e proprie non ce ne sono sul territorio turco. A Tarso, poi, come ho già anticipato prima, esiste solo una chiesa museo, senza neanche una croce sulla facciata, gestita da tre suore della congregazione delle Figlie della Chiesa. La memoria storica del cristianesimo in questo Paese è come stata cancellata. Ed è un peccato se si pensa che in Turchia convivono esperienze diverse di cristianesimo: latino, armeno-cattolico, caldeo-cattolico e siro-cattolico.

In questi giorni di preparativi come sono i rapporti con la confessione musulmana?

È un discorso complesso, esistono diversi tipi di relazioni e scambi perché diversi sono gli orientamenti seguiti dall’islam turco. In questo Paese non ci troviamo di fronte ad una religione compatta e monolitica, ma pluriforme, oscillante tra orientamenti portati al dialogo e altri che invece osservano un’interpretazione più rigida e nazionalista del Corano. Ho apprezzato comunque gli sforzi di apertura nei confronti della Chiesa in Turchia avvenuti in questi ultimi mesi. Speriamo che questa accresciuta propensione alle relazioni interconfessionali possa dare i suoi frutti a breve.

Le relazioni con le altre Chiese come lei ha già accennato in precedenza sembrano buone.

E infatti lo sono. Con il patriarca Bartolomeo I, ad esempio, i rapporti sono improntati ad una cordialità ed un affetto sinceri. Quello che vorrei sottolineare è che attraverso il dialogo e la frequentazione si è passati gradatamente da un ecumenismo di facciata a quello che si radica nel cuore di chi si incontra. Sono questi i frutti del lavoro svolto dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani insieme con gli altri patriarcati, come quello di Antiochia.

Oltre alla riscoperta del messaggio paolino quali altri significati ha l’evento?

Il bimillenario servirà a richiamare l’attenzione della Chiesa verso le comunità cristiane minoritarie in Turchia. Dobbiamo far prendere coscienza di una situazione religiosa ancora difficile e con molti problemi da risolvere.

TUTTI INSIEME NEL NOME DI SAN PAOLO: MONS. PADOVESE SOTTOLINEA IL VALORE ECUMENICO DELL’INCONTRO DEI CAPI DELLE CHIESE ORTODOSSE CONCLUSOSI AD ISTAMBUL

dal sito: 

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=237109

RADIO VATICANA  (articolo 12 ottobre 2008) 

TUTTI INSIEME NEL NOME DI SAN PAOLO: MONS. PADOVESE SOTTOLINEA IL VALORE ECUMENICO DELL’INCONTRO DEI CAPI DELLE CHIESE ORTODOSSE CONCLUSOSI AD ISTAMBUL  Oggi pomeriggio, all’indomani della chiusura ad Istanbul dell’Assemblea dei primati ortodossi, è prevista l’apertura di un “Simposio Paolino”, che proseguirà in altri luoghi legati alla vita e all’opera di San Paolo, come Smirne, Efeso e Antalya, per concludersi nell’isola di Creta. All’incontro dei primati delle Chiese ortodosse nel mondo invitati dal Patriarca ecumenico, Bartolomeo I, hanno partecipato anche rappresentanti cattolici. Tra questi, il cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, in rappresentanza del Papa, ed il presidente della Conferenza episcopale della Turchia, mons. Luigi Padovese, che al microfono di Amedeo Lomonaco sottolinea come dall’iniziativa dell’Anno Paolino, indetto da Benedetto XVI, siano scaturiti anche passi ecumenici: 

R. – Non è rimasta un’iniziativa ristretta nell’ambito della Chiesa cattolica, ma ha avuto un allargamento che ci fa riconoscere tutti quanti in San Paolo. Questo, senza dubbio, è un passo molto positivo.

D. – Ed è da sottolineare, in particolare, la presenza del Patriarca Alessio II di Mosca, nonostante alcune divergenze avute con il Patriarcato ecumenico…

R. – Le divergenze passano in secondo piano, adesso, rispetto alla venerazione comune per la memoria dell’Apostolo Paolo. E anche questo mi sembra un passo significativo, quasi un miracolo che San Paolo sta facendo. Laddove non riusciamo, tante volte, ad andare avanti con il dialogo, ha forza il richiamo a questi testimoni della fede cristiana, nei quali ci ritroviamo tutti quanti. E il fatto di essere stati invitati con insistenza, mostra l’interesse che anche la Chiesa cattolica partecipi a questa iniziativa. Anche la Chiesa ortodossa ha partecipato all’apertura del nostro Simposio, che abbiamo iniziato a Tarso il 21 giugno di quest’anno. C’è dunque una condivisione delle gioie, nel nome dell’Apostolo Paolo.

D. – E poi l’incontro di Istanbul è anche l’occasione per dare nuova linfa al dialogo tra cattolici e ortodossi…

R. – Certamente. Penso, però, che nuova linfa verrà data soprattutto a livello di Chiese sorelle, al di là della nostra presenza: è quanto mai significativo che tutti Patriarchi si incontrino a Costantinopoli per questa celebrazione.

D. – Parliamo dei luoghi legati all’Apostolo delle Genti: nel nome di Paolo, quali frutti può portare questo cammino ecumenico alla comunità cristiana in Turchia?

R. – Paolo ha dovuto accettare la realtà di una Chiesa che si è espressa in un pluralismo di voci fin dall’inizio. Io credo che da Paolo ci possa venire anche questo stimolo: un invito a guardare al di là della nostra porta, a guardare alle ricchezze che tante tradizioni cristiane – soprattutto qui in Turchia – ancora presentano. E’ una sinfonia che dobbiamo ascoltare. L’invito è che l’anno di San Paolo porti ancora qui, in Turchia, tanti pellegrini come stiamo verificando fino ad adesso: il contatto con la terra di Paolo vale molto di più di tutte le parole, di tutto quello che si può leggere. 

Il Vangelo della “predestinazione” nella Lettera ai Romani

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15723?l=italian

Il Vangelo della “predestinazione” nella Lettera ai Romani

VASTO, sabato, 11 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un testo scritto da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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a) La «somma dell’evangelo»: l’amore divino che previene

Dio chiama e salva la Sua creatura con un amore assolutamente gratuito: è questo il Vangelo di Paolo, la buona novella di una chiamata e di un dono non meritati né meritabili, la cui ragione ultima resta nascosta negli abissi della misericordia divina, senza calcolo e senza misura. È il Vangelo della pura grazia, che uno dei suoi cantori più alti – Martin Lutero – esprime così nella Disputatio di Heidelberg, vero manifesto del suo pensiero: «L’amore di Dio non trova, ma crea il suo oggetto. L’amore dell’uomo dipende dal suo oggetto… L’amore di Dio ama i peccatori, i malvagi, gli stolti, i deboli, in modo da renderli giusti, buoni, saggi, forti, effondendo e donando il bene. Infatti i peccatori sono belli perché sono amati, non sono amati perché sono belli. L’amore dell’uomo, invece, fugge i peccatori, i malvagi»1. A questo Dio Altro, che ama come nessuno ama, va data gloria, a Lui solo: la purezza del dono, la gratuità assoluta merita l’assoluta glorificazione.

C’è da perdere la ragione di fronte a quest’abissale gratuità: lo sa bene Paolo che, per sottolinearne il carattere paradossale al di là di ogni dubbio, nella Lettera ai Romani non esita a richiamare la sconcertante affermazione di Malachia «ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù» (1,2s: cf. Rm 9,13) e ad aggiungere: «Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole» (Rm 9,14-18). Contro l’obiezione che potrebbe sollevarsi l’Apostolo ribadisce l’insondabile sovranità della libertà divina: «Mi potrai però dire: “Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere?”. O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai fatto così?”. Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?» (Rm 9,19-21: analoga argomentazione in 3,7 e 6,1).

È questo mistero dell’assoluta gratuità che unisce Israele e la Chiesa, in quanto sono il popolo dell’elezione, rispettivamente dell’attesa e del compimento (cf. Rm 11): Israele è la «santa radice» (Rm 11,16), la Chiesa il sorprendente innesto, «portato» da essa (cf. v. 18). Tuttavia, c’è una pietra d’inciampo, in rapporto alla quale si compie il dramma del rifiuto del popolo della prima alleanza ed il passaggio della salvezza al popolo dell’alleanza nuova (cf. Rm 10): «Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede» (Rm 10,4). Cristo è al tempo stesso Colui che unisce e separa Israele e la Chiesa! La fede di Gesù li unisce, la fede in Lui li separa! Da queste premesse risulta chiaro che il problema di Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai romani non è tanto quello teologico-speculativo della predestinazione dell’individuo, quanto quello storico-salvifico del destino dell’antico popolo eletto nell’economia della salvezza pienamente realizzata in Cristo e nello Spirito. Ciò che egli intende sottolineare è il primato della libertà e della gratuità dell’iniziativa divina e l’assoluta fedeltà del Dio dell’alleanza, con la conseguente speranza di una futura reintegrazione d’Israele, in cui verranno a compimento tutte le promesse dell’elezione mai revocata (cf. Rm 11,11-15 e 25-32): perché «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29).

Il tema paolino dell’elezione situa dunque l’idea di predestinazione all’interno del disegno storico-salvifico dell’alleanza, che si compie in pienezza per mezzo di Gesù Cristo, con lui ed in lui, e si attua nel tempo per la potenza dello Spirito Santo. Oggetto puro dell’elezione – predestinazione è lui, il solo mediatore fra Dio e gli uomini (cf. 1 Tm 2,5), ed in lui la comunità degli eletti, il popolo santo di Dio: il singolo è eletto e predestinato nella comunione dell’alleanza. La dottrina dell’elezione – predestinazione è perciò essenzialmente la «buona novella» della grazia con cui Dio ha amato tutti gli uomini e li ha chiamati alla comunione con sé, messaggio di consolazione e di speranza per il mondo intero: è la «somma dell’evangelo»2. Perciò può essere veramente accettata solo da chi è pronto a riconoscere nella fede l’assoluto primato di Dio: è ancora Lutero a osservarlo, distinguendo tre gradi possibili nell’accoglienza spirituale di questo messaggio: «Il primo grado è quello di coloro che sono contenti di una tale volontà di Dio e non mormorano contro di Lui, ma confidano di essere eletti e non vorrebbero essere dannati. Il secondo grado, migliore del precedente, è quello di coloro che sono rassegnati e d’animo contento o, per lo meno, desiderano essere tali, se Dio non volesse salvarli e volesse, invece, considerarli nel novero dei reprobi. Il terzo grado, che è il migliore e il sommo, è formato da coloro che si rassegnano anche effettivamente all’inferno se è volontà di Dio, come forse nell’ora della morte capita a molti. Questi sono purificati nel modo più perfetto dalla loro volontà e dalla prudenza della carne. Questi sanno che cosa significhi che “Forte come la morte è l’amore e tenace come l’inferno è la gelosia” (Ct 8, 6)»3. Dove c’è un così puro amore di Dio, lì c’è la certezza di essere salvati, lì il pensiero della predestinazione diventa il più consolante, garanzia inconfutabile che il Dio fedele non perderà colui che ha scelto. Per chi è così abbandonato in Dio – e Paolo lo era – la predestinazione non spaventa, proprio perché fonda nel mistero insondabile ed assoluto di Dio la fragile e caduca vicenda umana. Ma vuol dire questo che vi sia anche una doppia predestinazione, degli uni alla salvezza, degli altri alla dannazione eterna?

b) La «doppia predestinazione»: quale libertà davanti al Dio che è amore?

In Paolo – e in generale nella testimonianza biblica – non compare mai l’idea di una «doppia predestinazione», di una decisione divina, cioè, eterna ed assoluta rispetto all’azione di Dio nella storia (decretum absolutum), in base a cui alcuni sono predestinati alla salvezza e altri alla dannazione. Si può anzi dire che lo sviluppo della dottrina della praedestinatio gemina è il segno di un profondo allontanamento dalla voce della Scrittura. L’allontanamento si è compiuto attraverso un duplice processo, che il cristianesimo ha vissuto nel secolare sviluppo della sua inculturazione nel mondo classico prima, in quello medioevale e moderno poi: da una parte, l’idea di predestinazione ha subito il fascino della metafisica greca; dall’altra, è stata condizionata dall’interesse crescente della cultura occidentale al destino individuale4.

Il primo processo consegue all’incontro del messaggio ebraico-cristiano con la cultura greco-latina: lo spirito della grecità, ammaliato dall’ideale dell’Uno altro e sovrano rispetto al molteplice frammentario e caduco, mal tollera l’idea di un piano divino, qual è quello trinitario, in cui il molteplice viene a dimorare nelle profondità dell’Uno. La storia delle eresie cristologiche e trinitarie mostra come si sia affacciata presto la tendenza a separare il divino dall’umano, per fare di volta in volta del Cristo o una semplice creatura, sia pure di livello supremo (“subordinazionismo”), o una semplice manifestazione dell’unica, incontaminata divinità (“modalismo”)5. Lo sviluppo del dogma reagirà a questo svuotamento del paradosso cristiano (evacuatio Christi), ribadendo lo scandalo dell’incontro del divino e dell’umano nel Verbo incarnato senza confusione né mutazione, ma anche senza separazione né divisione6, ed affermerà l’assoluta parità nell’essere divino del Figlio e dello Spirito col Padre7. Non di meno, il fascino dell’Assoluto metafisico penetrerà nella cultura cristiana, fattasi greca con i greci. Sul tema della elezione di grazia e della predestinazione questo fascino si tradurrà nell’esigenza di concepire il disegno di Dio sull’uomo in forma «pura», separata dalle contaminazioni della caducità e della frammentarietà storica: l’idea di un decreto divino assoluto, non condizionato dal divenire mondano, si profilerà in questa direzione come l’espressione di una corretta relazione fra l’Assoluto e la storia.

È così che nel grande dottore della dottrina della predestinazione, Agostino, motivi autenticamente biblici vengono ad incontrarsi con le esigenze dello spirito greco. La classica definizione agostiniana della praedestinatio è del tutto corrispondente all’anima biblica, in particolare paolina: «Nient’altro che questo è la predestinazione dei santi: la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio, mediante i quali in modo del tutto certo sono liberati tutti quelli che sono liberati»8. Risuona in queste parole la buona notizia della libertà donata all’uomo per pura grazia dall’iniziativa divina. Parimenti in piena sintonia con la Scrittura sono le affermazioni che riconoscono in Cristo il luogo vivente in cui si compie e si rivela ogni predestinazione: «Il Salvatore in persona, il Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, è il lume risplendente della predestinazione e della grazia»9.

Insieme a queste tesi, però, al fine di affermare l’assoluto primato della grazia, la distinzione tra i vocati e gli electi10 viene collegata ad un unico proposito divino, che nella massa perditionis sceglie alcuni perché siano salvati, lasciando i rimanenti nella condizione di dannazione, del tutto meritata11: «Il proposito di Dio non si basa su di un’elezione, ma è invece l’elezione che dipende dal proposito; ciò significa che il proposito di giustificazione permane non perché Dio trovi nell’uomo delle opere buone, in base alle quali egli possa fare la sua scelta, ma, in quanto il proposito di salvezza continua ad operare per la giustificazione dei credenti, Dio trova le opere, che egli poi elegge in vista del regno dei cieli»12. Secondo Agostino il fatto che Dio elegga alcuni e lasci altri nella condizione di massa dannata non inficia la giustizia divina, perché a nessuno è dovuto altro, che la condanna: «Si deve solo affermare, con fede irremovibile, che in Dio non c’è iniquità: sia che voglia rimettere il debito, sia che lo voglia esigere, né colui al quale lo richiede, né colui al quale viene condonato può vantarsi dei suoi meriti. All’uno infatti dà solo ciò che spetta; l’altro ha solo ciò che ha ricevuto»13. È così aperta la strada all’affermazione di un decretum absolutum di Dio indipendente da ogni scelta storica e all’idea ad esso connessa di una doppia predestinazione14.

Sarà in Giovanni Calvino che le idee del decretum absolutum e della gemina praedestinatio verranno formulate in maniera compiuta e con rilievo assoluto15: anche per lui l’intenzione ultima è quella di celebrare il trionfo della grazia e l’assoluta sovranità della libertà divina di eleggere o rigettare chiunque. Il prezzo pagato, però, è l’abbandono del cristocentrismo biblico e il cedimento a un pensiero speculativo sulla divinità e sul suo rapporto col mondo, che contraddice proprio alla profonda ispirazione scritturistica voluta dalla Riforma e giustifica la concentrazione dell’interesse sul destino del singolo uomo a scapito dell’orizzonte comunitario dell’alleanza, caratteristico della concezione biblica. «Definiamo predestinazione il decreto eterno di Dio, per mezzo del quale ha stabilito che cosa voleva fare di ogni uomo. Infatti non li crea tutti nella medesima condizione, ma ordina gli uni a vita eterna, gli altri all’eterna condanna. Così in base al fine per il quale ciascuno è creato, diciamo che è predestinato alla vita o alla morte»16. In questa concezione la predestinazione perde completamente il carattere di buona novella e diventa un concetto speculativo, al cui interno è possibile distinguere, come strutture parallele di una medesima architettura, l’elezione e la riprovazione. Un sistema simmetrico concettuale, in cui giustizia e misericordia si equilibrano reciprocamente, prende il posto dell’eccesso d’amore e di compromissione da parte del Dio vivente, che costituisce il cuore e lo scandalo dell’evangelo paolino. Il Dio sovrano, indifferente all’uno o all’altro destino della sua creatura, prende il posto del Dio crocifisso per la salvezza del mondo.

È perciò tanto più significativo che proprio dalla tradizione riformata sia venuta la più vigorosa confutazione della concezione della predestinazione come «decreto assoluto» e sistema neutrale di destini paralleli: è, infatti, Karl Barth che ha ripensato dalle fondamenta la dottrina della elezione divina per grazia, riportandola alle sorgenti paoline, e in generale bibliche, in dialogo con l’intera tradizione cristiana17. La critica decisiva che Barth muove a Calvino riguarda appunto la separazione fra Dio e Gesù Cristo nella dottrina della doppia predestinazione: «Per lui il Dio-che-elegge è un “Dio nudo nascosto” (Deus nudus absconditus) e non il “Dio rivelato” (Deus revelatus), il Dio eterno. Tutti gli altri difetti della dottrina calviniana della predestinazione sono riconducibili a questa deficienza capitale. Il Riformatore (contro le sue intenzioni) ha finito per separare Dio da Gesù Cristo; ha creduto di poter cercare altrove che in Gesù Cristo ciò che è all’inizio con Dio; in una sola parola, pur proclamando con la veemenza di cui si sa l’elezione gratuita, alla fin fine è passato accanto alla grazia di Dio manifestata in Gesù Cristo»18.

La via di superamento di questa «deficienza capitale» sta per Barth nel ritorno al «cristocentrismo radicale», che egli vede testimoniato dalla Scrittura, e specialmente da Paolo: «Per sapere che cosa sia l’elezione ed in che cosa consista lo stato di eletto, dobbiamo innanzitutto, senza sbirciare a destra o a sinistra, dirigere la nostra attenzione sul nome di Gesù Cristo, sull’esistenza e sulla storia del popolo divenute realtà in lui, e la cui origine e la cui fine sono contenute e determinate nel mistero di questo nome. Lo vediamo chiaramente: tutte le affermazioni della Scrittura su Dio e sull’uomo coincidono in un solo e medesimo punto; anche le proposizioni relative all’elezione dell’uomo da parte di Dio devono essere concepite ed elaborate in funzione di quanto accade in questo unico punto; in effetti è qui che vi è elezione… È il nome di Gesù Cristo ad essere, secondo l’autorivelazione divina, il centro verso cui convergono, come due raggi luminosi, le due linee della verità che deve essere riconosciuta a questo punto: il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto»19. Barth articolerà perciò la dottrina dell’elezione di grazia e della predestinazione partendo dall’elezione di Gesù Cristo, in cui coglie l’elezione della comunità, per giungere così all’elezione dell’individuo, mai separata o separabile da quella del Signore Gesù e della comunità in lui.

c) Predestinati nella Trinità: fatti per amare, “alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (S. Giovanni della Croce)

Gesù Cristo è al tempo stesso il Dio-che-elegge e l’uomo-eletto: è in questa affermazione decisiva che Barth vede formulato «nella maniera più semplice e più completa il contenuto del dogma della predestinazione»20. Egli la difende perciò su un duplice fronte, da una parte rifiutando attraverso di essa ogni concezione del «decreto assoluto»; dall’altra opponendosi ad ogni possibile suggestione di autoredenzione dell’uomo. Se Cristo è il Dio che elegge, l’elezione è inseparabile dalla storia della salvezza in cui si compie il mistero dell’incarnazione: non c’è pertanto alcun proposito divino astratto, alcun decretum absolutum, che preceda e superi il disegno della redenzione attuata nel tempo21. La predestinazione «non è semplicemente lo schema o il programma di una storia. È realmente essa stessa una storia precisa ed unica all’interno della volontà e della decisione divina»22. Questo forte legame fra l’eternità e il tempo, postulato dalla predestinazione, non significa però che il mondo storico sia protagonista assoluto del mistero dell’elezione: a questa supposizione si oppone la tesi che Cristo, il Dio-che-elegge, è anche e inseparabilmente l’uomo-eletto, nel quale ogni altra elezione viene a realizzarsi. Nessuna predestinazione avviene al di fuori di Cristo o indipendentemente da lui23.

Nella luce di questo rigoroso cristocentrismo viene interpretata la dottrina della «doppia predestinazione»: Barth rifiuta senza appello l’idea di una simmetria, che veda da una parte gli eletti, dall’altra i reprobi nel proposito divino sulla storia. La predestinazione è unica, ed è quella che ci è stata rivelata in Gesù Cristo: «L’elezione gratuita è l’origine eterna di tutte le vie e di tutte le opere di Dio in Gesù Cristo, in questo senso che, nella sua libera grazia, Dio si autodetermina in favore dell’uomo peccatore, onde destinarlo alla sua appartenenza»24. Nell’unità di questo disegno di grazia, però, Gesù Cristo non solo ci dona la sua salvezza, ma prende anche su di sé la nostra miseria, in modo tale che in lui si compie la condanna e il rifiuto del peccato del mondo da parte di Dio: «Dio prende dunque su di sé la riprovazione che pesa sull’uomo, con tutte le sue conseguenze ed elegge quest’uomo, onde dargli partecipazione a quella gloria che è la sua»25. Cristo è perciò al tempo stesso l’uomo eletto e l’uomo rifiutato, l’eletto che subisce la pena al posto dei reprobi, ed assomma perciò in sé il doppio destino dell’elezione e della riprovazione, a favore della riconciliazione del peccatore: «Ecco in che cosa consiste la libera grazia per tutti coloro che Dio ha eletto nell’uomo Gesù: poiché in lui Dio, il giudice, prende ed occupa il loro posto, il posto del condannato, essi sono completamente assolti, liberati dal loro peccato, dalla loro colpa, dal loro castigo»26. Il contenuto di verità dell’idea di una «doppia predestinazione» si riconduce allora alla duplice volontà divina di condannare il peccato e di salvare il peccatore in Gesù Cristo: quello che in essa resta del tutto inaccettabile è la presunta simmetria di un disegno assoluto di vita per gli uni e di morte per gli altri27.

L’elezione realizzatasi in Gesù Cristo raggiunge l’uomo attraverso la mediazione necessaria della comunità: «è nella e con l’elezione di Gesù Cristo, con la mediazione della comunità, che gli eletti sono eletti»28. Questa mediazione comunitaria ha due aspetti, al tempo stesso temporali e ontologici: Israele e la Chiesa, l’attesa e il compimento, l’attestazione del giudizio e quella della misericordia. «Questa comunità unica ha un duplice aspetto: in quanto Israele attesta il giudizio divino, in quanto chiesa attesta la misericordia divina. In quanto Israele è destinata ad intendere ed in quanto chiesa è destinata a credere la promessa fatta agli uomini. Israele è la forma passeggera, la chiesa la forma futura del popolo di Dio eletto»29. Proprio in quanto tali, i due aspetti si coappartengono, e sono presenti l’uno nell’altro, fino al tempo in cui si compirà manifestamente la redintegrazione d’Israele: così Barth riguadagna il punto di partenza della riflessione paolina nella lettera ai Romani (cf. Rm 11).

All’interno di questa mediazione storico-comunitaria va collocata e intesa l’elezione dell’individuo: compiuta in Gesù Cristo, storicamente si realizza attraverso la testimonianza e la fede della comunità. «Se il vero oggetto dell’amore di Dio non è costituito da nessun altro “individuo” all’infuori di lui, ne deriva che nessuno, all’infuori di lui, può essere divorato dal fuoco di quell’amore, cioè dalla collera divina; tutti gli eletti e tutti i riprovati hanno la funzione di indicare questo amore divino nel suo duplice aspetto; e hanno la funzione di vivere, nella loro diversità, del fatto che Dio ha amato questo solo essere per amarli in lui ieri, oggi e domani»30. La grandiosa costruzione barthiana fa così risuonare la buona novella dell’amore divino rivelato e offerto in Gesù Cristo per la salvezza di chi l’accoglie e la dannazione di chi lo rifiuta. Il merito di Barth è indiscutibilmente quello di un ritorno al Vangelo paolino della grazia, quale è delineato specialmente nella lettera ai Romani31. Non mancano, tuttavia, i punti deboli, su cui si è appuntata la discussione critica32: in modo particolare, si insinua il sospetto che il rigoroso cristocentrismo della predestinazione si risolva in una generale assoluzione della colpa, e perciò in una necessaria riconciliazione totale, che verrebbe a consumarsi al di là delle possibili resistenze e inadempienze dei singoli.

In questa prospettiva, molto vicina all’idea di una “apocatastasi” finale, la stessa serietà e la dignità del divenire storico verrebbero compromesse33: se tutto è comunque destinato all’irresistibile trionfo della grazia, non c’è più spazio per la libertà umana e conseguentemente per la prova e la lotta in cui si compiono i destini degli uomini. L’ottimismo della grazia presta il fianco a questo sospetto: «Tale è precisamente il contenuto, il duplice contenuto della predestinazione divina ed eterna, dato che essa è identica all’elezione di Gesù Cristo: Dio vuole essere perdente affinché l’uomo sia vincente. Salvezza sicura per l’uomo, pericolo altrettanto sicuro per Dio»34. «Noi conosciamo in realtà soltanto un trionfo dell’inferno ed è l’abbandono di Gesù Cristo; e sappiamo che questo trionfo ha avuto luogo affinché non ce ne fossero mai più altri, affinché l’inferno non potesse più vincere nessuno… Gesù Cristo è stato perduto (ma anche ritrovato) affinché nessuno, a parte lui, lo fosse»35.

La forza di queste affermazioni è tale, che lo stesso Barth sente il bisogno di prendere le distanze dalla possibile conseguenza di una “apocatastasi” in nome dell’assoluta libertà di Dio, anche se lascia decisamente aperta la possibilità di essa, come conseguenza del rigoroso cristocentrismo dell’elezione divina: «È Dio a determinare senza appello l’ampiezza del cerchio dell’elezione; che tale cerchio poi debba coprire alla fine l’intera umanità (secondo la dottrina dell’apocatastasi), è però una tesi che non dobbiamo formulare, proprio per rispetto alla libertà di Dio; la libertà di Dio non è infatti un codice da cui potere trarre diritti ed obbligazioni… Ma bisogna anche dire subito: la conoscenza della grazia che accompagna la libertà divina deve impedirci di formulare la tesi contraria, di affermare cioè l’impossibilità di considerare l’allargamento totale e supremo del cerchio dell’elezione e della vocazione»36. Il rischio di cadere nello spregiudicato ottimismo dell’“apocatastasi” e nel conseguente svuotamento della tragica serietà della storia non è eliminato: il trionfo della grazia minaccia col suo eccesso proprio la verità dell’amore divino, che è tale solo se non annulla l’alterità delle creatura, chiamata a ricambiare l’amore e tuttavia capace di rifiutarlo nel dramma, sempre possibile, del peccato.

In realtà è il Padre il soggetto originario e fondante di ogni elezione divina: principio senza principio della vita eterna dei Tre, risiede in Lui ogni inizio. Certamente, in forza della perfetta comunione che c’è fra di loro, se il Padre è colui che elegge, non di meno lo è il Figlio: tuttavia, la distinzione nella relazione personale evidenzia la profondità ed anche l’insondabilità del disegno divino. Nella Parola fatta carne l’elezione è rivelata al mondo: ma la sua origine ultima resta nascosta nel silenzio del Padre, che comunicandosi nel Verbo resta più grande rispetto alla presa della storia. Evidenziare il ruolo del Padre nel disegno della predestinazione significa allora rispettare maggiormente l’insondabile sovranità divina, per affidarsi ad essa non nella timorosa obbedienza che richiederebbe un oscuro «decreto assoluto» della divinità, ma nella confidenza filiale di chi – con Cristo e per Cristo – si rimette completamente nelle mani del Dio vivente: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà… Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 22,42 e 23,46).

Insieme al ruolo del Padre, è necessario richiamare anche la specifica presenza dello Spirito nel mistero dell’elezione e della predestinazione: è Lui a unire il presente degli uomini all’Eterno e a mantenerlo nella sua libera alterità rispetto a Dio. Grazie allo Spirito Santo la creatura è insieme totalmente dipendente da Dio e libera davanti a Lui, capace di scelte di accettazione e di rifiuto. Lo Spirito Santo – condizione eterna di unità fra il Padre e il Figlio e fra di loro e il mondo creato – è il luogo eterno della libertà, colui che partecipa all’essere personale creato la libertà nell’amore: «Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3,17). Grazie allo Spirito Santo la libertà dell’uomo non solo non si oppone all’assoluto primato di Dio, ma ne manifesta la gloria: nel vincolo e nel dono del Paraclito l’essere libero della persona umana non fa concorrenza a Dio, non ne nega la sovranità senza residui, ma rivela la stessa gratuita libertà dell’amore divino, che ha voluto che la creatura esistesse come altra da sé, capace di libertà davanti a sé, e perciò capace di amare o rifiutare l’amore.

Nello Spirito, dunque, la predestinazione divina non nega la libertà umana, ma l’afferma: l’umiltà e la compassione di Dio rendono possibile come dono e grazia l’esistenza della creatura libera di salvarsi o di perdersi, fermo restando il mistero dell’elezione avvenuta in Cristo per tutti e perciò gratuitamente offerta a ciascuno per le vie misteriose dell’azione del Consolatore nella storia. La buona novella dell’elezione divina è l’annuncio che Dio vuole tutti salvi e a tutti dona la salvezza in Gesù Cristo, ma che egli vuole anche ed inseparabilmente tutti liberi di accogliere il dono o di chiudersi ad esso, impegnandosi con sovrana umiltà a rispettare il rifiuto della creatura, che pure è sofferenza per il suo cuore di Padre (cf. Lc 15,11ss). La libertà divina si autolimita per amore perché esista la libertà umana: colui che ci ha creato senza di noi, non ci salverà senza di noi, anche se ha fatto e farà di tutto in Cristo e nello Spirito perché nessuno si perda. La dottrina della predestinazione non è che la sottolineatura dell’insondabilità del Vangelo della grazia, offerta alla libertà del cuore umano per la sua salvezza. I capitoli 9-11 della lettera ai Romani non sono preceduti a caso dal canto dello Spirito e dalla meditazione della dialettica di sofferenza e gloria in Rm 8, che è poi la dialettica della grazia e della libertà, del dono e dell’amore che può accoglierlo o rifiutarlo nel tempo e per l’eternità…

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1 Disputatio di Heidelberg (1518), in WA (Weimarer Ausgabe: D. Martin Luthers Werke. Kritische Gesamtausgabe, Weimar 1883 ss; ristampa: Graz 1964 ss) 1, 365: «Amor Dei non invenit sed creat suum diligibile, Amor hominis fit a suo diligibili… Amor Dei… diligit peccatores, malos, stultos, infirmos, ut faciat iustos, bonos, sapientes, robustos et sic effluit potias et bonum tribuit. Ideo enim peccatores sunt pulchri, quia diliguntur, non ideo diliguntur, quia sunt pulchri. Ideo amor hominis fugit peccatores, malos».

2 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina. Dalla Dogmatica Ecclesiastica, a cura di A. Moda, Torino 1983 (= Die Kirchliche Dogmatik II/2: Die Lehre von Gott. Gottes Gnadenwahl, Zürich 1942. 19594, 1-563), 155.

3 WA 56, 388: «Tres autem gradus signorum electionis. Primus eorum, qui contenti sunt de tali voluntate Dei neque murmurant contra Deum, Verum confidunt se esse electos et nollent se damnari. Secundus melior eorum, qui resignati sunt et contenti in affectu vel saltem desiderio huius affectus, si Deus nollet eos saluare, Sed inter reprobos habere. Tertius optimus et extremus eorum, qui et in effectu seipsos resignant ad infernum pro Dei voluntate, Vt in hora mortis fit fortasse multis. Hii perfectissime mundantur a propria voluntate et prudentia carnis. Hii sciunt, quid sit illud: Fortis vt mors dilectio Et dura sicut infernus emulatio».

4 Nell’ambito della bibliografia sulla storia e la teologia dell’idea di predestinazione cf.: K. Barth, La dottrina dell’elezione divina. Dalla Dogmatica Ecclesiastica, o.c.; M. Löhrer, Azione della grazia di Dio come elezione dell’uomo, in Mysterium Salutis 9(IV/III), Brescia 1975, 225-295; A. Moda, La dottrina dell’elezione divina in Karl Barth, Bologna 1972; J. Moltmann, Prädestination und Perseveranz, Neukirchen 1961; J. Mouroux, Il mistero del tempo. Indagine teologica, Brescia 1965; K. Schwarzwäller, Das Gotteslob der angefochtenen Gemeinde. Dogmatische Grundlegung der Prädestinationslehre, Neukirchen 1970; G. Tourn, La predestinazione nella Bibbia e nella storia. Una dottrina controversa, Torino 1978.

5 Cf. in proposito la storia del dogma cristologico e trinitario: ad esempio in B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Milano 19896, 133ss, e Id., Trinità come storia, Milano 19884, 60ss.

6 Cf. i quattro avverbi usati a Calcedonia (451): DS 301s.

7 Nel cosiddetto «episodio dommatico» che va da Nicea (325) al Costantinopolitano I (381): cf. DS 125s e 150.

8 De dono perseverantiae, XIV, 35: «Haec est praedestinatio sanctorum, nihil aliud: praescientia scilicet, et praeparatio beneficiorum Dei, quibus certissime liberantur, quicumque liberantur» (PL 45,1014).

9 De praedestinatione sanctorum XV, 30: «Est praeclarissimum lumen praedestinationis et gratiae ipse Salvator, ipse Mediator Dei et hominum, homo Christus Jesus» (PL 44,981).

10 Cf. De correptione et gratia, VII,13s; IX,21-23; XIII,39s: PL 44,924s. 928-930. 940.

11 De dono perseverantiae, XIV, 35: «Caeteri autem ubi nisi in massa perditionis iusto divino iudicio relinquuntur?» (PL 45,1014).

12 Ad Simplicianum, I, 2, 6: «Non ergo secundum electionem propositum Dei manet, sed ex proposito electio: id est, non quia invenit Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum iustificationis ipsius; sed quia illud manet ut iustificet credentes, ideo invenit opera quae iam eligat ad regnum coelorum» (PL 40,115).

13 Ib., I, 2, 17: «Illud tantummodo inconcussa fide teneatur, quod non sit iniquitas apud Deum: qui, sive donet, sive exigat debitum, nec ille a quo exigit, recte potest de iniquitate eius conqueri, nec ille cui donat, debet de suis meritis gloriari. Et ille enim, nisi quod debetur, non reddit: et ille non habet, nisi quod accepit» (PL 40,122).

14 Lo sviluppo di queste tesi nell’agostinismo patristico e medievale si compirà sotto la spinta della “pia” cura di voler celebrare in maniera sempre più radicale l’assolutezza della grazia contro ogni tentazione pelagiana. Un intervento come quello del sinodo di Quiercy (853) evidenzia la necessità che si era venuta profilando di riequilibrare la linea di tendenza dell’agostinismo esagerato: cf. DS 623. Il Sinodo aveva di mira la condanna della dottrina della doppia predestinazione di Gottschalk di Orbais. Trento ribadirà questa condanna nei canoni del Decretum de iustificatione: DS 1567. Nella stessa linea di un agostinismo moderato si era mosso San Tommaso d’Aquino: cf. Summa Theologiae I q. 23 a. 5c. Tuttavia la sua interpretazione orienterà verso la tesi di un decreto divino assoluto, in quanto considera la stessa predestinazione di Cristo e in Lui come un aspetto della generale provvidenza del Dio creatore: cf. ib. III q. 24 a. 1.

15 Cf. K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 176.

16 Institutio Christianae Religionis, III, 21, 5: «Praedestinationem vocamus aeternum Dei decretum, quo apud se constitutum habuit quid de unoquoque homine fieri vellet. Non enim pari conditione creantur omnes: sed aliis vita aeterna, aliis damnatio aeterna praeordinantur. Itaque prout in alterutrum finem quisque conditus est, ita vel ad vitam, vel ad mortem praedestinatum dicimus». Cf. l’edizione italiana: G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, 2 voll., Torino 1971, II, 1101 (cf. l’intero capitolo 21 del libro III: “L’elezione eterna con cui Dio ha predestinato gli uni alla salvezza e gli altri alla dannazione”: 1094ss). L’idea si trova analogamente ad esempio nel De aeterna Dei praedestinatione, del 1552: cf. Corpus Reformatorum 8,261s.

17 Cf. K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., su cui A. Moda, La dottrina dell’elezione divina in Karl Barth, o.c..

18 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 332.

19 Ib., 245s.

20 Ib., 319.

21 Cf. ib., 268.

22 Ib., 451.

23 Cf. ib., 246.

24 Ib., 305.

25 Ibid.

26 Ib., 355.

27 Cf. ib., 433.

28 Ib., 694.

29 Ib., 469.

30 Ib., 712s.

31 Cf. B. Forte, Cristologia e politica. Su Karl Barth, in Id., Cristologie del Novecento, Brescia 19852, 63-104.

32 Cf. la documentata analisi di A. Moda nell’Introduzione all’edizione italiana di K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 45ss. Lo stesso fondamento biblico dell’intera costruzione barthiana è stato contestato da alcuni, perché l’idea paolina corrispondente alla sostituzione vicaria è che Cristo è morto in nostro favore, e non – come continuamente sembra supporre Barth – al nostro posto: cf. ad esempio H. Bouillard, Karl Barth, II, Paris 1957, 117.

33 È ad esempio la critica di E. Brunner, Die christliche Lehre von Gott, Zürich 1946, 375-379.

34 K. Barth, La dottrina dell’elezione divina, o.c., 419.

35 Ib., 947s.

36 Ib., 817.

San Paolo nella relazione ddi Mons. Angelo Amato: Dall’abbassamento all’esaltazione il profilo di un’identità

dal sito: 

http://www.zenit.org/article-15549?l=italian

Dall’abbassamento all’esaltazione il profilo di un’identità

ROMA, sabato, 27 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi stralci della relazione pronunciata dell’Arcivescovo Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, monsignor Angelo Amato, in occasione del convegno diocesano su Il Volto di Cristo: verità, via, vita, tenutosi a Marina di Sibari (Cosenza), nei giorni 26 e 27 settembre.

* * *

L’identità di Gesù è professata apertamente nelle conclusioni della preghiera liturgica: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo figlio, che è Dio». La celebrazione liturgica della fede trinitaria riafferma la signoria di Cristo, sull’umanità, sulla storia, sul cosmo. Gesù è il Signore. Egli è l’essenza del cristianesimo. Non si tratta di una novità, né di una tradizione sorpassata. È semplicemente l’espressione eterna della fede ecclesiale in Gesù, il Signore.

Forse è utile dare uno sguardo fugace al contenuto biblico del termine «Signore», che non è, come nel nostro linguaggio ordinario, una semplice indicazione di gentilezza «signor Presidente» o «signor Rossi» ma implica, invece, una indicazione precisa dello statuto umano-divino di Gesù Cristo. L’appellativo «Signore» nella Sacra Scrittura in lingua greca viene espresso da due vocaboli: despòtes e kyrios. Il termine

despòtes indica colui che detiene il potere e l’autorità sia nella sfera familiare che in quella pubblica. Il despòtes è il padrone di casa e il proprietario dei suoi servi. Questo vocabolo viene usato raramente: nella traduzione greca dell’Antico Testamento circa sessanta volte e solo dieci nel Nuovo Testamento. Due volte despòtes a diretto riferimento a Gesù. Nella seconda lettera di Pietro, quando l’apostolo parla dei falsi profeti e dei falsi maestri, «che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore (despòtes) che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina» (2 Pietro, 2, 1). Una seconda volta il vocabolo appare nella lettera di Giuda, il quale mette in guardia i fedeli dalle infiltrazioni di individui empi, che rinnegano «il nostro unico padrone (despòtes) e signore (kyrios) Gesù Cristo» (Giuda, 4). Come si vede, il contesto è quello delle eresie cristologiche, e sembra che sia la lettera di Giuda la fonte del richiamo di san Pietro. Nei due casi, despòtes indicherebbe l’altissima sovranità di Gesù, il Signore, che non merita di essere contestato o rinnegato dai suoi fedeli, da lui sommamente beneficati e salvati. Per questo, bisogna evitare i traviamenti dottrinali dei cattivi maestri.

Il secondo vocabolo, kyrios, indica il signore che ha ed esercita un’autorità legittima e può disporre di sé e degli altri. Tale voce fu anche usata dagli imperatori romani (cfr. Atti degli apostoli, 25, 26). Di per sé il titolo non implicava l’affermazione della divinità dell’imperatore, che, tuttavia, esigeva onori divini. Per questo i cristiani si ribellavano a questa concezione. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento, kyrios è frequentissimo è attestato circa novemila volte e nella maggior parte dei casi traduce il nome ebraico di Dio. Kyrios esprime l’elezione del popolo da parte di Dio e la sua liberazione dalla schiavitù egiziana. Il popolo è sua proprietà e Dio, oltre che creatore del mondo, è anche il legittimo Signore di Israele. Anche nel Nuovo Testamento kyrios è una voce che si trova spessissimo. Essa è presente in settecentodiciotto passi, la maggior parte dei quali in Luca (duecentodieci) e in Paolo (duecentosettantacinque).Si possono ridurre a tre i significati di

kyrios. Anzitutto c’è un uso profano, a indicare, ad esempio, il padrone, il proprietario di uno schiavo, il datore di lavoro, il marito. Un secondo uso riferisce kyrios a Dio, soprattutto nei richiami all’Antico Testamento. Dio è il signore, il creatore del mondo, il dominatore dell’universo e della storia. Un terzo uso, quello più frequente, fa riferimento a Gesù Cristo, sia al Gesù prepasquale sia al Cristo risorto e glorioso. In questo titolo è contenuto il riconoscimento della sua divinità e della sua signoria. Ad esempio, Gesù, in quanto kyrios del sabato (Matteo, 12, 8), dispone del giorno sacro a Dio. L’apostolo Paolo fa riferimento all’autorità delle parole di Gesù per risolvere definitivamente alcune questioni sorte nella comunità dei fedeli di Corinto: «Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito» (1 Corinzi, 7, 10). Ancora Paolo ricorda la tradizione concernente l’eucaristia, istituita dal Signore Gesù: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane (…)» (1 Corinzi, 11, 23). Importantissima è la formula liturgica prepaolina «Signore Gesù Cristo Kyrios Iesoùs Christòs» (Filippesi, 2, 11). Si tratta verosimilmente della confessione di fede più antica della chiesa, che in tal modo celebra e supplica il Signore risorto, sottomettendosi a lui. È una invocazione che rivela una cristologia completa, tanto più stupefacente quanto più si consideri il fatto che, essendo una invocazione liturgica prepaolina, essa è presente pochissimi anni dopo la risurrezione di Gesù.

Rileggiamola così come ce la tramanda san Paolo, che, indirizzandosi ai cristiani di Filippi nella Macedonia greca, li esorta ad avere gli stessi sentimenti di umiltà che furono in Cristo Gesù:

«il quale, pur essendo

di natura divina,

non considerò un tesoro geloso

la sua uguaglianza con Dio;

ma spogliò se stesso, assumendo

la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini;

apparso in forma umana,

umiliò se stesso facendosi

obbediente fino alla morte

e alla morte di croce.

Per questo Dio l’ha esaltato

e gli ha dato il nome

che è al di sopra di ogni

altro nome;

perché nel nome di Gesù ogni

ginocchio si pieghi

nei cieli,

sulla terra

e sotto terra;

e ogni lingua

proclami

che Gesù Cristo

è il Signore,

a gloria

di Dio Padre»

(Filippesi, 2, 6-11).Si tratta della prima testimonianza esplicita della cosiddetta cristologia sviluppata o a quattro stadi, quella cristologia, cio

è, che parla apertamente della preesistenza divina del Figlio, della sua incarnazione, della sua passione e morte e, infine, della sua risurrezione e glorificazione. Qui, la visione completa della realtà divina e umana di Gesù Cristo la si ha, anzi la si celebra liturgicamente, con un lessico inequivocabile, subito dopo la risurrezione.

La confessione cristologica della prima comunità cristiana è quindi chiara e completa sin dall’inizio e non è affatto frutto della sua tardiva riflessione credente. Pertanto, la cristologia sviluppata di san Giovanni, alla fine del primo secolo, non è altro che una tematizzazione articolata condotta secondo il genere biografico «vangelo» dell’inno liturgico prepaolino. Insomma, l’affermazione

«ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Filippesi, 2, 11) è la prima e piena professione di fede cristologica della comunità cristiana. L’invocazione «Gesù Signore» esprime l’identità cristiana nel suo nucleo più intimo ed essenziale, è il suo Dna. Gesù è il Signore, un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Filippesi, 2, 9). Egli è il Signore dei vivi e dei morti (Romani, 14, 9). È il principe dei re della terra (Apocalisse, 1, 5). Egli è il Signore dei signori e il Re dei re (Apocalisse, 17, 14; 19, 16). Gesù, cioè, riceve gli stessi titoli di Dio, «beato e unico Sovrano, il Re dei regnanti e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1 Timoteo, 6, 15-16). La confessione dell’apostolo Tommaso nel quarto Vangelo «mio Signore e mio Dio» (Giovanni, 20, 28) continuò a risuonare completa e chiara anche sulla bocca e nei cuori dei fedeli della prima ora.

L’apostolo Paolo è solito cominciare e terminare le sue lettere con il richiamo al Signore Gesù Cristo. Si veda, ad esempio, il saluto iniziale della lettera ai Romani e delle due lettere ai Corinzi: «Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo» (Romani 1,7; 1 Corinzi, 1, 3; 2 Corinzi, 1, 2). Il richiamo al Signore Gesù Cristo si ha anche negli incipit delle lettere ai Galati (1, 3), ai Filippesi (1, 2), ai Tessalonicesi (1 Tessalonicesi, 1, 1; 2 Tessalonicesi, 1, 1-2), a Timoteo (1 Timoteo, 1, 1; 2 Timoteo, 1, 1), a Filemone (3). Nella seconda lettera ai Tessalonicesi l’apostolo lo ripete con insistenza nei primi due versetti: «Paolo, Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo» (2 Tessalonicesi, 1-1). Lo stesso si dica per i saluti finali: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi» (1 Tessalonicesi, 5, 28).I primi cristiani proclamavano apertamente la fede nel Signore Ges

ù Cristo, il quale ha autorità sulla Chiesa, la fa crescere e conferisce autorità ai suoi pastori (cfr. 1 Tessalonicesi, 3, 22; 2 Corinzi, 10, 8; 13, 10). Egli è il Signore che dona la pace, la misericordia, l’intelligenza delle cose (2 Tessalonicesi, 3, 16; 2 Timoteo, 2, 7-16). Inoltre, la formula paolina «nel Signore» equivale a «nel Signore Gesù Cristo». È in lui che il cristiano vive, cammina, lavora, serve, muore, viene salvato. La vita cristiana è sostenuta dall’ancoraggio al Signore Gesù Cristo, alla sua presenza e alla sua opera salvifica. E la parusia, il giorno del Signore (1 Corinzi, 1, 8; 5, 5), non sarà altro che l’incontro col Signore Gesù, giudice e salvatore (2 Tessalonicesi, 1, 9; 2, 8; Filippesi, 3, 20): «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi, noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi, 4, 16-17).

Il titolo «Signore», attribuito a Gesù, indica in modo chiaro la sua divinità, che è quindi dato scritturistico fontale e non frutto di decisioni conciliari tardive. È Gesù il Signore, il Figlio divino del Padre celeste, il Verbo incarnato per la salvezza dell’umanità. È lui la parola definitiva del Padre, il maestro unico, il rivelatore universale.

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 28 settembre 2008]

Publié dans:ARCIVESCOVI E VESCOVI - CLERO |on 28 septembre, 2008 |Pas de commentaires »

LO SCANDALO DELLA CROCE – di Padre Mons. Luigi Padovese – n. 1

LO SCANDALO DELLA CROCE

di Padre Mons. Luigi Padovese, Lo scandalo della croce, la polemica anticristiana nei primi secoli, Edizioni Dehoniane, Roma 1988

di questo libro solo il capitolo I, divido questo articolo in quattro post;

CAPITOLO I

LA TESTIMONIANZA DEI PADRI APOSTOLICI SULLO « SCANDALO » DEL DIO INCARNATO E CROCIFISSO

pagg. 17-

Ci è noto il concetto del Dio aristotelico che muove senza essere mosso ed è amato senza amare. Verso che cosa muoversi se si è già perfetti? Amare chi se si è già sazi dell’amore per sé. Veramente, tanto 1.

Alla concezione di un Dio totalmente trascendete fa eco quanto il platonico Apuleio scrive:

Ancora un medio platonico, Plutarco, osserva che 3. Se si confrontano queste espressioni con quanto leggiamo nella lettera di Ignazio d’Antiochia ai Romani, 6<(lasciate che io imiti la passione del mio Dio>, il contrasto tra la concezione di Dio presente parzialmente nel mondo pagano colto e quanto i cristiani affermano di Dio, appare stridente ed inconciliabile. Si comprende perciò come fin da principio la fede cristiana centrata nell’adorazione di un crocifisso si ponesse in rottura con il milieu religioso circostante. E giustamente, dal momento che . 4.

Occorre insistere nel rilevare che chi reagisce contro l’immagine cristiana di Dio non è un mondo , indifferente, o carico di sola superstizione come forse potrebbe suggerire l’espressione generica di , bensì un mondo di profonde convinzioni religiose e di riti cultuali diversi tra loro eppure unificati in taluni aspetti. 5. 6.

A questa luce, la qualifica di loro attribuita, non va intesa in senso odierno; non riguarda uno di incredulità circa l’esistenza di Dio; . 7. Questa osservazione pone in luce il carattere formalistico della religione pagana che pur non escludendo sentimenti profondi ed emozioni, non produce neanche profondi mutamenti interiori. 8. Si tratta, n fondo, di una religione intesa come un atto civico. È un >culto statale>, assunto come sacra eredità della tradizione ma senza scorgere in esso delle motivazioni profonde. Il formalismo che reputa sicuri mezzi di salvezza l’adempimento esatto di certi gesti, formule, osservanze, si radica in questa fedeltà a consuetudini ataviche ma, alla lunga, smarrisce il suo legame a valori etici. 9. Lo mette in rilievo Lattanzio, quando scrive: . 10.

È certo possibile che Lattanzio esageri un poco in questa raffigurazione della religiosità pagana, ma certo non al punto di mentire.

L’accusa di ateismo lanciata ai cristiani va perciò letta e compresa in questo contesto di formalismo. Detta accusa, poi, non contrasta ma si affianca a quell’altra di che pure grava sul cristianesimo. Con questo termine si qualificava tutto ciò che si oppone a .

È di Cicerone l’osservazione che 11. Pertanto quando Svetonio presenta i cristiani come un genere di uomini d’una superstizione nuova e malefica> 12., o Tacito qualifica il cristianesimo come 13. e Plinio, dal canto suo, lo considera una 14. è sempre la stessa convinzione che ritorna: il cristianesimo contrasta con il vero sentimento religioso. È un’aberrazione di esso, una temibile e malefica malvagità. La superstizione, insomma, sta in rapporto alla religione come una malattia alla salute.

Il cuore di questa è la fede in un uomo che – come dichiara Tacito – 15.

Occorre osservare che questi dati: nome del procuratore romano e constatazione della esecuzione suonano per un cittadino romano in modo del tutto diverso che per un cristiano. Nella esecuzione stabilita da un funzionario statale, il cittadino romano percepisce anzitutto la giusta sentenza di condanna. Pertanto ai suoi occhi, il fondatore della religione cristiana non può essere che qualificato un delinquente 16.

Stando così le cose, l’osservatore che egli dai cristiani viene adorato come Dio 17., non può apparire che insensata, paradossale, anzi mostruosa e politicamente sospetta 18.

Mons. Luigi Padovese, intervento al Sinodo dei Vescovi 2-23 ottobre 2005

dal sito: 

http://www.vatican.va/news_services/press/sinodo/documents/bollettino_21_xi-ordinaria-2005/01_italiano/b19_01.html#-_S.E.R._Mons._Luigi_PADOVESE,_O.F.M._CAP.,_Vescovo_titolare_di_Monteverde,_Vicario_Apostolico_di_Anatolia_(TURCHIA)

SYNODUS EPISCOPORUM
BOLLETTINO 

XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA
DEL SINODO DEI VESCOVI
2-23 ottobre 2005 

L’Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa 

INTERVENTO DI MONS. LUIGI PADOVESE 

S.E.R. Mons. Luigi PADOVESE, O.F.M. CAP., Vescovo titolare di Monteverde, Vicario Apostolico di Anatolia (TURCHIA)

Parlo come Vescovo della Chiesa d’Anatolia che ha visto la prima grande espansione del messaggio di Gesù e nella quale i cristiani sono ormai poche migliaia.
Nella città di Tarso, patria dell’apostolo Paolo, i soli cristiani sono le tre suore che accolgono i pellegrini i quali, per poter celebrare l’Eucarestia nell’unica chiesa-museo rimasta, hanno bisogno di un permesso. Lo stesso vale anche per la chiesa-museo di San Pietro ad Antiochia.
In questa città è nato Giovanni Crisostomo del quale nel 2007 ricorrerà il 16° centenario della morte in esilio. Proprio il Crisostomo, con le sue omelie, ci rammenta che l’Eucarestia è stata ed è il luogo privilegiato della parresia. La sua memoria, assieme a quella più recente di Vescovi come Clemens Von Galen e Oscar Romero, è una testimonianza viva del legame tra il memoriale del sacrificio di Gesù e quanti in esso hanno trovato le ragioni e la forza di un annuncio fatto con intelligenza, coraggio e senza reticenze.
L’Eucarestia, quale memoriale dell’offerta di Cristo, impone che facciamo scaturire il nostro annuncio da questo centro e impone che il nostro insegnamento morale sia fondato su di esso come espressione della sequela di Cristo.
L’Eucarestia può richiamarci allo specifico della morale cristiana che nasce da una visione di fede e dove l’agire etico è vissuto come una risposta religiosa. Da questo punto di vista è importante il richiamo all’esempio dei santi i quali hanno scoperto quell’ “ancora di più” che la donazione totale di Cristo nell’Eucarestia sostiene e sollecita.

[00288-01.05] [IN222] [Testo originale: italiano] 

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