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Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione (1 Ts 4,3) – Lettera pastorale del Vescovo di Andria per la quaresima 2009, (« Importante », bella ricca)

dal sito:

http://www.andrialive.it/news/news.aspx?idnews=8749

Mons. Calabro: La santità, meta del cammino di ogni cristiano.
Vescovo di Andria – La lettera pastorale del nostro Vescovo nella quaresima dell’Anno Paolino

Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione (1 Ts 4,3)

LETTERA PASTORALE PER LA QUARESIMA 2009

INDICE
(lo faccio io per una lettura più agevole, ci sono alcune parole greche traslitterate, c’era anche in carattere greco originale, l’ho tolto perché non viene bene)

PRIMA PARTE

1. Il richiamo alla santità in San Paolo
2. L’invito alla santità: cammino quaresimale e meta pasquale

SECONDA PARTE
In ascolto della 1 Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi: l’attesa della parusia e l’impegno del credente nel mondo.

3. Introduzione per una comprensione della 1 Tessalonicesi
4. Il contenuto della 1 Tessalonicesi: la prima parte ( 1 Ts 1-3)
5- La seconda parte di 1 Ts (4-5): vita cristiana e attesa del Signore
6. L’impegno di santificazione nel mondo: spunti dalla 1 Ts

TERZA PARTE
« Comportatevi da cittadini degni del Vangelo »: il programma pastorale diocesano e l’impegno di rinnovamento quaresimale

7. Conversione e vita civile
8. La vita morale in Paolo
9. Vita morale e vita civile
Conclusione
Preghiera

All’inizio della Quaresima, ritengo mio dovere far giungere ai miei fratelli presbiteri, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli battezzati e all’intera comunità ecclesiale, la mia voce ed il mio incoraggiamento per vivere questo periodo speciale (vero e proprio kairòs) in preparazione alla Pasqua del Signore.
Tale evento, centrale nella vita e nella missione di Gesù, celebrato nella liturgia (eucaristica e sacramenti), costituisce il centro della vita della Chiesa, Corpo mistico del Cristo, Sacramento primordiale di salvezza. La Pasqua del Signore, nella stretta congiunzione dei misteri di passione, morte e di risurrezione, rappresenta, certo, una meta ed un traguardo, ma costituisce anche il DNA della nostra vita cristiana. Non saremmo tali, infatti, senza essere stati immersi nel fonte battesimale e segnati dal mistero di morte e risurrezione del Signore, non solo nel simbolo, ma anche nella realtà (Rm 6,5-7). Nella Veglia pasquale, al momento culminante, rinnoveremo insieme le promesse battesimali, con le quali – ci ricorda il celebrante – abbiamo rinunziato a Satana ed alle sue opere e ci siamo impegnati a servire Dio nella santa Chiesa cattolica.
L’itinerario quaresimale non consiste pertanto in un generico richiamo al rinnovamento spirituale e alla conversione, ma esso stesso è un sacramento quaresimale che noi compiamo, non individualmente e per il semplice impulso ad estirpare il male dalla nostra vita, ma è un cammino comunitario che noi facciamo con la Chiesa stessa, nostra Madre, alla sequela di Cristo, nuovo Mosè, che guida il suo popolo, scelto ed acquistato con il suo sangue, nell’esodo che porta al Padre ed al ricupero della piena libertà di figli, verso la nuova vita, illuminata e rivestita di Cristo ( i simboli della luce e della veste candida), l’unzione nello Spirito (con il sacro crisma), l’ effatà (apertura delle orecchie e della bocca per l’ascolto e l’annuncio della Parola), tutti segni a noi noti dalla liturgia del battesimo. Convocati dalla Parola del Signore, ci rendiamo conto che l’esame di coscienza e la conseguente revisione di vita parte da ciò che siamo già -battezzati e cresimati- –alla verifica della nostra fedeltà alla parola data nel battesimo, e alla dignità di figli di Dio e, nel caso dovessimo registrare gravi trasgressioni, se siamo disposti ad accogliere il sacramento della riconciliazione, l’ ancora di salvataggio, che Dio stesso, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 33,11), ci porge, torneremo a credere ed a sperare, nella certezza di essere stati perdonati nell’amore, e che il Signore si è gettato alle spalle le nostre colpe, le nostre infedeltà e le nostre piccolezze, per produrre frutti degni del Vangelo.

1. Il richiamo alla santità in San Paolo

Tornare a guardare in alto, ad essere santi (nella ricchezza di significato di questo termine) non costituisce – considerate le premesse già accennate – un atto di presunzione o di snobismo spirituale, forse un velato impulso di ipocrisia, ma una scelta realistica, anzi un dovere ed un’esigenza dell’essere e professarci cristiani, qualunque sia il posto, il ruolo, il ministero che esercitiamo nella Chiesa.
Dirò di più, è un riscoprire qualcosa del vissuto interiore: pensieri, affetti, comportamento, che ha a che fare con la nostra serenità, con il nostro equilibrio personale e relazionale. La santità è in definitiva salute piena, conquista quotidiana, perché possiamo non solo dirci ma essere persone rispettabili, in pace con la nostra coscienza, pronti a spenderci per il Vangelo e per i più nobili ideali, per tutto quello che merita lode, stima, rispetto nell’ambito familiare e sociale.
Per mettere meglio a fuoco il concetto della santità cristiana, ritengo opportuno – nell’Anno paolino – ricorrere all’Apostolo delle Genti, per cercare di comprendere che cosa intenda San Paolo quando esorta i cristiani ad essere santi: « Questa è la volontà di Dio: la vostra santificazione », una definizione classica, forse la più citata negli scritti del Magistero, dai maestri dello Spirito, nei predicatori. Il mio intento è quello di metterci tutti a contatto con questo Maestro di vita cristiana, leggerlo e meditarlo, direttamente e non soltanto attraverso i testi liturgici, comprenderlo meglio nella fitta originale trama dei suoi pensieri e sentimenti, nel suo modo di esprimersi, nei suoi tratti caratteristici, nei motivi ispiratori del suo insegnamento e della sua condotta di vita. Mi muove un secondo proposito, collegato con il primo, invogliare singoli e comunità all’ascolto orante ed all’assimilazione gustosa della Parola di Dio, che traspare ed è veicolata dalla parola di Paolo.
Nella Scrittura nulla è casuale o superfluo, ma tutto ha un senso evidente o nascosto. Bisogna cercare, « perdendovi » tempo, nello studio e nella meditazione. Anche le cose che apparentemente sembrano ovvie o banali, se scrutate con gli occhi del cuore (Prv 23,26; Lc 24,31-32) rivelano profondità insospettate e insondabili. Il grande Padre della Chiesa, Origene, paragonava la Scrittura a un pozzo che non si esaurisce mai perché è contemporaneamente profondità e sorgente.
Delle numerose lettere dell’apostolo Paolo (corpo paolino), ho scelto la prima ai Tessalonicesi, dalla quale ho tratto il titolo della mia Lettera Pastorale, e che per intero suona:
« Voi conoscete infatti quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa, infatti, è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità, che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto, senza lasciarvi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio: che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito. Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione. Perché chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito » (1 Ts 4,2-8).
Ho riportato per esteso il brano, che tuttavia nella Lettera non è il tema centrale, che è invece, come presto diremo, la parusia, la venuta del Signore. Ritornerò nella seconda parte sul compendio della Lettera, sul suo contesto, sul tema centrale e le sue ramificazioni.
Conviene ora domandarci che cosa realmente esprime il termine santificazione in San Paolo e per ciò dovremmo risalire al testo greco, attingendo alle fonti copiosissime dei dizionari biblici. Il termine santificazione traduce l’originale greco: o aghiasmòs.  Per limitarci soltanto al Nuovo Testamento, tralasciando l’Antico Testamento, ci viene fatto osservare quanto segue:
a. con tale termine aghios, che vuole dire santo, solo raramente ci riferisce a Dio Padre o a Cristo. Comunemente, invece, santo è riferita allo Spirito Santo, il Dono dell’era messianica. Di conseguenza l’ambito semantico specifico del termine non è il culto, ma la profezia e l’annuncio. Il sacro non è più nelle cose, o in luoghi determinati, o nei riti, ma nelle manifestazioni prodotte dallo Spirito.
b. Allo stesso modo si dicono aghioi i santi, coloro che riconoscono Gesù come loro Signore. Non si tratta di un’affermazione etica, almeno in prima istanza, ma ha lo stesso significato di concetti come chiamato (Rm 1,7; 1 Cor 2,1), eletto (Rm 8,33; Col 3,12), e credente (Col 1,2). Santità richiama l’intima unione con lo Spirito Santo e Cristo è per i credenti santificazione, giustizia e redenzione (1 Cor 1,30), cioè colui nel quale diventiamo santi per il vero Dio: « Voi siete stati lavati, giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio » (1 Cor 6,11; 2 Ts 2,13; 1 Pt 1,1s.).
Gesù Cristo stesso mediante la risurrezione dai morti è costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione (Rm 1,4). La santificazione è al tempo stesso la via di accesso alla parusia, all’eredità eterna(Col 1,12; At 20,32; 26,18).  Santità, in questo caso, indica soprattutto l’appartenenza a Dio, che non trova espressione nel culto, ma nel fatto che i cristiani sono sempre « guidati dallo Spirito Santo » (Rm 8,14).
c. Alla santificazione corrispondono frutti di santità che hanno come meta la vita eterna (Rm 6,19-22; cfr 1 Ts 4,3-7). Il culto spirituale comporta l’offerta di sé medesimi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (Rm 12,1).Secondo Paolo, un coniuge pagano non profana il partner cristiano, ma ne è santificato, e anche i loro figli sono santificati (1 Cor 7,14).Poiché Dio stesso è santificatore (1 Ts 5,23) i frutti di santità (Rm 6,22) sono importanti e doversoi (Fil 2,14s.).
Come abbiamo visto, la santità nelle lettere di San Paolo, è un cammino che ha nella volontà di Dio il suo inizio, nell’azione dello Spirito una sua garanzia, nella risposta dei credenti il suo compito.

2. L’invito alla santità: cammino quaresimale e meta pasquale

Da questi brevi riferimenti possiamo enucleare i seguenti punti utili a comprendere quale è la meta della nostra vita:
a-La santità, prima che modo di operare , è questione di essere. L’operare – come dicono gli Scolastici – segue l’essere. Il mistero della santità è la vita stessa di Dio, partecipata alle sue creature, propriamente la persona umana, che per volontà « gratuita e benevola » di Dio, si trova immersa nella vita trinitaria e partecipa al circuito meraviglioso di comunione che unisce eternamente il Padre al Figlio nello Spirito Santo. Il Cristo, Verbo Incarnato, è il luogo, il santuario in cui il credente ha accesso alla vita divina, trinitaria. San Giovanni esemplifica con la metafora della vite e dei tralci questa realtà misteriosa. San Paolo nelle grandi epistole, ai Romani, Galati, Corinzi, ed in quelle ai Colossesi, Efesini, Filippesi, traccia la configurazione globale del Corpo mistico, di cui Cristo è il Capo: la grazia, o fonte della grazia, è quella del Capo che trasborda e ne fa partecipe le membra. L’inno a Cristo nella lettera ai Colossesi, sotto forma di dittico, canta il primato di Cristo nell’ordine della creazione naturale: « Egli è l’immagine del Dio invisibile generato prima di ogni creatura », e nell’ordine della nuova creazione sovrannaturale, che è la redenzione: « Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa, di coloro che risuscitano dai morti » (Col 1.15-20).
b- Il corpo, la carne, non è di ostacolo alla santità, anzi fa da tramite ed è coinvolta nell’elevazione alla vita soprannaturale della persona umana (corpo ed anima). Il corpo diventa tempio di Dio, è santo e non va profanato. Le concordanze con il Prologo di Giovanni appaiono evidenti: Il Verbo( in greco Logos e in ebraico Dabàr) si è fatto carne (sa?? – sarx). Il temine carne indica la fragilità della condizione umana. In Gesù la persona divina è unita alla fragilità umana: coesistono senza annullarsi. Ma l’uno (il Logos) alimenta e illumina l’altra (la carne), unione degli opposti che caratterizza il paradosso del mistero cristiano. Così anche la vita quotidiana, con le sue incombenze, con le sue attività, per essere vita santa, è chiamata ad essere unita al Signore.
c- La santificazione ha nella volontà di Dio il suo inizio, ma anche il suo fine, verso cui tende incessantemente. Ne scaturisce una serie di impegni: « Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia neppure si parli fra voi- come deve esser fra santi- né di volgarità, insulsaggini, trivialità, che sono cose sconvenienti. Piuttosto rendete grazie! » (Ef 5,3-4.).
Dio fa progredire nella nostra vita la sua opera di santificazione (1 Ts 3,23) e la condurrà a termine: « Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori e irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi. » (1 Ts 3,12-13).
Si accenna, qui, al compimento della Pasqua nella vita dei credenti, al compimento escatologico della santità, che si manifesterà alla fine dei tempi. Quindi anche se nel nostro linguaggio abituale i santi sono i santi del cielo, ci rendiamo conto che il concetto biblico di santità e più ampio. L’Antico ed il Nuovo Testamento accentuano il dovere morale della santificazione secondo il dono divino della santità. La volontà di Dio di cui parla Paolo non è una prescrizione, ma è il dono della sua vita, la sua benevolenza, cui deve corrispondere la nostra santificazione, nel senso di non frapporre ostacoli, con scelte deliberate, a quell’attrazione o forza gravitazionale che ci trascina a Dio e si esprime con il « Fiat voluntas tua », e sintonizzando la nostra volontà- mente e cuore, con il volere divino.
d- La vita cristiana è un cammino di santificazione come risposta al suo progetto di amore. « Quae placita sunt ei, facio semper »: « …perché faccio sempre le cose che gli sono gradite (Gv 8,29), affermazione solenne e perentoria di Gesù, che viene fatta propria dai suoi seguaci e costituisce la meta e l’ideale della santità cristiana. San Tommaso d’Aquino, nella sua prima grande opera teologica « Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo » la sintetizza in due movimenti: la Creazione e Redenzione = l’uscita di Dio verso le creature e l’uomo ( egressio a Deo e il compimento della redenzione nell’uomo, che costituisce il trattato morale, e che è chiamato reversio ad Deum, il grande ritorno delle creature che cantano la gloria di Dio, e dell’uomo, che è attratto, calamitato da Dio, sommo bene e a Lui va liberamente e con amore.
Il tempo di grazia che ci viene donato in Quaresima e che sgorga nel rinnovamento delle promesse battesimali nella notte di Pasqua, è un tempo nel quale verificare il nostro cammino di santificazione, il desiderio più vero delle nostre aspirazioni ( la volontà di Dio o altro?), i frutti autentici del nostro cammino di conversione. Le opere quaresimali ci aiuteranno in questo.

SECONDA PARTE
In ascolto della 1 Lettera di san Paolo ai Tessalonicesi: l’attesa della parusia e l’impegno del credente nel mondo.

3. Introduzione per una comprensione della 1 Tessalonicesi

La città di Tessalonica, ai cui cristiani san Paolo scrive, viene evangelizzata nel corso del secondo viaggio dell’apostolo, così come ci viene narrato in At 16 e 17.
L’annuncio a questa città è un balzo decisivo del cristianesimo: l’ingresso nel mondo greco, prima del balzo nel mondo latino-romano. Forse era la primavera dell’anno 50 d.C. allorché Paolo, Sila e Timoteo percorrevano la strada militare Egnatia, che si snodava in una graziosa valle fra campi coltivati. Tessalonica (l’attuale Salonicco) era la capitale della Macedonia, fondata nel 316 a.C. dal re macedone Cassandro, che le aveva dato il nome di sua moglie – (Thessaloniké = vittoria di Tessalo, figlio di Ercole). Nel 168 a.C. la città era passata sotto il dominio di Roma, ma godeva dello statuto di città libera a partire dalla battaglia di Filippi, combattuta nel 42 a.C.. La sua collocazione lungo la Via Egnatia e la posizione del suo porto l’avevano resa prospera. Brulicava di una popolazione cosmopolita, di cui facevano parte commercianti e soldati, viaggiatori e funzionari, uomini liberi e schiavi. Non lontano dalla città sorgeva il monte Olimpo, ritenuto dimora degli dei e delle dee dell’antica Grecia.
Paolo giunto ai confini della Bitinia, per opera dello Spirito Santo, fu spinto a dirigersi verso ovest, percorrendo la Misia settentrionale fino a raggiungere Troade. Qui comincia una parte degli Atti degli Apostoli scritta in prima persona plurale (noi), segno a questo punto che Luca si è unito alla comitiva di Paolo. Spinto da una visione a raggiungere la Macedonia, Paolo si imbarcò a Troade e, dopo aver sostato sull’isola di Samotracia, approdò a Neapolis (oggi Kavala.), da dove proseguì per 11 chilometri fino alla città di Filippi. Qui si fermò qualche tempo, fondando una fiorente comunità cristiana. Passando per Amfipoli e Apollonia raggiunse Tessalonica (a 150 chilometri di distanza). La partenza da Tessalonica fu dovuta ad un tumulto provocato da alcuni Giudei. Paolo riparò a Berea ove lasciò alcuni suoi collaboratori e si imbarcò per Atene.
« Passa in Macedonia e aiutaci », con queste parole, rivolte a Paolo da un macedone apparsogli in visione durante il sonno (At 16,9), Luca introduce il racconto di un nuovo segmento della missione cristiana e ne svela anche, al contempo, il significato teologico. Se Paolo avanza lungo le strade dell’impero per arrivare a Roma, il viaggio non è principalmente opera sua o di altri uomini, ma si realizza secondo una trama condotta da Dio stesso. L’attività di Paolo guidata dallo Spirito a Filippi, prima, e poi a Tessalonica e Berea, costituisce la parte centrale del secondo viaggio missionario di Paolo. I luoghi sono quelli cari alla strategia missionaria di Paolo, che si intesse essenzialmente intorno ai grandi centri urbani: Filippi, Tessalonica e Berea, tre città della provincia romana della Macedonia. In queste tre città alcuni luoghi diventano significativi per la missione: le sinagoghe, le case (luoghi dell’ekklesìa), le piazze (luoghi del commercio e della politica, ma anche delle ostilità e delle persecuzioni). A Filippi e a Tessalonica, la prigionia di Paolo rappresenta un passaggio obbligato per l’avanzamento dell’opera missionaria.
Quando agli avvenimenti, l’opera missionaria fa i conti con alcuni successi, ma anche con difficoltà. A Filippi l’opposizione è circoscritta ad una famiglia pagana, che con la predicazione di Paolo, vedeva minacciati i proventi che le derivavano dalla divinazione di una delle proprie schiave. A Tessalonica, invece, l’opposizione ha radici ideologico-religiose, perché attesta il rifiuto da parte dei giudei dell’evangelizzazione di Paolo e Sila. Tuttavia a Filippi la carcerazione di Paolo produce frutti positivi, la permanenza in carcere edifica i carcerati, la liberazione miracolosa evoca toni giubilari, per cui si converte anche il carceriere.
A Tessalonica e Berea, la persecuzione dei giudei si trasforma in tumulto popolare e impone ai cristiani una sorte di clandestinità. Paolo si avvede del grande problema che riguarda continuità o rottura con il giudaismo, per cui il suo annuncio si va spostando dalle sinagoghe alle case (quella di Lidia a Filippi, quella di Giasone a Macedonia). È il tempo delle chiese domestiche.
Quanto ai personaggi, accanto a Paolo compaiono i collaboratori: Sila, Timoteo ed altri. Fin dall’inizio la missione cristiana assume le sembianze di un’azione cooperativa, non soltanto quindi pochi personaggi straordinari, ma di un gran numero di testimoni (cfr. 1 Cor 12,1), come storia di fede di uomini e di donne talvolta anonimi, che hanno fatto sì che prenda corpo una ekklesìa cristiana. Da menzionare la presenza di donne, che è stata reale ed efficace, in particolare donne benestanti, come Lidia, la venditrice di porpora di Tiatira, dalla cui conversione prende vita la comunità cristiana di Filippi.
In risalto nel libro degli Atti viene posto anche sulla Parola che cresce: « Così la parola del Signore cresceva con vigore e si rafforzava. » ( At 19,20), a lasciar intravedere che l’opera missionaria è un evento dello Spirito e in stretta continuità con l’opera di Gesù di Nazaret. Come già nel Vangelo, anche negli Atti il parallelismo delle posizioni davanti all’annuncio di salvezza serve a Luca per indicare che la storia non è semplicemente azione dell’uomo ( visione antropocentrica), ma opera di Dio: segue la logica di Dio, non quella degli uomini.

4. Il contenuto della 1 Tessalonicesi: la prima parte ( 1 Ts 1-3)

L’epistola fu scritta a Corinto. Iniziava per Paolo uno dei periodo più importanti della sua vita e della storia del cristianesimo. Egli non immaginava certamente che, a distanza di migliaia di anni, milioni di uomini avrebbero benedetto la piccola bottega di Corinto, nella quale, sotto la spinta di una necessità impellente, fu scritta la prima epistola che forma la prima pagina del Nuoto Testamento. Ciò avveniva circa l’anno 51 d.C.. Più di 20 anni erano trascorsi dalla risurrezione del Signore.
La lettera inizia con il saluto. « Paolo, Silvano e Timoteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia e voi e pace! » Per la prima volta nel Nuovo testamento sentiamo risuonare il mirabile connubio delle tre note cristiane: fede, speranze e carità( 1 Ts 1,2) . Tutta la lettera ha un tono solenne, tenero, commosso, pieno di quella dedizione che rivela l’attitudine a penetrare nell’anima altrui per sentire all’unisono, per godere e soffrire insieme.
Questa epistola non è combattiva, come lo sono le grandi lettere del terzo viaggio missionario, e neanche contiene uno svolgimento logico del pensiero. Rispecchia, piuttosto, lo stato d’animo ed i sentimenti di coloro sui quali la predicazione di Paolo intorno alla risurrezione e alle realtà escatologiche aveva prodotto un’impressione profonda. Per questa ragione le prime due lettere dell’Apostolo hanno un’intonazione esclusivamente escatologica.
Il Vangelo è un radicale intervento del Regno di Dio nell’ambito della vita civile e sociale: ciò un nuovo mondo inserito in quello vecchio destinato a perire. Chi si confessava seguace di Cristo veniva allora considerato un innovatore pericoloso, politicamente indesiderabile, sottoposto ad ogni genere di vessazione.
In questa situazione, per Paolo patire fa parte della comunione con Cristo, tanto che i suoi patimenti diventano i patimenti di Cristo. Egli sa che le più grandi sofferenze vengono ai neo-convertiti proprio dalla gente della sua razza, come ne ha fatto egli stesso l’esperienza: « Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù, che sono in Giudea, perché anche voi avete sofferte le stesse cose da parte dei vostri connazionali, come loro da parte dei Giudei. Costoro hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi; non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini. Essi impediscono a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano sempre di più la misura dei loro peccati! Ma su di loro l’ira è giunta al colmo » (1 Ts 2,14-18).
A questo punto, Paolo interrompe la dettatura. Ciò traspare dal nuovo vocativo e dal cambiamento di tono. Egli apre ora dinanzi ai Tessalonicesi tutto il suo cuore di uomo sensibile. Tali sentimenti umani sono espressione della sua unione con Dio, perché egli sa che i cuori degli uomini si uniscono tra loro nella comunione con Cristo. La Chiesa non è soltanto comunione nella fede e nel culto comune, ma è, soprattutto, comunione nella carità. È un sacro vincolo fraterno, mantenuto ed assunto entro l’amore di Cristo: « Quanto a noi, fratelli, per poco tempo privati della nostra presenza di persona ma non con il cuore, speravamo ardentemente, con vivo desiderio, di rivedere il vostro volto » (1 Ts 2,17). Non gli è stato possibile, Satana lo ha impedito. Per questo egli ha inviato Timoteo « per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci turbare in queste prove » (1 Ts 3,2-3). « Ma ora Timoteo è tornato, ci ha portato buone notizie della vostra fede, della carità e del ricordo sempre vivo che conservate di noi, desiderosi di vederci, come noi lo siamo di vedere voi » (ib. 3,6).
Quasi solenne preghiera, Paolo indirizza il corso dei suoi pensieri alla visione del ritorno di Cristo. A questo punto in taluni manoscritti (codice Sinaitico, Alessandrino, Volg. etc.), si trova la parola Amen, segno che Paolo chiudeva nuovamente i suoi pensieri e soprattutto la dettatura.
« Voglia Dio stesso, Padre nostro, ed il Signore nostro Gesù, guidare il nostro cammino verso di voi! Il Signore vi faccia crescere e sovrabbondare nell’amore fra voi e verso tutti, come sovrabbonda il nostro per voi, per rendere saldi i vostri cuori, irreprensibili nella santità, davanti a Dio, Padre nostro, alla venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi » (1 Ts 3,11-15).

5- La seconda parte di 1 Ts (4-5): vita cristiana e attesa del Signore

Nella seconda parte della lettera San Paolo affronta il tema del ritorno di Cristo. Tutto il cristianesimo primitivo è pervaso da due correnti di pensiero e di sentimenti che, alternativamente, prendono il sopravvento, una rispetto all’altra riguardo all’attesa degli ultimi tempi. Una di queste due correnti di pensiero era caratterizzata dall’ardente attesa del definitivo stabilirsi del regno, e riteneva che per il presente fosse necessario l’adempimento dei propri doveri con l’ausilio della forza salvifica fornita da Cristo nello Spirito Santo. Un’altra corrente, invece, proprio perché proiettata verso l’attesa del Signore, non dava molta o nessuna importanza al suo impegno nel presente. Entrambe queste correnti hanno il punto di partenza in Gesù, artefice del Regno di Dio nel presente e il perfezionatore di questo stesso Regno nell’atto del suo ritorno, come Re messianico, per presiedere il giudizio finale, allorquando la transitorietà di questo mondo sarà sommersa nella gloria di quello futuro. Lo sguardo dei Tessalonicesi era, unilateralmente, rivolto al futuro, nell’attesa dell’immediato prodursi dello sconvolgimento finale. Alcuni di essi già vedevano il cielo arrossarsi paurosamente e, in mezzo a questa trepida attesa, la vita quotidiana e l’esercizio dei propri mestieri correvano il rischio di perdere ogni valore.
I brani escatologici, contenuti nelle due epistole ai Tessalonicesi, non si comprendono se non si presuppone che Paolo avesse nella mente le profezie di Cristo nei riguardi del suo ritorno, profezie che si proponeva di spiegare. Aveva la coscienza che l’ora della catastrofe finale dovesse rimanere nascosta, secondo le affermazioni di Gesù, e che a nessuno fosse dato i sapere se la fine sarebbe stata imminente, o se dovesse trascorrere migliaia di anni. Da tutto l’insieme appare che Paolo avesse dinanzi alla sguardo un primo, imminente compimento della predizione di Gesù, perché alcuni dei segnali non potevano riferirsi ad altro che ad un avvenimento vicino. Restava una congettura, supposizione, accertare se la catastrofe finale sarebbe seguita a quel primo, finale cataclisma (v. 2 Pt 3,8). Tali esitazioni, presenti anche negli apostoli, li tratteneva dall’insegnare qualcosa di preciso intorno alla data del ritorno del Signore. Anche Paolo, da principio, propendeva per l’idea che alcuni dei suoi contemporanei sarebbero stati ancora in vita quando la predizione di Gesù sia sarebbe realizzata (1 Ts 4,11; 1 Cor 15,22). Solo più tardi egli metterà in conto uno spazio di tempo maggiore e la previsione del suo martirio (2 Cor e Fil).
Frattanto, ai suoi occhi, tutto il presente gli dava l’impressione di un mondo che precipitava verso la sua fine. Tuttavia, da uomo realistico qual era, scorgeva i pericoli di questa maniera unilaterale di considerare l’avvenire e si adoperava a delineare il significato della vita presente, che per il cristiano riveste un valore altissimo, per il fatto che una « vita in Cristo » già riempita e permeata dalle energie del mondo celeste. Inoltre, la sua personale esperienza del Cristo, gli dava la sensazione di una regale libertà, accompagnata da un senso di sicurezza e di superiorità sulle cose terrene. Col suo essere in Cristo, il cristiano gode già, fin da questa terra, la beatitudine della creatura redenta.
L’imminenza della prossima venuta del Signore, che può coesistere con questo nuovo orientamento, non è estranea all’energico impulso della sua attività missionaria: il bruciare le tappe così caratteristico del suo zelo apostolico, traspare dai viaggi e dal vivo desiderio di portare la Buona Novella, fino ai confini del mondo allora conosciuto, come attesta Luca, suo compagno e collaboratore, « Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra » (At 1,7). Paolo, prima di arrivare alla dichiarazione che concerne il ritorno del Signore, espone il suo ideale morale di vita, che consiste nella santificazione dell’uomo interiore nell’intera sua esistenza terrena. Il cristiano è ormai sottratto al mondo peccatore, al vecchio eone, egli è già incorporato nell’eone futuro. Non esiste per lui, quaggiù, alcun’altra occupazione che esuli dal campo delle divine esigenze. In altre parole, la santità che a lui conviene, in virtù del suo essere in Cristo, deve manifestarsi nella santità (nel campo morale), agendo sempre secondo l’impulso dello spirito.
La parola parusia per gli antichi cristiani significava venuta del Signore, anziché ritorno. Ai tempi dell’Impero parusia indicava la venuta solenne dell’Imperatore in qualche città. Nessuna più di questa parola poteva, quindi, nella mentalità dei Tessalonicesi, già pagani, delineare l’evento della venuta del Signore. Si poneva, tuttavia, il problema della sorte di quanti erano o sarebbero morti prima della parusia. A loro modo di comprendere, ancora sotto l’influenza di concezioni pagane e giudaiche, la sorte dell’uomo dopo la morte assomigliava molto al sonno dell’anima, ad un venire meno della consapevolezza, dal quale anche per i battezzati non esisteva la possibilità di un risveglio nel giorno della parusia. Così ai loro morti si toglieva la più bella speranza, cioè di assistere al ritorno trionfale di Cristo. Per Paolo ovviamente la concezione della morte è tutt’altra: è vita e luce. Lo stato che segue alla morte non è per lui il riflesso postumo della luce che emana dalla vita, quanto piuttosto un potenziamento della vita nella glorificante luce di Cristo.
Lo stato tra la morte e la parusia anticipa la beatitudine che si spera dopo la parusia stessa, perché il defunto è già con il Signore (2 Cor 5,9).
Ancora una cosa hanno dimenticato i Tessalonicesi, oppure non l’hanno mai udita ed è questa: i loro morti avranno parte alla parusia, perché risusciteranno rivestendosi del corpo glorificato celeste. Le immagini e i colori con i quali Paolo descrive la parusia sono presi in parte dal Vangelo, in parte dai profeti ed in parte ancora dagli scritti apocalittici giudaici di quel tempo, come lo squillo di tromba che accompagnerà la discesa del Signore, le nuvole come il veicolo trionfale, la voce e il comando dell’Arcangelo (Michele), la luminosa figura di Cristo che avanza dall’ombra del mistero, il corpo glorificato pronto per i risorti dalla morte ed anche per quelli che sono ancora in vita e che tutti rivestono; l’essere rapiti fuori della terra, la sosta nell’aria fra cielo e terra ove avviene l’incontro con Cristo.
Con l’accordo di queste tre voci: letizia, preghiera, ringraziamento si chiude la lettera e si innalza al cielo tutta la gioia cristiana, che accompagnerà l’apostolo fino alla prigionia di Roma. Tutto il cristianesimo dei primi secoli è un unico inno lieto di gratitudine. L’Apostolo chiude volentieri le sue lettere con la formula: « Salutatevi l’un l’altro col bacio santo ». Egli desidera che questa lettera sia letta da tutti i santi fratelli (in occasione di un’assemblea liturgica, ad alta voce). Tertulliano cita Tessalonica fra le città nelle quali ai suoi tempi, le lettere dell’Apostolo venivano ancora lette nel testo originale (Praescr. 36). Ai fratelli pareva allora di risentire la voce dell’Apostolo e rivedere i tratti della sua fisionomia.

6. L’impegno di santificazione nel mondo: spunti dalla 1 Ts

Da una attenta meditazione, comunitaria e personale, della 1 Ts potremo ricavare spunti di impegno nella realtà in cui viviamo, animati dalla forza dello Spirito. Il possesso dello Spirito (pneuma), per effetto del battesimo, è armatura di energie salvifiche per la vita presente e al tempo stesso caparra e sigillo di risurrezione e di glorificazione per il giorno della nuova venuta del Cristo:  » Noi che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza. » ( 1 Ts 5, 8) La volontà di Dio è la nostra santificazione, ed essa si compie nella nostra vita ecclesiale e sociale, e a questo impegno San Paolo ci invita dandoci regole essenziali: « Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti. Badate che nessuno renda male per male ad alcuni, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. » ( 1 Ts 5, 14-15)
Questo compito nella vita ecclesiale siamo chiamati a riscoprirlo sulla scia di quanto papa Benedetto XVI, nella sua prima enciclica « Deus caritas est » ci diceva: « La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario. Al contempo però la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa; la parabola del buon Samaritano rimane come criterio di misura, impone l’universalità dell’amore che si volge verso il bisognoso incontrato  » per caso  » (cfr Lc 10, 31), chiunque egli sia. Ferma restando questa universalità del comandamento dell’amore, vi è però anche un’esigenza specificamente ecclesiale – quella appunto che nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno. In questo senso vale la parola della Lettera ai Galati:  » Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede  » (6, 10). » E cosa dire del nostro agire che, illuminato dalla speranza della Pasqua eterna e sostenuto dalla grazia, trasforma il mondo? Così ci ricorda il papa nella enciclica « Spe salvi »: « Ogni agire serio e retto dell’uomo è speranza in atto. Lo è innanzitutto nel senso che cerchiamo così di portare avanti le nostre speranze, più piccole o più grandi: risolvere questo o quell’altro compito che per l’ulteriore cammino della nostra vita è importante; col nostro impegno dare un contributo affinché il mondo diventi un po’ più luminoso e umano e così si aprano anche le porte verso il futuro. » ( n.35)

Terza parte
« Comportatevi da cittadini degni del Vangelo »: il programma pastorale diocesano e l’impegno di rinnovamento quaresimale

7. Conversione e vita civile

Perché questo mio Messaggio per la Quaresima risulti utile e prezioso, aggiungo questa terza parte per porre in rilievo quanto il pensiero di Paolo incida fortemente sul tema della moralità pubblica e privata: un’esigenza oggi sentita da alte cariche dello Stato, da parte della classe politica e da un gran numero di cittadini.
Ci si accorge, un po’ in ritardo, che la morale non può essere la fata morgana o l’araba fenice (che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa) ma è imprescindibile dall’economia, dalla finanza, dalla politica e dalla vita sociale (se queste attività hanno l’uomo come punto di riferimento). La cosiddetta morale laica, nonostante le sue pretese e la fierezza con la quale i suoi sostenitori la rivendicano, risulta alla fine evanescente e senza fondamento, perché soggettiva e nichilista e, pertanto, non in grado di generare un universale o maggioritario consenso su valori condivisi. Altrettanto si può dire in merito ad una presunta religione civile, se questa prescinde dal riferimento a Dio, sia pure quale Creatore. Ben poca cosa la moralità di cui va fiero, ad esempio, Eugenio Scalfari nel suo « testamento spirituale », « L’uomo che non credeva in Dio ». Noi cristiani, pur non sottostimando lo sforzo e l’impegno dei non credenti o seguaci di altre religioni, tenendo presenti i semi del Verbo (semina Verbi) di cui parla S. Ireneo, che possono essere reperiti e presenti fuori dal cristianesimo, non sentiamo alcun complesso di inferiorità, anzi avvertiamo come omissione difficilmente giustificabile, se non prestiamo il nostro contributo di pensiero, di dottrina e di azione insieme con quanti sono disposti a battersi per il bene comune di tutti, inteso come bene integrale della persona umana.
San Paolo, a più riprese, esorta i cristiani a comportarsi in maniera tale da suscitare tra i non cristiani rispetto, stima, approvazione: « Comportatevi saggiamente con quelli di fuori, approfittate di ogni occasione. Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno » (Col 4,5-6).

8. La vita morale in Paolo

Come è apparso evidente da cenni sia pure rapidi e incompleti del compendio della lettera ai Tessalonicesi, la vita morale quale si desume da tutte le lettere paoline, pur non esposta in maniera sistematica, quanto piuttosto come risposta a contingenze occasionali e immediate, appare fondata su solide basi, in nessun punto contrastanti con la moralità evangelica e con quella degli altri apostoli, anzi in più punti essa rivela un arricchimento ed un approfondimento degno del suo genio. Non è in contrasto, quanto piuttosto una prosecuzione rispetto al Primo Testamento, proprio come ha fatto Gesù, allorché nel discorso delle Beatitudini ricorda la Torah ed in particolare i dieci comandamenti, per aggiungere subito:  » Non pensate che io sia venuto per abolire la legge e i profeti, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra non passerà un iota o un segno della legge senza che tutto ciò sia compiuto » (Mt 5,17-18). Il Decalogo appartiene, per certi aspetti, a codici legislativi dell’antico vicino Oriente, ma, nello stesso tempo, si distingue nettamente almeno per il suo stile. Esso è presentato in modo diretto da Dio per Israele, senza intermediari: « Dio allora pronunziò tutte queste parole » (Es 20,1). A differenza di tutti i codici stranieri, appare chiaro che tutto il diritto è presentato come Carta dell’Alleanza. È introdotto dalle parole: « Io sono Jahwè, tuo Dio, che ti ha portato ».
Alla luce di questa dichiarazione devono essere interpretate le dieci Parole (piuttosto che dieci comandamenti). Dio parla ad un popolo liberato dalla sua servitù – ogni servitù – al quale viene presentata una nuova esigenza. Si può osservare, inoltre, che la forma grammaticale è l’indicativo, non l’imperativo. Esso inaugura un’era di libertà ed il compimento ultimo (cf. Ml 3,5). Questa scoperta sconvolgente è confermata dalla formulazione negativa di gran parte delle « parole ». Tale formulazione ha chiaramente la funzione di precisare i parametri dell’esistenza agli occhi di Dio. Piuttosto che dettare i termini della nuova libertà al popolo, Dio dice in quale momento quella libertà cesserebbe di esistere. La schiavitù non si identifica soltanto con i lavori forzati in Egitto, ma si può manifestare in mille modi: ateismo, idolatria, profanazione del tempo e della storia, il disprezzo delle autorità e delle memorie ancestrali, quello della vita umana, dell’amore e dei sentimenti profondi, della proprietà altrui, della giustizia , dell’altro, etc., perché la libertà non si può dettare, si fa. Maimonide (1135-1204) diceva: »Noi ebrei abbiamo ricevuto il comandamento di essere liberi ».
Il Decalogo è diventato principio fondamentale del diritto occidentale. Benché dato da Dio ad un popolo particolare, esso è universalmente riconosciuto come l’enunciazione di ciò che l’uomo veramente è.
San Paolo, da autentico giudeo rinnovato dalla luce del Vangelo, fa sintesi di tutto questo. Nel processo davanti a Festo ed Agrippa, sostiene che la risurrezione di Cristo e la risurrezione dai morti più in genere, non sono contro i profeti ma in accordo con essi. Rivolto ad Agrippa, forse con ironia, gli chiede: « Credi, o re Agrippa, nei profeti? So che ci credi ». E Agrippa a Paolo: « Per poco non mi convinci a farmi cristiano » (At 26,27-28). Paolo è cristiano, riconosce la novità del Cristo: è Lui che salva, non la Legge. Quella legge non viene disprezzata o accantonata, ma in Cristo viene perfezionata nell’amore.
In Quaresima ascolteremo il brano della Trasfigurazione del Signore, (Mc 9,2-13), che soprattutto nella versione secondo Luca ( 9, 28-35), ci presenta uno stupendo « affresco » ove accanto al Signore compaiono Mosè (la legge) ed Elia (i profeti) che parlano con Lui: è un brano che ci fa vedere come nella Chiesa primitiva fosse viva la convinzione che giudaismo (la vecchia legge) e cristianesimo potessero tranquillamente convivere, essendo l’uno proseguimento e sbocco naturale dell’altro. Gesù è venuto a portare a compimento l’antica legge, per questo egli in Mt 5-6 afferma la novità del vangelo, con l’espressione « Ma io vi dico ». Vero è che il Signore aggiunge un di più, e cioè:
- al divieto di uccidere (quinto comandamento) il perdono fraterno, la riconciliazione , stare in pace;
- al divieto di adulterio (sesto e nono comandamento) la proibizione anche di guardare una donna per desiderarla;
- al ricorso al ripudio (concesso da Mosé per la durezza del cuore) il divieto assoluto;
- al divieto del giuramento (secondo comandamento) il divieto assoluto dello stesso: « Sia il vostro parlare sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno »;
- al divieto della vendetta (legge del taglione) la richiesta di non estremizzare anche la difesa legittima dei propri diritti;
- l’esclusione assoluto dell’odio verso i nemici: « Ma io vi dico amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori »;
e, soprattutto, interpretando Mosè e andando tuttavia oltre, dà il suo precetto (entolé) l’amore verso Dio e verso il prossimo, che non rappresenta una « ciliegina sulla torta », ma la trasformazione radicale del senso dei comandamenti, qualcosa di nuovo e di originale, la trasformazione in positivo di quanto era il senso e lo scopo del divieto. Per praticare la legge fa comprendere Gesù è necessario, basta amare.
Paolo lo ribadisce nelle sue lettere. La carità, prima che virtù morale è dono di grazia: « Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio » (Rm 8,14). La legge non basta più. Interviene la grazia, lo Spirito Santo, visto che « la carità di Cristo è stata effusa nei vostri cuori per mezzo dello Spirito santo. »(Rm 5,5).Non solo i singoli, ma la Chiesa intera è mossa e permeata dalla Spirito. Luca negli Atti (2,1-13), da buon discepolo e compagno di missione di Paolo, ci offre lo straordinario, grandioso evento della Pentecoste, come origine, inizio della Chiesa. La Pentecoste cristiana rievoca la teofania grandiosa del Sinai (Es 19,16-24; 20-24) in cui Dio che consegna a Mosè le tavole della Legge e fissa il Codice dell’Alleanza. 

9. Vita morale e vita civile

Tornando a San Paolo, la vita morale vi figura nella sia interezza sotto l’influsso e l’opera dello Spirito Santo. Pier Carlo Landucci, in un articolo sulla rivista teologica genovese Renovatio , cessata di esistere qualche anno dopo la morte del cardinal Siri, che ne fu l’ispiratore, ci offre una metafora che ci fa comprendere meglio la complessa opera della grazia, nelle sue articolazioni. La metafora è quella dei vascelli antichi, con la chiglia (grazia santificante), le armature (virtù teologali), le vele (i doni dello Spirito). Non sempre i manuali classici di teologia morale ci danno la sensazione esatta dello specifico cristiano, dell’originalità inimitabile della visione cristiana che non può prescindere da Dio e dalla Trinità, ma che ingloba la divina azione e ispirazione. L’uomo in grazia risulta, se così si può dire, il terminale dell’azione divina, senza che ciò costituisca il minimo attentato alla libertà ed all’autonomia dell’uomo.
La grazia non sopprime la natura, la perfeziona. In San Paolo le norme di virtù cristiana (i cataloghi delle virtù e dei vizi) vengono calate in stampi indirizzati non solo ai cristiani ma anche a pagani e convertiti: hanno valenza culturale, hanno trasformato una società indirizzandola su binari che gradualmente trasformano la convivenza, hanno fecondato per sempre culture modellate su criteri contrapposti, aberranti. Anche noi abbiamo motivo di ritornarci, in quest’anno pastorale in cui siamo chiamati a convertirci nel modo di vivere la nostra presenza civile nel mondo. Il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa ci ricorda questo impegno: « La speranza cristiana imprime un grande slancio all’impegno in campo sociale, infondendo fiducia nella possibilità di costruire un mondo migliore, nella consapevolezza che non può esistere un  » paradiso in terra « .1215 I cristiani, specialmente i fedeli laici, sono esortati a comportarsi in modo che  » la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si dimostrano come figli della promessa se, forti nella fede e nella speranza, profittano del tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e attendono con perseveranza la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E non nascondano questa speranza nell’interiorità del loro animo, ma con la continua conversione e la battaglia « contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male » (Ef 6,12) la esprimano anche nelle strutture della vita secolare « .1216 Le motivazioni religiose di tale impegno possono non essere condivise, ma le convinzioni morali che ne discendono costituiscono un punto di incontro tra i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà. » (Compendio n.579)
Un motivo per riflettere… e agire!

Conclusione

Per concludere, ci poniamo sotto la protezione della Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra, particolarmente durante questa Quaresima.
Chiediamo a Dio, per la sua intercessione, di guidare i nostri passi verso ciò che sarà sua gloria e nostro bene e di elargirci la sua benevolenza e l’abbondanza delle sue grazie. Ci sia di guida l’esperienza di conversione e di apostolato di San Paolo.

PREGHIERA

Mi chiami per nome, Signore,
lungo la via di Damasco.
Mi precipiti a terra, perché
toccando il suolo, io possa risorgere.
Mi accechi con la tua luce, perché io
Ti possa vedere nei discepoli che perseguito.
Accetto che altri mi conducano,
mi impongano le mani per
essere colmato di Spirito Santo.
Ho vissuto l’esodo delle mie sicurezze.
Ora conosco solo te, o Cristo,
Signore crocefisso.
Che io ti possa vedere dopo aver portato
il tuo nome alle nazioni e aver assunto anch’io
la tua croce, scandalo per gli uomini,
segno della tua follia d’amore.
Amen.


Andria, il 25 febbraio, Mercoledì delle Ceneri, dell’anno 2009.

+ Raffaele Calabro
Vescovo

Bruno Forte, messaggio per la quaresima 2009: Alla scuola di Paolo per vivere di Cristo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17528?l=italian

Alla scuola di Paolo per vivere di Cristo

Messaggio per la Quaresima 2009 di mons. Bruno Forte

ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio per la Quaresima di quest’anno che l’Arcivescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno Forte, ha voluto dedicare alla figura di San Paolo, nell’Anno giubilare a lui dedicato (28 Giugno 2008 – 29 Giugno 2009).
 
* * *

1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen. Alleluia! E il racconto della vita di Paolo continui nella vita di ciascuno di noi…

LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’

dal sito:

http://www.chiesacattolica.it/cci_new/PagineCCI/AllegatiTools/91/DOMENICA%20EUCARISTICA-EUCARISTIA%20E%20IL%20PRIMATO%20%20DELLA%20CARITA%20-%20Mons.%20Yoannis%20Spiteris.doc

LA DOMENICA-EUCARISTIA E IL PRIMATO DELLA CARITA’

S.E. Mons. Yoannis Spiteris

Introduzione

 In una delle chiese della mia diocesi del Nord della Grecia, ogni anno ci sono più di 40 battesimi di adulti stranieri, essi si aggiungano ai cosiddetti « tradizionali » cattolici presenti nel territorio. Ormai, nella celebrazione domenicale dell’eucaristia, la chiesa per tre quarti è riempita di cattolici « stranieri ».
 I fedeli provenienti dalle tradizionali famiglie cattoliche del luogo, invece di sentire la gioia di trovarsi insieme a nuovi fratelli, si sentono minoranza nella propria chiesa e minacciati dagli « stranieri ». Risultano, alcuni la domenica non vengono più in chiesa, altri non frequentano più quella chiesa, e quelli che vengono si lamentano o sono scortesi con i cattolici stranieri emigrati.
 Ancora non sono riuscito a convincerli che per i cristiani non ci sono « stranieri », ma tutti sono veri fratelli in Cristo, che l’Eucaristia domenicale non è un rito, ma un evento in cui si diventa Corpo di Cristo, in cui tutti i membri di questo Corpo comunicano profondamente nella stessa Agape che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ancora non sono riuscito a fare capire loro che non ha senso ottemperare al « precetto » domenicale senza la carità e la solidarietà con i fratelli. Alla fine forse il difficile in tutta la nostra pastorale « eucaristica » non consiste tanto nel persuadere i nostri fedeli a frequentare la messa domenicale e a comunicarsi con Cristo nell’Eucaristia, ma a comunicare con Cristo totale nella carità. Credo che questo discorso, dottrinalmente così ovvio, sia anche il più arduo a recepirlo nella vita, ma se lo ignoriamo nella vita allora il nostro cristianesimo sarà apparente e ingannevole.
 -Sono del parere che, sebbene il tema propostomi, sia il più biblico, il più patristico e il più teologico e quindi il più centrale di tutta la dottrina eucaristica, tuttavia rimane quello più ignorato e il meno recepito almeno nella prassi. Si ha l’impressione che, nella visione eucaristica dei nostri fedeli, sia prevalsa una pratica individualista, pietista ed intimista dell’Eucaristia a scapito del suo aspetto prevalentemente comunionale ed ecclesiale. Nella prassi esiste la tendenza inconscia di dividere Cristo Capo dal suo Corpo, si vuole comunicare con Cristo senza comunicare con le sue membra. Si cade così ancora una volta nel legalismo: la domenica diventa un « precetto » rituale da adempire e non una vera e propria vita da condividere nella comunione e nell’amore.
 Per poter evidenziare l’indissolubile legame tra eucaristia e carità è necessario esporre la sua dimensione più caratteristica, ma anche più spesso ignorato nella prassi, cioè quella ecclesiale e in seguito trame le conseguenze.
 E’ senza ombra di dubbio che la domenica esiste solo in funzione dell’eucaristia talmente da identificarsi con essa. Come le comunità degli Atti degli Apostoli, così le nostre comunità di oggi si radunano nel Giorno del Signore « per spezzare il pane » (cf. At. 2, 42, Gv 24, 30). Il raduno liturgico domenicale supera il suo aspetto di pure evento sociale e diventa corpo comunionale, icona della Trinità, solo diventando « comunità eucaristica », vero Corpo di Cristo totale. Si supererà l’individualismo che caratterizza spesso i nostri cristiani della domenica, anche quelli che si comunicano con « Gesù », nel momento in cui essi prenderanno coscienza, nel loro vissuto, non solo della presenza di Cristo nell’Eucaristia, ma del fatto che questa « presenza » si estende a tutti i cristiani radunati nella sinassi domenicale.
Come afferma Giovanni Paolo II nella Dies Domini « questa realtà della vita ecclesiale ha nell’Eucaristia non solo una particolare intensità espressiva, ma in certo senso il suo luogo « sorgivo ». L’Eucaristia nutre e plasma la Chiesa: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1 Cor 10, 17). Per tale suo rapporto vitale con il sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, il mistero della Chiesa è in modo supremo annunciato, gustato e vissuto nell’Eucaristia » (n. 32). Il tema ecclesiologo dell’eucaristia ormai domina i documenti del magistero con un punto culminate nella recente enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucaristia e credo che costituirà anche l’argomento più trattato nel prossimo Sinodo dei Vescovi. Non dimentichiamo che è anche il tema spesso toccato nel dialogo ecumenico con i fratelli ortodossi  come pure costituisce uno dei capitoli più originali della teologia ortodossa attuale.
 Sono convinto di dirvi delle cose talmente ovvie circa la dottrina eucaristica da sembra re ripetitivo e senza originalità. Tuttavia non è possibile esporre l’argomento propostomi – il primato della carità nella domenica – senza i presupposti biblico teologici.
 Come è noto, quello che oggi noi chiamiamo « Corpus Christi », fino al secolo XIII era la Chiesa costituita da Cristo Capo e dai fedeli suo corpo. Il segno sensibile ed efficace di questo « Corpus Cristi » è l’Eucaristia. H. De Lubac nella sua famosa opera « Corpus mysticum » ha dimostrato che presso i Padri e fino al Medioevo quando si parlava del « Corpus Christi » s’intendeva quello che noi oggi chiamiamo « Corpo Mistico di Cristo », cioè Cristo capo e le sue membra .

Nello Spirito si diventa una sola cosa in Cristo

 Uno dei temi comunioni della tradizione orientale e occidentale è la visione dell’eucaristia come segno « efficace » (sacramentale) di unità e vincolo di carità. E’ un insegnamento costante nel magistero e nei Padri della Chiesa. Il Concilio di Trento insegna: « II nostro Salvatore ha lasciato nella sua Chiesa l’Eucaristia come segno di unità e di amore, con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti e uniti fra loro » . Cosi il Vaticano II, facendo proprie le parole di Agostino, insegna che l’eucaristia è « sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità » . Nella Lumen Gentium (n.3) il concilio spiega il perché: « Col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo ». E più in là continua: Infatti « nella frazione del pane eucaristico partecipando noi realmente al corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: Perché c’è un solo pane, un solo corpo siamo noi, quantunque molti, noi che partecipiamo tutti a un unico pane » (1 Cor. 10, 17). Così noi tutti diventiamo membra di quel corpo (cf. 1 Cor. 12, 27) « e siamo, ciascuno per la sua parte, membra gli uni degli altri » (Rom. 12, 5) » (n. 7). Ecco perché, secondo San Tommaso, l’eucaristia s’identifica con la carità: « Il Sacramento dell’Eucaristia appartiene particolarmente alla carità, perché è il sacramento dell’unione della Chiesa (sacramentum ecclesiae unitatis) e contiene colui nel quale tutta la Chiesa si unisce e si consolida, cioè Cristo. Perciò l’Eucaristia è in certo modo origine e vincolo della carità » .
 Questa unità di noi tutti con Cristo e tra di noi è talmente grande che interviene lo stesso Spirito Santo per operarla.
 Infatti, già con il Battesimo lo Spirito Santo « incorpora » i fedeli a Cristo e li fa Chiesa, ma tale incorporazione con l’Eucaristia cresce, si nutre, si fa sempre più matura, interiorizzata e personale, per cui non si è uniti solo a Cristo capo, ma anche alle sue membra. Si tratta di una realtà profonda e ricca per la vita cristiana: non si può comunicare con Cristo Capo se nella vita si accantona il suo Corpo che è la Chiesa. Ovvero, si comunica con il Cristo Capo nella misura in cui si è anche in comunione con i fratelli, così come non si può comunicare con i fratelli se non si è in comunione con Cristo Capo. L’Eucaristia è il sacramento che crea questa comunione bidimensionale che, alla fine, si riduce ad un’unica realtà, il corpo di Cristo, cioè la Chiesa: ecco perché si usa dire che l’Eucaristia « fa la Chiesa ». Principio d’unità e di coesione in questa « comunione » è sempre lo Spirito, per questo nelle nuove preghiere eucaristiche, il sacerdote dopo aver pronunziato le parole dell’istituzione dell’Eucaristia, recita una seconda epìclesi: prega il Padre affinché mandi il suo Spirito e faccia di tutti « un solo corpo e un solo sangue con Cristo ». Dopo la risurrezione e la pentecoste Cristo esiste solo come Cristo totale, Cristo capo unito alle membra: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo – scrive S. Agostino – ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: voi ricevete il vostro sacro mistero. A ciò che voi siete, voi rispondete Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii (veramente) corpo di Cristo, perché l’ »Amen » sia vero! Perché dunque nel pane? Qui non portiamo idee nostre, ma udiamo lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: Un solo pane noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo (Cor 10,17). Comprendete e godete, unità, verità, pietà, carità. Un solo pane: chi è quest’unico pane? Pur molti… un solo corpo: riflettete che il pane non si fa con un grano solo, ma con molti. Quando riceveste l’esorcismo battesimale, veniste come macinati. Quando foste battezzati, veniste come intrisi. Quando riceveste il fuoco dello Spirito Santo, veniste come cotti. Siate quello che vedete e ricevete quello che voi siete! Questo ha detto l’Apostolo parlando del pane…  » (Discorsi, 227,1).
 L’Eucaristia come comunione dello Spirito Santo diventa, pertanto, « comunione dei santi » in un duplice senso: comunione nelle cose sante, e comunione di santi, cioè di persone santificate dallo Spirito. Così si può capire perché l’Eucaristia è il sacramento dell’amore. Essere santi significa per opera dello Spirito Santo comunicare con l’amore a Cristo e le sue membra.
 Questa dottrina cristiana, fin dal principio, è stata pressa sul serio nella catechesi degli Apostoli che giudicarono in maniera severa i cristiani che la ignoravano nelle loro assemblee eucaristiche. San Paolo è il più esplicito di tutti.

L’aspetto ecclesiale dell’eucaristia e la carità in San Paolo

 Come si sa uno dei temi principali della teologia paolina è quello della « Koinonia ». A Corinto, come altrove, Paolo annunciò il Vangelo di Gesù crocifisso e resuscitato, che, continua, in quanto Signore, a essere presente nella Cena. Egli trasmise il racconto tradizionale, che figura attualmente nella sua lettera ai Corinzi (lCor 11,2325). Quelli che Paolo convertì presero a cuore la Cena e si sforzarono di concepirla in termini più familiari al loro mondo. In 1Cor 10,16 noi troviamo formulata da Paolo ciò che sembra essere un’affermazione cristiana ellenistica riguardo al pane e al calice, espressa ricorrendo all’idea di koinonia. t probabile che questa formulazione sia stata adottata con uno scopo catechetico, forse dai Corinzi stessi. Citandola nella sua argomentazione sottoforma di due frasi della medesima struttura, Paolo le dà la sua approvazione:
 Il pane che spezziamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia) al corpo del Cristo.
 Il calice di benedizione che noi benediciamo è una partecipazione (o condivisione, koinonia), al sangue del Cristo.
 Per Paolo koinonia o comunione non si realizza solo con Gesù risorto, ma con tutto il suo Corpo concreto che è la comunità di Corinto radunata per celebrare la Cena del Signore. Per l’Apostolo delle genti l’Eucaristia per natura propria ha una portata ecclesíale. Egli, infatti, in maniera catechetica spiega che « il corpo di Cristo » non è soltanto il corpo di Gesù sacrificato sulla croce (1 6b), ma anche la comunità di Corinto, che fa parte di questo corpo: « Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (17b-18). In tal modo Paolo passa dalla cristologia, dalla soteriologia e dal « sacramento » all’ecclesiologia. Ma se, al versetto 17, mette l’accento sulla chiesa, è per incoraggiare all’unità i cristiani di Corinto, lacerati da divisioni fra e nelle assemblee domestiche (11,17-22). Qui sta l’apporto teologico originale della riflessione paolina. La partecipazione eucaristica fonda la solidarietà dei credenti. Mangiare insieme lo stesso pane è gesto creativo di vincoli così profondi da formulare un’unità strettissima, addirittura « un unico corpo ».
 Non era un compito facile mantenere la comunione fra i cristiani che componevano le primitive comunità, fra i deboli e i forti, fra i cristiani ebrei e i cristiani gentili, ciò era necessario per la « giusta » celebrazione eucaristica.
 Questa difficoltà appare in maniera in modo drammatica nel capitolo 11, 17-33 della stessa lettera.
 Paolo era stato informato a voce (v. 17) che a Corinto non solo si verificavano abusi pratici, ma si arrivava a compromettere gravemente l’autentico significato della celebrazione eucaristica. I cristiani di Corinto, nelle assemblee celebrative della Cena del Signore, tradivano il significato comunitario e caritativo dell’Eucaristia con un comportamento egoistico e privativo. Infatti, in occasione della Cena del Signore (kyriakòn deipnon), un gruppo di cristiani, quelli benestanti, si faceva la « propria cena » (ìdion deipnon) a parte (v. 21) e i poveri, letteralmente « i nulla tenenti come dice il testo (v. 22), erano esclusi.
 Va ricordato che l’Eucaristia dei primi cristiani si celebrava all’interno di una cena comune che vedeva riuniti i credenti in modo fraterno. Più tardi essa sarà chiamata agape, appunto perché esprimeva l’amore vicendevole dei cristiani.
 Collegata con il pasto comune, l’eucaristia era per eccellenza il sacramento in cui la chiesa poteva esprimersi quale comunità unita al suo Signore e solidale tra sue membra. A Corinto invece essa si privatizzò. Si pensava che valesse per se stessa al di fuori di ogni contesto di amore reciproco, che creasse ed esprimesse un rapporto soltanto verticale con Cristo risorto. Anche se celebrata materialmente insieme, essa era diventa sacramento dei singoli credenti e non della e nella chiesa in quanto tale. Degenerò in rito sacro, avulso dai rapporti esistenziali che legano quelli che lo celebrano. Si avvicinava ai riti d’iniziazione misterica, operanti magicamente al di fuori di ogni impegno etico degli iniziati.
 Paolo non rimprovera ai cristiani di Corinto la loro razionalistica negazione della presenza di Cristo nell’eucaristia, né perché l’avessero ridotta una cena pura e semplice, ma perché l’avevano sciolta da ogni contestualizzazione ecclesiale e agapica, l’avevano ridotto ad un affare di salvezza privata.
 I termini usati da Paolo indicano l’ecclesialità di quest’atto: Il termine synérchesthai (trovarsi insieme, riunirsi) ricorre come ritornello (cf vv. 17.18.20.33.34) ed è rinforzato da espressioni chiaramente ecclesiologiche: « quando vi riunite in assemblea (en ekklésia) (v. 18), « quando vi riunite insieme, nello stesso luogo (epì to autò) . Queste espressioni indicano che quando i cristiani si riuniscono per celebrare la cena, diventano chiesa eucaristica e questa chiesa celebra la sua verità profonda di comunione fraterna e solidale di tutti i credenti.
 I cristiani di Corinto, però, in realtà non consumano la Cena del Signore (kyriakòn deipnon), bensì una loro privatistica cena, la « propria cena » (ìdion deìpnon). E’ chiara l’antitesi: resta esclusa la convivialità con Cristo, perché si escludono i poveri dalla propria convivialità. Le divisioni sono una spaccatura scandalosa tra chi è sazio e chi soffre la fame, incontriamo una situazione in cui appare la disuguaglianza tra i fedeli e la chiusura gli altri. Dove non c’è chiesa, intesa quale comunità solidale, non può esserci la cena del Signore. Del resto la cena non è una semplice incontro conviviale, è un’ »anamnesi » della « morte del Signore » cioè dell’atto supremo di amore verso gli uomini (cf. v. 26).
 Per Paolo chi si dissocia dai fratelli, si separa anche da Cristo stesso. t per questo che il giudizio contro coloro che « si nutrono indegnamente del corpo e del sangue del Signore » è oltremodo severo:  » Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (vv. 27-29).
 È interessante per il nostro tema evidenziare che cosa intenda Paolo per partecipazione indegna alla cena del Signore. A Corinto sappiamo che non mancava la fede nel sacramento della cena del Signore. Ciò che causa la condanna è lo scindere il Corpo di Cristo dal suo Corpo ecclesiale. « Non distinguere il corpo » vuol dire non riconoscere come tale il corpo ecclesiale che si costruisce nella cena del Signore: Si pecca contro il corpo del Signore peccando contro i fratelli, mostrando con il loro comportamento mancanza di amore.
 In conclusione possiamo affermare che nel capitolo 11 della prima lettera ai Corinzi, Paolo ha voluto escludere l’isolamento della Cena del Signore e la sua conseguente degenerazione a rito sacro, valido per se stesso, avulso da ogni contesto storico. Positivamente, egli ha voluto raccordare in maniera indissolubile eucaristia, comunità ecclesiale e solidarietà fraterna. La collocazione essenziale del sacramento è all’interno della, chiesa, che si qualifica come costruzione edificata sulla base della carità.

Nell’eucaristia diventiamo vero corpo di Cristo ecclesiale.

 Essendo questa mia conferenza situata nel contesto degli incontri ecumenici, permettetemi di presentarvi brevemente la cosiddetta ecclesiologia eucaristica che si rifà ad alcuni grandi teologi ortodossi di oggi. I due teologi ortodossi che meglio rappresentano oggi la teologia eucaristica in relazione alla Chiesa sono il russo N. Afanassieff  (1893 -1966), e il greco J. Zizioulas
 N. Afanassieff parte dal presupposto che la Chiesa è un mistero, un sacramento di cui si può avere l’esperienza solo nella celebrazione eucaristica. Egli, come molti altri teologi ortodossi, si ispira al testo degli Atti 2, 44 « tutti i credenti erano riuniti in uno stesso luogo »(epi to autò) . Basandosi anche su testi patristici, afferma che l’essere riuniti in uno stesso luogo indica contemporaneamente l’Eucaristia (« sinassi ») e la Chiesa (popolo di Dio radunato nell’unita): « L’Eucaristia in quanto assemblea liturgica « epi to autò », in un certo senso, si identica con la « Chiesa »: è per questo che i due termini sono facilmente intercambiabili » . L’Eucaristia è più che un sacramento della presenza del Signore, essa è il sacramento di un organismo vivo, essa è il « sacramento dell’assemblea », cioè della Chiesa, popolo di Dio Padre adunato per diventare sempre di più tempio dello Spirito e Corpo di Cristo risorto. In questo senso la Chiesa in quanto assemblea viene istituita dal Signore insieme all’Eucaristia . Infatti: « è proprio durante la prima Eucaristia, quella degli Apostoli, e durante tutte le altre che noi diventiamo, attraverso il pane e il vino, Corpo di Cristo. La comunione crea la « koinonia » che consiste in una « co-unione » reale con il corpo e il sangue di Cristo. La realtà del pane manifesta la realtà integrale del Corpo di Cristo, l’unità del pane (eis àrtos) manifesta l’unità del corpo (eis soma). Ora sappiamo che il Suo corpo è la Chiesa di Dio, la Chiesa che è veramente e realmente « en Christo ». E’ per questo che radunarsi per l’Eucaristia significa radunarsi m quanto Chiesa, e radunarsi in quanto Chiesa significa radunarsi in quanto Eucaristia » .
 Evidentemente Afanassieff non vuole affermare un legame di causalità tra Chiesa ed Eucaristia; egli parla di un lega me esistenziale ed esperienziale. L’Eucaristia non è fatta dalla Chiesa in senso cronologico e logico perché essa è dono assoluto dell’azione congiunta di Cristo e dello Spirito che realizzano la volontà del Padre. Semplicemente l’Eucaristia permette alla Chiesa di esistere in quanto Corpo di Cristo. Il teologo greco Joannis Zizioulas esprimerà questa verità in modo drastico e forte: « L’Eucaristia non è un atto di una Chiesa preesistente; è un atto costitutivo dell’essere della Chiesa, un atto che permette alla Chiesa di essere. L’Eucaristia costituisce l’essere ecclesiale »  o, come afferma P. Evdokimov discepolo di N. Afanassieff,, »La Chiesa è la koinonia eucaristica nella sua continuazione e perpetuazione »
 Afanassieff, come pure altri teologi ortodossi, per spiegare questa identificazione tra Chiesa ed Eucaristia parte dall’annunzio paolino: « La Chiesa è il Corpo di Cristo  » ed esso è l’Eucaristia. L’attenzione è posta in particolare su questo verbo essere. L’Eucaristia s’identifica pienamente con Cristo, ma in che senso la Chiesa s’identifica con l’Eucaristia e quindi con Cristo? La Chiesa e l’Eucaristia s’identificano con Cristo in quanto ambedue sono « Corpo di Cristo « , anzi la Chiesa diventa « Corpo di Cristo  » appunto con l’Eucaristia. Ma che significa « Corpo di Cristo 0 Innanzitutto esso è inseparabile da lui perché costituisce con lui un’unità organica. La Chiesa non esiste senza il capo e così pure Cristo non esiste senza il suo corpo. Cristo, dopo la sua risurrezione, esiste solo come Cristo totale. Ontologicamente l’unità dei cristiani con Cristo incomincia con il battesimo-cresima, ma esso è solo l’inizio: questa unione vitale a e con Cristo diventa sempre più intima, interiorizzata ed esperienziale con l’Eucaristia; con essa i cristiani diventano veramente « Corpo di Cristo « , unità inscindibile con la persona del Cristo storico e risorto, realizzando così, fin da questa terra, il disegno del Padre di « ricapitolare tutto in Cristo ». È in questo senso che la Chiesa esiste in quanto « Corpo di Cristo « , in quanto Cristo è in lei e la Chiesa è in lui, diventando « carne una » . Così, afferma il teologo russo, « la Chiesa è identica a Cristo, perché è il suo corpo inseparabile da lui, ma non è egli stesso. Cristo, unito alla Chiesa, rimane sempre un Cristo personale e non diventa un Cristo collettivo e panteista » . La Chiesa, nell’Eucaristia, va vista come unità intima e profondissima con Cristo, senza separazione, ma anche senza confusione.
 Quest’unità tra Chiesa ed Eucaristia è talmente grande che, essendo la Chiesa eucaristicamente Corpo di Cristo, essa diventa anche il tempio nel quale Dio raduna il suo popolo e nel quale si rende a Dio il debito culto in spirito e verità.

Conseguenze pratiche

 I presupposti biblico teologici dell’eucaristia con la quale è strettamente collegata la domenica, ci portano in modo del tutto spontaneo a tirare le debite conseguenze. A questo scopo crediamo che non posiamo fare a meno riferirci al più autorevole documento sull’argomento, la Dies Domini di Giovanni Paolo II nel cap. IV, nn. 69-73.
 La prima osservazione pratica se deduce dal fato che la gioia pasquale che il cristiano vive nella domenica non è completa se non si condivide con i fratelli più bisognosi:
  »La domenica – insegna il papa – deve anche dare ai fedeli l’occasione di dedicarsi alle attività di misericordia, di carità e di apostolato. La partecipazione interiore alla gioia di Cristo risorto implica la condivisione piena dell’amore che pulsa nel suo cuore: non c’è gioia senza amore »
 La domenica – afferma il papa – non consiste in un’evasione dalla realtà, una chiusura individualista nel proprio intimo:
  »L’Eucaristia domenicale, dunque, non solo non distoglie dai doveri di carità, ma al contrario impegna maggiormente i fedeli « a tutte le opere di carità, di pietà, di apostolato, attraverso le quali divenga manifesto che i fedeli di Cristo non sono di questo mondo e tuttavia sono luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini ». Di fatto, fin dai tempi apostolici, la riunione domenicale è stata per i cristiani un momento di condivisione fraterna nei confronti dei più poveri. « Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare  » (1 Cor 16, 2). Qui si tratta della colletta organizzata da Paolo per le Chiese povere della Giudea: nell’Eucaristia domenicale il cuore credente si allarga alle dimensioni della Chiesa. Ma occorre cogliere in profondità l’invito dell’Apostolo, che lungi dal promuovere un’angusta mentalità dell’ »obolo », fa piuttosto appello a una esigente cultura della condivisione, attuata sia tra i membri stessi della comunità che in rapporto all’intera società ».
 Il documento papale riporta il testo di 1 Cor 11, 20-22 che abbiamo esaminato aggiungendo quello di Giacomo: « Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, e entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite « Tu siediti qui comodamente » e al povero dite: « Tu mettiti in piedi lì », oppure « Siediti qui ai piedi del mio sgabello », non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi? » (2, 2-4).
 Alcune citazioni patristiche del documento sono oltremodo a proposito: « Le indicazioni degli Apostoli trovarono pronta eco fin dai primi secoli e suscitarono vibrati accenti nella predicazione dei Padri della Chiesa. Parole di fuoco rivolgeva sant’Ambrogio ai ricchi che presumevano di assolvere ai loro obblighi religiosi frequentando la chiesa senza condividere i loro beni con i poveri e magari opprimendoli: « Ascolti, o ricco, cosa dice il Signore? E tu vieni in chiesa non per dare qualcosa a chi è povero ma per prendere « . (115) Non meno esigente san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità. Colui che ha detto: « Questo è il mio corpo », è il medesimo che ha detto: « Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito », e « Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me » [...]. A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame?  Comincia a saziare lui affamato, poi con quello che resterà potrai ornare anche l’altare ».
 Sono parole che ricordano efficacemente alla comunità cristiana il dovere di fare dell’Eucaristia il luogo dove la fraternità diventi concreta solidarietà, dove gli ultimi siano i primi nella considerazione e nell’affetto dei fratelli, dove Cristo stesso, attraverso il dono generoso fatto dai ricchi al più poveri, possa in qualche modo continuare nel tempo il miracolo della moltiplicazione dei pani.
Poi suggerisse alcune indicazioni molto pratiche:
  »L’Eucaristia è evento e progetto di fraternità. Dalla Messa domenicale parte un’onda di carità, destinata ad espandersi in tutta la vita dei fedeli, iniziando ad animare il modo stesso di vivere il resto della domenica. Se essa è giorno di gioia, occorre che il cristiano dica con i suoi concreti atteggiamenti che non si può essere felici  » da soli « . Egli si guarda attorno, per individuare le persone che possono aver bisogno della sua solidarietà. Può accadere che nel suo vicinato o nel suo raggio di conoscenze vi siano ammalati, anziani, bambini, immigrati che proprio di domenica avvertono in modo ancora più cocente la loro solitudine, le loro necessità, la loro condizione di sofferenza. Certamente l’impegno per loro non può limitarsi ad una sporadica iniziativa domenicale. Ma posto un atteggiamento di impegno più globale, perché non dare al giorno del Signore un maggior tono di condivisione, attivando tutta l’inventiva di cui è capace la carità cristiana? Invitare a tavola con sé qualche persona sola, fare visita a degli ammalati, procurare da mangiare a qualche famiglia bisognosa, dedicare qualche ora a specifiche iniziative di volontariato e di solidarietà, sarebbe certamente un modo per portare nella vita la carità di Cristo attinta alla Mensa eucaristica ».
E conclude:
  »Vissuta così, non solo l’Eucaristia domenicale, ma l’intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza del Risorto in mezzo ai suoi sì fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti. Lungi dall’essere evasione, la domenica cristiana è piuttosto  » profezia  » inscritta nel tempo, profezia che obbliga i credenti a seguire le orine di Colui che è venuto  » per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri, la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore  » (Lc 4, 18-19). Mettendosi alla sua scuola, nella memoria domenicale della Pasqua, e ricordando la sua promessa:  » Vi lascio la pace, vi dò la mia pace  » (Gv 14, 27), il credente diventa a sua volta operatore di pace ».
 Terminando questo mio intervento vorrei fare anche un riferimento ecumenico. Noi cristiani come possiamo celebrare l’eucaristia, sacramento dell’unità e dell’amore, quando siamo divisi fra di noi? Anzi, tra i cristiani non in piena comunione, l’eucaristia diventa appunto ’11 segno più evidente di disunione.
 Ogni volta che celebriamo l’eucaristia bisogno compiere un passo avanti verso la riconciliazione anche con i fratelli con i quali non siamo in piena comunione, perché, come afferma Giovanni Crisostomo, l’eucaristia: « toglie di mezzo anche l’inimicizia, respinge l’orgoglio, elimina l’invidia, introduce nelle anime la carità, madre di tutti i beni; distrugge, inoltre, tutte le disuguaglianze umane, di stato e di condizione, e dimostra l’uguale dignità del re e del povero, dal momento che noi ci ritroviamo tutti uniti nelle cose più importanti e necessarie, in quelle cioè che concernono la nostra comune salvezza » .

Ioannis Spiteris
Arcivescovo di Corfù, Zante e Cefallonia

di Gianfranco Ravasi : San Paolo caduto tre volte

dal sito:

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2008/11/san-paolo-caduto-tre-volte.shtml?uuid=0b045e42-b25f-11dd-82c7-faa33d2b55db&DocRulesView=Libero

CULTURA&TEMPO LIBERO

ILSOLE24ORE.COM

San Paolo caduto tre volte

di Gianfranco Ravasi

14 NOVEMBRE 2008

Le moi est haïssable, scriveva Pascal nei suoi Pensieri, e che l’io troppo ostentato nelle sue esperienze più profonde sia un po’ odioso era probabilmente una sensazione condivisa anche da san Paolo, che pure aveva lasciato impronte personalissime nel suo epistolario. Qualcosa del genere può, infatti, essere ripetuto anche per quell’evento capitale che aveva rivoluzionato la sua autobiografia, ossia la conversione avvenuta forse nell’anno 32 sulla strada che lo stava conducendo a Damasco. Scrivendo ai cristiani di Filippi, l’Apostolo ricorre soltanto a un folgorante verbo greco, katelémften, cioè «fui afferrato, ghermito, conquistato, impugnato» da Cristo (3, 12). In altri passi del suo epistolario si accontenta di indicare una divisione netta tra un «prima» e un «poi», linea di demarcazione tra il persecutore e l’apostolo di Cristo: non per nulla nel suo famoso oratorio Paulus il musicista Felix Mendelssohn-Bartholdy farà impersonare da due bassi diversi la voce di Paolo prima e dopo la conversione. Ai Corinzi semplicemente chiede con una domanda retorica: «Non ho io visto Gesù, il Signore?» (I, 9,1) e conferma: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (I, 15,8). Oppure, riferendosi a un simbolo luminoso (che poi riprenderemo), ricorda che «Dio rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo» (II, 4,6). Il massimo che riusciamo a strappargli è ciò che confessa ai Galati: «Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunziassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco» (1, 15-17). Se vogliamo sapere qualcosa di più di ciò che accadde su quella strada che conduceva alla capitale siriana (diventata l’emblema delle conversioni: si pensi solo all’opera Verso Damasco del drammaturgo svedese August Strindberg), dobbiamo ricorrere a chi almeno per un certo periodo della sua vita fu compagno dell’Apostolo nei suoi viaggi missionari, cioè san Luca. Ebbene, egli nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, per ben tre volte narra la svolta radicale che fece di Paolo un missionario di quella setta che egli voleva contrastare con fierezza fin nel territorio della Siria. Infatti, Luca ricorda che, durante quel viaggio, egli recava con sé «lettere» del sommo sacerdote gerosolimitano destinate alle comunità ebraiche damascene perché si impegnassero nel bloccare la nuova eresia che veniva denominata (a più riprese negli Atti) col suggestivo vocabolo «Via».

La prima narrazione è nel capitolo 9 ed è alla terza persona. Due sono gli atti. Da un lato, c’è l’incontro epifanico di Paolo con Gesù e poi quello più «quotidiano» con un membro della comunità cristiana di Damasco di nome Anania, che non solo gli va incontro accogliendolo come un fratello, ma che lo libera anche dalla cecità causata dal bagliore della visione. D’altro lato, c’è ormai l’Apostolo che «subito nelle sinagoghe annuncia che Gesù è il Figlio di Dio» (v. 20). Ma fermiamoci per un momento all’esperienza iniziale dell’incontro, che Luca dipinge coi contorni di una visione, simile a quelle che costellano la Bibbia e che hanno come destinatari, ad esempio, il patriarca Giacobbe o i profeti Ezechiele e Daniele. Ecco le parole dell’evangelista: «All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Io sono Gesù, che tu perseguiti!» (9, 3-5). Come è evidente, non si parla di una caduta da cavallo come amerà immaginare l’iconografia successiva (è appunto il caso anche del celebre dipinto di Caravaggio in S. Maria del Popolo a Roma), ma di una folgorazione che fa incespicare e cadere a terra. C’è un elemento interessante in quel dialogo tra Saulo (che è il nome ebraico dell’Apostolo e che vuole idealmente marcare il suo passato, destinato ora a morire con « l’uomo vecchio », per usare una nota espressione paolina) e la voce di Cristo. Saulo stava recandosi a Damasco per incatenare i discepoli di Gesù; Cristo si identifica con loro: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!». Come ha fatto notare Benedetto XVI nel suo discorso di apertura dell’anno paolino, Cristo stabilisce un nesso di identità con la Chiesa che è il suo corpo. Ed è altrettanto significativa una nota apparentemente marginale ma forse allusiva: Saulo rimane cieco per tre giorni (9,9) e quando viene battezzato si dice che i suoi occhi si illuminano ed egli «si alza»: ora il verbo greco anastas, l’ »alzarsi », è lo stesso che viene usato nel Nuovo Testamento per la risurrezione di Cristo. Ai tre giorni oscuri del sepolcro subentra il levarsi luminoso della risurrezione-rinascita: non si dimentichi che nella Lettera ai Romani Paolo descriverà il battesimo in modo analogo, secondo lo schema della «sepoltura-risurrezione » di Cristo (6, 3-9), mentre l’illuminazione era uno dei principali simbolismi battesimali.

Abbiamo detto che sono tre i racconti lucani di questa avventura spirituale radicale vissuta dall’Apostolo. Riserviamo un cenno anche agli altri due. Nel capitolo 22 degli Atti, la narrazione è in prima persona. Siamo nel tempio di Gerusalemme e Paolo sta per essere linciato dai suoi antichi correligionari. Ma il comandante della coorte romana di stanza in quell’area lo sottrae alla folla e lo conduce nella fortezza Antonia, ove gli concede di arringare il popolo che continua a pressarlo. In ebraico Paolo racconta autobiograficamente la vicenda della via di Damasco, ricalcando il primo testo degli Atti. Egli, però, sottolinea ora che i suoi compagni di viaggio «videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava», a differenza del primo racconto («sentivano la voce, ma non vedevano nessuno» 9, 7). Si tratta, quindi, di un’esperienza che ha qualche eco esterna, ma che rimane profondamente personale e interiore. Ci sono stati, perciò, alcuni critici che hanno parlato in modo « razionalistico » di allucinazione. In realtà, la menzione esplicita dei personaggi coinvolti (anche con nomi propri, come Giuda che ospita Paolo a Damasco nella sua casa sulla « via Diritta » o come il citato Anania) attesta il realismo di un evento personale che è confermato, come si diceva, anche da una terza testimonianza. Essa è presente in Atti 26, 12-23. Ora l’Apostolo è agli arresti presso il governatore romano Festo nella città di Cesarea Marittima, la residenza degli alti funzionari imperiali in Palestina (si ricordi che qui si svolgerà anche la vicenda del centurione Cornelio, descritta nel capitolo 10). In visita ufficiale in quella città costiera si presenta la coppia principesca di Agrippa II, discendente del re Erode, e di sua sorella Berenice che era anche la sua compagna incestuosa. Ebbene, Paolo davanti a loro in attesa di essere trasferito a Roma per il processo d’appello da lui richiesto come cittadino romano ripete la storia della sua conversione al cristianesimo. La sostanza dell’evento è sempre la stessa, ma appaiono anche alcune variazioni e novità. Così, non entra più in scena Anania; a terra cadono pure i compagni di viaggio e non solo Paolo; curiosamente Cristo cita un proverbio greco, attestato anche dagli scrittori Euripide e Pindaro, che è però detto dalla voce divina in ebraico: «Duro è per te recalcitrare contro il pungolo» (26,14). L’immagine è forte e vivace ed è desunta dal mondo agricolo: il contadino stimola l’animale da soma con un bastone chiodato in punta. Si tratta, quindi, di un modo pittoresco per esaltare il primato della grazia divina nell’esperienza della conversione. Dopo tutto lo stesso Apostolo, scrivendo ai Romani, citava con passione una frase divina presente nel libro di Isaia: «Io – dice il Signore – mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano; ho risposto anche a quelli che non mi invocavano» (10, 20).

Ma le parole di Cristo, in questo racconto, vanno oltre e delineano la futura missione dell’Apostolo, «ministro e testimone», quella di «aprire gli occhi a ebrei e pagani, proprio come era accaduto allo stesso Paolo perché passino dalle tenebre alla luce, dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità » della salvezza (26,18). Sono queste le ultime parole di Cristo presenti nell’intera opera lucana, un mirabile suggello alla storia di un convertito, che per tutta la sua vita e con tutta la sua stessa esistenza ripeterà le prime parole di Gesù citate dai Vangeli: «Convertitevi e credete!» (Marco 1,15).

G. Ravasi: »E voi chi dite che io sia? » : fin dall’infanzia un volto comincia a svelarsi

dal sito:
http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01071997_p-12_it.html

« E VOI, CHI DITE CHE IO SIA? »

FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI

Gianfranco Ravasi

«Il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Queste parole, che raffigurano in modo limpido e immediato ogni esperienza di incontro e di scontro con Cristo, sono di uno scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, Mario Pomilio, che le ha poste all’interno del suo Quinto evangelio. Ebbene, quella domanda affiorata sulle labbra di Gesù a Cesarea di Filippo non attraversa solo i secoli ma riecheggia nell’intimità di ogni persona. E la risposta è data in mille forme, talora sorprendenti, altre volte sconcertanti. A me ha sempre fatto impressione quella che Kafka ha offerto all’amico Gustav Janouch: «Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».

Modesta e marginale, la mia testimonianza – come per quella di altri – può risultare impacciata proprio perché la domanda artiglia la coscienza nel suo segreto e « pesca » in quella profondità dove domina il silenzio personale, l’intimità, forse anche l’inesprimibile. Due considerazioni sono, però, possibili e immediate. Innanzitutto la mia esperienza è quella di un credente e di un sacerdote, cioè di una persona che ha pur sempre coinvolto se stessa, la sua identità, la sua vicenda umana intrecciandola con quella di Gesù Cristo. In questa dimensione l’elemento fondamentale è paradossalmente esterno all’ « io » del testimone. È illuminante in questo senso Paolo quando descrive la sua « via di Damasco » usando due verbi di rivelazione e uno di lotta: «Cristo è apparso anche a me (…) Dio si degnò di rivelarmi suo Figlio (… )Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Corinzi 15,8; Galati 1,16; Filippesi 3,12).

Detto in altri termini, all’inizio dell’incontro con Cristo c’è « un’epifania », cioè non la mia ricerca ma il suo apparire. Per questo un filosofo credente come Soeren Kierkegaard alla data 16 agosto 1839 del suo Diario invocava: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei travisamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini!». Nella mia esperienza interiore c’è proprio questo svelarsi del divino non tanto su una via folgorata dalla voce celeste, come per Paolo, quanto piuttosto in una serie di pacate e delicate « epifanie » che affiorano fin dall’infanzia. E curiosamente esse si insediano in uno spirito che portava con sé – allora in forma intuitiva ed esile – già un senso intenso della fragilità della vita e delle cose, del fluire del tempo e dell’inconsistenza della realtà.

Davanti a un frutto che si decomponeva, al fischio di un treno che lacerava la notte e si spegneva, al primo incontro con la morte, alle sofferenze della guerra, al padre assente perché perseguitato politico, nel mio animo infantile non cresceva la desolazione o la tristezza naturale ma lentamente si configurava quell’ « epifania » inattesa e ancora informe. È stato ancora Paolo a farmi capire in seguito questo contrasto e la sua pacificazione quando, stupendosi lui stesso delle parole di Isaia (« il profeta osa dire ») scriveva questa « confessione » divina: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me!» (Romani 10,20). Prima della risposta alla domanda « Ma voi, chi dite che io sia? », Cristo aveva per me (e per tutti) già detto chi egli realmente fosse.

In principio c’è, dunque, la sua parola che ti scuote e sconcerta. Certo è sempre possibile rivolgere altrove lo sguardo e ostruire l’orecchio con altre voci e suoni e questa è pure una storia mia e un po’ di tutti nell’itinerario degli anni, nei percorsi non sempre lineari della vita. Per questo ritengo altrettanto capitale un’altra domanda di Gesù, quella di Cafarnao. Essa è diventata il titolo di una « vita di Cristo » di un altro scrittore a me particolarmente caro, Luigi Santucci: Volete andarvene anche voi? E’ un interrogativo che viene fatto serpeggiare tra i discepoli proprio dopo una grande « epifania », quella della continua presenza di Cristo sotto il segno del pane e del vino eucaristici. Un interrogativo che non sempre ha la pronta replica di Pietro: «Da chi mai andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!». Tuttavia anche se si va altrove, Cristo non cessa di seguirci, con discrezione o con insistenza. Quando in seguito mi dedicai allo studio teologico, mi fece impressione una frase di Dietrich Bonhoeffer, il teologo ucciso dai nazisti, che nella sua Cristologia annotava: «Cristo non è tale in quanto Cristo-per sé, ma nel suo riferimento a me. Il suo esser-Cristo è il suo esser-per me».

Nella mia storia personale c’è, però, una seconda dimensione che devo mettere in luce ed è quello dell’essere stato un esegeta, cioè uno studioso delle Scritture Sacre e quindi delle parole evangeliche di Cristo. Già da ragazzo – avevo cominciato a studiare il greco da solo subito dopo le scuole elementari – mi avevano affascinato quelle 64327 parole greche che compongono i quattro Vangeli. In seguito quei versetti furono da me sempre più approfonditi; scoprivo nuove iridescenze in ogni termine e lentamente si configurava un profilo di Cristo che coniugava in sé due fisionomie. Da un lato, c’era la figura di Gesù di Nazareth, il rabbì ambulante le cui labbra dicevano cose sorprendenti ma in una lingua « barbarica » e concreta, le cui mani compivano gesti straordinari ma non « pubblicitari », i cui piedi seguivano una meta grandiosa e celeste ma calpestavano le polverose strade della Palestina, i cui interlocutori erano spesso un’accolta di miserabili o di altezzosi burocrati del sacro e della legge e persino dei traditori. Mi ha a lungo interessato – per usare una terminologia più « tecnica » – il Gesù storico, così come è rintracciabile attraverso l’analisi critica dei testi evangelici.

D’altro lato, però, c’è la figura di Cristo, Figlio di Dio, che offre un volto illuminato dallo splendore della Pasqua. I Vangeli sono innanzitutto un canto al risorto che sboccia dall’incontro con lui, dalla fede e dall’annuncio gioioso. Mi sono, perciò, impegnato nel sottolineare, anche attraverso i miei scritti, le conferenze e una quasi decennale presenza televisiva, questo aspetto che in passato era talmente dominante da diventare esclusivo, così da cancellare il volto storico di Cristo, ma che in questi ultimi tempi è stato quasi messo tra parentesi. Prima una certa visione « sociologica », poi una concezione storicistica e apologetica si è protesa a dimostrare il Gesù storico, nella convinzione che solo così si fondasse la vera Cristologia. Ebbene, Gesù Cristo è uno ma in due nature; ogni divisione lo impoverisce e lo allontana. Egli è uno di noi e con noi ma è anche oltre noi e sopra di noi. E’ per usare il vocabolario di Giovanni, Logos, « parola » perfetta e suprema divina, ed è sarx, « carne » e storia. Conservare l’unità di Gesù Cristo, senza scindere la sua persona in un Gesù nazaretano e in un Cristo pasquale è un compito importante di chi annunzia il Vangelo con fedeltà.

Lo studio esegetico, perciò, non è un freddo esercizio filologico (anche se suppone uno scavo nel testo con rigore e finezza). E’ anche un’avventura del nostro spirito che è invitato a rispondere alla domanda di Cesarea da cui siamo partiti. Mi è sempre piaciuta una frase del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: «Ho voluto indagare i contorni di un’isola; ma ciò che ho scoperto sono i confini dell’Oceano». Si comincia conoscendo un linguaggio concreto, una figura datata e circoscritta a quell’antica provincia dell’Impero romano, eventi e dati storici, ma alla fine ci si accorge che quella persona è immersa nell’Oceano della divinità, è appunto « il Cristo, il Figlio del Dio vivente », come rispose in quel giorno Pietro, figlio di Giona.

(Cenni biografici – Gianfranco Ravasi, nato nel 1942, sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di esegesi Biblica alla facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione Biblica. Scrittore prolifico, è autore di numerosissimi libri e di trasmissioni televisive. cura la rubrica « Mattutino » nella prima pagina del quotidiano Avvenire).

ora non più

Mons. Bruno Forte: Omelia per il Natale 2006

Natale, festa del sì di Dio all’uomo,
alla sua vita, al suo futuro

Omelia del Natale 2006

+ Bruno Forte
Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/55/2006-12/31-195/Natale2006mattina.doc

 Natale, festa del Dio che nasce fra noi, facendosi uno di noi, per aprirci un futuro pieno di speranza, è annuncio di una grandissima gioia, la gioia che nasce dal sì di Dio, detto nella tenerezza e nella fragilità di quel Dio Bambino. Un sì che è il sì all’uomo, il sì alla vita e il sì a un futuro luminoso e bello per tutti. « Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio », e quel Figlio dell’uomo è il Figlio di Dio venuto nella nostra carne: ecco il sì di Dio all’uomo, che rivela tutta la dignità del nostro essere uomini e ci mostra quanto ognuno di noi sia importante per Lui. Natale vuol dire che Dio non è stanco degli uomini, che vuole anzi ancora impegnarsi per loro e che ognuno, anche il più piccolo fra gli esseri umani, ha per Lui un valore così grande da non esitare a mandare il Suo unico Figlio ad assumerne le gioie e i dolori, le speranze e le angosce, il presente e il futuro, la vita e la morte. A Natale impariamo da Dio ad essere e a volerci veramente umani: e proprio così impariamo a riconoscere in ogni persona l’immagine di Dio, la creatura che merita l’assoluto rispetto, a prescindere dalle sue qualità o capacità, dalla sua storia o dalla sua cultura. Chiunque sia l’essere umano che abbiamo davanti, giovane o vecchio, adulto o bambino, povero o ricco, sano o ammalato, qualunque sia il suo grado di cultura e la sua provenienza, il colore della sua pelle o la lingua che parla, l’impegno di giustizia e l’amore che gli è dovuto non ammettono eccezioni. Natale ci chiede di servire tutto l’uomo in ogni uomo, la dignità di ciascuno nella giustizia per tutti, il domani di ognuno nella pace per tutti. Il sì alla dignità della persona è allora il no alla guerra e alla sua potenza di distruzione, è il rifiuto della legge della forza perché si riconosca sempre la forza della legge. Natale ci ricorda che non ci sarà pace senza giustizia, senza volontà di dialogo con tutti, senza perdono richiesto e offerto a tutti.
 Il sì di Dio all’uomo si rivela così a Natale anche come il sì alla vita: questo sì alla vita di ogni essere umano, in ogni sua fase e in ogni sua espressione, risuona in questo Natale particolarmente vibrante, di fronte a una cultura della morte che sembra volersi fare strada nelle coscienze. Se Dio ci ha dato la vita, chi ha il diritto di togliercela al di fuori di Lui, che solo sa qual è per ciascuno il bene più grande? Se Lui ha detto sì alla nostra vita facendola sua, chi può arrogarsi il diritto di togliere la vita a sé o ad un altro? La drammatica vicenda di Piergiorgio Welby – l’ammalato di distrofia che ha più volte chiesto di cessare di vivere ed è stato esaudito in questi giorni non dal proprio medico curante, ma da un medico venuto da fuori a sedarlo e a staccare la spina – è stata fin troppo strumentalizzata, facendo di questa morte uno spettacolo che va ben oltre la discrezione dovuta di fronte alla fine di una vita. Ferma restando la « pietas » nei confronti di una sofferenza così grande, va detto con chiarezza che la vita di Welby aveva un valore infinito e lo avrebbe avuto in ogni istante, fino all’ultimo respiro che una morte non indotta gli avesse consentito. Se il Figlio di Dio è nato anche per Welby, se la vita si è fatta visibile in tutto il suo valore nel Bambino divino, chi è l’uomo per arrogarsi il diritto di decidere anche di un solo istante della vita propria o altrui? Chi ha pregato per Welby sa che il no al suo funerale in Chiesa non è stato il no alla pietà, né tanto meno il no alla fiducia nella misericordia divina, ma una forma di rispetto della verità per ricordare a tutti che rifiutare la vita è contro l’identità più profonda di ogni persona umana, quale Dio l’ha voluta. A nessuno è lecito supporre che la Chiesa possa approvare quanto è avvenuto nell’epilogo della vita di Welby: il no detto alle esequie religiose è un sì alla vita, per dare incoraggiamento ai tanti che soffrono come lui, per aiutarli a non staccare la spina, a credere nel valore di ogni istante di vita, anche del più doloroso. Alleviare la sofferenza con ogni mezzo medico, psicologico e spirituale è la sfida che ci viene posta davanti, mentre resta inaccettabile sopprimere la vita che ci è stata data e che non abbiamo alcun diritto di rifiutare, in noi come in ogni altro essere umano.
 Il sì alla vita si offre così a Natale come il sì alla speranza ed alla gioia per tutti: se Dio si è impegnato con gli uomini fino a farsi uno di noi, costruire il futuro dell’uomo vuol dire celebrare la gloria di Dio. Il sì alla vita, è inseparabile da questo sì al domani dell’uomo nel domani di Dio. Il Bambino che nasce è l’inizio di questo nuovo futuro: accoglierlo, è impegnarsi a rendere più bella e più degna la vita di tutti, e a credere che questo sia possibile, nonostante tutto e contro ogni apparenza contraria. La ragione di questo impegno e di questa speranza non è in qualcosa, ma in Qualcuno, in Colui che « ha dato se stesso per noi ». Il domani non è più un orizzonte oscuro: « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse ». Non siamo soli in questa vita, non siamo soli in questo mondo: il Dio che è venuto fra noi, è il Dio con noi, e il Suo amore « ha moltiplicato la gioia, ha aumentato la letizia ». Come i pastori – poveri di tutto, ma liberi da tutto per potersi aprire pienamente alle sorprese dell’Eterno – anche noi siamo invitati ad accogliere il Bambino: al sì di Dio, ci è chiesto di rispondere col sì della nostra libertà, con un sì che sia detto insieme a Lui come sì all’uomo, alla vita e alla speranza, che può trasformare il dolore e vincerà la morte. Chiediamo al Signore del sì la fede e il coraggio necessari per questo nostro sì, pregando con le parole semplici e belle del Corale di Bach che è risuonato in questa Cattedrale proprio in preparazione a questo Natale nella splendida esecuzione dello struggente e insieme dolcissimo Oratorio di Natale del grandissimo Musicista, che ogni nota intese scrivere unicamente « zur Ehre Gottes » – « per la gloria di Dio »:
 
Come potrò accoglierTi,
in che modo incontrarTi,
o anelito di tutto il mondo,
o tesoro dell’anima mia?
Gesù, Gesù, poni
accanto a me la Tua fiaccola,
affinché ciò che Ti dà gioia
sia a me noto, da me riconosciuto.
Oh mio amato, piccolo Gesù,
preparati una culla pura e morbida
per riposare nello scrigno del mio cuore
affinché mai io mi dimentichi di Te!
…O mio Gesù, quando morrò
io so che non andrò perduto,
perché il Tuo nome sta scritto nel mio cuore
ed ha scacciato la paura della morte.
…O Gesù, sii Tu solo il mio desiderio,
o Gesù, siimi sempre nel pensiero,
o Gesù, non permettere che io vacilli!
…Io vengo a Te, Ti porto
quel che Tu mi hai donato,
il mio spirito, i miei sentimenti,
il mio cuore, l’anima mia, il mio coraggio:
accetta tutto
e fa’ che Ti sia gradito!
Amen!

 (da J.S.Bach, Oratorio di Natale, 5. 9. 38. 42.59)

Bruno Forte: Il mistero, la sapienza e l’amore (Ef, 3,2-12) (4.11.2006)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-10679?l=italian

Il mistero, la sapienza e l’amore (Ef, 3,2-12)

04/11/2006

PARMA, sabato, 4 novembre 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’Omelia tenuta il 25 ottobre scorso da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto, nella Cattedrale di Parma per l’inizio dell’anno accademico dell’Università.

* * *
Il mistero, la sapienza, l’amore: sono queste le tre parole con cui vorrei riassumere il messaggio che la Parola di Dio è venuta a scrivere nei nostri cuori attraverso la “lectio continua” delle Scritture nella liturgia, che fa risuonare questi stessi testi oggi in tutte le Chiese del mondo come lettera di Dio al Suo popolo pellegrino nel tempo.

Il mistero ci è stato presentato nel testo della lettera agli Efesini (3, 2-12), che ha appunto come motivo dominante “il mistero di Cristo ora rivelato, che i Gentili cioè sono chiamati  a partecipare alla medesima eredità” del popolo eletto nella prima alleanza. Questo mistero è nella concezione di Paolo il disegno divino che viene realizzandosi nella storia, la gloria al tempo stesso rivelata e nascosta nei segni – tante volte ambigui e complessi – della storia. È il mistero “nascosto da secoli nella mente di Dio”, che ora in Gesù Cristo è stato rivelato per renderci tutti partecipi della medesima promessa, eredi della stessa eredità fra i santi. Secondo questa straordinaria visione del tempo e della storia, la grande scena del mondo, colta tanto nel suo insieme presente, quanto nel suo progressivo svolgersi, è sostenuta e percorsa da un progetto di salvezza, espressione di un’ammirabile intelligenza d’amore.

Non siamo sospesi nel nulla: la vita, la vicenda personale e collettiva, la silenziosa armonia dei cieli, non sono efflorescenze dell’assurdo, interruzioni del nulla, che da esso escono e in esso ritornano, ma frammenti in cui si offre il Tutto di un amore antico, la bellezza di un disegno d’amore, la generosità di un dono eterno e sempre nuovo. Proprio così, il mistero supera ogni nostro tentativo di afferrarlo: esso non è facile preda, oggetto del calcolo o del desiderio, ma grembo e custodia, trama di un più grande disegno, dimora dell’Eterno, patria di Dio. Si comprende allora come la grande legge della conoscenza umana non possa essere l’orgoglioso “cogito, ergo sum”, ma sia il molto più umile e vero “cogitor, ergo sum”: è perché sono pensato da Altri, che io esisto; è perché Altri mi ama, che io sono uscito dal nulla; è perché questo amore è eterno, che il mio, il nostro destino non è il nulla, ma la vita che vince la morte. “Amor, ergo sum”: sono, perché un Altro mi ama, da sempre e per sempre. Si comprende allora come sia vero che “non è la conoscenza che illumina il mistero, ma il mistero che illumina la conoscenza” (Pavel Evdokimov). Veramente noi conosciamo mediante le cose che non conosceremo mai!

È così che la meditazione sul mistero apre la mente e il cuore al dono della sapienza: l’Apostolo, che del mistero rivelato in Cristo è testimone e cantore, riconosce il suo compito nell’urgenza di “di far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, creatore dell’universo, perché sia manifestata ora nel cielo, per mezzo della Chiesa, ai Principati e alle Potestà la multiforme sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore, il quale ci dà il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui”. La sapienza non è che il senso delle cose di Dio, la capacità ricevuta in dono dall’alto di leggere la silenziosa scrittura dell’Eterno che viene a dirsi nella fragilità del tempo, il divenire esperti per grazia della grammatica divina, che cuce parole di vita e d’amore, intessendole nella trama delle opere e dei giorni degli uomini. Vero sapiente non è, dunque, colui che sa, ma chi sapendo di non sapere si lascia illuminare dagli abissi della verità, che risplendono dal profondo: sapienza è contemplazione delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, è accoglienza umile della luce che viene a noi da altrove e che ci schiude i sentieri dell’altrove. Sapienza è conoscenza stupita e amorosa del Logos creatore dell’inizio, che si è manifestata nel Logos incarnato della pienezza del tempo. È grazie a questa sapienza che si lascia cogliere a occhi puri, sgombri da pregiudizi e presunzioni, il disegno del mondo, la bellezza di Dio in esso impressa.

Quanto il riconoscimento di questa struttura sapienziale della realtà sia importante non è difficile capirlo: se le cose stanno così, è possibile a ogni cuore aprirsi alla luce in cui tutti viviamo, dimoriamo e siamo, quella sovrana, luminosa tenebra che è più chiara del giorno per chi in umiltà si lascia raggiungere da essa e vi converte il cuore. È su questa sapienza che è possibile costruire il dialogo fra le civiltà e le religioni, al servizio della causa dell’uomo, che è anche inseparabilmente quella della gloria di Dio. Ce lo ha ricordato in maniera luminosa il Santo Padre Benedetto XVI in diversi importanti discorsi, in modo particolare quelli tenuti a München e a Regensburg in Germania nello scorso Settembre , e quello indirizzato al Convegno della Chiesa Italiana a Verona il 19 di questo mese di Ottobre: “Una caratteristica fondamentale delle scienze – ha affermato il Papa – è l’impiego sistematico degli strumenti della matematica per poter operare con la natura e mettere al nostro servizio le sue immense energie. La matematica come tale è una creazione della nostra intelligenza: la corrispondenza tra le sue strutture e le strutture reali dell’universo – che è il presupposto di tutti i moderni sviluppi scientifici e tecnologici, già espressamente formulato da Galileo Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico – suscita la nostra ammirazione e pone una grande domanda. Implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera intelligente, in modo che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura.

Diventa allora inevitabile chiedersi se non debba esservi un’unica intelligenza originaria, che sia la comune fonte dell’una e dell’altra. Così proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze ci riporta verso il Logos creatore. Viene capovolta la tendenza a dare il primato all’irrazionale, al caso e alla necessità, a ricondurre ad esso anche la nostra intelligenza e la nostra libertà. Su queste basi diventa anche di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze, nel pieno rispetto dei loro metodi propri e della loro reciproca autonomia, ma anche nella consapevolezza dell’intrinseca unità che le tiene insieme. È questo un compito che sta davanti a noi, un’avventura affascinante nella quale merita spendersi, per dare nuovo slancio alla cultura del nostro tempo e per restituire in essa alla fede cristiana piena cittadinanza”. Quanto il “villaggio globale” minacciato dal possibile “scontro delle civiltà” (S. Huntington) abbia bisogno di questi pensieri è facile intuirlo: solo dove ci sarà fiducia nella struttura intelligente del reale e nella capacità degli uomini di coglierla e di corrispondervi insieme, sarà possibile un dialogo fra persone, popoli e civiltà diverse, e si potrà cooperare tutti a rendere più umano il mondo per tutti, secondo il disegno del Creatore e Redentore dell’uomo.

Al dono della sapienza è dunque necessario aprirsi: ma questa apertura accogliente sarà sempre inseparabile dal primato dell’amore. Questo è il compimento della rivelazione, il suggello del dono: Gesù Cristo non ci ha solo rivelato il Logos di Dio, che è Lui stesso, ma ci ha mostrato come questo Logos sia amore, e porti a compimento il suo dono nella consegna dolorosa della Croce, che è dal principio alla fine un abbandono motivato e sostenuto dalla carità. Più grande è la rivelazione del Logos, più grande l’intelligenza che da essa è dilatata e sorretta, più grande dovrà essere l’impegno di amare: ce lo ha ricordato il Vangelo. “Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più” (Luca 12, 48). Non basta conoscere per essere nella verità: la conoscenza è inseparabile dall’amore. Occorre fare la verità amando, per conoscere così tutta la profondità e la bellezza della sua luce. L’intelligenza senza amore è arida e sfocia facilmente in presunzione e violenza. L’amore senza intelligenza rischia di essere cieco e di non generare vita piena e vera.

Occorre pensare e amare, conoscere e servire: è qui il grande compito di ogni uomo e donna chiamato al servizio della verità, specialmente nel campo dell’insegnamento e della ricerca nel mondo dell’Università. Aperti al mistero, nutriti di sapienza, occorre che docenti e studenti siano accomunati dalla responsabilità reciproca nell’amore, coscienti del molto che ad essi è stato dato per aprirsi a dare molto con responsabilità e libertà generosa. Don Lorenzo Milani insegnava ai suoi ragazzi di Barbiana che cultura significa “appartenere alla massa e possedere la parola”, essere cioè solidali con tutti, specialmente i più poveri e i più deboli, e servire la causa del bene di tutti con gli strumenti della propria intelligenza e del proprio sapere, coniugando dunque conoscere e donare. Prego perché tutti nella Vostra comunità accademica sappiate coniugare intelligenza e amore, conoscenza del vero ed umile obbedienza ad esso nella responsabilità verso gli altri. Lo faccio invocando da Colui che è in persona il mistero, la sapienza e l’amore, la luce e la forza di cui tutti abbiamo bisogno per conoscere e per amare:

Signore Gesù Cristo,
immagine radiosa del Padre,
sapienza eterna, carità perfetta,
mistero nascosto dai secoli,
rivelato nella pienezza del tempo,
alleanza che riconcilia Dio con l’uomo
e l’uomo con Dio,
Parola eterna divenuta carne,
e carne divinizzata nell’incontro sponsale,
in Te soltanto abbracceremo Dio.
Tu che Ti sei fatto piccolo
per lasciarTi afferrare dalla sete
della nostra conoscenza e del nostro amore,
donaci di cercarTi con desiderio,
di credere in Te nell’oscurità della fede,
di riconoscerci avvolti nel Tuo amore,
di aspettarTi ancora nell’ardente speranza,
di amarTi nella libertà e nella gioia del cuore.
Fa’ che non ci lasciamo vincere
dalla potenza delle tenebre,
sedurre dallo scintillio di ciò che passa.
Donaci perciò il Tuo Spirito,
che diventi Egli stesso in noi
desiderio e fede, speranza e umile amore,
luce d’intelligenza e forza per servire.
Allora Ti cercheremo, Signore, nella notte,
vigileremo per Te in ogni tempo,
e i giorni della nostra vita mortale
diventeranno come splendida aurora,
in cui Tu verrai, stella chiara del mattino,
per essere finalmente per noi
il Sole, che non conosce tramonto.
Amen. Alleluia!

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