Archive pour la catégorie 'ARCIVESCOVI E VESCOVI – CLERO'

di Bruno Forte: L’uomo di fronte al male (Lettera ai Romani)

dal sito:

http://liberstef.myblog.it/archive/2009/01/28/l-uomo-di-fronte-al-male-di-bruno-forte.html

L’uomo di fronte al male

(dalle prime righe: L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo VII della Lettera ai Romani)

di Bruno Forte

Nella serata di giovedì 29 gennaio al Teatro Argentina di Roma si svolge un colloquio  organizzato dall’Ufficio di pastorale universitaria del Vicariato. Al tavolo dei relatori Pierluigi Celli, direttore generale dell’università Luiss Guido Carli, e l’arcivescovo di Chieti-Vasto. Dell’intervento di quest’ultimo anticipiamo ampi stralci.

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Di fronte al male si misura l’impotenza dell’uomo, la condizione tragica del suo esistere. Tragico è il non poter fare il bene che vorremmo e il non riuscire a impedire il male. L’apostolo Paolo ha descritto con incisività la condizione tragica dell’essere umano sfidato dal male nel capitolo settimo della Lettera ai Romani:  è la condizione dell’ »io », impotente di fronte al bene che non fa e al male che fa. Per Paolo è questa impotenza che il Figlio di Dio ha fatto propria, per la forza di un amore senza misura, grazie al quale il tragico viene a essere accolto negli abissi della divinità. È l’inquietante rivelazione di Romani:  Dio « non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi » (8, 32), costruita sul modello del sacrificio che Abramo si dispone a fare del suo figlio amato, Isacco (Genesi, 22). Abissalmente proiettato in Dio, il tragico è abitato dal suo Spirito, i cui gemiti – descritti in Romani – segnalano la distanza fra il male presente e il promesso bene, fra l’esperienza e l’attesa. Il tragico in Dio diventa così la vera rivelazione di ciò che siamo:  solo grazie a questa rivelazione è possibile percepire in tutta la sua tragicità la contingenza del mondo. Proprio così, però, la redenzione è possibile:  se Dio abita l’impotenza, questa è redenta. Solo l’infinita compassione riscatta la scena di questo mondo che passa, senza indebolirne la contingenza, esaltandola anzi nella sua dignità perché fatta propria dal Redentore.
Un’attenta lettura della Lettera ai Romani dimostra che il messaggio cristiano è tutt’altro che la distruzione del tragico attraverso un moralismo a buon mercato, bensì l’evoluzione del tragico nella condizione stessa di quanti sperimentano la debolezza e la sofferenza, pur essendo stati giustificati per la loro adesione a Cristo. Il tragico cristiano coinvolge non soltanto il Figlio, ma anche Dio che non lo ha risparmiato per noi, e lo Spirito che condivide il nostro gemito e quello di tutta la creazione. Solo un Dio che abita la tragicità porta in essa la buona novella della grazia:  solo il Dio umano, che si carica del peso del male che devasta la terra, può liberarci e liberare il mondo. Il male è stato assunto in Dio, l’unico che così poteva vincerlo. Questo dice la Lettera ai Romani, di così bruciante attualità di fronte al nostro presente e alla sua condizione di naufragio, che non cerca salvatori a buon mercato, ma una prossimità altra e profonda capace di restituire il senso del cammino comune. È Paolo a dirci che in Cristo Dio si è fatto compagno del dolore umano, e proprio così fondamento della speranza possibile:  in questa « follia » il suo messaggio. Nel paradosso di questo « vangelo tragico » sta tutta la sua provocatoria attualità:  è qui che la speranza cristiana si mostra per quello che è, non evasione consolatoria, ma anticipazione militante dell’avvenire entrato in questo mondo nel Figlio, che ha abitato il nostro dolore, il male che ci ferisce e la morte.
Alla condizione « tragica » dell’esistere umano ha dedicato la sua attenzione più alta Fëdor Dostoevskij:  scavando nelle profondità del cuore umano, da vero « psicologo del sottosuolo », egli ne scopre le ambiguità strutturali, l’abisso dei « doppi pensieri ». « Chiunque sia passato per Dostoevskij e abbia sofferto con lui – afferma Nikolaj Berdjaev – ha conosciuto il mistero dello sdoppiamento, ha ottenuto la conoscenza degli opposti, si è armato nella lotta contro il male di una nuova potentissima arma, la conoscenza del male ». E proprio in questo Dostoevskij è cristiano, in quanto unisce in maniera inseparabile, e al tempo stesso carica di eccezionale tensione, il problema di Dio e il problema dell’uomo, che solo nel cristianesimo si sono incontrati fino all’abissale esperienza del Dio crocifisso nelle tenebre del Venerdì Santo:  « Dostoevskij è lo scrittore più cristiano in quanto al centro della sua opera c’è sempre l’uomo, l’amore umano e la rivelazione dell’anima umana. Egli stesso è la rivelazione del cuore dell’essere umano, del cuore di Gesù ».
Pellegrino nei meandri dello spirito, Dostoevskij ne esprime la radicale e costitutiva ambiguità. Attraverso paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua potenza di negazione, egli scopre la tragicità dell’esistenza nel suo essere permanentemente assediata dal nichilismo:  il nulla fascia lo spirito nella sua conoscenza del vero, nella sua volontà del bene, nel suo sentimento del bello. Lungo le vie della conoscenza del vero, la questione del male si presenta come la sfida alla fede in un Dio, che sia la verità eterna e assoluta del mondo. Il ragionamento è stringente, terribile:  se Dio esiste, l’orrore del male che devasta la terra è senza fine. Ma questo orrore è infinito:  dunque, Dio esiste. Al tempo stesso però l’argomento si rovescia nel suo contrario:  se Dio esiste, non può essere ammesso l’orrore di un male infinito. Ma questo orrore c’è:  dunque, Dio non esiste. Dal paradosso non si esce che per una radicale conversione del concetto di Dio:  solo se Dio fa sua la sofferenza infinita del mondo abbandonato al male, solo se egli entra nelle tenebre più fitte della miseria umana, il dolore è redento ed è vinta la morte. Questo è avvenuto sulla Croce del Figlio:  perciò Cristo è la verità, alternativa alle presunte verità che la ragione è capace di costruirsi con le sue dimostrazioni. La « singolarità del Vero », la verità incarnata in un Singolo, identificata con la sua persona, è quanto di più lontano possa esserci rispetto a un pensiero euclideo. È quanto Dostoevskij sceglie, precisamente in alternativa all’esito nichilista della metafisica occidentale:  « Se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo, anziché con la verità ».
La verità che dà ragione di tutto e tutto organizza in un’armonia universale, l’ »apoteosi della conoscenza » di cui parla Ivan Karamazov, non vale il suo prezzo:  al Dio di questa verità lo stesso Ivan non esita a restituire il biglietto d’ingresso nel suo regno. Solo la verità che è passata attraverso il fuoco della negazione e si è lasciata lambire dal nulla, solo quella verità salverà il mondo:  è la risposta di Alësa a Ivan. « Fratello (…) tu mi hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c’è, e lui può perdonare tutto, tutti, e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tutti e per tutto ». Solo dal suo interno, insomma, il nichilismo si lascia confutare:  dalle tenebre del Venerdì Santo, dove Dio soffre e muore per amore del mondo, è possibile proclamare la vittoria della vita, perché quella morte è la morte della morte. Il Dio che è morto non è che la verità concepita metafisicamente come ragione e fondamento del mondo, garante di questa totalità, tutta pervasa dall’orrore dell’infinita sofferenza umana. Sta qui appunto la tragicità ineliminabile dalla conoscenza del vero:  non si arriva alla luce che attraverso la croce; non si entra nella vita che conoscendo la morte. Perciò la fede deve passare nel travaglio del dubbio, l’affermazione nella notte della negazione, e la verità farsi strada nello scandalo e nelle tenebre più fitte, dove ci aspetta il Dio vivo. Anche per questo « è terribile cadere nelle mani del Dio vivente » (Ebrei, 10, 31).
La tragicità dell’esistenza umana si affaccia non di meno sul piano etico:  la dignità del patire – che pure appare fra le forme più alte di purificazione e di accesso al bene – si rivela anch’essa ambigua all’uomo del sottosuolo! Egli non esita a smascherare le torbide delizie e l’equivocità della volontà, che si accompagnano tanto spesso alla sofferenza:  « Il godimento proveniva dalla troppo chiara coscienza che avevo della mia bassezza (…) non c’era scampo, non potevo diventare un altro uomo:  che se anche fossero rimasti ancora tempo e fede per trasformarmi in qualche cosa di diverso, io non avrei potuto mutarmi ». Ma è appunto in questa affermazione tragica di sé, nutrita dei godimenti più ardenti della disperazione, che il nulla s’affaccia:  « Noi siamo nati morti, e già da molto nasciamo da padri che non sono vivi; e ciò ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto ».
Ed è qui che la volontà di vivere impone un rovesciamento morale, un atto coraggioso, che si esprime in un’etica della decisione. L’alternativa è fra l’abbandonarsi al nulla e il reagire. Ma essa può porsi soltanto a chi ha toccato il fondo disperante del nichilismo:  è lì che l’espiazione diventa possibile, precisamente per chi si pone davanti al Dio entrato nell’abisso, come compagno del dolore umano e insieme supremo e misericordioso giudice del peccato del mondo. Solo chi accetta di fare compagnia alla sofferenza di Dio di fronte al male per amore del mondo, può sperare di vincere il male.
È infine sulla via del sentimento, che anela alla gioia e alla bellezza, che si sperimenta la tragicità dell’esistenza umana e possibilità di una via di uscita:  pochi, come Dostoevskij, hanno percepito la rilevanza del piano estetico in ordine alla redenzione del mondo. È al principe Myskin – il protagonista de L’idiota, enigmatica figura dell’innocente che soffre per amore del mondo – che il giovane nichilista Ippolit pone la domanda:  « È vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? ». E il giovane – condannato a morte dalla tisi – si sente in diritto di aggiungere:  « Quale bellezza salverà il mondo? ». Lo spettacolo della sofferenza è tale che nessuna redenzione può essere cercata nella direzione di un’armonica conciliazione, che salti sullo scandalo del dolore del mondo. Ecco perché la bellezza deve essere altra rispetto a tutti i sogni e i desideri possibili di armonia:  senza passare attraverso la sua negazione – che è lo scandaloso spettacolo del male che copre la terra – nessuna bellezza potrà salvarsi e salvare. Ed ecco che è proprio l’avvicinarsi della fine che rivela la bellezza nascosta:  il tempo rimanda all’eternità proprio perché passa con tanta, inesorabile fugacità. Solo la morte conferisce all’attimo la profondità di una totalità e di un’eternità raggiunte:  solo se ci si approssima al nulla del morire si percepisce la meraviglia del tempo, la gioia della vita. Anche la bellezza si offre allora nel segno dell’ambiguità, sulla frontiera fra l’essere e il nulla, carica di un’aura tragica:  « La bellezza – dice Dmitrij Karamazov – è una cosa terribile e paurosa, perché è indefinibile, e definirla non si può, perché Dio non ci ha dato che enigmi. Qui le due rive si uniscono, qui tutte le contraddizioni coesistono (…) La cosa paurosa è che la bellezza non solo è terribile, ma è anche un mistero. È qui che Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini ». Solo alla fine la bellezza si manifesterà vittoriosa:  « Quando sarà passato il presente e sarà venuto il futuro, allora il futuro artista troverà forme bellissime anche per la rappresentazione del trascorso disordine e caos ». Nel presente resta aperto verso la bellezza l’approccio della conversione del cuore, del « dono delle lacrime », di cui parla lo starec Zosima:  « La natura è bella e innocente, solo noi siamo empi e sciocchi, e non vediamo che la vita è un paradiso! Perché basterebbe che noi volessimo capire, e subito avremmo il paradiso in tutta la sua bellezza, e allora ci abbracceremmo piangendo ».
Il piano del vero si congiunge così a quello del bene, e questo alla ricerca della bellezza. Se è la decisione di fede che apre alla singolarità del vero, rivelata nel Dio crocifisso, la via della verità si incontra con quella della decisione morale; e se è la conversione del cuore che apre al riconoscimento della bellezza che salva, la via estetica si congiunge a quella etica. La rilevanza della dimensione morale emerge in primo piano:  in realtà è proprio in essa che si gioca più intensamente il conflitto fra nichilismo e redenzione. Ed è qui che si rivela il livello più profondo della tragicità dell’esistenza umana, quello che maggiormente è in gioco nell’eticità dell’atto:  il livello della libertà. In questo senso, la Leggenda del grande inquisitore è il grande apologo dell’eterno conflitto che rende tragica la vita umana:  il conflitto fra l’audacia della libertà e la tentazione rassicurante della rinuncia a essa. Il cardinale inquisitore di cui narra la Leggenda è la figura di chi ha sacrificato la libertà alla felicità; il Cristo, che gli sta davanti come imputato, è invece il paladino della libertà a prezzo anche della felicità. Il conflitto fra i due è insanabile:  essi rappresentano l’alternativa radicale che si annida nel cuore di ogni uomo. Fra le due opzioni non c’è via di mezzo, soluzione conciliatoria:  l’aut aut è senza remissione, totale. Ecco perché è in ultima analisi nel mistero del Dio crocifisso che la profonda tragicità dell’esistenza umana è rivelata e redenta:  se Dio ha fatto sua la morte, pagando fino in fondo il prezzo della libertà, la via della croce resterà per sempre su questa terra la via della libertà. E, proprio perché l’amaro calice è stato bevuto fino all’ultima goccia dal Figlio eterno, sarà questa anche la via che porterà alla vita.
Della tragicità dell’esistenza sfidata dal male è consapevole anche un genio speculativo come Immanuel Kant. Nel rigore della sua onestà intellettuale egli non esita a riconoscere le aporie della ragione:  idee, ad esempio, come quelle di Dio e della vita futura, non suscettibili di dimostrazione per via speculativa, costituiscono per lui presupposti inseparabili degli obblighi morali che la ragione ci impone. Ciò che viene a mostrarsi nell’opera sulla religione entro i limiti della semplice ragione è però tutt’altro che la constatazione pacifica del limite della ragione, quanto piuttosto il quadro di una lotta, il disegno di quelle che potrebbero definirsi le « agonie della ragione » lungo il cammino della libertà:  « La lotta che in questa vita ogni uomo moralmente predisposto al bene deve sostenere, sotto la guida del principio buono, contro gli assalti del principio cattivo, non può procurargli, per quanto si sforzi, un vantaggio maggiore della liberazione dal dominio del principio cattivo. Il guadagno più alto che egli può raggiungere è quello di diventare libero, « di essere liberato dalla schiavitù del peccato per vivere nella giustizia » (Romani, 6, 17). Nondimeno, l’uomo resta pur sempre esposto agli attacchi del principio cattivo, e per conservare la propria libertà, costantemente minacciata, è necessario che egli resti sempre armato e pronto alla lotta ».
In questo quadro, « quello che meraviglia non è che il filosofo prenda in generale in seria considerazione il male (…) bensì il fatto che egli parli di un principio malvagio, e dunque di una origine del male nella ragione e in questo senso di un male radicale ». « Radicale » è tale male « perché corrompe il fondamento di tutte le massime e a un tempo perché, essendo una tendenza naturale, non può essere sradicato da forze umane ». Il fondamento del male radicale è presentato da Kant come in qualche modo intrecciato con l’umanità stessa e, per così dire, radicato in essa. Al tempo stesso Kant muove dalla considerazione che non può darsi male morale senza libertà:  il fondamento del male, allora, « dev’essere necessariamente un atto di libertà ». Ciò che emerge è una vera e propria aporia:  come può la libertà essere al tempo stesso la fonte della moralità e il luogo e principio della sua negazione? È giocoforza cercare la causa altrove, fuori del soggetto. Lo ammette lo stesso Kant:  « Risulta facile capire come dei filosofi, poco inclini ad ammettere un principio esplicativo eternamente avvolto nell’oscurità (ma indispensabile), abbiano potuto misconoscere il vero avversario del bene, pur credendo di combatterlo ».
Quest’avversario  il  pensatore  di Königsberg non esita a chiamarlo Spirito maligno (böser Geist), ricorrendo per descriverlo alle parole dell’apostolo Paolo lì dove egli presenta la condizione umana come lotta contro i principati e le potestà. A presentare il principe di questo mondo, il Satana, quale coprotagonista del dramma del male, è dunque il razionalissimo Kant. Lontano da ogni spirito illuministico accecato, il filosofo descrive con rara efficacia la tragicità della condizione umana facendo ricorso a Paolo:  « La fragilità della natura umana ha trovato espressione anche nel lamento dell’apostolo:  « Io ho senz’altro la volontà, ma mi manca l’esecuzione » (cfr. Romani, 7, 18); vale a dire:  io accolgo il bene (la legge) nella massima del mio arbitrio, ma questo bene – che oggettivamente, nell’idea (in thesi), è un movente invincibile – soggettivamente (in hypothesi), quando la massima dev’essere applicata, è invece il movente più debole (nei confronti dell’inclinazione) ». Le sorprese, però, non finiscono qui:  l’alterità irriducibile e inspiegabile che si affaccia nel volto conturbante del male radicale, proprio a partire da questa esperienza si affaccia anche in un altro volto, quello della grazia del Dio onnipotente e misericordioso. La domanda che porta Kant a riconoscere quest’altra forma dell’esperienza dell’Altro è l’antica domanda della salvezza, che nasce dalla conoscenza del male:  come essere liberati dal principio maligno?
La risposta del filosofo si muove all’interno della tradizione teologica cristiana:  « Se in virtù di quel bene che è nella fede siamo esonerati da ogni responsabilità, ciò avviene sempre e soltanto per un decreto di grazia pienamente conforme alla giustizia eterna ». La formulazione che Kant dà all’idea della giustificazione per fede giunge a identificarsi alla lettera con quella della più pura ortodossia luterana:  « Certo, si tratterà pur sempre di una giustizia che non è la nostra ». Non mancano, però, passi in cui la sintonia con la teologia cattolica della giustificazione sembra evidente:  « La ragione non ci lascia del tutto senza consolazione. Essa ci dice infatti che l’uomo che, animato da una sincera intenzione verso il dovere, fa tutto il possibile per adempiere ai propri obblighi (…) può lecitamente sperare che quanto non è in suo potere verrà in qualche modo completato dalla saggezza suprema ». Lo stesso Barth, riscontrando l’ambivalenza delle posizioni, conclude che Kant risulta più vicino all’anima cattolica, che a quella protestante del cristianesimo.
Al di là dell’interesse teologico che queste tesi comportano, ciò che le rende significative è che esse fanno proprio dell’etica senza trascendenza di Kant la testimonianza dell’impossibilità di una simile etica:  mai si affronterà il male e lo si potrà superare senza la presenza dell’Altro, trascendente e sovrano! Negli abissi della stessa forma « a priori » della moralità – il mondo dell’arbitrio libero e della legge morale – è innegabile la presenza conturbante di un’alterità negativa, cui Kant riconosce la dignità di « princi ». Proprio l’esperienza e il riconoscimento di questo « male radicale » appellano a un più grande bene, che non può esser frutto solo della carne e del sangue, ma viene da altrove. Le kantiane « agonie della ragione » sono così una sorta di prova sub contraria specie della necessità ineliminabile della trascendenza per la vittoria sul male in questo mondo. Il « razionalista puro » in campo etico-religioso riconosce nelle « agonie della ragione » le sorprendenti, ineliminabili e inquietanti « tracce dell’Altro ». Dal male solo Dio ci può salvare:  non un qualunque Dio, ma quello che ha abitato nella nostra condizione tragica, e l’ha fatta sua, per vincerla al posto nostro e per noi. Il Dio della carità infinita:  il Dio di Gesù Cristo.

(L’Osservatore Romano – 29 gennaio 2009)

Gianfrnco Ravasi: Siamo del Signore (il pensiero dell’Apostolo su alcuni temi fondamentali)

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/vita/0906vp/0906vp70.htm

SIAMO DEL SIGNORE

di monsignor GIANFRANCO RAVASI
    
 
Oggi, come nel passato, siamo circondati dalle più diverse devozioni e « vie spirituali ». Difficili i riferimenti a Paolo. L’asse portante dell’epistolario, della sua teologia e della relativa spiritualità è la cristologia. 

A conclusione dell’Anno paolino riassumiamo nel dossier il pensiero dell’Apostolo su alcuni temi fondamentali.  

Nella mente di molti cristiani la figura di san Paolo è inesorabilmente inchiodata allo stereotipo del teologo rigoroso e gelido, teorico della nuova religione fondata da Gesù con ben altra intensità. È, questa, un’idea che ha attraversato il pensiero anche di qualche studioso, come l’ottocentesco francese Ernest Renan che, nel suo Saint Paul (1869), non esitava a scrivere che «il vero cristianesimo, destinato a durare eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo che, in verità, sono piuttosto uno scoglio e la causa dei principali difetti della teologia cristiana». E continuava elencando i danni perpetrati dall’Apostolo, divenuto «il padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista». Proprio il contrario di quel Gesù che è «il padre di tutti coloro che cercano il riposo delle loro anime». Su questa scia anche il nostro Antonio Gramsci non avrà imbarazzo a classificare Paolo come «il Lenin del cristianesimo»!

In realtà, una lettura più accurata delle sue lettere, accompagnata dalla testimonianza della sua attività missionaria lasciataci dal discepolo Luca negli Atti degli Apostoli, smentisce questo ritratto svelando il volto di un pastore consapevole della necessità di fondare seriamente la conoscenza della fede. Se, allora, il suo epistolario rivela un intreccio tra annunzio e vita ecclesiale (si legga, ad esempio, la prima lettera ai Corinzi con la sua puntigliosa descrizione dei problemi che tormentano quella comunità e con le relative proposte pastorali dell’Apostolo), è però altrettanto vero che la riflessione teologica è vigorosa ed esigente (e in questo senso emblematica è la lettera ai Romani, il suo capolavoro di pensiero). Aveva, quindi, ragione Albert Schweitzer, il celebre filantropo e teologo, quando affermava che «san Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce. Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero. Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo!».

Analisi del pensiero paolino

Schweitzer curiosamente scriveva queste righe in un’opera del 1930 intitolata Die Mystik des Apostels Paulus: sì, la riflessione non è un percorso intellettuale indipendente rispetto alla spiritualità, ma con essa vigorosamente s’intreccia. È a questo punto legittima una domanda: qual è, allora, il nodo d’oro ove le due dimensioni del credere, quella fiduciale e la razionale s’incrociano? Le risposte date dagli esegeti paolini sono molteplici e le vorremmo ora elencare, non per mera erudizione, ma perché ci permettono di scoprire la complessa ricchezza della visione teologica e spirituale dell’Apostolo.

Così, a partire da Lutero, alcuni hanno visto il cuore della concezione paolina nella giustificazione attraverso la fede, un tema certo capitale in alcune Lettere (R. Bultmann, E. Käsemann, H. Hübner). Altri, invece, come il citato Schweitzer, colgono nell’unione mistica con Cristo (spesso affidata alla preposizione greca syn, « con », variamente unita ai verbi salvifici) il punto focale dell’annunzio paolino (così W. Wrede ed E. P. Sanders).

E la croce di Cristo, segno supremo della nostra redenzione? È proprio questa componente, esaltata in molte pagine paoline, la via scelta da altri studiosi per rispondere al nostro quesito (U. Wilckens, J. Becker). Per stare alla celebre espressione dell’inno incastonato nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi, è là che si consuma la kénosis del Verbo: il Figlio di Dio si « svuota », si « umilia », precipitando nell’abisso della mortalità, scegliendo la crocifissione, la morte più infamante della civiltà antica. Eppure, è proprio da quella croce che ha inizio l’ »esaltazione » pasquale del Risorto che rinnova e domina l’intera creazione.

Lungo questa direzione totalizzante, altri esegeti sono partiti per proporre una diversa concezione della prospettiva fondamentale del pensiero paolino. L’Apostolo è consapevole che la signoria di Cristo abolisce ogni frontiera ed è qui il cuore del messaggio che Paolo annunzia: la costante apertura verso orizzonti universalistici che conducono la Chiesa ad essere testimone fino agli estremi confini del mondo (così K. Stendahl, F. Watson, J. D. Dunn).

Infine, nella complessa analisi del pensiero paolino c’è chi ha visto come fattore decisivo e struttura unificante la cristologia: tra costoro sono da segnalare due figure rilevanti dell’esegesi cattolica del ’900, L. Cerfaux e R. Schnackenburg. Il Vangelo di san Paolo è, anche a nostro avviso, incentrato sul Cristo crocifisso e risorto, umiliato e glorioso, sorgente della nostra salvezza e principio della stessa redenzione cosmica. Si pensi – sia pure soltanto a livello statistico – che delle 535 presenze del nome di Gesù Cristo nel Nuovo Testamento almeno 400 sono accaparrate dall’epistolario paolino.

Frasi come «per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21) o «nessuna creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù» (Rm 8,39) ne sono la formulazione tematica essenziale, consapevole com’è l’Apostolo che all’origine della sua vocazione, sulla via di Damasco, c’è quell’essere stato « ghermito », cioè afferrato da Cristo (Fil 3,12), così come la sua intera esistenza è stata «posseduta dall’amore di Cristo» (2Cor 5,14). Ed è per questo che egli deve dedicare tutta la sua vita ad annunziarlo al mondo: «Predicare per me il Vangelo non è un vanto, ma una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16).

Miniatura medievale per l’Anno paolino in Francia (foto Censi).

Cristo e l’evento pasquale

Certo, tutte queste traiettorie e altre indicate dagli studiosi hanno un loro significato rilevante per definire l’anima della spiritualità paolina. Non si può ignorare, ad esempio, il peso che ha il nesso tra il dono liberatorio della charis (grazia) divina e la risposta libera della pistis (fede) per l’antropologia teologica dell’Apostolo. Ma il vincolo che annoda la mistica, il paradosso della croce, l’annunzio evangelico, la stessa ecclesiologia («il corpo di Cristo che è la Chiesa», Col 1,24), e persino l’escatologia («Cristo in voi, speranza della gloria», Col 1,27), oltre naturalmente alla soteriologia («raggiungere la salvezza che è in Cristo Gesù», 2Tm 2,10) è sempre e solo Cristo e l’evento pasquale. Egli è la svolta radicale per l’esistenza del credente. Basti solo pensare all’interpretazione del battesimo cristiano offerta in Romani 6,3-6 e basata su uno stretto parallelismo tra la vicenda pasquale di Gesù e l’esperienza del cristiano.

Da un lato, c’è il sepolcro di pietra in cui è calato il corpo morto del Crocifisso. D’altro lato, ecco il sepolcro d’acqua in cui penetra « l’uomo vecchio », cioè il nostro « corpo del peccato », votato alla morte. Il sepolcro di Cristo, all’alba di Pasqua, viene scoperchiato e il Risorto sfolgora nella luce della Pasqua, immerso nella « gloria del Padre ». Similmente dal sepolcro del fonte battesimale esce la creatura umana redenta, ossia l’ »uomo nuovo », libero dalla sindone mortuaria del peccato e pronto a « camminare in una vita nuova ». Cristo, però, agli occhi di san Paolo, è anche alla radice della nuova creazione: il creato, infatti, è proteso «nella speranza di essere liberato dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21), così che «Cristo sia tutto in tutti» (Col 3,11).

Scrive uno dei nostri maggiori studiosi dell’Apostolo, Romano Penna: «Paolo ritiene che Cristo Signore sia l’iniziatore di una nuova stagione della storia e di una nuova identità antropologica dalle ricadute universalistiche, non paragonabile a un re come Davide o a un profeta come Isaia e neppure a un grande legislatore come Mosè, bensì soltanto a chi è anteriore a tutti costoro e non è appartenente al popolo storico di Israele, cioè ad Adamo, progenitore dell’intera umanità (cf 1Cor 15,21-22.45-47; Rm 5,12-21)».

L’asse portante dell’intero epistolario paolino, della sua teologia e della relativa spiritualità è, quindi, la cristologia e questa impostazione è una lezione vigorosa e necessaria anche per i nostri tempi nei quali si corre il rischio di inseguire percorsi religiosi più evanescenti.

A suggello, ci sembrano emblematici due motti paolini. Il primo pone il suo marchio sull’esistenza storica del cristiano: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). L’altro, invece, si apre anche all’oltrevita: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Infatti per questo Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,8-9).

monsignor Gianfranco Ravasi
presidente del Pontificio consiglio della cultura)

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Bibliografia
Bernard Ch. A., San Paolo mistico e apostolo, San Paolo 2000, Cinisello Balsamo; Cerfaux L., Cristo nella teologia di san Paolo, Ave 1969, Roma; Idem, L’itinerario spirituale di san Paolo, Gribaudi 1976, Torino; Dunn J. D. G., La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia 1999, Brescia; Vanni U., « La spiritualità di Paolo », in Fabris R. ed., La spiritualità del Nuovo Testamento, Borla 1985, Roma, pp. 177-228.   

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi GMG 2008 (3 catechesi, Gal; 1Cor; Atti)

dal sito:

http://www.gmg2008.it/gmg2008/allegati/212/Catechesi%20Mons.%20Forte%20Sydney%202008.doc

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi GMG 2008

Mercoledì 16 luglio:

Chiamati a vivere nello Spirito Santo
«Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5, 25)

In questa prima catechesi, si tratta di rispondere alla domanda: chi è lo Spirito Santo? L’obiettivo è di aiutare i giovani a scoprire la bellezza della loro vocazione di battezzati e della vita cristiana, che consiste nell’accogliere lo Spirito Santo e lasciarsi guidare da lui. I giovani possono seguire Cristo solo se lo incontrano personalmente, da qui l’importanza di approfondire il rapporto tra Cristo e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è la Persona della Santa Trinità che ci permette di incontrare e conoscere Cristo. Cristo si rende presente nella nostra vita mediante lo Spirito Santo.

 L’intera esistenza cristiana può essere considerata l’“Amen” pronunciato con la vita alla duplice confessione di fede nel Dio trinitario, quella espressa nel segno di Croce, memoria del battesimo, e quella veicolata dal rendere gloria alle Tre persone, riassumendo così l’intero orientamento dell’esistenza e della storia alla Trinità e la vocazione ultima di ogni battezzato: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo…”. Proprio per questo risulta ancor più dolorosa la costatazione di una sorta di “esilio della Trinità” dalla prassi e dal pensiero dei cristiani: già Karl Rahner aveva osservato che “se si dovesse sopprimere, come falsa, la dottrina della Trinità, pur dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata”, e, quel che è peggio, la vita dei credenti non cambierebbe gran che! Negli ultimi decenni la teologia e il vissuto spirituale hanno operato un vero e proprio “ritorno alla patria trinitaria”. Muovendo dall’evento pasquale si è contemplata la Trinità nel suo comunicarsi a noi nella storia della salvezza, fino a riconoscere nella Croce la “narrazione” della Trinità, e nella confessione di fede trinitaria il “concetto” custodito nell’evento dell’abbandono di Gesù in Croce.

 1. La Croce rivelazione della Trinità

 Questo messaggio è espresso dalla tradizione iconografica dell’Occidente allorché la Trinità è rappresentata mediante l’immagine del legno della Croce, dal quale pende il Figlio, abbandonato nell’infinito dolore e nella suprema solitudine della morte, tenuto fra le braccia dal Padre, mentre la colomba dello Spirito unisce e separa l’Abbandonante e l’Abbandonato. Questa scena, di cui la Trinità di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze rappresenta forse la testimonianza più alta, lascia trasparire come la Croce non sia soltanto un evento della storia di questo mondo. Il Crocefisso muore fra le braccia di Dio. La sua morte non è l’atea “morte di Dio”, ma è la “morte in Dio”: la Trinità divina, cioè, è profondamente raggiunta nel suo mistero di Padre, di Figlio e di Spirito, dall’evento che si compie nel silenzio del Venerdì Santo. La fede cristiana non professa un Dio impassibile, spettatore del dolore umano dall’alto della Sua infinita lontananza, ma un Dio “compassionato”, come diceva l’italiano del Trecento, un Dio cioè che, avendo amato la Sua creatura accettandone il rischio della libertà, l’ha amata sino alla fine. È questo amore “sino alla fine” (Gv 13,1) a motivare il dolore infinito della Croce!
 Sulla Croce si offre anzitutto il Figlio di Dio, come dicevano i Concili della Chiesa antica: “Uno della Trinità ha sofferto”, “Unus de Trinitate passus est”! “Deus crucifixus”, “il Dio crocifisso”, affermava Agostino riferendosi a Gesù in Croce. Che cosa significano queste formule paradossali? che vuol dire che sulla Croce la morte tocca il Figlio di Dio? È Paolo a spiegarlo nella Lettera ai Galati: “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (2,20). La Croce è la rivelazione dell’amore, per il quale il Figlio si è consegnato alla morte per noi. Il Figlio di Dio non è stato “a passeggio” fra gli uomini: Egli è diventato il compagno del nostro dolore, ha condiviso la nostra fatica di vivere, le nostre stanchezze, il pianto dell’amore. “Guardate come l’amava” (Gv 11,36), dicono di Lui, vedendolo piangere di fronte alla morte dell’amico Lazzaro. Egli è morto sulla Croce per amore nostro. La Croce è storia del Figlio eterno che soffrendo ci ha rivelato il Suo infinito amore: è dalla Croce che il Figlio pronuncia con l’eloquenza silenziosa del dono la parola riportata dai mistici: “Non per scherzo ti ho amato” (Angela da Foligno). Se gli uomini pensassero veramente a quelle parole “li amò sino alla fine”, quante resistenze e paure cadrebbero davanti all’Amore, che si è fatto umile, crocefisso, abbandonato nell’infinito dolore della Croce!
 La Croce, certo, non è solo la storia del Figlio: questi viene consegnato alla morte da Dio, Suo Padre. È Lui che tiene fra le braccia il legno della vergogna, l’albero dell’abbandono. È ancora Paolo ad affermarlo nella Lettera ai Romani: “Dio non ha risparmiato suo Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi” (8,32). E Giovanni dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare per noi il Suo Figlio Unigenito” (3,16). Dio non è impassibile: Egli soffre per amore nostro. È il Dio che Giovanni Paolo II nell’Enciclica Dominum et vivificantem mostra come Padre capace di infinito amore, proprio perché capace di infinito dolore: “Il ‘convincere del peccato’ non dovrà significare anche il rivelare il dolore, inconcepibile ed inesprimibile, che, a causa del peccato, il Libro sacro… sembra intravvedere nelle ‘profondità di Dio’ e, in un certo senso, nel cuore stesso dell’ineffabile Trinità?… Nelle ‘profondità di Dio’ c’è un amore di Padre che, dinanzi al peccato dell’uomo, secondo il linguaggio biblico, reagisce fino al punto di dire: ‘Sono pentito di aver fatto l’uomo’… Si ha così un paradossale mistero d’amore: in Cristo soffre un Dio rifiutato dalla propria creatura… ma, nello stesso tempo, dal profondo di questa sofferenza lo Spirito trae una nuova misura del dono fatto all’uomo e alla creazione fin dall’inizio. Nel profondo del mistero della Croce agisce l’amore” (nn. 39 e 41).
 Se questo è vero, possiamo essere certi che nessuno è un numero davanti a Dio Padre: Egli ci conosce uno ad uno, e ci ama di un amore eterno, infinito, e soffre per il nostro peccato di una sofferenza, della cui profondità non riusciamo neanche ad intravedere l’abisso. Dio è Amore: è così che ce lo presenta la Prima lettera di Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8). Come Giovanni arrivi a dire che Dio, il Padre, è Amore, lo spiegano i versetti che seguono: “In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,9-10). Ecco la rivelazione dell’infinito Amore: Dio soffre per amore nostro; Dio si compromette col dolore umano e non ci lascia soli nella notte del dolore. “Il Padre stesso non è senza dolore!… Soffre attraverso l’amore” (Origene).
 Anche lo Spirito è presente nell’ora della Croce in un modo misterioso e reale. Dice il quarto Vangelo che Gesù “chinato il capo, consegnò lo Spirito” (19,30). Che cosa significhi questa consegna dello Spirito nel silenzio del Venerdì Santo può essere compreso alla luce dello sfondo vetero-testamentario del Nuovo Testamento. Nei testi dell’attesa c’è un’equazione chiara: quando Israele va in esilio, Dio ritira il Suo Spirito dal popolo eletto; l’esilio equivale all’assenza dello Spirito. Quando Israele tornerà nella terra della promessa di Dio, che è la sua patria, Dio effonderà il Suo Spirito su ogni carne e tutti profeteranno. È l’annuncio delle profezie dello Spirito, che vengono a realizzarsi nel giorno della Pentecoste  (ad esempio Ez 36,26-27 o Gl 3,1-2). Se l’esilio è la dolorosa assenza dello Spirito, la Patria è la nuova effusione di Lui, è la gioia della vita del Consolatore che entra nel nostro cuore e, togliendoci il cuore di pietra, ci dona il cuore di carne. Quando Gesù consegna lo Spirito, Lui, il Figlio di Dio, entra nell’esilio dei “senza Dio”, dei “maledetti da Dio”. Dice Paolo: “Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2  Cor 5,21); “Cristo è diventato maledizione per noi” (Gal 3,13). La Patria è entrata nell’esilio: questa è la buona novella della Croce! Ormai, non ci sarà più situazione umana di dolore, di miseria e di morte, in cui la creatura umana possa sentirsi abbandonata da Dio. Se il Padre ha tenuto fra le Sue braccia l’Abbandonato del Venerdì Santo, terrà fra le Sue braccia tutti noi, qualunque sia la storia di peccato, di dolore e di morte dalla quale noi proveniamo. A chiunque avverta il peso del dolore e della morte, il Vangelo della Croce, “follia” per i Greci e “scandalo” per i Giudei, dice che non è solo. “Ti ho amato di amore eterno” (Ger 31,3). “Ti ho preso fra le mie braccia” (cf. Sal 131,2). “Ti ho disegnato sul palmo delle mie mani” (Is 49,16): e se anche una madre si dimenticasse del suo bambino, “io non mi dimenticherò di Te” (cf. Is 49,15).
 
 2. La Trinità del Dio Amore

 La Croce è dunque la buona novella, il Vangelo dell’amore di Dio: è ai piedi della Croce che noi scopriamo che Dio è Amore! Questo è il Vangelo della nostra salvezza: noi abbiamo creduto all’amore. Noi non crediamo solo che Dio esiste: per credere in questo, basta contemplare in profondità il mistero del mondo! Noi crediamo in un Dio personale, in un Dio che è amore e ci ama di un amore sempre nuovo e personalizzato, di un amore spinto fino all’infinito dolore della Croce. È questo il Dio della Croce: il Dio della carità senza fine… È però la resurrezione a illuminare la Croce di eternità, per dirci che la storia che in essa si è consumata non si è chiusa nel passato, ma continuerà a scriversi in tutte le storie del dolore del mondo, che vorranno aprirsi al dono della vita, accogliendo lo Spirito consegnato da Gesù nell’ora della Croce e a Lui restituito nell’ora di Pasqua. Questo Spirito è ormai donato al Risorto (cf. Rom 1,4) e da Lui a noi come Spirito di resurrezione e di vita. Perciò Pasqua è la buona novella del mondo, il fondamento della speranza, che non delude. Nel dono della riconciliazione compiuta a Pasqua lo Spirito è guadagnato per noi: e noi possiamo ormai entrare nel cuore divino della Trinità e il mondo intero è chiamato a divenire la Patria di Dio, quando il Figlio consegnerà ogni cosa al Padre e Dio sarà “tutto in tutti” (1 Cor 15,28)!
 Tre sono dunque le figure dell’Amore eterno, che agiscono nell’ora della Croce e nell’ora di Pasqua, tre divine Persone – come le indicherà la teologia, sia pur balbettando. Esse vanno contemplate nella proprietà specifica di ciascuna, avendo sempre presente che uno e unico è il Dio amore, la Trinità una nell’unica essenza della divinità. Questo Dio, uno e unico, secondo la testimonianza del Nuovo Testamento è amore: per il cristiano credere in Dio significa confessare con le labbra e col cuore che Dio è Amore. Questo vuol dire riconoscere che Dio non è solitudine: per amare bisogna essere almeno in due, in un rapporto così ricco e profondo da essere aperto anche a quanto è altro rispetto ai due. Dio Amore è comunione dei Tre, l’Amante, l’Amato e l’Amore ricevuto e donato, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Credere in questo eterno Amore significa credere che Dio è Uno in Tre Persone, in una comunione così perfetta, che i Tre sono veramente Uno nell’amore, ed insieme secondo relazioni così reali, sussistenti nell’unica essenza divina, che essi sono veramente Tre nel dare e ricevere amore, nell’incontrarsi e nell’aprirsi all’amore: “In verità vedi la Trinità, se vedi l’amo­re” (Agostino, De Trinitate, 8, 8, 12). “Ecco sono tre: l’Amante, l’Amato e l’Amore” (ib., 8, 10, 14).
  Il primo dei Tre, il Padre, è – come afferma la prima lettera di Giovanni – il Dio che è “Amore” (1 Gv 4,8.16). È Lui che ha iniziato da sempre ad amare ed ha consegnato Suo Figlio alla morte per amore nostro: “non ha risparmiato suo Figlio” (Rm 8,32). Il Padre è l’eterna Sorgente dell’Amore, è Colui che inizia da sempre ad amare, il principio senza principio della carità eterna, la gratuità dell’amore senza fine: “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli; Dio ci rende buoni e belli perché ci ama” (San Bernardo). Dio Padre è l’Amore che non finirà mai, la gratuità eterna dell’Amore. È Lui che inizia in noi quello che noi non saremmo mai capaci di iniziare da soli. È così che Dio ci ha reso capaci di amare: ci ha amato per primo e non si stancherà mai di amarci. Amati cominciamo ad amare: “Gli uomini nuovi cantano il cantico nuovo” (Agostino). Il Padre è l’eterno Amante, che da sempre ha iniziato ad amare e che suscita in noi la storia dell’amore, contagiandoci la Sua gratuità.
 Se il Padre è l’eterno Amante, il Figlio è l’eterno Amato, Colui che da sempre si è lasciato amare. Il Figlio ci fa capire che non è divino solo l’amore: è divino anche il lasciarsi amare, il ricevere l’amore. Non è divina solo la gratuità: è divina anche la gratitudine. Dio sa dire grazie! Il Figlio, l’Amato, è l’accoglienza eterna, è Colui che da sempre dice sì all’Amore, l’obbedienza vivente dell’Amore. Lo Spirito rende in noi presente il Figlio ogni volta che sappiamo dire grazie, che cioè sappiamo accogliere l’amore altrui. Non basta cominciare ad amare: occorre lasciarsi amare, essere umili di fronte all’amore altrui, fare spazio alla vita, accogliere l’altro. È così che diveniamo icona del Figlio: nell’accoglienza dell’amore. Dove non si accoglie l’altro, soprattutto il diverso, non si accoglie Dio, non si è immagine del Figlio eterno.
  Infine, nel rapporto fra l’Amante e l’Amato si pone lo Spirito Santo. Nella contemplazione del mistero della Terza Persona divina esistono due grandi tradizioni teologiche, quella dell’Oriente e quella dell’Occidente. Nella tradizione occidentale – da Agostino in poi – lo Spirito è contemplato come il vincolo dell’Amore eterno, che unisce l’Amante e l’Amato. Lo Spirito è la pace, l’unità, la comunione, il “noi” dell’Amore divino. Perciò, quando lo Spirito entra in noi ci unisce in noi stessi, riconciliandoci con Dio, e ci unisce agli altri. Lo Spirito dona il linguaggio della comunione, fa tessere patti di pace, rende capaci di unità, perché fra l’Amante e l’Amato è il loro amore personale, il vincolo della carità eterna, donato dall’Uno e ricevuto dall’Altro. Accanto a questa tradizione c’è quella dell’Oriente, dove il Paraclito è chiamato “estasi di Dio”: secondo questa concezione lo Spirito è Colui che spezza il cerchio dell’Amore, e viene a realizzare in Dio la verità che “amare non significa stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa meta” (A. de Saint-Exupéry).
 Così lo Spirito opera in Dio: Egli non solo unisce l’Amante e l’Amato, ma fa “uscire” Dio da sé, in quanto è il dono divino, l’”estasi”, lo “star fuori” di Dio, l’esodo senza ritorno dell’Amore. Ogni volta che Dio esce da sé lo fa nello Spirito: così è nella creazione (“Lo Spirito si librava sulle acque…”: Gen 1,2); così nella profezia; così nell’Incarnazione (“la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra”: Lc 1,35); così nella Chiesa, su cui si effonde lo Spirito a Pentecoste (cf. At 2,1-13). Lo Spirito è dunque la libertà dell’amore divino, l’esodo e il dono dell’Amore. Quando ci saremo lasciati raggiungere e trasformare dallo Spirito, non potremo più restare a guardarci negli occhi: avremo il bisogno di uscire e di portare agli altri il dono dell’amore con cui siamo stati amati. Solo dove c’è questa urgenza dell’amore, brucia il fuoco dello Spirito: un credente o una comunità che avesse accolto il dono dello Spirito, ma che non vivesse questa estasi dell’amore, questo bisogno incontenibile di portare agli altri il dono di Dio nella testimonianza della parola e nel servizio della carità, non avrebbe realizzato la pienezza dell’amore, non sarebbe pienamente la Chiesa “icona della Trinità”…
  L’unità del Dio vivo non è un freddo dato, ma il reciproco totale inabitarsi delle tre Persone nella carità. È l’unità dell’eterno evento dell’amore, di cui siamo resi partecipi nel dono della rivelazione. È il Loro eterno, reciproco darsi, per cui ciascuno ritrova se stesso “perdendosi” nell’Altro. Un’unità, che è “pericoresi”, per usare il linguaggio dei Padri greci, reciproco stare l’uno nell’altro, reciproco muoversi da sé all’altro, dall’altro restituiti a sé. E questo a un livello così profondo, che l’“essenza” dei Tre, ciò che essi sono nel più profondo, non è che l’unico essere divino. Che cosa possa voler dire alla nostra vita questa contemplazione dell’Amore trinitario si comprende ai piedi della Croce, nella luce di Pasqua. Se la carità nasce da Dio, se è Lui che ci ha amato per primo, occorre sapere che s’impara ad amare soltanto lasciandosi amare, facendo spazio alla vita, ascoltando in profondo il dono di Dio, vivendo la lode dell’Altro. La dimensione contemplativa della vita è quella che anzitutto corrisponde al dono della Trinità, ed è perciò la vera scuola della carità. È questa la via che risplende nella credente esemplare, la Vergine Maria, che si è fatta silenzio, in cui è risuonata la Parola di Dio nel tempo, ed è stata il grembo in cui ha preso corpo la Luce, che illumina ogni essere umano: avvolta da Dio Trinità, è stata il terreno d’avvento della Trinità nella storia. L’amore viene da Dio, e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. In chi ama con questo amore si offre l’anticipo dell’eternità nel tempo. E l’orizzonte del Mistero ultimo che ci accoglierà alla fine si rivela per quello che sarà pienamente allora: l’abbraccio del Dio Trinità, la custodia silenziosa e raccolta del Dio, che è Amore…

Vieni, Spirito Santo!
Vincolo dell’amore eterno
vieni ad unirci nella pace:
rinnovaci nell’intimo,
fa’ di noi i testimoni dell’unità
che viene dall’alto.
Tu che sei l’estasi del Dio vivente,
dono perfetto dell’Amante e dell’Amato
nel loro amore creatore e redentore,
vieni ad aprirci alle sorprese dell’Eterno,
anticipando in noi, poveri e pellegrini,
la gloria della patria, intravista nella speranza della fede,
ma non ancora posseduta nella gioia piena del Regno.
Padre dei poveri, ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo,
Sii in noi la libertà e la pace,
la novità e il vincolo dell’amore
che vince l’ultimo silenzio della morte
e fa sempre di nuovo sprigionare la vita. Amen! Alleluia!

Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi
Giovedì 17 luglio:
Lo Spirito Santo, anima della Chiesa
«E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor 12, 13)

In questa seconda catechesi, l’obiettivo è di aiutare i giovani a scoprire la Chiesa, Corpo di Cristo, organismo vivo, animato e arricchito dai molteplici doni e carismi dello Spirito Santo. Oggi molti giovani sono attratti da Cristo e dal messaggio del Vangelo, ma stentano a riconoscere che Egli è presente nella Chiesa e agisce attraverso di essa: da qui l’importanza di approfondire il loro rapporto con la Chiesa, Corpo di Cristo e mistero di comunione. Sarà opportuno in particolare spiegare ai giovani la necessità di ricevere i sacramenti dell’iniziazione cristiana e incoraggiarli a viverli pienamente, insistendo soprattutto sulla Confermazione, conferita in vista della testimonianza.

  La confessione della fede cristiana, sin dai tempi più antichi, parla della Chiesa come «communio sanctorum», «comunione dei santi». L’espressione si trova nel Simbolo, detto degli Apostoli, alla fine del secolo IV, subito dopo la menzione della «santa Chiesa», e fa parte della sezione del Credo dedicata alla Terza Persona divina: vi risuona l’eco dell’idea di “koinonìa” dello Spirito Santo, di cui parla il Nuovo Testamento (cf. 2 Cor 13,13). Il primo livello di significato della formula, dunque, è quello, implicito ma fondamentale, che la riferisce all’opera del Consolatore: la «communio sanctorum» è anzitutto «communio Sancti», comunione al Santo, che santifica i suoi. La santità può essere attribuita alla «communio», perché lo Spirito, santo e santificatore, santifica la Chiesa, unificandola nella comunione. Il termine «sanctorum», poi, rimanda ad altri due livelli di significato: intendendo il genitivo come neutro, e perciò riferito alle realtà sante (i «sancta»), l’espressione viene ad indicare la partecipazione ai beni e ai mezzi della salvezza, e quindi ai sacramenti, specialmente al battesimo, alla confermazione ed all’eucaristia. Qualora invece si dia al genitivo «sanctorum» il significato personale, la formula rinvia ai «santi», alle donne e agli uomini santificati dallo Spirito e alla loro comunione nel tempo e per l’eternità. I tre significati di «communio sanctorum» sono tra loro in un rapporto profondo ed inscindibile: è lo  Spirito Santo che attraverso i santi doni edifica la «comunione dei santi». La Chiesa è santa, perché è la comunione di quanti sono santificati dallo Spirito attraverso la partecipazione ai santi doni, da Lui stesso vivificati, per la resurrezione della carne e la vita eterna.

1. La comunione dello Spirito santificante

  Secondo il primo livello di significato, la formula «communio sanctorum» rimanda al fatto che è lo Spirito Santo a santificare la Chiesa, facendone la «comunione dei santi»: perciò essa può venir chiamata Tempio santo, in cui lo Spirito dimora e agisce (cf. Ef 2,21; 2 Cor 6,16; 1 Cor 3,16s.). Come è sceso sul Verbo incarnato, ungendolo e facendone l’Unto, così lo Spirito scende sui singoli battezzati e sulla Chiesa, rivestendola della santa unzione: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1,21). Perciò, «la Chiesa si può chiamare la continuazione dell’unzione di Cristo per mezzo dello Spirito Santo» (Heribert Mühlen). Grazie a questa unzione i cristiani formano una sola cosa, una sola «mystica persona»: «Cristo e le sue membra sono un’unica persona mistica, per cui le opere del Capo sono in qualche modo quelle delle membra» (S. Tommaso, De Veritate q. 29 a. 7 ad 11um). È l’idea paolina della Chiesa Corpo di Cristo, resa tale grazie all’opera dello Spirito Santo, che la arricchisce di doni diversi e la unifica nella comunione e nel servizio: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore… Tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor 12,4s. 11-13).
  La Persona divina dello Spirito, dunque, riempiendo i cuori delle persone umane, che formano la Chiesa, le santifica e le costituisce nell’unità del Cristo, misticamente prolungato nel tempo. La santità della Chiesa, la partecipazione cioè alla grazia dello Spirito Santo, è il fondamento della sua esistenza e della sua comunione, ciò per cui la Chiesa è nella storia il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio santo: «Noi crediamo che la Chiesa è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato “il solo santo”, ha amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per lei, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25s.), e l’ha unita a sé come suo corpo e l’ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio» (Lumen Gentium 39). Come l’Incarnazione è il mistero dell’unica Persona divina nelle due nature, umana e divina, così la Chiesa è il mistero dell’unica natura umana, santificata dallo Spirito Santo, nella molteplicità delle persone, unite all’unico Signore, Cristo, in modo da costituire in Lui per la grazia del Suo Spirito una Persona in molte persone. Unificati dallo Spirito, i credenti partecipano della sua santità, sono «separati» da Lui e in Lui per Dio, e in questa partecipazione comunicano fra di loro e con Cristo, realizzando la comunione ecclesiale.
  L’idea della Chiesa, santificata e unificata nello Spirito fino a divenire una sola persona mistica, trova un corrispondente biblico significativo nell’immagine della Chiesa Sposa. Paolo scrive ai Corinzi: «Vi ho promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2 Cor 11,2). Nella tradizione paolina il rapporto sponsale fra Cristo e la Chiesa è chiarito nel senso che è Lui a santificarla nel suo amore: «Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,25-27). Questo lavacro purificatore, che fa della Chiesa la Sposa bella del Signore, è opera dello Spirito Santo: «Dio ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,5-7). Così lo Spirito, santificando la Chiesa, la unisce a Cristo come Sposa allo Sposo, realizzando in lei l’alleanza nuziale mediante la sua partecipazione al mistero pasquale del Signore, fino a che giungano a pieno compimento le promesse di Dio e si celebrino le nozze escatologiche dell’Agnello, quando la Sposa sarà pronta (cf. Ap 19,6-8) e la Gerusalemme celeste scenderà dall’alto, «come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2). Intanto, nel canto di invocazione e di lode della Chiesa santa, ininterrottamente «lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!» (Ap 22,17).

2. La comunione ai santi doni

  La «communio Sancti» fa la Chiesa al tempo stesso ontologicamente santa, santificata da Lui e in Lui, ed esistenzialmente pellegrina verso il pieno compimento del dono di santità in essa posta. «Divenire ciò che è» sarà il compito della Chiesa nel tempo, in cammino verso la Patria. In modo particolare, la santificazione, che lo Spirito produce nel cuore dei fedeli e nella comunione ecclesiale, va compiendosi nella storia attraverso le parole e i gesti, in cui Egli comunica la sua grazia secondo la promessa del Signore. Queste sorgenti della santità della Chiesa, questi luoghi dell’incontro con Dio nel tempo, sono i sacramenti. Nella celebrazione sacramentale l’invocazione dello Spirito Santo sui doni da santificare (epiclesi) li trasforma, rendendoli santi e santificanti nella potenza di Colui, che li pervade. Perciò, la «communio sanctorum» è anche, in senso proprio, «communio sacramentorum», comunione ai mezzi e ai doni della salvezza data da Dio in Cristo, attuata in essi dallo Spirito Santo. Nei sacramenti lo Spirito raduna la Chiesa nella concretezza delle diverse situazioni storiche e fonda la nuova prassi della comunità redenta: ripresentando il mistero pasquale di Cristo, unica, vera sorgente di riconciliazione per gli uomini, il Paraclito suscita esistenze riconciliate e raccoglie il popolo dei credenti nell’unità e nella pace, donate dal Signore.
  La santità della Chiesa trova, perciò, la sua fonte e il suo culmine nella celebrazione liturgica dei sacramenti: alle sorgenti della liturgia il cristiano attinge la grazia della sequela Christi, per la quale dimora nella Trinità e ne esprime la vita di comunione, edificandosi in comunione con gli altri credenti come popolo di Dio nella storia, segno e strumento dell’unità dell’intero genere umano. Ed è ancora nell’evento liturgico che la grazia del futuro promesso si fa presente nel tempo come anticipo e caparra di eternità: in tal senso la liturgia, nella tensione fra il dono già ricevuto e sperimentato e la promessa non ancora compiuta, rivela come la santità nella Chiesa non sia altro che un anticipo della gloria nel tempo del pellegrinaggio, e la gloria nient’altro che la santità nel compimento della patria. «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11,26; cf. Lc 22,18). «La grazia è la gloria nel tempo dell’esilio; e la gloria è la grazia nel tempo della patria» (John Henry Newman).
  La convinzione che il popolo di Dio attinga ai sacramenti l’unione con Cristo, che lo costituisce come Chiesa santa nello Spirito, è stata espressa dai Padri con l’immagine della nascita della Chiesa dal costato trafitto di Cristo in Croce (cf. Gv 19,34): nel sangue e nell’acqua che ne escono, sono stati visti i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia, che generano e nutrono la Chiesa. Questo sgorgare ricorda, però, anche l’altro dono, promesso dal Cristo giovanneo, dell’acqua viva che viene da Lui nel cuore dei credenti: e quest’acqua è lo Spirito, effuso particolarmente nel sacramento della confermazione. «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» (Gv 7,39). Alla luce della ricchissima interpretazione patristica di questi testi, si può dire allora che lo Spirito è la sintesi di tutti i beni della redenzione messianica, che scaturiscono dal corpo di Cristo, ossia dalla sua morte in croce e dalla sua “glorificazione”. E poiché questa è resa presente dal Paraclito nei sacramenti, sono questi la sorgente concreta dell’acqua viva, il sangue e l’acqua in cui è possibile nascere dall’alto e di nuovo alla santità, a cui i discepoli sono chiamati.
 Al tempo stesso i sacramenti rendono i credenti sorgente di grazia e di vita per gli altri, «santi» contagiosi di «santità»: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (Gv 7,38). La certezza, che attraverso la comunione ai sacramenti la Chiesa generi essa stessa figli per Dio, divenendo sorgente di vita nello Spirito, è testimoniata nella teologia dei Padri dalla bellissima immagine della «Mater Ecclesia»: essa esprime l’idea di una Chiesa che si realizza continuamente nel dono di sé, nello scambio e nella comunicazione dello Spirito dall’uno all’altro dei credenti, ambiente generatore di fede e di santità nella comunione fraterna, nell’unanimità orante, nella partecipazione solidale alla Croce, nella testimonianza comune, vera anticipazione della Gerusalemme celeste, «nostra madre» (Gal 4,26). La Chiesa-Madre nella concezione protopatristica è il concetto centrale di tutto l’anelito cristiano: la generazione alla vita santa, che lo Spirito compie nella celebrazione ecclesiale dei sacramenti, rivela la Chiesa come «madre sempre in atto di generare». La forma di questa mediazione ecclesiale della salvezza è vista nel coinvolgimento di tutti i credenti, perché tutti i figli della Chiesa diventano a loro volta Chiesa Madre verso coloro che nascono alla salvezza, in particolare coloro che hanno ricevuto il dono del ministero e agiscono perciò come ripresentazione di Cristo ed espressione della paternità di Dio. L’esperienza della generosità materna della comunità spiega anche l’amore, che a loro volta i credenti nutrono per chi li ha generati alla vita dello Spirito: la lode dell’amore alla Chiesa risuona costantemente nel mondo dei Padri. I grandi della storia della Chiesa vivono di questo amore per la Madre Chiesa: «La Chiesa, l’amata, noi tutti la vogliamo amare. Noi rimaniamo incrollabilmente fedeli ad essa come ad una madre, che è così amorevole, così premurosa e benigna. Affinché con lei e per mezzo suo possiamo meritare di essere di casa presso Dio, Padre nostro» (Quodvultdeus di Cartagine, Predica Sulla professione di fede per gli aspiranti al battesimo, III,12. 13: PL 16,1200).

3. La comunione dei «santi»

  Quelli che lo Spirito ha raggiunto e reso partecipi della vita divina attraverso gli eventi sacramentali sono i «santi»: il termine è comune nel Nuovo Testamento per designare i credenti (cf. ad esempio Rm 12,13; 15,26. 31; 1 Cor 1,2; 6,1s.; Fil 1,1; 4,21s.; Col 1,2 e 4; Ef 4,12; At 9,13. 32. 41; 26,10. 18; Ap 13,7). La Chiesa, radunata dallo Spirito, è perciò detta a ragione la «comunione dei santi», delle donne e degli uomini, cioè, che fanno parte della “koinonìa” dello Spirito Santo. Questa comunione è attuata già nel presente, ma tende al suo compimento finale: «Fino a che il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui (cf. Mt 25,31) e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose (cf. 1 Cor 15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno purificandosi, altri infine godono della gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, qual è; tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria» (Lumen Gentium 49).
  La «communio sanctorum» è la comunione dei discepoli del Signore, nella varietà dei carismi e dei servizi in essi suscitata dallo Spirito, e nella loro convergenza in vista della crescita comune: è la comunione della vita teologale e della corresponsabilità ecclesiale, vissuta nella reciproca accoglienza e solidarietà e nella sollecitudine verso i poveri. Per essere effettivamente vissuta, questa comunione richiede che da parte di ciascuno e di tutti siano detti tre “no” e tre “sì”. Il primo “no” è al disimpegno, cui nessuno ha diritto, perché ognuno è dotato di doni da vivere nel servizio e nella comunione: a questo “no” deve corrispondere il “sì” alla corresponsabilità, per cui ognuno si faccia carico per la propria parte del bene comune da realizzare secondo il disegno di Dio. Il secondo “no” è alla divisione, che parimenti nessuno può sentirsi autorizzato a provocare, perché i carismi vengono dall’unico Signore e sono orientati alla costruzione dell’unico Corpo, che è la Chiesa (cf. 1Cor 12,4-7): il “sì” che ad esso corrisponde è quello al dialogo fraterno, rispettoso della diversità e volto alla costante ricerca della volontà del Signore. Il terzo “no” è alla stasi e alla nostalgia del passato, cui nessuno può acconsentire, perché lo Spirito è sempre vivo ed operante nello svolgersi dei tempi: ad esso deve corrispondere il “sì” alla continua, necessaria purificazione e riforma, per la quale ognuno possa corrispondere sempre più fedelmente alla chiamata di Dio, e la Chiesa tutta possa celebrarne pienamente la gloria. Attraverso questo triplice “no” e questo triplice “sì”, in maniera dunque dinamica e mai del tutto compiuta, la Chiesa si presenta come riflesso luminoso ed irradiante della bellezza di Dio, casa e scuola di quella comunione, rispettosa delle diversità, che è veramente buona novella per tanti uomini e donne prigionieri della solitudine e dell’incapacità di amare.
 Dall’esperienza viva della comunione, suscitata e alimentata dallo Spirito Santo, scaturisce la tensione missionaria nella Chiesa: la Chiesa comunione, pellegrina verso la “patria” di Dio tutto in tutti sotto il soffio dello Spirito, è la Chiesa in stato di missione. Nello Spirito, per Cristo essa va verso il Padre: nella tensione verso questa meta, la Chiesa si riconosce inviata ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni della storia fino a che egli torni, annunciando a tutti la buona novella e mostrando con la sua comunione di fede, di speranza e di amore la bellezza di Dio. Ne consegue che la tensione missionaria deve caratterizzare tutto l’essere e l’agire del popolo di Dio: nella forza dello Spirito, la Chiesa è missione! Evangelizzata e in continua conversione, la Chiesa vive in stato permanente di missione verso i vicini e alla ricerca dei lontani, impegnata in prima linea sul fronte dell’evangelizzazione e della catechesi, dell’educazione e del dialogo con la cultura, della solidarietà con i più deboli, col solo scopo di accompagnare la vita di Dio nel cuore di ogni persona umana.
 Per realizzare adeguatamente la sua missione, la Chiesa “comunione dei santi” dovrà essere, però, libera: libera nel riconoscimento dei propri limiti davanti al suo Signore e non di meno libera nel relativizzare le grandezze di questo mondo. Assumendo le speranze umane, essa dovrà verificarle al vaglio della morte e resurrezione di Gesù, che da una parte sostiene ogni impegno autentico di liberazione dell’uomo, dall’altra contesta ogni assolutizzazione di mete terrene. Sta qui l’ispirazione profonda della presenza cristiana nei differenti contesti culturali, politici e sociali: in nome della sua “riserva escatologica”, che è la sua speranza più grande, la Chiesa non può identificarsi con alcuna ideologia, con alcuna forza partitica, con alcun sistema. Essa deve essere coscienza critica, richiamo del giudizio di Dio, stimolo affinché in tutto si tenda a sviluppare tutto l’uomo in ogni uomo, nella grande casa del mondo, che va salvaguardata e amata. La “patria” , che fa stranieri e pellegrini in questo mondo, non è il sogno che aliena dal reale, ma la forza stimolante e critica dell’impegno per la giustizia e per la pace nell’oggi del mondo. Al tempo stesso, la Chiesa dovrà annunciare a tutti la speranza di cui vive, fondata sulla rivelazione delle promesse di Dio, e dovrà farlo nella consapevolezza che è questo il dono d’amore più grande da offrire specialmente alle nuove generazioni. Lo aveva già compreso il Concilio Vaticano II, che afferma: “Legittimamente si può pensare che il futuro della umanità sia riposto nelle mani di coloro che saranno capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (Gaudium et Spes 31).
 Il richiamo della patria promessa insegna così alla comunione ecclesiale a relativizzarsi: essa sa di non essere un assoluto, ma uno strumento, non un fine, ma un mezzo, povera e serva. Ogni presunzione di essere arrivati va rifiutata: la Chiesa è chiamata a continua purificazione e ad incessante rinnovamento, inappagata ed inappagabile da qualsiasi conquista umana. Nata ai piedi della Croce e pellegrina in questo lungo Venerdì Santo che è la storia dell’uomo, la Chiesa dello Spirito di Cristo non dovrà mai scambiare le pallide luci di qualche onore terreno con la luce sfolgorante che le è stata promessa nella vittoria di Pasqua. Proprio così, essa testimonierà che la sua patria è nei cieli e che la speranza che la anima può dare senso e bellezza alla vita di tutti. Lo sguardo alla meta promessa riempie la Chiesa comunione di grandissima gioia: essa esulta già nella speranza, che la promessa ha acceso in lei. Essa sa di essere l’anticipazione militante di quanto è stato promesso nella Resurrezione del Crocifisso. Non c’è sconfitta, non c’è vittoria della morte, che possa spegnere nella comunità dei credenti la speranza: l’ultima parola è garantita nella vicenda di Pasqua come parola di gioia, di grazia, di vita che vince la morte. Anche nelle prove del presente, perfino nelle più dure, la Chiesa sa che Cristo è vivo e operante al suo fianco. È Lui la fonte, inesauribile e vittoriosa, della gioia della Chiesa dello Spirito Santo. Verso Cristo, lo Sposo, unita allo Spirito, essa sospira: “Vieni!”. A lei Egli risponde: “Sì, vengo presto” (Ap 22,17.20).

Dio, Trinità Santa,
da Te viene la Chiesa, popolo pellegrino nel tempo,
chiamato a celebrare senza fine la lode della Tua gloria.
In Te vive la Chiesa, icona dell’amore trinitario,
comunione nel dialogo e nel servizio della carità.
Verso di Te tende la Chiesa,
segno e strumento della Tua opera
di riconciliazione e di pace nella storia del mondo.
Donaci di amare questa Chiesa come nostra Madre,
e di volerla con tutta la passione del nostro cuore
Sposa bella del Cristo, senza macchia né ruga,
una, santa, cattolica e apostolica,
partecipe e trasparente nel tempo degli uomini
della vita dell’eterno Amore.
E fa’ che, sempre di nuovo contagiati dal dono dello Spirito,
possiamo incessantemente edificare la Tua Chiesa,
comunione nell’unico Santo,
nutrita dalle realtà sante della Parola e dei sacramenti della vita,
per donarci gli uni agli altri nella vivente comunione di santi,
umile icona nel tempo dell’eterna pace della Gloria.
Amen! Alleluia!


Mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto – Catechesi
Venerdì 18 luglio:
 Inviati nel mondo: lo Spirito Santo, protagonista della missione
«Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni» (At 1, 8)

In questa terza catechesi, l’obiettivo è di aiutare i giovani a  prendere coscienza che nella vocazione cristiana non si può mai separare la chiamata alla santità dalla chiamata alla missione (cfr. Redemptoris Missio, 90) e che lo Spirito Santo ci dà la forza e l’audacia di essere testimoni di Cristo nel mondo. Sarà opportuno spiegare perché la missione è una necessità che si impone a ogni cristiano (cfr. 1 Cor 9,16), sottolineando che essa non è un’azione volontaristica o una “parola d’ordine”. È infatti importante mostrare che l’evangelizzazione è una profusione dello Spirito, un traboccare dal cuore (cfr. Redemptoris Missio, 26), e che la fecondità di ogni azione missionaria nella Chiesa è innanzitutto frutto dello Spirito Santo, vero “protagonista” della missione.

 L’origine dalla Trinità rende la Chiesa costitutivamente missionaria: l’Ecclesia de Trinitate è la Chiesa in stato di missione. In quanto scaturisce dalle missioni del Figlio e dello Spirito, la Chiesa è la loro attualizzazione nel tempo, al tempo stesso “kenosi” e “splendore” dell’amore trinitario nella storia (cf. Concilio Vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad Gentes, nn. 2. 3. 4). Come nella Trinità così – per una non debole analogia – anche nella Chiesa la missione è l’espressione del dinamismo più profondo della comunione, l’irradiazione della sovrabbondanza dell’amore, e si realizza nella storia anzitutto come “kènosi” della gloria divina. La Trinità mette le sue tende nel tempo attraverso la Chiesa con tutto il peso dei limiti che a questa derivano dalla sua dimensione storica e mondana. Di questa “kènosi”, che storicizza la missione divina facendone la missione della Chiesa, artefice principale è lo Spirito: «Lo Spirito Santo – scrive Vladimir Lossky – si comunica alle persone, segnando ogni membro della Chiesa con il suggello di un rapporto personale ed unico con la Trinità, divenendo presente in ogni persona. Come? Qui permane un mistero: il mistero dell’esinanizione, della “kènosi” dello Spirito Santo veniente nel mondo. Se nella “kènosi” del Figlio la persona ci è apparsa mentre la divinità rimaneva nascosta sotto “le sembianze del servo”, lo Spirito Santo, nel suo avvento, manifesta la natura comune della Trinità, ma lascia che la sua persona sia dissimulata sotto la divinità. Rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono ch’Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone» (La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Bologna 1967, 160s).
 
 1. La missione come “kénosi” dello Spirito nel tempo

 Sotto l’azione dello Spirito la tensione missionaria costitutiva dell’essere ecclesiale ha assunto forme diverse, sviluppatesi anche in rapporto alle diverse situazioni storiche del cristianesimo: è possibile individuare alcuni modelli fondamentali, in cui si è compiuta nella storia la “kénosi” delle missioni divine nella missione della Chiesa. Il primo si produce nel tempo della Chiesa dei martiri: l’urgenza dominante è quella di portare dovunque il fermento del Vangelo e l’attività missionaria della Chiesa è intesa soprattutto come missione in atto, come animazione, cioè, che si realizza dappertutto grazie alla forza espansiva della presenza dei cristiani vivificati dallo Spirito. Questo comportamento è ispirato al principio giovanneo dell’essere nel mondo ma non del mondo (cf. Gv 17,11. 14) ed è descritto con efficacia dalla Lettera a Diogneto (II sec.): «Ciò che è l’anima nel corpo, lo sono i cristiani nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo, i cristiani lo sono nelle città della terra. L’anima, pur abitando nel corpo, non è del corpo; i cristiani, pur abitando nel mondo, non sono del mondo. L’anima invisibile è custodita nel corpo visibile; i cristiani sono noti al mondo, ma resta invisibile la loro adorazione di Dio…» (Ad Diognetum VI,1-7: Funk I, 318s). La fecondità della missione scaturisce dunque dalla sovrabbondanza dell’esistenza trasformata dallo Spirito, vissuta nei luoghi e negli ambienti più diversi per una spontanea irradiazione del dono di Dio, che viene a pervadere la società in cui si è immersi.
 Col delinearsi della situazione di cristianità, caratterizzata dall’osmosi fra la Chiesa e l’Impero, la coscienza missionaria tende a indebolirsi e il modello della missione in atto cede sempre più il posto a quello della missione compiuta: la tensione si sposta dall’esterno all’interno della comunità, perché sembra che la buona novella abbia ormai raggiunto l’intero spazio del cosmo conosciuto e debba perciò essere proclamata e celebrata soprattutto a favore della vita spirituale e liturgica dei cristiani. In tal modo, la specifica operosità missionaria della comunità passa dal centro al margine dell’autocoscienza ecclesiale: l’impegno dell’evangelizzazione ne risulta impoverito e la concezione della Chiesa non è per nulla determinata dal suo dinamismo missionario. La sua principale attività non è la missione né l’evangelizzazione, bensì quella che si chiama l’attività pastorale: la “missio ad intra” diventa la forma ordinaria della vita ecclesiale, la “missio ad extra” quella straordinaria ed eccezionale. Col tramonto del Medio Evo la scoperta di nuovi mondi totalmente da evangelizzare e il profilarsi del confronto dialettico fra la Chiesa e la modernità provocano una profonda modifica nei modelli dominanti, cui si ispira la missione.
 Si delinea la straordinaria stagione della missione “ad gentes”: i nuovi mondi da evangelizzare costituiscono un richiamo troppo forte alla coscienza credente per poter essere eluso. La fioritura missionaria, che ne consegue, porterà la Chiesa non solo ad espandersi nelle terre del nuovo mondo, ma anche a conoscere in se stessa una vigorosa ripresa dell’anelito alla missione. Vissuta con una prodigiosa ricchezza di mobilitazione di uomini e mezzi e con una non meno straordinaria fecondità di frutti, nonostante tutti i limiti e le contaminazioni con l’opera colonizzatrice delle potenze imperialiste, la missione “ad gentes” è stata concepita anzitutto come predicazione del Vangelo per chiamare alla fede i non cristiani e offrire così loro la salvezza eterna, e quindi anche come costituzione della struttura ecclesiale presso tutti i popoli (la cosiddetta “plantatio Ecclesiae”), in modo da offrire a tutti, in maniera efficace ed accessibile nel proprio mondo culturale, il luogo e i mezzi della salvezza. La missione “ad gentes” viene così ad implicare una forte coscienza della necessità della Chiesa per la salvezza e, ancor più radicalmente, presuppone una precisa affermazione dell’assolutezza del cristianesimo, della singolarità, cioè, del tutto unica e irripetibile del Salvatore del mondo, Gesù Cristo, che nella Chiesa si rende presente ed opera grazie al suo Spirito.
 Il modello della missione “ad gentes” è stato sempre più integrato a partire dal Concilio Vaticano II con un modello, che vede l’urgenza missionaria come elemento costitutivo dell’essere ecclesiale nella sua pienezza, a prescindere anche dalle condizioni contingenti che accentuino l’uno o l’altro aspetto dell’azione apostolica: questo modello è quello che potrebbe definirsi della cattolicità della missione. La comunione ecclesiale è, in altre parole, inseparabilmente un dono e un compito: la Chiesa universale, già realizzata in una vastissima molteplicità di Chiese locali, richiede di attuarsi ancora in pienezza sia dove non esiste, sia dove la sua realizzazione è incompleta, sia dove, sebbene presente, la pienezza cattolica deve ancora esprimere tutta la ricchezza delle sue potenzialità. In questo senso, dovunque c’è la Catholica, c’è la missione, come realtà in atto o come esigenza imprescindibile: la missione si presenta come l’aspetto dinamico della cattolicità, il suo effettivo compiersi nella storia della salvezza, sotto l’azione dello Spirito Santo. Se la “plantatio Ecclesiae” continuerà, allora, ad essere un’urgenza ineliminabile dell’attività missionaria, l’azione missionaria “ad intra” sarà non di meno sempre necessaria al popolo di Dio, per rinnovarsi incessantemente nella fedeltà alla fede apostolica e nell’apertura alle sorprese dello Spirito, che lo conduce verso il compimento pieno delle promesse di Dio.
 2. La missione come “splendore” dello Spirito: la cattolicità del soggetto missionario – Tutta la Chiesa è chiamata ad evangelizzare!

 Nella cattolicità della missione viene ad esprimersi, dunque, la ricchezza dell’azione dello Spirito Santo nella Chiesa, lo “splendore” irradiante della Sua presenza. E ciò a vari livelli: il primo soggetto della missione è la Chiesa universale, la Catholica unita e vivificata dallo Spirito nella comunione dello spazio, espressa dalla comunione delle Chiese locali intorno alla Chiesa di Roma, che presiede nell’amore, e nella comunione del tempo, manifestata dalla continuità ininterrotta della tradizione apostolica: la responsabilità di portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra e di impiantare dovunque la Chiesa, continuamente lasciandosi evangelizzare dalla stessa buona novella oggetto dell’annuncio, è di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa. Tutti hanno ricevuto lo Spirito, tutti devono donarlo: «Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere per parte sua la fede» (Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, 17). In modo particolare, questa responsabilità missionaria investe il ministero al servizio della comunione: il Vescovo di Roma, anzitutto, in quanto ministro dell’unità della Chiesa universale, è caricato della “sollicitudo omnium ecclesiarum”, che si esprime particolarmente nell’ansia missionaria di far crescere ovunque la Catholica, sia nell’integralità della fede e della vita apostolica, sia nella sua dilatazione presso tutte le genti.
 Nella solenne testimonianza della fede, attraverso il suo ministero profetico, liturgico e pastorale, nella promozione e nel sostegno della vitalità missionaria della Chiesa, ovunque diffusa, nell’esercizio del suo ministero di unità, come centro e riferimento dell’apostolicità e della cattolicità dell’Una Sancta, il Papa si fa missionario del Vangelo per il mondo intero, come per la Chiesa e nella Chiesa, tutta in missione. Questa responsabilità universale il Vescovo di Roma la condivide con il collegio episcopale, cui spetta non di meno la sollecitudine per tutte le Chiese, e perciò l’impegno in vista dell’attività missionaria intrinseca alla Catholica, in esse presente (cf. Lumen Gentium, 23). Così, attraverso i loro vescovi in comunione col vescovo di Roma, tutte le Chiese partecipano alla sollecitudine dell’evangelizzazione e della missione universali, e sono chiamate a contribuire ad essa secondo i doni che lo Spirito ha dato a ciascuna, non isolatamente, ma nella fecondità della cooperazione e dello scambio, in cui ciascuna al tempo stesso dona alle altre e riceve da loro.
 Soggetto plenario dell’invio missionario è pure la Chiesa locale o particolare, in cui la Catholica si attua nella concretezza di uno spazio e di un tempo determinati: il popolo di Dio, radunato dalla Parola e dal Pane eucaristico, in cui nello Spirito Cristo si fa presente per la salvezza di tutti, è inviato ad estendere la potenza della riconciliazione pasquale a tutte le situazioni in cui vive ed opera. Tutta la Chiesa locale è inviata ad annunciare tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo: alla cattolicità, propria della Chiesa locale sul piano della “communio”, deve corrispondere la cattolicità sul piano della missione. Che tutta la Chiesa locale sia inviata, vuol dire che, in forza del dono dello Spirito ricevuto nel battesimo e nell’eucaristia, non c’è nessuno nella comunità ecclesiale che possa ritenersi esentato dal compito missionario. Fermo restando lo specifico del ministero di unità, cui spetta discernere e coordinare i carismi in vista dell’azione missionaria, ogni battezzato deve impegnare i doni ricevuti al servizio della missione ecclesiale: a nessuno è lecito il disimpegno, come a nessuno è lecita la separazione dagli altri. Tutta la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo!
 Tutti, nella corresponsabilità e nella comunione, sono chiamati a partecipare attivamente alla missione della Chiesa: se ciò implica da una parte l’esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, esige dall’altra lo sforzo di crescere in comunione con tutti, in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). La missione, pertanto, non è opera di navigatori solitari, ma va vissuta nella barca di Pietro, che è la Catholica in tutte le sue espressioni, in comunione di vita e di azione con tutti i battezzati, ciascuno secondo il dono ricevuto dallo Spirito. La testimonianza del singolo, quale che sia il suo carisma e il ministero che è chiamato ad esercitare, come pure quella delle varie forme comunitarie di ministerialità nella Chiesa, non esauriscono la vocazione ecclesiale alla missione, che richiede sempre una prassi di comunione nell’azione evangelizzatrice: tutti, ciascuno secondo il proprio carisma e il proprio ministero sono chiamati alla missione nell’unità intorno al ministero ordinato. L’unico Spirito datore dei doni fonda l’esigenza della comunione come condizione necessaria della missione di tutti e di ciascuno.

 3. La cattolicità del messaggio e dei destinatari: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo a tutto l’uomo, ad ogni uomo

 La cattolicità della missione non investe solo il soggetto di essa, ma anche il suo oggetto e i suoi destinatari. La cattolicità del messaggio, lo “splendore” della sua verità salvifica, esige che la Chiesa, tutta impegnata nell’annuncio, si faccia portatrice del Vangelo nella sua interezza: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo! La buona novella da annunciare non è una semplice dottrina, ma una persona, il Cristo: è lui, vivente nello Spirito, l’oggetto della fede e il contenuto dell’annuncio, ed insieme è lui il soggetto che opera nello Spirito in chi evangelizza. Il Cristo evangelizzato è al tempo stesso il Cristo evangelizzante nei suoi testimoni. Ne consegue per la Chiesa l’esigenza di non appartenere che a lui, di essere la sua memoria vivente, lasciandosi sempre nuovamente evangelizzare da lui, per essere sempre di nuovo rigenerata dalla sua Parola (Ecclesia creatura Verbi!). La missione esige la testimonianza integrale del Cristo: in ciò, anzitutto, consiste la cattolicità del messaggio, la pienezza senza la quale esso viene adulterato e svilito. Questa testimonianza integrale abbraccia la comunione della fede nel tempo e nello spazio, è voce della comunione dello Spirito, che, attraverso la tradizione apostolica, rende la Chiesa identica a se stessa nel fondamento della sua cattolicità, perché la identifica nel mistero al suo principio sempre presente, il Cristo riconciliatore annunciato dagli apostoli.
 La cattolicità del messaggio richiede pertanto che vengano fuggiti due opposti riduzionismi, in cui è vanificata in maniera diversa, anche se in fondo convergente, la forza dello scandalo evangelico: da una parte, la riduzione secolare; dall’altra, quella spiritualista. La riduzione secolare assolutizza il presente, identificando la parola della fede con una delle forze in gioco nella storia: la testimonianza è ridotta a una presenza fra le presenze della vicenda umana; il Vangelo è svuotato della sua forza di provocazione, risolvendosi in ideologia, calcolo e progetto mondani, incapaci di aprirsi alla novità dell’Avvento. Contro questo rischio occorre ribadire la densità sempre sovversiva della Parola di Dio e l’azione sorprendente dello Spirito: non si evangelizza, se non si testimonia la novità del Vangelo; non si amano veramente gli altri, se non si ha il coraggio di essere anche diversi dagli altri, per amore loro e in obbedienza alle esigenze del Dio vivente. La Chiesa è chiamata ad essere coscienza critica della cultura in cui è posta, segno di contraddizione, che porta nel concreto delle diverse situazioni storiche il fermento della sua “riserva escatologica”.
 L’altra riduzione, quella spiritualista, assolutizza invece la definitività del “già” compreso nella fede, tanto da perdere di vista l’inquietante problematicità dei diversi contesti e delle differenti storie personali, a cui il Vangelo è annunciato. Qui la cattolicità è impoverita, perché è ridotta a dare risposte pronte per tutto, senza la mediazione interpretativa, al tempo stesso fedele e creativa, che è richiesta dall’incontro con le culture e le persone reali, e che è resa possibile precisamente dall’azione dello Spirito Santo. Lo spiritualismo disincarnato sa dire i “no” dell’esigenza evangelica, ma trascura spesso i “sì”, anche umili e provvisori, di cui tutti hanno bisogno per vivere e per morire. Il Dio dell’evangelo non è così: egli non è il Dio delle esigenze impossibili, ma il Dio con noi! Contro ogni evasione spiritualista è necessario che la Chiesa si faccia compagna di strada degli uomini, cui annuncia il Vangelo: il Cristo passa attraverso gesti di fraternità quotidiana, di compassione vissuta, lì dove l’amore si fa concreto e personalizzato nella condivisione della vita e nelle scelte di campo a favore degli ultimi.
 La cattolicità del messaggio comporta anche inseparabilmente la cattolicità del destinatario della missione: tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo a tutto l’uomo ad ogni uomo! La buona novella è risuonata per tutti ed esige di raggiungere tutti; lo “splendore” della verità è comunicato per mediarsi nella “kènosi” dei linguaggi e delle culture più diverse. «Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19s). È proprio nello slancio missionario, proteso a raggiungere tutto l’uomo in ogni uomo, che il Cristo garantisce la presenza della sua fedeltà al suo popolo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v.20). Egli è là, dove il testimone annuncia il suo mistero pasquale, dove la Chiesa lo rende presente e chiama alla sequela di lui: per mezzo del ministero ecclesiale è Cristo che «predica la Parola di Dio a tutte le genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede» (Lumen Gentium, 21). In questo senso, la missione non è diretta a uno spazio definito dall’esterno, ma alla profonda verità di ogni essere umano, bisognoso di incontrare Cristo e di farne sempre nuovamente esperienza. La frontiera dell’evangelizzazione non è la linea di demarcazione esteriormente riconoscibile fra spazio sacro e spazio profano, ma è anzitutto il luogo della decisione salvifica, il cuore umano, lì dove la totalità di un’esistenza raggiunta dallo Spirito Santo si decide per Cristo o si chiude a lui.
 In questa decisione, possibile solo nell’incontro della libertà della persona con la Parola della fede e lo Spirito che dà vita, il tempo quantificato diventa tempo qualificato, ora di grazia, oggi di salvezza: il “krònos”, tempo pesante del succedersi lineare degli istanti,  attraverso la svolta dell’esistenza intera (“metànoia”), si trasforma in “kairòs”, tempo determinato dal contenuto della grazia (cf. ad esempio Mt 8,29; 26,188; Mc 1,15; Lc 19,44; 21,8; Gv 7,6-8; At 1,7; 1 Ts 5,1ss.; Ef 5,16; Col 4,5; ecc.). La frontiera della missione passa nelle scelte fondamentali che qualificano la vita, e perciò anche all’interno della comunità ecclesiale, che, evangelizzando, ha sempre nuovamente bisogno di essere evangelizzata e di decidersi per il suo Signore nel vivo delle situazioni sempre nuove della storia. La Chiesa evangelizza, continuamente si evangelizza, lasciandosi purificare e rinnovare dal giudizio della Parola di Dio e dal fuoco dello Spirito, nel concreto del suo cammino storico e delle prese di posizione, che le vengono richieste: così sta “sub Verbo Dei”, e può celebrare fiduciosamente i divini misteri per la salvezza del mondo. La Chiesa tutta in stato di missione è veramente “semper reformanda”!
 La costante apertura alla cattolicità del messaggio non è tuttavia ancora pienamente realizzata, se non si attua la contemporanea apertura all’ampiezza dei bisogni umani e della destinazione dell’evangelo a tutte le genti: è qui che si pone l’esigenza imprescindibile per ogni battezzato, come per ogni Chiesa particolare e per la Chiesa universale, di impegnarsi affinché l’annuncio raggiunga veramente ogni persona umana e non vi sia spazio o dimensione di storia cui non pervenga il messaggio. La Parola della salvezza non è fatta per restare nel chiuso delle coscienze o dei ghetti, che si può essere tentati di costruire: essa esige la libertà dai pregiudizi e dalle paure, la generosità audace per essere gridata dai tetti, fino agli ultimi confini della terra. La “kènosi” della Parola e dello Spirito è rivolta a raggiungere ogni creatura in tutta la sua consistenza. Ciò esige l’impegno in un processo di inculturazione, analogo al dinamismo dell’Incarnazione: «La Chiesa, per poter offrire a tutti il mistero della salvezza e la vita portata da Dio, deve inserirsi in tutti i diversi raggruppamenti umani con lo stesso movimento, con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò alle determinate condizioni sociali e culturali degli uomini, con cui visse» (Ad Gentes, 10).
 Cattolicità del soggetto, del messaggio e della destinazione della missione vengono così a saldarsi nell’unica cattolicità della Chiesa, la cui missione è inseparabilmente “kènosi” e “splendore” dello Spirito nella storia: questo implica, in particolare, il coinvolgimento di ciascuna Chiesa locale o particolare nell’azione missionaria della Catholica. Se il Signore non chiederà conto ai suoi discepoli dei salvati, perché la salvezza è un mistero di grazia e di libertà di cui nessuno può disporre dall’esterno, chiederà loro conto degli evangelizzati: in tal senso, una Chiesa locale senza urgenza e passione missionaria tradisce la propria intrinseca cattolicità, è un campo di morti, e non la comunità dei risorti nel Risorto. Certamente, il coinvolgimento missionario delle singole Chiese dovrà avvenire nella comunione con tutte le altre, in cui solo pienamente si esprime la Catholica: la comunione fra le Chiese esige di esprimersi nella corresponsabilità per la missione, nel reciproco scambio e nell’aiuto che esse possono darsi in ordine all’annuncio del Vangelo a tutte le genti, sotto la guida del Successore di Pietro e del collegio dei Vescovi con lui.
 È anche attraverso questa comunione operativa per la missione che la Chiesa risplende tra i popoli come il popolo della raccolta escatologica, cui tutte le genti sono chiamate a convergere nel mistero dell’alleanza. Così, la Chiesa locale appare nella luce dello Spirito soggetto della missione nelle coordinate concrete dello spazio in cui è situata, ma coinvolta in un compito missionario globale, che abbraccia i suoi confini e li supera, e che deve essere fatto proprio da tutti i credenti per rivolgersi a tutti gli uomini. In questa luce, appare chiaro anche come la cattolicità della missione escluda la figura del missionario isolato: il soggetto della missione resta sempre la Chiesa tutta, unita dallo Spirito nel suo realizzarsi concreto nelle Chiese locali, per cui il singolo deve sapersi inviato dall’intera comunità come segno di comunione e dono efficace per la Chiesa in cui opererà, già presente o da impiantare che sia. Questa Chiesa, da parte sua, accogliendo il missionario che l’ha generata nello Spirito o viene ad arricchirla dei suoi doni, recepisce nella sua vita più profonda la Chiesa inviante: in tal modo, la cooperazione missionaria fra le Chiese diventa una delle espressioni più alte della loro comunione cattolica nell’unico Spirito di vita e una forma densissima di realizzazione della loro costitutiva vocazione alla missione nello stesso Spirito.
 La missione della Chiesa appare dunque come la “kènosi” e lo “splendore” dello Spirito Santo agente nella storia: ecco perché la vita secondo lo Spirito è inseparabile dalla comunione ecclesiale e questa dallo slancio misionario. Afferma Agostino: «Tanto si ha lo Spirito Santo, quanto si ama la Chiesa di Cristo» (S. Agostino, In Iohan. Evang. Tract., 32,8). E quando si ama la Chiesa e si opera al servizio della missione cui lo Spirito la sospinge, si avverte più che mai la bellezza della sua unità, anticipo d’eterno, dono della Trinità alla storia perché la storia tenda all’approdo della patria, che è il Dio amore, tutto in tutti:  «Non separarti dalla Chiesa! Nessuna potenza ha la sua forza. La tua speranza, è la Chiesa. La tua salvezza, è la Chiesa. Il tuo rifugio, è la Chiesa. Essa è più alta del cielo e più grande della terra. Essa non invecchia mai: la sua giovinezza è eterna» (San Giovanni Crisostomo, Homilia De capto Eutripio, c. 6: PG 52,402).

Vieni, Spirito Santo,
fa’ di noi i testimoni innamorati e contagiosi
della verità che salva!
Vieni a renderci irradianti della luce e della gioia
che il Verbo della vita comunica ai cuori nella fede.
Effondi in noi l’amore di Dio,
che faccia di ciascuno di noi
trasparenza del Suo volto per il nostro prossimo
nelle piccole e grandi storie della carità che salva.
Sii Tu in noi ardente speranza,
anticipazione militante dell’eterno futuro,
pegno e caparra della gloria, sospirata ed attesa:
e fa’ che con la nostra vita
possiamo tirare nel presente del mondo
l’avvenire della promessa di Dio,
come testimoni credibili della speranza che non delude.
Amen! Alleluia!

di Luigi Padovese: Pasqua fra i musulmani, nella terra di san Paolo

dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=14940&size=A

TURCHIA

Pasqua fra i musulmani, nella terra di san Paolo

di Luigi Padovese*

Il vicario apostolico dell’Anatolia racconta il significato della Pasqua nell’anno dedicato a san Paolo. La comunità cristiana in Turchia si trova come agli inizi della sua evangelizzazione. I pellegrini stranieri, la fraternità fra cattolici e ortodossi, lo stupore per il fascino di Gesù fra i musulmani. Una domanda al governo turco per una chiesa a Tarso.


Antakya (AsiaNews) – La Pasqua di quest’anno in Turchia è tutta speciale perché si celebra l’Anno Paolino e san Paolo è colui che ha portato l’annuncio di Gesù morto e risorto nella nostra terra.

In un ambiente saturo di religiosità, com’era il mondo antico, l’apostolo di Tarso ha concentrato l’annuncio nella fede in Dio, mediata dalla realtà concreta della morte e resurrezione di Gesù.

Nessuna religione ha tratti più coinvolgenti di questa fede che crede nella nascita di Dio come povero e morto da crocifisso. Questo annuncio che ci richiama alla concretezza della fede cristiana è un messaggio nei confronti dei poveri e dei sofferenti, come delle vittime dell’ingiustizia. Esso è divenuto il leit-motiv della catechesi verso i nostri cristiani, fin dalla mia prima lettera pastorale.

Come ai tempi dell’apostolo viviamo nella sua terra in una società non cristiana. Siamo un gruppo minoritario che corre il rischio di smarrire la propria identità attraverso un concetto generico di fede in Dio. Per questa ragione gli eventi della Pasqua che celebriamo sono importanti: ci rimandano a contemplare l’evento fondativo della nostra fede.

Una richiesta al governo per la chiesa di Tarso

Un fatto che ci conforta è vedere che proprio in questi giorni vi è un flusso continuo di pellegrini, anche stranieri, ad Antiochia e nei luoghi di san Paolo. Questa regione era al di fuori dei tour dei pellegrinaggi; invece quest’anno è stata battuta da migliaia di pellegrini. Non sono turisti, ma fedeli alla ricerca del contatto con i luoghi in cui l’apostolo ha vissuto. Paolo è nato a Tarso, ma ha fatto parte della comunità cristiana di Antiochia e ad Antiochia è sempre ritornato per il suo ministero. In Turchia egli ha percorso almeno16 mila km!

La Pasqua perciò qui da noi deve avere per forza una marcatura paolina. A questo proposito, noi speriamo in un grande dono pasquale: il ritorno della chiesa di Tarso ai cristiani. La conferenza episcopale turca e quella tedesca, le autorità del governo tedesco e la segreteria di stato vaticana hanno richiesto di avere a Tarso una chiesa dove i pellegrini di qualsiasi confessione cristiana possano radunarsi a pregare. A Tarso vi è una chiesa cristiana antica, che però è stata trasformata in museo. Per quest’anno le autorità turche ne hanno permesso l’uso, senza pagare il biglietto del museo. Ma si tratta di una misura che sta per scadere. Invece noi desideriamo che a Tarso vi sia un punto dove i cristiani possano sempre fare memoria dell’apostolo, non in un museo, ma in una chiesa. E aspettiamo una risposta da parte delle autorità. Mi auguro che questa risposta positiva ci venga data almeno entro la fine dell’Anno paolino (il 29 giugno 2009). Il dono della chiesa sarà anche una sorta di cartina di tornasole per misurare quanto le autorità turche vogliono fare per garantire la libertà religiosa. Abbiamo bisogno di fatti concreti per credere che qualcosa sta davvero cambiando in questo Paese.

Nessuna gelosia fra cattolici e ortodossi

Qui in Turchia le celebrazioni della Pasqua hanno anche un carattere ecumenico. Noi latini siamo una piccola comunità. Quest’anno la data della nostra Pasqua anticipa di una settimana quella ortodossa. È bello vedere come fra le diverse comunità cristiane non c’è opposizione, ma condivisione: ci sono ortodossi che vengono alle nostre funzioni e cattolici che vanno alle funzioni degli ortodossi. Da parte degli ortodossi, soprattutto i giovani, c’è desiderio di gustare la nostra liturgia, anche perché quella latina è in lingua turca, mentre quella ortodossa è in lingua araba e questo crea problemi di comprensione. Fra le due comunità non c’è assolutamente alcuna gelosia. C’è invece un sostenersi reciproco. Molti bambini ortodossi vanno nelle nostre parrocchie per la catechesi, tenuta anche da insegnanti ortodossi. Non c’è volontà di proselitismo, ma desiderio di aiutarci reciprocamente  a seconda dei messi e delle possibilità di cui ciascuno dispone. Tutto è legato alla situazione comune di essere una minoranza religiosa e questo ci permette di superare tante prevenzioni e chiusure.

Il nostro essere minoranza rende la nostra situazione molto simile a quella degli inizi del cristianesimo, quella in cui si è trovato  Paolo nel suo annuncio. L’apostolo, nato in un ambiente di pluralismo religioso, ci insegna ad avere un atteggiamento di rispetto nei confronti degli “altri” e questo comportamento positivo sentiamo di doverlo applicare al mondo islamico. Nonostante tutto, il nostro atteggiamento è molto positivo anche nei riguardi dell’islam. Qui io trovo tanta gente di buona volontà, coscienziosa. E san Paolo mi ha davvero insegnato questa novità della coscienza come il luogo della profondità della persona di fronte a Dio.

I martiri e le conversioni

Devo però aggiungere che per alcuni miei cristiani la Via Crucis è un fatto di oggi, non una cosa del passato. All’interno del vicariato di Anatolia ci sono davvero situazioni difficili. L’esperienza del martirio di don Andrea Santoro e altri fatti hanno lasciato il loro strascico. Ci sono ancora cristiani vicini alla sofferenza di Gesù.

Ma vi sono anche musulmani che si avvicinano al cristianesimo proprio attraverso le sofferenze di Gesù. Un piccolo numero sono divenuti cristiani. La loro è stata una scelta sofferta e meditata per le conseguenze, i rischi, le fatiche che porta nella loro vita. Eppure divengono cristiani proprio partendo dal fascino di Gesù che ha sofferto [nel Corano Gesù sfugge alla morte e fa morire un sostituto – ndr]. Del resto, anche in passato l’umanità di Gesù è stata esaltata da alcune personalità musulmane come il poeta Mevlana e altri mistici sufi.

*vicario apostolico dell’Anatolia

 

di Bruno Forte: Il « Vangelo » di San Paolo

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802

Il « Vangelo » di San Paolo

di Bruno Forte

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Bruno Forte

Bruno Forte: Il « Vangelo » di San Paolo

ho seguito le notizie del terremoto all’Aquila e nei paesi intorno fino a notte da quando è cominciato, qui a Roma si è sentito abbastanza forte, a casa mia ci ha svegliato, ma più che dondolare i lamapadri non c’è stato, ma quanta sofferenza per quella gente e quanto dispiacere per una zona dell’Italia così bella, ed in parte sicuramente perduta, posto questo « studio » fi Bruno Forte che avevo messo da parte, è vero che quelli di Fortee sono sempre « qualcosa di più » che studi, anche pastorale, è infatti un « Pastore completo », dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802

Il « Vangelo » di San Paolo

di Bruno Forte

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco… 

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri. 

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?  

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Bruno Forte

La Lectio per la Pasqua di Mons. Ravasi [Pubblicato: 20/03/2008]

dal sito:

http://www2.unicatt.it/pls/catnews/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=13776

La Lectio per la Pasqua di Mons. Ravasi  [Pubblicato: 20/03/2008]

Una riflessione sul significato profondo dell’incarnazione di Cristo, della Sua passione e della Sua resurrezione è stata dedicata da Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura agli studenti della sede di Roma dell’Università Cattolica

“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).
 
L’occasione per questa speciale lectio di preparazione alla Pasqua è stata offerta lo scorso 12 marzo dai “Mercoledì della Cattolica”, gli incontri culturali promossi dal Consiglio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Ateneo, prendendo spunto dalle parole rivolte da San Paolo a una delle comunità che in assoluto gli sono più care, quella della città macedone di Filippi.
 

“La locuzione ‘avere gli stessi sentimenti di’ in greco è resa da un solo verbo: φρονειν” ha esordito Mons. Ravasi “Tale verbo ha un’iridescenza semantica che esula dal puro orizzonte del sentimento, andando a significare non solo sentire, ma anche pensare, ragionare, avere una disposizione d’animo aperta. Questa frase, che poi si innesta su quella che è probabilmente la citazione di un inno in uso nella Chiesa delle origini, è un appello ad avere dentro di noi non soltanto un sentimento, ma uno stato d’animo, implica non solo una componente esperienziale, ma anche una componente razionale. Per Paolo l’imitazione di Cristo è fondamentale, ed egli presenta come modello, nell’inno che segue, entrambi i volti del Cristo. Prima il volto lacerato e dolente del crocifisso, di colui che precipita dall’orizzonte alto della trascendenza per assumere la forma di uno schiavo; che subisce il supplizio degli schiavi, dei rivoluzionari, dei ribelli, la croce, emblema oscuro e vergognoso”.

Qui Mons. Ravasi ha fatto una breve digressione, riferendosi alla polemica che ogni tanto emerge sull’eliminazione del crocifisso, considerato un simbolo troppo ‘specifico’, ‘di parte’, quasi in contraddizione con una cultura molteplice come quella in cui ci stiamo sempre più immergendo: “Ma il crocifisso ha un valore simbolico universale. Natalia Ginzburg, scrittrice ebrea di formazione sostanzialmente agnostica, nel 1988 sul quotidiano l’Unità così scriveva a seguito di una delle ricorrenti polemiche contro la presenza del crocifisso in un’aula scolastica o in un’aula di tribunale: E’ il segno del dolore umano, della solitudine, della morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino umano. Il crocifisso fa parte della storia dell’umanità. Dell’umanità tutta, non solo del Cristianesimo!” ha sottolineato il biblista.

E ha proseguito: “Questa considerazione preliminare, deve essere declinata soprattutto qui, di fronte a voi, medici, operatori sanitari e studenti di medicina, che sistematicamente fate l’esperienza del dolore umano: questa esperienza così radicale che trova lì, in quell’uomo crocifisso, la sua sintesi. Nel Vangelo, a partire dalla domenica delle Palme, c’è lo sforzo di riassumere in Cristo tutto lo spettro della sofferenza umana. La paura della morte nell’orto del Getsemani: Padre se è possibile passi da me questo calice. La solitudine: gli amici fuggono, Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega. Poi ancora, la sofferenza fisica in senso stretto. La tortura. La lunga agonia. Infine, prima della morte, il silenzio di Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato. Proprio qui è il centro della grande proclamazione cristiana: una divinità che non assiste come un imperatore indifferente alle disgrazie dell’uomo. Un Dio che, infinito ed eterno per definizione, sceglie di partecipare della fragilità e caducità legate alla condizione umana. Cristo non si comporta come un benefattore che china la mano verso il miserabile, come qualche volta fanno i medici. La rappresentazione del medico nei confronti del paziente è quella dell’uomo di potere, non di colui che condivide, anche solo fisicamente, per necessità. Il medico è in piedi, in posizione eretta, in una posizione di dominio. Il malato invece ha la posizione del morto, la posizione orizzontale, la posizione dell’impotenza. Ma, come dice Dietrich Bonhoeffer, teologo morto nei campi di concentramento nazisti: Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, Dio in Cristo ci salva in virtù della sua impotenza. [Nella foto Mons. Ravasi con il Preside della Facoltà di medicina Paolo Magistrelli e il professor Pasquale de Sole promotore dei Mercoledì della Cattolica]. Per voi medici, in particolare, che avete nel mondo della sofferenza la vostra vocazione, l’avere gli stessi sentimenti di Cristo è fondamentale. Egli è il vostro vero patrono”.
“Il Vangelo di Marco – ha proseguito Ravasi – è, praticamente per metà, dedicato a rappresentare Cristo nell’atto di guarire i malati. Tra le guarigioni più simboliche c’è quella del lebbroso, l’immondo per eccellenza, che secondo la legge del Levitico rendeva impuro chi gli si accostava: Gesù lo tocca e lo guarisce, assumendo simbolicamente su di sé la malattia, la sofferenza, la miseria e l’impurità dell’umanità sofferente”.

L’inno che San Paolo fa seguire alla dichiarazione di principio, non finisce però col Cristo crocifisso. Subito dopo segue la rappresentazione del volto glorioso di Gesù, che Mons. Ravasi evoca con accenti lirici: “Egli diventa una grande figura che domina l’abside del cosmo, il mondo intero lo contempla nella gloria della Resurrezione. Dopo il Venerdì Santo c’è la mattina di Pasqua, il momento in cui il discepolo deve scoprire il volto radioso di Cristo, la speranza della luce, di ciò che è oltre il dolore e la morte.  Per poterlo riconoscere è necessario un altro canale di conoscenza, gli occhi carnali, non bastano più, servono gli occhi della fede. Così, la mattina della Domenica, Maria di Magdala, recandosi al cimitero, non riconosce Cristo finché Egli non le parla, chiamandola per nome. Finché cioè non le dà una nuova vocazione, quella dell’essere credente. È la via della fede, la via nuova della conoscenza del Mistero profondo. È all’interno dell’esperienza di fede autentica, che riusciamo a ritrovare il germe della speranza. Perchè il Cristo – e attraverso lo sguardo della fede noi riusciamo a capirlo – attraversando il dolore e la morte lo ha fatto da Dio e come tale li ha irradiati di fecondità, ha deposto cioè un seme di immortalità, di eterno e di infinito dentro il dolore e il morire dell’uomo. Così il Lunedì, i due discepoli, non riconoscono Gesù risorto, che li accompagna nel cammino verso Emmaus, spiegando loro, in chiave cristologica, le Scritture, finché, giunti finalmente nella cittadina, Lui non spezza il pane: in quel momento si consuma il riconoscimento e l’itinerario è compiuto. Nell’ascolto della Parola e nella frazione del pane, i due discepoli di Emmaus fanno esperienza di fede, la stessa che faremo Domenica di Pasqua e che facciamo ogni domenica, quando, nella liturgia, incontriamo Cristo che spiega la nostra sofferenza e la trasfigura in quell’abisso di luce che è il volto della Speranza, della Gioia, della Pasqua”.

Valentina Zecchiaroli

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