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« Paolo Diamante di Dio » (è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise) (23 novembre 2008)

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« Paolo Diamante di Dio »

(è la lettera scritta dal Vescovo Mons. Bregantini agli studenti del Molise)

23 novembre 2008

Carissimi,
alcuni giorni fa, lungo le strade di una grande città, ho notato questo messaggio pubblicitario, ben scelto, che mi è subito piaciuto:
la vita ha il sapore che le dai!

Mi è piaciuto perché sento che la vita è il grande talento che la grazia ci ha posto in mano. Che è unico. Che è immenso. Che è tutto.
Un’espressione che mi ha suggerito quanto la vita sia chiamata all’incontro con lo stupore, in quel sapore immenso che abbraccia tutto ciò che è e che sarà.
La vita, che tu hai in mano, questa stessa vita, dipende anche da te, richiede tutto te stesso, coi difetti e virtù. Comprendi allora come il sapore che tu le dai trae origine dai tuoi sogni, dai tuoi aneliti, dalla tua stessa identità, da ciò che conosci, speri, ami, preghi. Proprio come ci ricorda un filosofo: sei ciò che gusti, perché il sapore è sapere.
Assapora la vita. E dalle sapore. Poiché più la assapori, più la conosci; più la gusti e più la ami. Perché il sapore è l’essenza della vita, la sua dolcezza o amarezza.
Il suo cuore.
Per questo, mi sembra di poter dire che la vita va riempita, come un’anfora alla fonte, come un programma di computer. Altrimenti, resta vuoto.
Hai l’hardware, ma non il software.
Hai il cuore, ma non hai l’amore.
Hai la rosa, ma non hai il profumo.
Hai gli occhi, ma non cogli la bellezza!
Così è la vita. Come … Altri esempi, bellissimi, li puoi tu stesso creare.
Magari con una poesia, fatta in classe, sul gusto della vita.
Da gustare poi insieme…
Perché quel sapore dipende da te. Tu le dai il gusto che vuoi.

Proprio per questo, intendo, carissimi,
inviare a ciascuno e a tutti voi,
all’inizio di questo nuovo anno scolastico,
un messaggio di augurio e di riflessione,
tratto dalla sapienza antica per farne spunto
per il cammino di oggi.
E’ infatti bello abituarsi, nella scuola e nella vita, al confronto, a leggere la storia dell’altro, a capire le differenze, sempre però in un clima di grande verità e chiarezza.
Saluto perciò con affetto tutti voi, carissimi bambini, fanciulli, ragazzi e giovani, cioè tutti gli studenti delle quattro fasce della scuola: infanzia, scuola primaria, media e  secondaria.
E con voi, saluto e ringrazio tutti i vostri dirigenti e docenti, con un pensiero di particolare gratitudine al personale ausiliario, preziosissimo.
Ai maestri e docenti, il mio pensiero di santa invidia. Fate un lavoro impegnativo, certo, specie oggi,  ma decisivo, poiché voi non plasmate cose, ma coscienze; non create prodotti, ma costruite uomini e donne nuove, capaci di sfidare il futuro.
Ciò che insegnate e trasmettete oggi, sappiate che la società lo ritroverà germogliato dopo. Seminate quindi con larghezza in queste coscienze che formate, seminatevi ciò che è vero, giusto, amabile, puro, alto e profondo e che può durare anche per il domani, per il bene di tutti. In una responsabilità che coinvolge il presente e il futuro.
Questo che avete in mano è il PRIMO MESSAGGIO che rivolgo alle Scuole dopo il mio arrivo in terra Molisana. E lo faccio con molta gratitudine, perché devo affermare di essere stato invitato con affetto ed accolto con gioia in tante scuole. In tante sono già stato. Nelle altre, attendo il vostro cortese invito e vi verrò con gioia. Come del resto, so che faceva volentieri il mio predecessore, mons. Armando Dini, cui va la mia gratitudine per un mucchio di cose belle che ho trovato e che spero di poter continuare.
Grazie del dialogo che è scaturito nelle classi. Grazie della cordialità manifestata. Ma grazie soprattutto delle incisive domande che mi avete posto,  perché sento che in esse c’è il vostro sogno sul mistero e sul fascino della vita. Sogno e mistero che è sempre bello condividere, perché non è solo vostro. E’ di chi ve l’ha posto nel cuore, quel Padre che nei cieli vi ha pensato e che oggi corre e cammina con voi lungo le strade, spesso incerte e precarie della vita.

Con questo mio messaggio intendo entrare nelle vostre scuole,
affacciarmi nelle aule con molto rispetto e semplicità,
prendere il gesso e scrivere sulla lavagna un titolo:
« a confronto con il giovane Paolo, diamante di Dio… ».

Vorrei infatti che questo mio messaggio non sia solo formale, un semplice augurio. Ma una riflessione fatta insieme, dalla quale poi possiate trarre tutta una serie di indicazioni pratiche, nel cammino educativo che state compiendo, tra gioie e fatiche. Nel cuore vostro e sui banchi di scuola. Nelle vostre famiglie, che saluto rispettosamente, con vera gratitudine e nelle strade e nei luoghi del gioco e dello svago. Ed anche nella vita sociale, alla quale vi state affacciando con molta trepidazione e tenerezza.
In questa dimensione, ecco la figura di san Paolo. Ve lo presento, perché sento che è un personaggio estremamente stimolante e vivace. Non è scontato. Non è uno scocciatore, che sta lì a farvi sbadigliare mentre vi fa una « pesante » lezione di vita. San Paolo viene a scommettere con voi! Viene affettuosamente a colorare i vostri sforzi, a puntare con voi verso l’alto. E a ciascuno chiede un confronto intenso e chiaro.
Così, in quest’anno dedicato a san Paolo, anche noi ci metteremo a leggerne le lettere, a sentirne quasi la voce, a ripercorrere gli itinerari sulle navi romane, a seguirne le orme tra le montagne della attuale Turchia, lungo i fiumi, nelle città greche, fino al martirio, alle porte di Roma, in un giorno di estrema solitudine, verso il 67 dopo Cristo.
Ma con voi, carissimi ragazzi e giovani, vorrei soprattutto dialogare sul come Saulo, un ragazzetto di una bella città antica, Tarso, sia potuto divenire Paolo. Di Paolo giovane, ecco, vorrei parlarvi. Presentarvelo con le sue ansie, le sue fatiche, i suoi sogni, il suo carattere, la sua spinta in avanti, il suo cuore appassionato.
Perché Paolo?
PERCHÉ LUI SÌ CHE HA SAPUTO DARE UN SAPORE PIENO ALLA SUA VITA! Perché l’ha riempita di un volto, di un cuore: il cuore ed il volto di Gesù di Nazaret.
Ed insegnerà anche a noi, perciò, a dare alla nostra vita un sapore vero, una gioia piena, una corsa compiuta, una meta raggiunta. Tutte espressioni che lui stesso ha coniato e sviluppato. Belle perché vere. Vere perché nel cuore mio e tuo.
Non so se ci riuscirò. Se l’intento andrà a buon fine, eccomi a dialogare con voi, per un riscontro nelle aule scolastiche, ogni volta che ne sarò invitato con la già sperimentata cordialità. Potremo così anche chiarire eventuali passaggi difficili o questioni non ben affrontate. E leggeremo insieme altre pagine della sua vita, qui non presenti.
Buon cammino, dunque … per tutti, ragazzi e giovani. Ed anche per i vostri docenti, cui auguro la stessa passione educativa che aveva Paolo. Specie per i docenti di Religione cattolica, che ringrazio di vero cuore e seguo con affetto particolare. E’ in modo speciale a loro che affido questo messaggio, perché con voi, carissimi, lo possano condividere, spiegare, attualizzare dentro il vissuto della classe, sentendone domande e offrendo spiegazioni, in un continuo approfondimento, di lezione in lezione. In simbiosi con gli altri docenti. Magari creando un recital od un momento teatrale, su certi passaggi della vita di questo santo.
  
E comincerei proprio così, come tutte le grandi storie, perchè, nella sua famiglia ebrea, rigidamente osservante della Legge dei padri,  a quel piccolo bimbo viene dato un nome molto bello, tanto amato: Saul, che viene poi reso, familiarmente, Saulo.
E’ un nome che ricorda un grande Re d’Israele, che ha cambiato la storia dei suo popolo. Un uomo forte, vigoroso, deciso. Ma anche interiormente inquieto, alla ricerca di spazi sempre nuovi.
E così sarà Saulo: forte di carattere, non alto di statura come il re antico, ma coraggioso e tenace come lui. Anzi, più ostinato e più deciso ancora. E’ un uomo passionale, dall’indole fiera ed impavida, che non teme di esprimere con tono il suo sentire. E’ un emotivo, che vive ed affronta tutto di petto, un tipo che non si arrende di fronte agli ostacoli. Ama la concretezza e aborrisce tutto ciò che è finto, ambiguo; parla senza mezzi termini, non tentenna, non rifugge. Ama le sfide della vita, fermo, dotato di fantasia accesa, di un’intelligenza acutissima, capace di gesti profondi e coraggiosi, ma bisognoso di comunicare i propri ideali. Un giovane appunto, che dà pieno sapore alla sua vita
Ma tiene nel cuore suo una spina di inquietudine, che lo mette sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di inedito, di più spazioso. Sperimenta così anche il suo fallimento e con chiarezza lo ammette, perché inconsapevolmente sente che qualcuno lo aspetta, oltre lo steccato della sua intrepidezza. E chiede affetto, comprensione, incoraggiamento; qualcuno che gli dica, anche a lui: non avere paura, vai avanti…! ». Come avviene per noi, grati di ogni gesto di dolcezza e di tenerezza degli amici.

In famiglia Saulo cresce con la LINGUA E LA CULTURA EBRAICA. E’ una famiglia seria, osservante, molto attenta alla tradizione. Fa circoncidere il piccolino dopo otto giorni, innestandolo così nella tribù di Beniamino, proprio quella di Saul. Era gente impegnata, obbediente alla legge di Mosè con lo scrupolo del fariseo, cioè di chi sa che osservando fedelmente la legge ne ottiene riconoscimenti e gratificazioni. Da Dio e dagli uomini.
Cresce così: chiaro, forte, tenace, deciso e preciso. Di tempra e di cuore.
Dicevamo di Tarso. E’ la città natale, dove Saulo corre lungo le strade e dove va a scuola nei suoi primi anni di vita. Ma Tarso, com’è noto, non è in Palestina. E’ nel sud di quella immensa provincia romana, che allora si chiamava Asia. Per noi, oggi, è il sud della Turchia, che ne conserva gelosamente il ricordo.
Tarso è una cittadina universitaria. Un po’ come tante delle nostre cittadine interne. Le sue scuole rivaleggiano con le grandi accademie di Atene e di Alessandria.
Tarso è un incrocio di civiltà. Vi insegna Atenodoro, il maestro e amico di Augusto e, un secolo prima, Cicerone fu governatore della provincia. Vi scorre il fiume Cnido, che quasi costò la vita al giovane Alessandro Magno, quando, madido di sudore, vi volle fare il bagno.  Il giovane Re rimase a Tarso il tempo necessario per guarire, ma la civiltà ellenica vi si impiantò saldamente.
Vi si parla GRECO come in tutto il Medio Oriente, una lingua che Saulo apprende nelle strade e a scuola e maneggia con facilità. E’ la « koinè », cioè il greco comune, pratico, chiaro, facile e bello. Anche la Bibbia in quel periodo fu tradotta dall’ebraico al greco nella stessa parlata della koinè, per renderla comprensibile a tutti.
Una parola che corre, un cuore che vibra, una mente che guarda lontano.  Così è il giovane Saulo.
Il porto di Tarso, infatti, guarda all’Egitto con Cleopatra, è aperto alla Grecia, a Roma, commercia anche con Marsiglia…
Ma Tarso resta sempre (e non lo dimenticherà mai!) una città semita, segnata da secoli di storia antica. Ruvida ed intensa.

E poi, Saulo entra, progressivamente, anche nella civiltà romana che domina Tarso da diversi decenni. E’ un mondo già globalizzato, quello romano, di forte socializzazione e di intensa urbanizzazione. L’impero romano con le sue agevoli strade terrestri e marine ne dà l’impronta: commercio, incontri, città nuove, scambi di idee, benessere.
E’ la realtà della città che caratterizza l’impero romano.
E per di più, Saulo è cittadino romano già dalla nascita. Per un privilegio molto raro. Che altri dovranno acquistare a caro prezzo. Lui, invece, lo è già nella culla. Mastica così anche una terza lingua: il latino. Forse non come le altre. Ma di certo la capisce. E sa usarla bene, quando occorre difendersi, affermando con fierezza, davanti ai capi militari: « Civis Romanus sum ».
Così Saulo è cittadino di tre mondi, di tre culture: ebraica, greca e romana. Proprio per questo cambierà il suo nome, per renderlo ancora più universale e comprensibile a tutti, DA SAULO A PAOLO. Perchè anche con questo stile, quel ragazzo e quel giovane aveva imparato che bisognava farsi tutto a tutti. (cfr. Atti 21, 37-40).
Potremmo dire, oggi, che veramente è stato preparato dal cielo alla sua nuova grande missione. Si è fatto tutto a tutti, per poter entrare nel cuore di ciascuno di noi, ieri ed oggi…(Cfr l Corinzi 9, 19-23).

Ma intanto, eccolo correre lungo le strade della sua città. Perché sente che la città è tutto: è incrocio di tutte e tre le sue culture. La città, infatti, è greca nella lingua, è ebraica per i suoi abitanti fieri e forti, è romana nelle istituzioni.
Paolo non è un rurale. Lo è invece Gesù, che prenderà tutte le sue immagini proprio dalla vita rurale, dal paese, dalla campagna e ne farà icone di rara bellezza e di immensi, dolcissimi orizzonti.
Saulo invece è figlio della città, dello sport, della lotta. Gesù è nato nell’ambiente dei « poveri ». Paolo è figlio di un rabbino benestante. Il primo era operaio rurale, il secondo teologo. E se lavora anche le tende, tessendole con fatica, lo fa con una dignità particolare. Non da schiavo, ma da artigiano, da maestro…da mastro.
PAOLO È COSÌ FIGLIO DELLA CITTÀ! Egli ne ha lo schema, la replica facile, l’abitudine alle folle. Ne conserva lo spirito disinvolto, aperto, pronto al confronto. Ne osserva abitudini e stile e, passando lungo le larghe vie romane, coglie sempre spunti nuovi, come fece un giorno ad Atene, capitale della cultura antica, dove notò subito un altare dedicato al « Dio Ignoto ». Lo vide, ne trasse ispirazione, ne fece il cuore del suo intervento, proclamando una frase bellissima ed immensa, tanto che nella mia vita di giovane, al Liceo, la scrissi subito sul mio diario e sui testi di filosofia: « Noi cerchiamo Dio e ci sforziamo di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo trovare, benché non sia lontano da ciascuno di noi…! ».
La bellezza di Saulo-Paolo è proprio questa: ha sempre cercato, ha sempre amato, ha sempre desiderato.
Potrei ripetere anche a voi, nel leggere san Paolo, quella frase di un grande poeta francese, incisa a caratteri d’oro all’ingresso di un museo: « non entrare qui senza desiderio! ».
Paolo dunque appartiene a tre mondi e a tre culture, come dicevamo: ebraica, greca e romana. Tuttavia emerge da ciascuna di esse con il vigore della sua personalità. Non le cancella, ma le valorizza. Non le elude, ma le perfeziona. Non le racchiude in un livellamento piatto e ottuso. Ma lascia ciascuna con il suo colore, con la sua forza, con la sua ricchezza storica e propositiva.
Tutto questo, non per la sua sola preparazione, ma perché, sulla via di Damasco, ha incontrato il Cristo, luminoso ed esigente. Che lo ha gettato nella polvere, ma insieme lo ha ricostruito dentro.
Così l’incontro diretto con Cristo, oltre a cambiargli la vita, gli ha permesso di uscire dalle culture alle quali apparteneva, ma senza rinnegarle. Anzi, rivalorizzandole. Torneremo sull’incontro di Damasco. Perché quel momento è la strettoia attraverso la quale tutti dobbiamo, prima o dopo, passare.

Per intanto, colgo il primo immediato messaggio che san Paolo ci lascia. Il nostro è, oggi, un mondo che deve fare i conti con una società a più voci, una società dall’evidente pluralismo religioso. Ebbene, in questo contesto culturale e sociale, rischiamo di cadere in due estremismi opposti. Entrambi negativi e dannosi, per il cuore e per la mente.
IL PRIMO INGANNO È L’ESTREMISMO RELIGIOSO, il fondamentalismo, la difesa assoluta delle tradizioni dei padri. Lo stesso errore che ha fatto Saulo quando, furente, camminava verso Damasco per incatenare i suoi nemici religiosi, quella setta dei Cristiani che egli sentiva come una minaccia terribile. Poiché sono diversi – pensava – sono pericolosi e quindi vanno eliminati. Questo è l’estremismo religioso, che oggi serpeggia in molte religioni, anche tra di noi. A tratti, anche nel mondo cattolico…
L’ALTRO ERRORE, opposto, di fronte al pluralismo delle fedi, è quello di cadere in un RELATIVISMO DI PENSIERO E DI SPERANZA. E’ la nebbia dell’indifferenza. E’ il grigiore delle culture. E’ la scelta di eliminare tutti i simboli delle diverse fedi, per costruire un orizzonte senza identità. Tutti ammassati, tutti annullati, tutti omologati. Errore che la Francia ha fatto in diverse scelte, con conseguenze terribili. Perché le mancate identità creano poi rabbia e ribellione.
La sintesi, la via media, sta in un cuore nuovo. Non frutto di compromessi, di mediazioni diplomatiche esterne. No. Ma sta nel saper accogliere tutti e saper valorizzare tutti. E’ proprio quella strada  che san Paolo ci insegna: la strada del dialogo e dell’incontro. E’ di certo una strada difficile, richiede tempo, ha bisogno di molta pazienza, si riveste di attese e di sospiri. Ma crea coscienze vere. Perché non impone, ma propone. Non vince, ma convince. Non giudica, ma analizza.
Tre stili di vita che troviamo ed impariamo proprio dall’Apostolo Paolo, pur dentro un carattere difficile qual era il suo!

- Mi chiedo: siamo capaci oggi di dialogare?
Rispettiamo chi la pensa diversamente da noi?
Sono pronto al confronto?
Valorizzo il dialogo o elimino il mio avversario?

- E la scuola che frequentiamo, ci sta abituando
ad avere questo cuore nuovo?
Ci stimola ad allargare i nostri orizzonti?
Vedo nello studio delle lingue, della geografia e della storia
un prezioso aiuto per questa nuova cultura d’accoglienza?

L’università, Saulo la fa a Gerusalemme. Ritorna così, da Tarso, alle radici del suo popolo, nel cuore della Palestina. E’ quasi un master, un corso di perfezionamento. E gli è maestro un uomo molto saggio, un uomo dalla lunga barba, che tanto ha pregato, tanto ha studiato e tanto ha pensato: Gamaliele.
Sa valutare bene tutte le cose. Non ama prendere decisioni affrettate, sa calcolare con mitezza gli eventi. E lo è ancor di più di fronte ad un discepolo irruente com’era il giovane Saulo…
Rimase celebre la sua riflessione davanti ai discepoli del Cristo, che già operavano cose grandi, prodigi in mezzo al popolo. I capi ebrei li volevano eliminare. Erano troppo pericolosi. Allora Gamaliele si alzò e pronunziò questa sentenza, che resta luminosa ancora oggi, criterio di verità in molte questioni anche per me e per voi.
Disse: « Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine solamente umana, verrà distrutta, scomparirà da sè; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerla, perché Dio è dalla loro parte. Non correte il rischio di combattere contro Dio! » (Atti 5,34-39).
Con Dio non si scherza. La lezione della storia è chiarissima. Tanti che hanno perseguitato i cristiani o schiacciato i diritti umani, sono finiti nel nulla. Tante dittature che si credevano imbattibili, sono miseramente crollate. Tanti che pensavano di aver ragione e di poter fare i furbi, umiliando i poveri o imbrogliando, sono poi stati smascherati, con vergogna immensa.

Ma Saulo non ascolta molto il suo maestro. Purtroppo. Perché nell’impatto con la nuova fede, la fede dei discepoli di Gesù il Cristo, il Galileo, lui non la pensa come Gamaliele. Non sa aspettare.
Saulo è un fondamentalista. Un irruente. Vuole difendere la verità e la tradizione dei padri. Non sa dialogare. Ha paura. Perciò elimina l’avversario. Non lo vuol incontrare. Ma lo distrugge in modo implacabile.
C’è un episodio che lo definisce bene, nel suo carattere. Ma insieme lo segnerà profondamente. Perché è la storia che ci ammaestra sempre, specie quando non riusciamo ad ascoltare più i nostri maestri…e professori…
Un giorno fu condannato a morte un giovane cristiano, di nome Stefano (Atti 7,54-8,1). Mite e forte nella sua fede. Schietto e leale. Ma la sua luminosità faceva ombra a tanti, in Gerusalemme. Non si riusciva a resistere alla sua sapienza.
E venne condannato a morte, innocente, per lapidazione. I più grandi in età gli tirarono contro tanti di quei sassi da farlo morire. Schiacciato da una violenza inaudita.
Ma per avere le braccia libere, tutti quegli uomini maturi posarono i mantelli ai piedi di Saulo, perché ne facesse buona custodia. Lui non tirò i sassi, ma era complice di quel gesto di morte. Anzi, l’approvava in pieno.
Però restò conquistato dal volto sereno di Stefano, suo coetaneo, giovane come lui. Nel morire, non invocò vendetta. Anzi, chiese a Dio di perdonare i suoi uccisori. Pur morendo ingiustamente, non chiese giustizia contro di loro.
Saulo non capì. Non riuscì a darsi una spiegazione di quell’evidente eroismo.
Ma il volto di quel giovane gli resterà impresso per tutta la vita. La luce del Cristo, vincitore del male e della morte, si era riflessa su Stefano. Da Stefano a Saulo. Passando di volto in volto, di cuore in cuore.
E sarà quel volto a porre nel cuore di Saulo la prima scintilla di luce nuova nel buio della sua vita.

Perché, anche per noi, oggi, chi sa perdonare diviene un esempio immenso. Decisivo. Conquista, attrae. Non si dimentica mai una parola di scusa…chi chiede perdono ha sempre un volto luminoso. Chi offre le sue scuse, apre sempre feritoie di dolcezza nel nostro cuore. E’ il mite che conquista la terra, come dicono le Beatitudini (Matteo 5, 5).
Saulo si impegna a fondo contro la setta dei cristiani. con una decisione implacabile. Eccolo ora nei pressi di Damasco, pronto a ricondurre a Gerusalemme, in catene, i cristiani di quella città.
Ma è proprio lì che il Cristo l’attende…
Vi invito a leggere il racconto, che Paolo stesso fa di questo evento decisivo, nel capitolo 22 degli Atti. E’ vivacissimo, sembra di esservi presente, camminando con lui, abbagliati anche noi da quella luce immensa che lo fa cadere nella polvere. Lui, il perfetto, lui il sicuro, lui il persecutore, eccolo nella polvere.
Una domanda secca: « Ma chi sei? »
Ed una voce che cambia la sua vita: « Io sono Gesù di Nazaret, quello che tu stai perseguitando! ». E da quel cuore che odiava, ora esce una espressione commovente: « Signore, che vuoi che io faccia? ».
E la risposta, che guida ogni cammino di fede: Alzati, entra in Damasco: là qualcuno di dirà quello che Dio vuole da te! ».

Ecco i TRE PASSAGGI, che anche per me e per voi caratterizzano ogni cambiamento:
scendere da cavallo ed entrare nella polvere:
prendere cioè consapevolezza dei nostri limiti e difetti;
ammettere i nostri fallimenti; riconoscere di essere fragili e limitati…

Chi sei, Signore? cioè interrogarsi con lealtà su quella voce che nel nostro cuore e nella nostra coscienza ci morde, ci inquieta, ci pone domande nuove, ci stringe dentro, non ci lascia in pace, non ti fa dormire la notte…Voce che ti avvolge nei fatti che vivi, nelle parole dei genitori, di un prete, di un docente, o di un amico o di un’amica che ti legge dentro, di una poesia che ti affascina o di un tramonto  o di un bacio che t’incanta…
« Che vuoi che io faccia? »: cioè interrogarsi con chiarezza sulle scelte da fare, scelte tue, non imposte, ma maturate da te, solo da te. Fatte però non in modo capriccioso, ma leggendo nel cuore e nella tua storia, per riuscire a capire il tuo futuro.
E’ l’avventura più bella delle scuole superiori…!

E Saulo diviene Paolo.
Sperimenta vitalmente, a Damasco, la potenza della Parola di Dio. Inizia in città, con Ananìa che lo illumina. Poi, nel deserto, per lunghi anni, proseguirà la sua ricerca della Verità. Vede con chiarezza quanto la Parola di Dio ha compiuto nella sua vita. Era infatti un peccatore ed Essa lo ha purificato; era perduto ed Essa lo ha salvato; era un nemico di Dio ed Essa lo ha riconciliato; era morto nel peccato ed Essa lo ha risvegliato!
Cambia i suoi punti di riferimento. La valutazione delle sue cose. Quello che prima era prezioso, diviene ora vile e disprezzato. Quello invece che era da buttar via, ora si fa oro raffinato.
E’ il risveglio dell’Amore, in un mondo che sta morendo per mancanza d’Amore.
E’ l’incontro con Gesù, l’Amore!
Paolo ci svela così il segreto della vita, di ogni vita: solo nell’amore l’uomo si conquista alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza, della sua dignità. L’uomo è affermato nella sua irriducibilità di persona, interamente, solo se è PERSONALMENTE amato da Dio.
E Paolo lo  è stato! Ha visto e sentito un Dio che lo ama personalmente, che lo salva dalla perdita di se stesso, dalla perdita di ciò che in lui è. Paolo viene afferrato dal Mistero dell’amore che Dio ha mostrato di avere per tutti gli uomini in Cristo Gesù, morto e risorto. La sua fede è amore per Cristo Gesù. E l’amore rafforza la sua fede. Così tutto il suo cammino si farà speranza attualizzata.

 » Il resto della sua vita lo potrete seguire in altri testi.
O nelle lezioni di vita
durante il cammino scolastico….

A me, come vescovo, interessava ora darvi un assaggio. E l’abbiamo fatto, vedendo come Saulo è stato preparato per la sua missione. Come la sua famiglia, la sua città, la sua patria gli siano state cattedre di vita. Nelle tre lingue che lui parlava: ebraico, greco e latino. Nelle culture di cui egli era impregnato.
Ma tutto questo ha avuto in lui pienezza, perché Saulo ha incontrato, sulla via di Damasco, il Cristo Gesù, l’Amore della sua vita.

E la sua esistenza è cambiata. La sua vita ha ora un sapore preciso, inconfondibile: quello della carità e dell’amore gratuito. Le tre culture che lo avvolgevano rifioriscono in una sintesi nuova. Entra in dialogo con Dio e perciò sa amare ed incontrare ogni uomo. Ogni cultura. Non la vede più da fondamentalista, cioè da chi vuole distruggere l’altro, considerato come nemico. Ma nell’avversario riconosce ora un fratello, segno visibile di quel Cristo che egli pensava di perseguitare.
E’ la dolcezza della conquista  e la conquista di sé. E’ la gioia di partire con…e non più contro qualcuno. Grato al Signore, capisce che fin dall’inizio il suo palpito pulsava nel misterioso abisso della Sua presenza!
il diverso è un dono, da valorizzare, non da eliminare. LA DIVERSITÀ È RICCHEZZA. Le lingue nuove sono un mosaico di luce, dai mille colori, come le foglie delle querce in autunno…
Né fondamentalismo né relativismo, ma dialogo e incontro!

ma è questo sole d’autunno, mite e dolce, che rende belli tutti i colori. Non basta l’educazione stradale o civica. Occorre un incontro, una luce superiore. Una Luce nuova fa vedere nuove tutte le cose. E’ il Cristo, che ti auguro di poter incontrare sulla tua strada. Magari anche cadendo da cavallo, cioè dalle tue presunte sicurezze. E’ capitato anche a me, nella mia vita. Quante volte mi sono ritrovato nella polvere, con una spina nel fianco. Ma proprio allora mi sono sentito amato da quell’Amore che fa nuove tutte le cose e ringiovanisce ogni cuore…Rialzato dalla sua mano, ho ripreso a correre.

Ed è proprio la corsa lo stile più bello di san Paolo. Quello più affascinante. Anche per me. In un momento amaro della mia vita, incerto sul mio futuro, aprii a caso le lettere di Paolo e mi capitò proprio questo brano: « Io non sono ancora arrivato al traguardo, non sono ancora perfetto. Continuo però la mia corsa, per tentare di afferrare il premio, PERCHÉ ANCH’IO SONO STATO AFFERRATO DA CRISTO GESÙ…dimentico del passato, proteso verso il futuro, corro verso la meta, per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù » (Filippesi 3,7-14). Capii che non ero io a scegliere. Ma che ero stato già scelto. Che non inseguivo il vuoto, ma ero attratto dietro il profumo di Colui che mi aveva già amato. Che mi afferra quando mi lancio nella vita. Niente paura. Niente rimpianti, niente rimorsi.
Allora, la fatica stessa nel cammino della vita viene valutata in modo diverso. Paolo paragona questa fatica al gemito. Il gemito del nascituro. Perché la vita non è uno sfascio, ma un parto, una rigenerazione. Geme anche la creazione, quando è violata, quando la inquiniamo, quando è bruciata. Avvolti dal fuoco anche i vecchi ulivi pare che emettano un forte gemito! Ma geme anche il tuo cuore, quando non ce la fai ad essere migliore, quando « scopri in te il desiderio del bene, ma non la capacità di compierlo. Perché non compi il bene che vuoi, ma ti ritrovi a fare il male che non vuoi »! (cfr Lettera ai Romani capitoli 7 e 8). Ma tutti e tre i gemiti (della vita, della creazione e del cuore) sono ascoltati dalla voce dello Spirito, che sa leggere nei nostri gemiti e li sa trasformare in poesia, in preghiera, in cuore attento, in fiducia, in Amore.

Ecco perché chiudo con una delle pagine più belle di san Paolo, che ha conquistato il cuore di tutti, lungo la storia. E’ la pagina sull’amore, che egli detta alla chiesa di Corinto (capitolo 13):

Chi ama, è paziente e premuroso.
Chi ama, non è geloso,
non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio.

Chi ama, è rispettoso,
non va in cerca del proprio interesse,
non conosce la collera,
dimentica i torti.

Chi ama, rifiuta l’ingiustizia,
la verità è la sua gioia.
Chi ama, tutto scusa,
di tutti ha fiducia, tutto sopporta,
non perde mai la speranza

La scienza ci dice che il carbonio può trasformarsi o nel nero carbone, pesante e rozzo, oppure, per un particolare processo di calore, in un magnifico diamante. Carbone e diamante hanno la stessa composizione chimica. Cambia solo la loro relazione di particelle. La loro finalizzazione.
Così è stato san Paolo: poteva essere un carbone scuro e cattivo, che sporca ed inquina. Ma con il calore dell’Amore di Dio, lui è divenuto un diamante purissimo e luminosissimo.
La vita veramente dipende da te. Ha il sapore che le dai.
Fanne un diamante, che riluce di bellezza immensa, perché anche tu, come Saulo, hai incontrato la Luce… 
Buon cammino, sulle strade del Molise,

tuo affezionatissimo  + padre GianCarlo, Vescovo

di Gianfranco Ravasi : Quella torsione del pensiero chiamata conversione (Paolo, citazioni)

dal sito:

http://www.made-inbet.net/news_services/or/or_quo/cultura/161q05a1.html

OSSERVATORE ROMANO – 16 LUGLIO 2009

Il coraggio di cambiare punto di vista

Quella torsione del pensiero chiamata conversione

Togliti i sandali. Il coraggio di cambiare (Milano, Paoline, 2009, pagine 183, euro 13) è il titolo di un libro scritto damonsignor Fortunatus Nwachukwu, capo del Protocollo della Segreteria di Stato. Pubblichiamo la prefazione del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Gianfranco Ravasi

« O Signore, dacci la serenità di accettare quello che non si può cambiare, il coraggio di cambiare quello che va cambiato e la saggezza per distinguere l’uno dall’altro ». Così pregava il teologo americano Reinhold Niebuhr, morto nel 1971, e questa invocazione potrebbe essere l’epigrafe ideale per le pagine che sono ora di fronte a noi. Esse ruotano, infatti, attorno a un verbo essenziale per la vita e per la spiritualità:  cambiare. Pensiamo solo a quanto radicale sia stato il mutamento che abbiamo subito alle origini stesse della nostra esistenza, quando siamo usciti dalla quiete e dall’oscurità del grembo materno per affacciarci alla luce, alla libertà, all’ignoto. Su questo fondamentale cambiamento strutturale la psicologia e la psicanalisi hanno intrecciato quasi l’intera trama delle loro ricerche.
Pensiamo anche al vero e proprio trauma che comporta, a livello spirituale, una conversione:  la « via di Damasco » dell’apostolo Paolo ne è un emblema folgorante, tant’è vero che egli parlava di un « essere afferrato », quasi ghermito e impugnato da Cristo per un’avventura totalmente nuova e inattesa (Filippesi, 3, 12). Sappiamo inoltre quanto forte sia la paura del futuro che si para innanzi agli israeliti, in marcia per quel cambiamento decisivo della loro storia che è stato l’esodo dall’Egitto, e con la loro nostalgia delle pentole di rame e delle cipolle della schiavitù, ne sono la rappresentazione simbolica.
Scritto da un sacerdote che sa unire la finezza dell’analisi esegetica e della riflessione teologica con quella del servizio diplomatico per la Santa Sede, che intreccia l’acutezza e la limpidità del dettato con l’intensità e la profondità della sua proposta spirituale, destinata a tutti, questo suggestivo libro si propone quasi come una guida per il cammino, impegnativo e talora anche lacerante, del cambiamento. Usando una sua immagine, siamo invitati a lavare i piedi impolverati dai sentieri percorsi in passato per inoltrarci, liberi e spediti, sulle vie della trasformazione interiore, lasciando cadere inceppi e remore, catene e abitudini.
Non per nulla la prima « predica » di Gesù, riferita dai Vangeli, è fatta di poche ma incisive parole che si aprono con un imperativo, « convertitevi », che nell’originale greco metanòeite presuppone un « cambiare mente », una vera e propria torsione del pensiero, della visione delle cose e della stessa esistenza per avviarsi su un sentiero d’altura che tende non a una vetta, ma all’infinito del cielo:  « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Matteo, 5, 48). È un percorso proposto al singolo e all’intera Chiesa, un cammino talora complesso e arduo, un itinerario necessario se non si vuole sentire il monito aspro di Cristo:  « Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo » (Luca, 13, 3).
Monsignor Fortunatus ricorre – anche nello stile comunicativo proprio delle sue origini africane – a un linguaggio di straordinaria efficacia narrativa. Sulla scia della stessa predicazione di Gesù, ama la parabola, il racconto di un evento esemplare, il simbolo, rendendo così le sue pagine particolarmente vivide e fragranti. Ma soprattutto attinge a quel mirabile « grande codice » della nostra fede e della nostra cultura che è la Bibbia. E per questo che il cuore del suo libro è costituito da una sorta di trittico le cui tavole sono dipinte con i colori e con i soggetti desunti dalle Sacre Scritture. Vorremmo ora soltanto evocare queste tre scene di « cambiamento », lasciando poi al lettore di gustarle nella rappresentazione luminosa e intensa del testo. A venirci incontro è innanzitutto Mosè con l’esperienza del roveto ardente che ne trasformerà la vita. Tutto inizia con quella decisione indispensabile:  «  »Voglio avvicinarmi a vedere ». Il Signore vide che si era avvicinato a vedere e Dio lo chiamò dal roveto » (Esodo, 3, 3-4). Nell’originale ebraico c’è un « voltarsi » che evoca la conversione e che sostiene il desiderio di « vedere ». Ma l’attenzione è poi trasferita sul gesto dai tratti metaforici:  « togliersi i sandali ». Scavando all’interno di questo simbolo biblico, monsignor Fortunatus ne svela il significato profondo:  « Dio chiede a Mosè di rinunciare a questo simbolo di possesso materiale, di diritto di proprietà, di dignità, di libertà, di protezione, di generale benessere, così da passare da uno stato di prosperità materiale a uno di povertà innanzi a Lui ». In tal modo, i suoi piedi nudi e spogli, cioè la sua realtà umana purificata, possono entrare in contatto vivo con la « terra santa » dell’epifania divina, ricevendone l’energia vitale e salvifica:  « Attraverso il contatto diretto e senza impedimento tra i suoi piedi e il suolo, Mosè è « caricato » e cambiato dalla corrente di santità proveniente da quella terra santa ».
La seconda tavola del trittico ha al centro un cieco, uno dei tanti malati che Gesù incontra nei Vangeli, ma che è qui identificato con un nome proprio:  Bartimeo (Marco, 10, 46). Al suo grido risponde alla fine la voce stessa di Gesù, per tre volte in un solo versetto l’evangelista introduce il verbo « chiamare », fonèin in greco, ossia la voce:  « Gesù si fermò e disse:  « Chiamatelo! ». Chiamarono il cieco dicendogli:  « Coraggio! Alzati, ti chiama! »" (v. 49). A questo appello e alla guarigione subentra il cambiamento di esistenza di quell’uomo che ha ora come simbolo il mantello, segno di possesso, di identità, di personalità.
Scrive don Fortunatus:  « Come Mosè toglie i suoi calzari innanzi al Signore nel roveto ardente, così il nostro mendicante cieco getta ora il suo mantello. È il mantello da lui usato sia per coprirsi sia per ricevere l’elemosina dei passanti. In esso era l’intera sua esistenza concreta, quella per la quale la gente lo conosceva – il cieco, mendicante lungo la strada. Gettandolo via, egli ora abbandona il suo precedente modo di vivere. Non vuole più stare seduto lungo la strada ». E infatti adesso Bartimeo non solo « riacquista la vista », ma anche « prende a seguire Gesù lungo la strada »; una nuova vita per una nuova creatura. E la strada è anche al centro della terza scena del nostro trittico. Essa vede snodarsi la storia di quel figlio difficile e pentito che noi abbiamo tradizionalmente definito come « figlio prodigo ». E la celebre parabola di Luca che ha appunto in filigrana una via, prima di perversione e poi di conversione. Non per nulla nel linguaggio anticotestamentario « convertirsi » è shuv, che letteralmente significa « ritornare » sulla pista che si era abbandonata perdendoci lungo le distese del deserto dell’esistenza.
Commenta così l’autore il cuore della narrazione di Luca con la scelta del figlio di cambiare vita:  « La sua decisione implica tre azioni:  alzarsi, andare dal padre e parlargli. Il suo alzarsi, come quello del mendicante cieco, Bartimeo, nel suo incontro con Gesù, è presentato come una dnàstasis, una risurrezione, un ritorno alla vita. Questo comporta un cambio di posizione, dalla postura orizzontale della morte (disteso, seduto e accovacciato) alla posizione verticale o eretta della vita. Implica anche abbandonare la « tomba », il luogo della morte, con la sua soffocante mancanza di aria e la sua grigia assenza di luce, oltre naturalmente ai primi sintomi di putrefazione. Perciò, appena il giovane rompe con il sepolcro della sua vita passata, prova la sensazione di un’improvvisa corrente di aria nuova, di luce e libertà, di freschezza e di rinascita. Il padre del giovane più tardi avrebbe dichiarato:  « Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Luca, 15, 24) ». Lasciamo ora ai lettori di percorrere con la guida di monsignor Fortunatus la strada del cambiamento che è conversione. Tanti sono gli squarci che egli aprirà davanti ai nostri occhi per svelare le molteplici iridescenze di questa esperienza spirituale e umana d’importanza capitale, ammonendoci anche sulle fatiche, le lotte, il rigore che la trasformazione interiore esige. Ma, come diceva lo scrittore cattolico francese Julien Green, « finché si è inquieti, si può stare tranquilli ». Finché in noi c’è il fremito del cambiamento, è segno che siamo spiritualmente vivi e vitali. E ciò che alla fine ci attende è un abbraccio di pace e di felicità, come quello che si scambiano il padre e il figlio pentito della parabola di Luca e come quello che fiorisce nella dolce e appassionata preghiera poetica con cui si chiude questo volume.

di Bruno Forte: Riconciliazione senza Teshuwah?…L’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico(anche Rm 11)

 dal sito:

http://www.nostreradici.it/riconciliazione-teshuwa.htm

Riconciliazione senza Teshuwah? (anche Rm 11)

sulla Teshuwah vedere articolo sul sito:

http://www.mosaico-cem.it/article.php?section=intervento&id=105

Bruno Forte 

Un intervento sui rapporti tra cristiani ed altri nel contesto dell’Assemblea ecumenica di Graz. Riconciliazione senza “Teshuwah”?  L’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico.
 
L’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico è il tema su cui siamo chiamati a riflettere insieme in questo Forum. Per avviare correttamente la riflessione mi sembra opportuno fare alcune osservazioni preliminari. 

La prima è che la prospettiva in cui ci muoviamo è quella di cristiani che si interrogano sul loro rapporto col popolo ebraico: in tal senso la finalità precipua del nostro incontro è quella di una revisione di vita all’interno delle Chiese cristiane. In quanto tali, esse riconoscono l’importanza fondamentale del raduno escatologico d’Israele, per il quale Gesù ha speso la Sua vita, e fanno propria la meditazione di Paolo sul “mistero” per cui questo raduno è dilazionato nel tempo (cf. Rom 9-11). Al tempo stesso, come rappresentanti delle Chiese che sono in Europa, riconosciamo in partenza l’enorme apporto che l’ebraismo ha dato alla formazione della coscienza europea e in generale dell’ethos dell’Occidente, sia mediante paradigmi di fondo, come il senso di una storia orientata all’éschaton e la relazione al Dio unico e personale, sia attraverso innumerevoli pensatori e protagonisti, quali – per fare solo nomi significativi del nostro secolo – Martin Buber, Franz Rosenzweig, Emmanuel Lévinas e tanti altri. 

Una seconda osservazione riguarda l’idea stessa di “riconciliazione”, in quanto riferita ai rapporti fra l’autocoscienza cristiana e il popolo ebraico. Secondo Paolo la vera e piena riconciliazione fra i due popoli appartiene al tempo della fine: Essa coinciderà con qualcosa paragonabile a una “risurrezione dai morti” (Rom 11,15). Questo significa che nel tempo intermedio fra il primo e l’ultimo avvento del Signore Gesù ciò che è possibile e doveroso cercare è un cammino verso la riconciliazione, più che una riconciliazione compiuta, riconoscendo che questa apparterrà al tempo, che il Dio della promessa riserva per tutti noi. 

Questa chiarificazione libera subito da attese azzardate. salvi restando gli itinerari individuali possibili, che rispondono ai disegni particolari dell’Eterno su ciascuno, Israele e la Chiesa dovranno camminare inconfusi, anche se inseparabili, fino all’integrazione finale operata dal Signore, in quello “shalom” escatologico, che è l’oggetto della speranza messianica di entrambi i popoli. L’idea di una riconciliazione in cammino, piuttosto che compiuta, supera definitivamente ogni ipotesi di sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe semplicemente preso il posto d’Israele nel piano divino della salvezza: è lo stesso Paolo che mette in guardia dal vanificare quello che egli chiama il “mistero” (Rom 11,25), in base al quale Israele – nella misura in cui mantiene la fede dei Padri – resta il testimone dell’elezione e delle promesse di Dio e richiama alla Chiesa la “radice santa” (cf. Rom 11,16 e 18) su cui essa è innestata e dalla quale non è mai lecito prescindere. 

Nell’unità dell’economia della salvezza c’è Israele, il popolo dell’alleanza mai revocata anche se non ancora pienamente compiuta, e c’è la Chiesa, il popolo stabilito nell’alleanza posta dal sangue di Cristo: unico è il disegno salvifico, ma diverse le alleanze, da quella con Noè, a quella con Abramo e i patriarchi, dall’alleanza mosaica a quella stabilita nella morte e resurrezione del Signore Gesù. Unica è la struttura fondamentale della relazione attuata mediante la rivelazione, per la quale l’Eterno si è destinato nell’amore al suo popolo e questo è chiamato a destinarsi a Lui nella fede, ma diverse sono le tappe e le forme dell’economia. 

Non ci sarà allora autentico cammino di riconciliazione fra la Chiesa e Israele senza il riconoscimento del valore irrinunciabile della “radice santa”, e perciò senza un effettivo, forte amore dei cristiani nei confronti della promessa fatta ai Padri, dei testi in cui essa si esprime e del popolo che ne è stato e ne è testimone nella storia a prezzo anche della vita. Ma non sarà nemmeno autentico un cammino di riconciliazione che escludesse per i cristiani la confessione di Gesù come Signore e Cristo, resa dimostrando con la parola e con la vita che è lui la pietra di scandalo posta in Sion, ma che “chi crede in lui non sarà deluso” (Rm 9,33). 

In altre parole, i due popoli devono camminare uniti verso la stessa meta, ma la Chiesa, riconoscendo Israele come la radice che la precede e la fonda, non potrà fare a meno di guardare allo stesso Israele e al futuro della promessa attraverso la rivelazione del Signore Gesù. Questa idea è espressa dall’immagine patristica, tratta dalla Scrittura, degli esploratori inviati da Mosè nel paese di Canaan, che “giunsero fino alla valle di Escol, dove tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono in due con la stanga” (Num 13.23) per mostrarlo al popolo e accendere il desiderio della conquista. Nel legno da cui pende il grappolo i Padri hanno riconosciuto la Croce da cui pende Cristo: “Figura Christi pendentis in ligno” (Evagrio, altercatio inter Theophilum et Simonem: PL 20,1175). Nei due portatori dell’asta hanno visto invece la Chiesa e Israele, che guardano entrambi verso la stessa meta, uniti dalla stessa speranza. 

La differenza sta nel fatto che mentre Israele precede e vede perciò davanti a sé l’aperto orizzonte, la Chiesa, che segue, guarda sì allo stesso orizzonte, ma lo fa attraverso il grappolo appeso e il legno dell’asta, oltre che attraverso chi la precede, attraverso cioè il Signore Crocefisso ed il popolo e i testi dell’alleanza mai revocata. “Subvectantes phalanguam, duorum populorum figuram ostendebant, unum priorem, scilicet vestrum, terga Christum dantem, aliud posteriorem, recemum respicientem, scilicet noster populus intelligitur” (ib.). 

Camminare all’unisono, anche se nella diversità, è dunque il compito da assolvere la vista della riconciliazione finale: il che richiede alla Chiesa di coniugare la confessione del Signore Gesù all’amore verso Israele, nella consapevolezza di una dualità ed anche di una scissione che devono essere vissute nel profondo rispetto reciproco, nella comune testimonianza del Dio unico e nella comune attesa del compimento delle Sue promesse, quando ci sarà riservato il dono dello “shalom” finale. 

Questa concezione è così espressa dal Sussidio per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella catechesi della Chiesa cattolica: “Sottolineando la dimensione escatologica del cristianesimo, si giungerà ad una maggiore consapevolezza del fatto che quando il popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza considera l’avvenire, esso tende – anche se partendo da due punti di vista diversi – verso fini analoghi: la venuta o il ritorno del Messia. E ci renderà conto più chiaramente che la persona del Messia, sulla quale il popolo di Dio è diviso, costituisce per questo popolo anche un punto di convergenza” (II,10). 

In termini in parte analoghi è nell’escatologia messianica che l’ebreo Gershon Scholem riconosce il punto di incontro e di differenziazione fra Israele e la Chiesa: “Ciò che l’ebraismo ha posto irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, la quale si trova allora promossa al titolo particolare di “storia della salvezza”” (Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova, 1986, 107s). 

Sappiamo, tuttavia, che non sempre la relazione fra ebraismo e cristianesimo è stata pensata così: la storia passata è anzi colma di pregiudizi e di incomprensioni dei cristiani nei confronti del popolo ebraico. Ecco perché per avanzare nel cammino della riconciliazione occorre la “teshuwah”, parola ebraica che significa “ritorno”, “conversione”. 

Essa si pone a differenti livelli: in primo luogo occorre individuare e riconoscere con precisione le colpe commesse contro il popolo ebraico e i loro effettivi responsabili. Ciò non va fatto solo in rapporto alla Shoah, ma anche più in generale in relazione a quell’”insegnamento del disprezzo”, che è stato alla base di tanto antisemitismo e di tante sofferenze del popolo eletto. Tuttavia, bisogna riconoscere che un’ammissione di colpa troppo generale rischia di svuotare di senso la “teshuwah”, scaricando le responsabilità su colpevoli tanto numerosi, quanto generici. 

A nulla varrebbe dichiararsi tutti in colpa se questa confessione non esprimesse una consapevolezza precisa ed una conseguente assunzione di responsabilità. Occorre allora piuttosto confessare le colpe effettivamente commesse, chiedendo a tutti quella larghezza di cuore che ci renda capaci di chiedere perdono anche a nome di quanti sono stati effettivamente colpevoli negli eventi della Shoah, consumatasi nell’Europa cristiana. 

Questa larghezza di cuore dovrebbe estendersi ad abbracciare tutti gli olocausti di cui la famiglia umana si è resa responsabile, anche nel nostro secolo. In altre parole, la ferma condanna dell’antisemitismo deve portare i cristiani a riconoscerne le radici nel proprio passato e – lì dove necessaria – nel proprio presente per purificarsene, ma deve coniugarsi anche a una più profonda sensibilità nei confronti di tutte le forme di violazione dei diritti umani, per vivere un’effettiva solidarietà verso i vinti e gli oppressi. Questo atteggiamento di autentica “teshuwah” è richiesto peraltro anche al popolo ebraico attuale, che proprio così può mostrare l’eccellenza della sua elezione e la singolarità della misericordia del Signore di cui ha fatto esperienza.

Al tempo stesso, la “teshuwah” non potrà confondere l’amore a Israele e il riconoscimento del suo significato di testimone del Dio unico anche nell’oggi con un indiscriminato sostegno alla linea politica che di volta in volta potranno avere i governanti dello Stato d’Israele. Anzi, la “teshuwah” – proprio a partire dall’obbedienza alla Parola del Signore – potrà a volte richiedere un atteggiamento critico nei confronti di scelte che non siano rispettose dei diritti di tutti, specie dei più deboli. 

Ho così accennato al complesso di questioni che sono alla base della nostra riflessione comune: le riassumo per sollecitare più precisamente il contributo dei nostri testimoni e dei nostri esperti. Quale valore ha per i cristiani l’esistenza del popolo ebraico fino ai nostri giorni? come definire e riconoscere con onestà la responsabilità dei cristiani nei confronti dell’antisemitismo? come coniugare l’amore alla « santa radice », che è Israele, alla novità rappresentata dal Signore Gesù? in che senso la fede ebraica fa parte costitutivamente dell’identità cristiana? come una più profonda conoscenza della tradizione ebraica vivente può favorire una migliore comprensione della rivelazione e della fede cristiana? come si può perseguire un vero cammino di riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nell’attesa dello « shalom » finale, da entrambi sperato? In questa prospettiva di veracità e crescita comune davanti a Dio, mi pare importante che i cristiani rivolgano domande anche all’interlocutore ebraico, incoraggiati peraltro a farlo da alcune voci particolarmente incisive provenienti dallo stesso Israele odierno, che sperimenta la condizione del tutto nuova dopo duemila anni di essere maggioranza forte in un paese libero: che cosa è possibile ed è giusto chiedere ai nostri fratelli maggiori, gli Ebrei, perché questo cammino sia più facile e spedito per tutti? in che senso e in quali forme la « teshuwah » può riguardare anche loro, ad esempio nei confronti della minoranza araba, islamica e cristiana, presente in Israele? 

Nel desiderio che il cammino di riconciliazione avanzi su queste premesse, le Chiese d’Europa potrebbero compiere qualche gesto significativo, che serva da richiamo costante all’importanza decisiva del rapporto di riconoscenza e d’amore con la loro comune « radice » ebraica: sin da ora segnalo due gesti, che sono già proposti nella comunità cattolica italiana e che potrebbero essere assunti da tutte le comunità cristiane del nostro continente. 

Il primo è l’appello ai cristiani a non nominare il tetragramma , sia per rispetto ai fratelli ebrei, sia per una coerente ed integrale accettazione della rivelazione, che nella proibizione di pronunciare il Nome santo veicola il rispetto e l’adorazione verso la trascendenza divina. La fede dell’ebreo Gesù, che non ha mai pronunciato il Nome, dovrebbe essere esemplare e normativa per i suoi discepoli. 

Il secondo gesto potrebbe essere l’invito a tutte le Chiese d’Europa a celebrare unite una « giornata dell’ebraismo », tesa a favorire la conoscenza del mondo ebraico da parte dei cristiani e il dialogo con l’Israele presente. La scelta fatta dalla Chiesa cattolica in Italia di porre questa giornata al 17 gennaio, vigilia della settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, esprime bene l’autonomia e il collegamento fra la causa ecumenica e l’amore a Israele, « radice santa », nella diversità delle forme, che sono appunto conoscenza e dialogo da una parte, preghiera comune dall’altra.

Ravasi: «S. Paolo non pensava di subire il martirio a Roma»

dal sito:

http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli/83088_ravasi_s._paolo_non_pensava_di_subire_il_martirio_a_roma/

Ravasi: «S. Paolo non pensava di subire il martirio a Roma»

28 luglio 2009

San Paolo non pensava di morire martire a Roma. Lo sostiene monsignor Gianfranco Ravasi, già Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che da due anni ricopre la carica di Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, nonché del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa. L’insigne biblista ha illustrato a « La Provincia », in un’intervista esclusiva, i risultati delle nuove e recenti scoperte avvenute a Roma.

Monsignor Ravasi, qual è il nucleo di maggior interesse dell’esposizione?

«Gli scavi più recenti nella Basilica di S.Paolo hanno restituito reperti e testimonianze che, trasportate nei Musei Vaticani e in parte qui esposte, costituiscono gli elementi più interessanti della mostra».

Vuol parlarcene, monsignor Ravasi, specificando se costituiscono una testimonianza della presenza del corpo di S.Paolo nella sepoltura sotto la Basilica di via Ostiense?

«Tra i quattro sarcofagi paleocristiani rinvenuti nel sottosuolo basilicale, accanto alla sepoltura di S.Paolo è riaffioro quello di S.Timoteo, ritenuto suo discepolo: anche se è poi risultato un martire del secolo IV, è indicativo che il suo sarcofago sia stato collocato qui, accanto a quello ormai ritenuto di S.Paolo, del quale in mostra è presentato il calco del coperchio con l’iscrizione « Paulo Apostolo Martyri ». Inoltre, nell’orto retrostante la basilica, sono stati scoperti frammenti di vari marmi classici di reimpiego».

Di che reperti si tratta, precisamente?

«Sono stati rinvenuti un putto, la figura alata forse di una Vittoria, un Ippolito, monete dall’età romana al VII secolo, che attestano la realtà pagana in cui si impiantò il primo Cristianesimo e in cui operò S.Paolo. Infatti i resti ossei e proteici rilevati dalla sonda recentemente inserita nel sarcofago paolino, sottoposti all’esame del carbonio 14 sono risultati del primo secolo dopo Cristo».

Perché l’Apostolo, dopo i viaggi e le predicazioni in Asia Minore, decise di venire a Roma, dove lo attendeva il martirio?

«Paolo di Tarso non si aspettava il martirio. Aveva grande fiducia nella lex romana. Era un Ebreo della parte dei Farisei, ma parlava e scriveva greco, aveva familiarità con lo sport – da esso sono tratte le sue metafore « sto per sciogliere le vele », « ho terminato la mia corsa », « ho conservato alta la fiaccola della fede », « ho combattuto la buona battaglia ». Soprattutto Paolo era cittadino romano e nutriva una incrollabile fiducia nella tradizione giuridica di Roma: pur essendo stato arrestato a Gerusalemme dal Sinedrio probabilmente come sovversivo, ed avendo trascorso gli arresti domiciliari a Cesarea, chiese lui stesso di essere processato a Roma».

Qui San Paolo fu dapprima liberato, poi nuovamente arrestato sotto Nerone e decapitato sulla via Laurentina, nel 67 circa. Il luminoso ritratto affrescato nelle Catacombe di Domitilla (secolo III-IV), è talmente naturale da far ipotizzare un modello tramandato oralmente. Ora è stato scoperto un altro indubbio ritratto…..

Dagli scavi in corso condotti dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nelle Catacombe di S.Tecla, prossime alla Basilica di S.Paolo, è affiorata nella volta di un cubiculum un’immagine affrescata assai espressiva dell’Apostolo, del IV secolo circa, coi tipici caratteri della calvizie e della barba a punta, che sarebbe la più antica».

Gli indizi sull’identità della tomba di San Paolo si accumulano, convergendo sul sepolcro poi monumentalizzato dalla Basilica di età teodosiana incendiata nell’Ottocento, e confermati dall’esame del carbonio 14. Ma da parte laica si chiede l’analisi del Dna dei resti ossei del sarcofago di S.Paolo…

«Il Vaticano non ritiene per ora di procedere ad ulteriori prove di carattere scientifico».

Verso il Natale con San Paolo

lo so che questo articolo di Mons Tommaso Stenico è un po’ fuori del tempo liturgico, ma mi è piaciuto e lo metto, in particolare la frase d’inizio: « Ho quasi l’impressione che ci siamo dimenticati dell’Anno Paolino »,  io ce l’ho ora l’impressione che ci stiamo dimenticando dell’anno paolino, dei grandi risultati che ha portato, ho l’impressione che i « frutti » debbano essere ancora raccolti, forse qualcuno lo sta facendo, vorrei farlo anche io, ma è vero che non è facile, anzi non è facile per niente; sembra quasi che sia difficile trovare un filo conduttore, un percorso; spero che lo troveremo e sarà possibile ripercorrere la bellezza e lo « straordinario » dell’incontro con Paolo;

dal sito:

http://www.pontifex.roma.it/index.php/editoriale/il-fatto/956-verso-il-natale-con-san-paolo-propter-nos-homines-et-propter-nostram-salutem-per-noi-uomini-e-per-la-nostra-salvezza-discese-dal-cielo

Verso il Natale con San Paolo :

“Propter nos homines et propter nostram salutem. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”     

Lunedì 22 Dicembre 2008

Ho quasi l’impressione che ci siamo dimenticati dell’Anno Paolino! L’anno giubilare dedicato all’Apostolo delle Genti sta scorrendo molto alla chetichella. Mi auguro che – almeno a livello personale – si profitti di questo felice occasione per leggere, almeno, gli Scritti di Paolo di Tarso. Nel contesto dell’Anno Paolino prepariamoci alla Natività con le riflessioni del grande Apostolo. Ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: “La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento di tale portata che Dio lo ha voluto preparare nel corso dei secoli. Riti e sacrifici, figure e simboli della « prima Alleanza » (Eb 9,15),  li fa convergere tutti verso Cristo; lo annunzia per bocca dei profeti che si succedono in Israele; risveglia inoltre nel cuore dei pagani l’oscura attesa di tale venuta”. La liturgia dell’Avvento ci ha accompagnati con la lettura del profeta Isaia: in lui,  più che in altri profeti risuona l’eco della grande speranza …

… che conforta il popolo eletto durante i difficili secoli della sua storia. L’Avvento celebra “il Dio della speranza” (Rm 15, 13) e fa vivere la gioia speranza (cf Rm 8, 24-25).

Questa speranza prende corpo nell’ “avvenimento unico e totalmente singolare” (CCC 464) che san Paolo proclama dicendo: “Dio ha inviato suo Figlio” (Ga 4, 4). E’ questa la Buona Novella: Dio ha visitato il suo popolo, ha compiuto le promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza; lo ha fatto superando ogni più rosea aspettativa: ha inviato il suo Figlio amato. (cf CCC 422).

Tuttavia, per “formargli un corpo” Dio Padre ha chiesto la libera cooperazione di una creatura. Maria è stata invitata a concepire colui nel quale abiterà “corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2, 9). In Maria si è inaugurata “la pienezza del tempo” : “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”. (Gal 4, 4-5).

L’Avvento ha posto felicemente in evidenza la relazione e la cooperazione di Maria nel mistero della redenzione. La solennità dell’Immacolata fa parte del mistero che celebriamo. Non è un’aggiunta, ma una collocazione liturgica assai provvida. Maria Immacolata è il prototipo della umanità redenta, il frutto più splendido della venuta redentrice di Cristo. Dio ha chiesto che Maria, come ha cantato il prefazio della solennità “fosse inizio e immagine della Chiesa, sposa di Cristo, senza macchia e senza ruga”.

Nel suo purissimo grembo Dio ha “assunto una natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza”. (CCC 461). Nella lettera ai Filippesi (cf Fil2, 6-11) –“uno dei testi più elevati di tutto il Nuovo Testamento”, come ha detto Benedetto XVI nel Udienza del 22.10.2008, – San Paolo canta il mistero dell’Incarnazione: “Cristo Gesù … il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. (Filip 2, 5-8).

L’Apostolo delle Genti ci rivela in queste parole l’orientamento pasquale del mistero della Incarnazione. Il Figlio di Dio prende corpo per offrirsi al Padre in sacrificio. La Lettera agli Ebrei pone sulle labbra dello stesso Cristo alcune parole del Salmo 40 che esprimono il carattere redentivo della Incarnazione: “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.  Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”.

Betlemme e Gerusalemme sono unite nel disegno salvifico di Dio Padre, nel mistero redentore del Figlio, nella virtù feconda dello Spirito Santo.

Perché questa obbedienza? Perché questa umiliazione? Perché questa sofferenza?
Le risposte le troviamo nel credo: “Propter nos homines et propter nostram salutem: per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”.

“Gesù è disceso dal cielo per farvi risalire lassù a pieno diritto l’uomo, e, rendendolo figlio nel Figlio, per restituirlo alla dignità perduta col peccato. È venuto per portare a compimento il piano originario dell’Alleanza. L’Incarnazione conferisce per sempre all’uomo la sua straordinaria, unica, ineffabile dignità”. (Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 25.3.1981)
 

Tutto ciò che fa, pensa e predica San Paolo è centrato sulla offerta generosa di Gesù nella Incarnazione e nella croce fino al punto di costituire la motivazione più intima e profonda della sua vita.
Nella lettera ai Galati dichiara: « … Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2, 20).
La sua fede è l’esperienza di essere amato da Gesù Cristo; l’impatto dell’amore di Dio nel suo cuore.
Così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
 
Che l’esempio e la dottrina dell’Apostolo Paolo ci facciano “comprendere con tutti i santi l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo” (Ef 3,18) manifestato a Betlemme.

di Mons. Tommaso Stenico

LO SPIRITO ATTESTA CHE DIO È NOSTRO PADRE (di Gianfranco Ravasi)

dal sito:

http://www.stpauls.it/fc/0923fc/0923f137.htm

LO SPIRITO ATTESTA CHE DIO È NOSTRO PADRE (Rm 8)

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

(Romani 8,14-17)    

È noto che il capitolo 8 della Lettera ai Romani costituisce quasi un apice all’interno della grandiosa architettura teologica del celebre scritto paolino. Questa vetta è tutta avvolta nella luce perché, dopo che sono state percorse le strade tenebrose del peccato, appare ora la vita secondo lo Spirito. E questa nuova vita è descritta nella sua qualità profonda proprio nel brano che la liturgia della solennità della Trinità ci offre. Certo, la finalità primaria è quella di illustrare la presenza trinitaria che si affaccia in questa pagina: c’è, infatti, Dio Padre, ma c’è pure Cristo, il Figlio, mentre in tutto il brano aleggia lo Spirito di Dio.

Noi, però, ci soffermeremo su chi contempla la Trinità e si sente ammesso a partecipare alla sua stessa vita, cioè il cristiano. Il tratto decisivo che lo rende membro della famiglia divina è la sua hyiothesía: è questo il vocabolo greco usato da san Paolo per definire il nuovo statuto personale del cristiano, una realtà attuata dallo Spirito Santo. Il vocabolo indica la filiazione adottiva. Non si pensi che l’Apostolo la voglia in qualche modo sminuire riducendola a una mera finzione giuridica.

No, come accade nell’adozione umana di un figlio fatta con amore, l’elemento fondamentale è la donazione gratuita di una paternità e maternità affettuosa e sincera. C’è chi nasce figlio per natura, ed è certamente un dono d’amore, e c’è chi diventa figlio per adozione, ed è anche questo un atto gratuito d’amore che trasforma la realtà della persona. Anche nell’adozione si stabilisce tra padre e figlio un’intimità piena e spontanea e l’Apostolo la rappresenta – per il nostro rapporto filiale con Dio – attraverso una parola aramaica, abba’. Essa ricorre frequentemente nel Talmud, la grande raccolta di tradizioni giudaiche, come appellativo affettuoso del bambino verso suo padre e quindi corrisponde al nostro « babbo, papà ». Tuttavia, non è mai applicato in modo diretto a Dio (al massimo lo si riserva al maestro, al rabbí).

È Gesù che lo usa con intensità nei confronti del Padre celeste, come è testimoniato da quell’invocazione emozionante che affiora sulle sue labbra nella notte del Getsemani: «Abbà, padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!» (Marco 14,36). La confidenza col Padre permette a Gesù di esprimergli la sua forte paura umana di morire, ma anche la fiducia nell’adesione al misterioso disegno divino. Paolo riprende questo appellativo per due volte – qui e in Galati 4,6, un passo parallelo al nostro – e lo propone come emblema dell’intimità che lo Spirito crea nel cristiano nei riguardi di Dio. Si svela così la nostra realtà di figli adottivi e, quindi, di coeredi con il Figlio Gesù, partecipi della sua stessa gloria piena e perfetta, dopo le sofferenze della vita e la morte.

Gianfranco Ravasi

di Gianfranco Ravasi: Dal buio di un mondo sommerso due volti nella luce (riguardo i ritrovamenti nella cataomba di Santa Tecla)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#12

Dal buio di un mondo sommerso due volti nella luce

di Gianfranco Ravasi

Proprio quando l’Anno paolino tocca il suo apice conclusivo e la Chiesa celebra la solennità dei principi degli apostoli, un fortunato intervento di restauro, promosso dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nelle catacombe romane di Santa Tecla sulla via Ostiense, non lontano dal complesso basilicale di San Paolo fuori le mura, ha offerto, tra l’altro, la sorpresa di un busto dipinto di san Paolo. È un evento straordinario che suggella in modo inatteso e sorprendente le iniziative che hanno cadenzato questo denso anno giubilare.
Il cubicolo dipinto, interessato dal restauro, rappresenta uno degli ultimi monumenti scavati nella catacomba. Uscendo da Roma, lungo la via Ostiense, si incontra, prima, il grande cimitero di Commodilla, dove riposano i martiri Felice e Adautto e, poi, il piccolo ipogeo di Timoteo, probabilmente situato nella « roccia di san Paolo », ricordato dagli itinerari medievali e forse riconoscibile nella piccola catacomba ancora visitabile nel costone della rupe. Ma così come Timoteo non può essere identificato con il compagno di Paolo, anche la Tecla che attribuisce la denominazione alla nostra catacomba – la terza che si incontra percorrendo la via Ostiense – non può essere identificata con la protagonista dell’antico apocrifo denominato Acta Pauli et Theclae.
Tale basilica-santuario, come suggerisce la Notitia Ecclesiarum, cioè l’itinerario dei pellegrini del VII secolo, era situata in australi parte (…) supra montem positam:  corpus eius quiescit in spelunca. La catacomba, già nota nel Settecento all’archeologo Giovanni Marangoni, venne sistematicamente scavata negli anni Sessanta del secolo scorso. Già allora si conobbe l’esistenza di una martire romana di nome Tecla, della quale, purtroppo, non si hanno altre informazioni, anche se, dalla cronologia generale del cimitero, si può ipotizzare che la martire fu uccisa durante la persecuzione dioclezianea, agli inizi del IV secolo. Un’iscrizione, rinvenuta nel vicino cimitero di Commodilla, ricorda che un cristiano sepolto in questo complesso funerario morì nel natale domnes Theclae, ma tale testo risulta mutilo, per cui è impossibile conoscere almeno il dies natalis, ossia il giorno della morte della martire.
A questa Tecla, ricordata anche dalle fonti medievali, venne dedicata una basilichetta ipogea a cui si accede attraverso una scala laterale, che conduce alla navata destra, delle due che costituiscono l’edificio di culto. Esso, originariamente, doveva comprendere tre navate, manomesse da interventi moderni, che trasformarono l’edificio in cantina. Sul fondo, in un nicchione, rischiarato da un lucernario, era forse collocata la sepoltura della martire. Là si conservano due frammenti di intonaco dipinto trasferiti da un mausoleo rinvenuto durante la costruzione della via Cristoforo Colombo. Il primo frammento mostra una scena con una figura femminile aggredita da un uomo, evocazione della biblica Susanna molestata dagli anziani (Daniele, 13); il secondo frammento reca dipinta una coppia di figure virili, che indicano una stella, forse per alludere a una profezia.
Tornando alle sorprendenti scoperte di questi giorni, avvenute nel cubicolo situato nel settore meridionale della catacomba, dobbiamo, però, ricordare che il restauro è ancora in corso e che altre scoperte potrebbero incrementare il repertorio, già estremamente ricco, della pittura catacombale romana. Per ora, possiamo ammirare lo straordinario volto di Paolo, ma anche quello di Pietro, meno conservato, ma suggestivo. È un’ulteriore e importante testimonianza di quella concordia apostolorum, che è nel cuore della concezione religiosa della Chiesa romana nell’ultimo scorcio del IV secolo, concezione avviata già da Papa Damaso (366-384). Giorno dopo giorno, i restauratori stanno riportando alla luce storie della Bibbia e i volti degli apostoli, scrivendo un nuovo capitolo della storia dell’arte tardoantica, che rappresenta anche l’ultimo segmento della pittura catacombale, quando questa consegna idealmente il testimone all’arte monumentale degli edifici di culto.
Nel comunicare la scoperta del suggestivo busto clipeato di san Paolo nella catacomba di Santa Tecla, va ricordato che le ultime acquisizioni dell’iconografia paolina – se si eccettua il bronzetto di Cornus (Sardegna) e gli affreschi della grotta di Efeso – sono venute proprio dalle catacombe romane e dagli scavi o dai restauri curati dai responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Negli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, durante alcuni lavori di restauro, nella tricora orientale di San Callisto, venne alla luce un piccolo frammento di sarcofago, scolpito nell’atelier ove si era approntato il celebre sarcofago di Giunio Basso, alla metà del secolo IV. In questo esiguo frammento marmoreo – ora esposto alla mostra dedicata a « Paolo in Vaticano » nel Museo Pio Cristiano – si riconoscono i bei volti del Cristo e dell’apostolo delle genti, tra i più espressivi che ci abbia consegnato la produzione plastica paleocristiana.
Alla fine degli anni Novanta, poi, nelle catacombe dell’ex vigna Chiaraviglio, collegate al grande complesso funerario di San Sebastiano, furono intercettati alcuni ambienti dipinti con una maiestas Domini, ossia con l’immagine del Cristo tra i principi degli apostoli, e con il celebre abbraccio tra Pietro e Paolo, riferibili, come gli affreschi di Santa Tecla, alla fine del secolo IV, ossia alle ultime manifestazioni della pittura catacombale. Abbandonando il sereno repertorio augurale delle scene bibliche, si sceglievano sistemi iconografici più complessi, sperimentati nelle absidi, negli archi absidali e trionfali, lungo le navate e nelle controfacciate dei più prestigiosi edifici di culto del tempo.
Tutte queste scoperte provengono da un « mondo sommerso », da quelle oscure catacombe per troppo tempo considerate tristi luoghi di persecuzione, fuga e morte. Da quelle gallerie, da quei cubicoli, da quegli arcosoli, salvati miracolosamente dall’obliterazione e dagli interri, spuntano adesso le testimonianze eloquenti del cristianesimo dei primi secoli. Si crea, così, un vivace linguaggio iconografico, prima elementare, poi catechetico e, infine, sempre più sofisticato e allineato al pensiero dei Padri della Chiesa e dei Pontefici, destinato a tradurre in figura le idee, i programmi e i nuovi progetti della fede.

(©L’Osservatore Romano – 28 giugno 2009)

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