Archive pour la catégorie 'ANTICO TESTAMENTO – SALMI (I)'

BENEDETTO XVI: ABBANDONIAMOCI TOTALMENTE NELLE MANI DI DIO (catechesi, salmo 23)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28220?l=italian

BENEDETTO XVI: ABBANDONIAMOCI TOTALMENTE NELLE MANI DI DIO

All’Udienza generale dedicata alla figura del pastore evocata dal salmo 23

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 4 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo del discorso che Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell’Udienza generale tenutasi in piazza San Pietro.
Riprendendo la catechesi sulla preghiera, il Papa si è soffermato sul Salmo 23.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
rivolgersi al Signore nella preghiera implica un radicale atto di fiducia, nella consapevolezza di affidarsi a Dio che è buono, «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34, 6-7; Sal 86, 15; cfr. Gl 2, 13; Gn 4, 2; Sal 103, 8; 145, 8; Ne 9, 17). Per questo oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo tutto pervaso di fiducia, in cui il Salmista esprime la sua serena certezza di essere guidato e protetto, messo al sicuro da ogni pericolo, perché il Signore è il suo pastore. Si tratta del Salmo 23 — secondo la datazione greco latina 22 — un testo familiare a tutti e amato da tutti.
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla»: così inizia questa bella preghiera, evocando l’ambiente nomade della pastorizia e l’esperienza di conoscenza reciproca che si stabilisce tra il pastore e le pecore che compongono il suo piccolo gregge. L’immagine richiama un’atmosfera di confidenza, intimità, tenerezza: il pastore conosce le sue pecorelle una per una, le chiama per nome ed esse lo seguono perché lo riconoscono e si fidano di lui (cfr. Gv 10, 2-4). Egli si prende cura di loro, le custodisce come beni preziosi, pronto a difenderle, a garantirne il benessere, a farle vivere in tranquillità. Nulla può mancare se il pastore è con loro. A questa esperienza fa riferimento il Salmista, chiamando Dio suo pastore, e lasciandosi guidare da Lui verso pascoli sicuri:
«Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome» (vv. 2-3).
La visione che si apre ai nostri occhi è quella di prati verdi e fonti di acqua limpida, oasi di pace verso cui il pastore accompagna il gregge, simboli dei luoghi di vita verso cui il Signore conduce il Salmista, il quale si sente come le pecore sdraiate sull’erba accanto ad una sorgente, in situazione di riposo, non in tensione o in stato di allarme, ma fiduciose e tranquille, perché il posto è sicuro, l’acqua è fresca, e il pastore veglia su di loro. E non dimentichiamo qui che la scena evocata dal Salmo è ambientata in una terra in larga parte desertica, battuta dal sole cocente, dove il pastore seminomade mediorientale vive con il suo gregge nelle steppe riarse che si estendono intorno ai villaggi. Ma il pastore sa dove trovare erba e acqua fresca, essenziali per la vita, sa portare all’oasi in cui l’anima «si rinfranca» ed è possibile riprendere le forze e nuove energie per rimettersi in cammino.
Come dice il Salmista, Dio lo guida verso «pascoli erbosi» e «acque tranquille», dove tutto è sovrabbondante, tutto è donato copiosamente. Se il Signore è il pastore, anche nel deserto, luogo di assenza e di morte, non viene meno la certezza di una radicale presenza di vita, tanto da poter dire: «non manco di nulla». Il pastore, infatti, ha a cuore il bene del suo gregge, adegua i propri ritmi e le proprie esigenze a quelli delle sue pecore, cammina e vive con loro, guidandole per sentieri «giusti», cioè adatti a loro, con attenzione alle loro necessità e non alle proprie. La sicurezza del suo gregge è la sua priorità e a questa obbedisce nel guidarlo.
Cari fratelli e sorelle, anche noi, come il Salmista, se camminiamo dietro al «Pastore buono», per quanto difficili, tortuosi o lunghi possano apparire i percorsi della nostra vita, spesso anche in zone desertiche spiritualmente, senza acqua e con un sole di razionalismo cocente, sotto la guida del pastore buono, Cristo, siamo certi di andare sulle strade «giuste» e che il Signore ci guida e ci è sempre vicino e non ci mancherà nulla.
Per questo il Salmista può dichiarare una tranquillità e una sicurezza senza incertezze né timori:
«Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza» (v. 4).
Chi va col Signore anche nelle valli oscure della sofferenza, dell’incertezza e di tutti i problemi umani, si sente sicuro. Tu sei con me: questa è la nostra certezza, quella che ci sostiene. Il buio della notte fa paura, con le sue ombre mutevoli, la difficoltà a distinguere i pericoli, il suo silenzio riempito di rumori indecifrabili. Se il gregge si muove dopo il calar del sole, quando la visibilità si fa incerta, è normale che le pecore siano inquiete, c’è il rischio di inciampare oppure di allontanarsi e di perdersi, e c’è ancora il timore di possibili aggressori che si nascondano nell’oscurità. Per parlare della valle «oscura», il Salmista usa un’espressione ebraica che evoca le tenebre della morte, per cui la valle da attraversare è un luogo di angoscia, di minacce terribili, di pericolo di morte. Eppure, l’orante procede sicuro, senza paura, perché sa che il Signore è con lui. Quel «tu sei con me» è una proclamazione di fiducia incrollabile, e sintetizza l’esperienza di fede radicale; la vicinanza di Dio trasforma la realtà, la valle oscura perde ogni pericolosità, si svuota di ogni minaccia. Il gregge ora può camminare tranquillo, accompagnato dal rumore familiare del bastone che batte sul terreno e segnala la presenza rassicurante del pastore.
Questa immagine confortante chiude la prima parte del Salmo, e lascia il posto ad una scena diversa. Siamo ancora nel deserto, dove il pastore vive con il suo gregge, ma adesso siamo trasportati sotto la sua tenda, che si apre per dare ospitalità:
«Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca» (v. 5).
Ora il Signore è presentato come Colui che accoglie l’orante, con i segni di una ospitalità generosa e piena di attenzioni. L’ospite divino prepara il cibo sulla «mensa», un termine che in ebraico indica, nel suo senso primitivo, la pelle di animale che veniva stesa per terra e su cui si mettevano le vivande per il pasto in comune. È un gesto di condivisione non solo del cibo, ma anche della vita, in un’offerta di comunione e di amicizia che crea legami ed esprime solidarietà. E poi c’è il dono munifico dell’olio profumato sul capo, che dà sollievo dall’arsura del sole del deserto, rinfresca e lenisce la pelle e allieta lo spirito con la sua fragranza. Infine, il calice ricolmo aggiunge una nota di festa, con il suo vino squisito, condiviso con generosità sovrabbondante. Cibo, olio, vino: sono i doni che fanno vivere e danno gioia perché vanno al di là di ciò che è strettamente necessario ed esprimono la gratuità e l’abbondanza dell’amore. Proclama il Salmo 104, celebrando la bontà provvidente del Signore: «Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva per trarre cibo dalla terra, vino che allieta il cuore dell’uomo, olio che fa brillare il suo volto e pane che sostiene il suo cuore» (vv. 14-15). Il Salmista è fatto oggetto di tante attenzioni, per cui si vede come un viandante che trova riparo in una tenda ospitale, mentre i suoi nemici devono fermarsi a guardare, senza poter intervenire, perché colui che consideravano loro preda è stato messo al sicuro, è diventato ospite sacro, intoccabile. E il Salmista siamo noi se siamo realmente credenti in comunione con Cristo. Quando Dio apre la sua tenda per accoglierci, nulla può farci del male.
Quando poi il viandante riparte, la protezione divina si prolunga e lo accompagna nel suo viaggio:
«Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni» (v. 6).
La bontà e la fedeltà di Dio sono la scorta che accompagna il Salmista che esce dalla tenda e si rimette in cammino. Ma è un cammino che acquista un nuovo senso, e diventa pellegrinaggio verso il Tempio del Signore, il luogo santo in cui l’orante vuole «abitare» per sempre e a cui anche vuole «ritornare». Il verbo ebraico qui utilizzato ha il senso di «tornare», ma, con una piccola modifica vocalica, può essere inteso come «abitare», e così è reso dalle antiche versioni e dalla maggior parte delle traduzioni moderne. Ambedue i sensi possono essere mantenuti: tornare al Tempio e abitarvi è il desiderio di ogni Israelita, e abitare vicino a Dio nella sua vicinanza e bontà è l’anelito e la nostalgia di ogni credente: poter abitare realmente dove è Dio, vicino a Dio. La sequela del Pastore porta alla sua casa, è quella la meta di ogni cammino, oasi desiderata nel deserto, tenda di rifugio nella fuga dai nemici, luogo di pace dove sperimentare la bontà e l’amore fedele di Dio, giorno dopo giorno, nella gioia serena di un tempo senza fine.
Le immagini di questo Salmo, con la loro ricchezza e profondità, hanno accompagnato tutta la storia e l’esperienza religiosa del popolo di Israele e accompagnano i cristiani. La figura del pastore, in particolare, evoca il tempo originario dell’Esodo, il lungo cammino nel deserto, come un gregge sotto la guida del Pastore divino (cfr. Is 63, 11-14; Sal 77, 20-21; 78, 52-54). E nella Terra Promessa era il re ad avere il compito di pascere il gregge del Signore, come Davide, pastore scelto da Dio e figura del Messia (cfr. 2 Sam 5, 1-2; 7, 8; Sal 78, 70-72). Poi, dopo l’esilio di Babilonia, quasi in un nuovo Esodo (cfr. Is 40, 3-5.9-11; 43, 16-21), Israele è riportato in patria come pecora dispersa e ritrovata, ricondotta da Dio a rigogliosi pascoli e luoghi di riposo (cfr. Ez 34, 11-16.23-31). Ma è nel Signore Gesù che tutta la forza evocativa del nostro Salmo giunge a completezza, trova la sua pienezza di significato: Gesù è il «Buon Pastore» che va in cerca della pecora smarrita, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr. Mt 18, 12-14; Lc 15, 4-7; Gv 10, 2-4.11-18), Egli è la via, il giusto cammino che ci porta alla vita (cfr. Gv 14, 6), la luce che illumina la valle oscura e vince ogni nostra paura (cfr. Gv 1, 9; 8, 12; 9, 5; 12, 46). È Lui l’ospite generoso che ci accoglie e ci mette in salvo dai nemici preparandoci la mensa del suo corpo e del suo sangue (cfr. Mt 26, 26-29; Mc 14, 22-25; Lc 22, 19-20) e quella definitiva del banchetto messianico nel Cielo (cfr. Lc 14, 15ss; Ap 3, 20; 19, 9). È Lui il Pastore regale, re nella mitezza e nel perdono, intronizzato sul legno glorioso della croce (cfr. Gv 3, 13-15; 12, 32; 17, 4-5).
Cari fratelli e sorelle, il Salmo 23 ci invita a rinnovare la nostra fiducia in Dio, abbandonandoci totalmente nelle sue mani. Chiediamo dunque con fede che il Signore ci conceda, anche nelle strade difficili del nostro tempo, di camminare sempre sui suoi sentieri come gregge docile e obbediente, ci accolga nella sua casa, alla sua mensa, e ci conduca ad «acque tranquille», perché, nell’accoglienza del dono del suo Spirito, possiamo abbeverarci alle sue sorgenti, fonti di quell’acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Gv 4, 14; cfr. 7, 37-39). Grazie.

MEDITAZIONE DI BENEDETTO XVI SUL SALMO 22

dal sito

http://www.zenit.org/article-27941?l=italian

MEDITAZIONE DI BENEDETTO XVI SUL SALMO 22

All’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 14 settembre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della catechesi che Benedetto XVI ha pronunciato questo mercoledì in occasione dell’Udienza generale tenutasi in piazza San Pietro.
Nel discorso in lingua italiana il Papa, continuando il ciclo di catechesi sulla preghiera, ha incentrato la sua meditazione sul Salmo 22.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di oggi vorrei affrontare un Salmo dalle forti implicazioni cristologiche, che continuamente affiora nei racconti della passione di Gesù, con la sua duplice dimensione di umiliazione e di gloria, di morte e di vita. È il Salmo 22, secondo la tradizione ebraica, 21 secondo la tradizione greco-latina, una preghiera accorata e toccante, di una densità umana e una ricchezza teologica che ne fanno uno tra i Salmi più pregati e studiati di tutto il Salterio. Si tratta di una lunga composizione poetica, e noi ci soffermeremo in particolare sulla sua prima parte, incentrata sul lamento, per approfondire alcune dimensioni significative della preghiera di supplica a Dio.
Questo Salmo presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode. Nella sua preghiera, la realtà angosciante del presente e la memoria consolante del passato si alternano, in una sofferta presa di coscienza della propria situazione disperata che però non vuole rinunciare alla speranza. Il suo grido iniziale è un appello rivolto a un Dio che appare lontano, che non risponde e sembra averlo abbandonato:
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido.
Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;
di notte, e non c’è tregua per me» (vv. 2-3).
Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo dell’orante, che incessantemente chiama, ma senza trovare risposta. I giorni e le notti si succedono, in una ricerca instancabile di una parola, di un aiuto che non viene; Dio sembra così distante, così dimentico, così assente. La preghiera chiede ascolto e risposta, sollecita un contatto, cerca una relazione che possa donare conforto e salvezza. Ma se Dio non risponde, il grido di aiuto si perde nel vuoto e la solitudine diventa insostenibile. Eppure, l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore « mio » Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il « suo » Dio non lo può abbandonare.
Come è noto, il grido iniziale del Salmo, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è riportato dai Vangeli di Matteo e di Marco come il grido lanciato da Gesù morente sulla croce (cfr Mt 27,46; Mc 15,34). Esso esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo. Ma il suo non è un grido disperato, come non lo era quello del Salmista, che nella sua supplica percorre un cammino tormentato sfociando però infine in una prospettiva di lode, nella fiducia della vittoria divina. E poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria. «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?», dirà il Risorto ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26). Nella sua passione, in obbedienza al Padre, il Signore Gesù attraversa l’abbandono e la morte per giungere alla vita e donarla a tutti i credenti.
A questo grido iniziale di supplica, nel nostro Salmo 22, fa seguito, in doloroso contrasto, il ricordo del passato:
«In te confidarono i nostri padri,
confidarono e tu li liberasti;
a te gridarono e furono salvati,
in te confidarono e non rimasero delusi» (vv. 5-6).
Quel Dio che oggi al Salmista appare così lontano, è però il Signore misericordioso che Israele ha sempre sperimentato nella sua storia. Il popolo a cui l’orante appartiene è stato oggetto dell’amore di Dio e può testimoniarne la sua fedeltà. A cominciare dai Patriarchi, e poi in Egitto e nel lungo peregrinare nel deserto, nella permanenza nella terra promessa a contatto con popolazioni aggressive e nemiche, fino al buio dell’esilio, tutta la storia biblica è stata una storia di grida di aiuto da parte del popolo e di risposte salvifiche da parte di Dio. E il Salmista fa riferimento all’incrollabile fede dei suoi padri, che « confidarono » – per tre volte questa parola viene ripetuta – senza mai rimanere delusi. Ora tuttavia, sembra che questa catena di invocazioni fiduciose e risposte divine si sia interrotta; la situazione del Salmista sembra smentire tutta la storia della salvezza, rendendo ancor più dolorosa la realtà presente.
Ma Dio non può smentirsi, ed ecco allora che la preghiera torna a descrivere la situazione penosa dell’orante, per indurre il Signore ad avere pietà e intervenire, come aveva sempre fatto in passato. Il Salmista si definisce «verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente» (v. 7), viene schernito, dileggiato (cfr v. 8) e ferito proprio nella fede: «Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama» (v. 9), dicono. Sotto i colpi beffardi dell’ironia e dello spregio, sembra quasi che il perseguitato perda i propri connotati umani, come il Servo sofferente tratteggiato nel Libro di Isaia (cfr Is 52,14; 53,2b-3). E come il giusto oppresso del Libro della Sapienza (cfr 2,12-20), come Gesù sul Calvario (cfr Mt 27,39-43), il Salmista vede messo in questione il suo rapporto con il suo Signore, nella sottolineatura crudele e sarcastica di ciò che lo sta facendo soffrire: il silenzio di Dio, la sua apparente assenza. Eppure Dio è stato presente nell’esistenza dell’orante con una vicinanza e una tenerezza incontestabili. Il Salmista lo ricorda al Signore: «Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai affidato al seno di mia madre. Al mio nascere, a te fui consegnato» (vv. 10-11a). Il Signore è il Dio della vita, che fa nascere e accoglie il neonato e se ne prende cura con affetto di padre. E se prima si era fatta memoria della fedeltà di Dio nella storia del popolo, ora l’orante rievoca la propria storia personale di rapporto con il Signore, risalendo al momento particolarmente significativo dell’inizio della sua vita. E lì, nonostante la desolazione del presente, il Salmista riconosce una vicinanza e un amore divini così radicali da poter ora esclamare, in una confessione piena di fede e generatrice di speranza: «dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (v. 11b).
Il lamento diventa ora supplica accorata: «Non stare lontano da me, perché l’angoscia è vicina e non c’è chi mi aiuti» (v. 12). L’unica vicinanza che il Salmista percepisce e che lo spaventa è quella dei nemici. E’ dunque necessario che Dio si faccia vicino e soccorra, perché i nemici circondano l’orante, lo accerchiano, e sono come tori poderosi, come leoni che spalancano le fauci per ruggire e sbranare (cfr vv. 13-14). L’angoscia altera la percezione del pericolo, ingrandendolo. Gli avversari appaiono invincibili, sono diventati animali feroci e pericolosissimi, mentre il Salmista è come un piccolo verme, impotente, senza difesa alcuna. Ma queste immagini usate nel Salmo servono anche a dire che quando l’uomo diventa brutale e aggredisce il fratello, qualcosa di animalesco prende il sopravvento in lui, sembra perdere ogni sembianza umana; la violenza ha sempre in sé qualcosa di bestiale e solo l’intervento salvifico di Dio può restituire l’uomo alla sua umanità. Ora, per il Salmista, oggetto di tanta feroce aggressione, sembra non esserci più scampo, e la morte inizia ad impossessarsi di lui: «Io sono come acqua versata, sono slogate tutte le mie ossa […] arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato […] si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte» (vv. 15.16.19). Con immagini drammatiche, che ritroviamo nei racconti della passione di Cristo, si descrive il disfacimento del corpo del condannato, l’arsura insopportabile che tormenta il morente e che trova eco nella richiesta di Gesù «Ho sete» (cfr Gv 19,28), per giungere al gesto definitivo degli aguzzini che, come i soldati sotto la croce, si spartiscono le vesti della vittima, considerata già morta (cfr Mt 27,35; Mc 15,24; Lc 23,34; Gv 19,23-24).
Ecco allora, impellente, di nuovo la richiesta di soccorso: «Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto […] Salvami» (vv. 20.22a). È questo un grido che dischiude i cieli, perché proclama una fede, una certezza che va al di là di ogni dubbio, di ogni buio e di ogni desolazione. E il lamento si trasforma, lascia il posto alla lode nell’accoglienza della salvezza: «Tu mi hai risposto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea» (vv. 22c-23). Così, il Salmo si apre al rendimento di grazie, al grande inno finale che coinvolge tutto il popolo, i fedeli del Signore, l’assemblea liturgica, le generazioni future (cfr vv. 24-32). Il Signore è accorso in aiuto, ha salvato il povero e gli ha mostrato il suo volto di misericordia. Morte e vita si sono incrociate in un mistero inseparabile, e la vita ha trionfato, il Dio della salvezza si è mostrato Signore incontrastato, che tutti i confini della terra celebreranno e davanti al quale tutte le famiglie dei popoli si prostreranno. È la vittoria della fede, che può trasformare la morte in dono della vita, l’abisso del dolore in fonte di speranza.
Fratelli e sorelle carissimi, questo Salmo ci ha portati sul Golgota, ai piedi della croce di Gesù, per rivivere la sua passione e condividere la gioia feconda della risurrezione. Lasciamoci dunque invadere dalla luce del mistero pasquale anche nell’apparente assenza di Dio, anche nel silenzio di Dio, e, come i discepoli di Emmaus, impariamo a discernere la vera realtà al di là delle apparenze, riconoscendo il cammino dell’esaltazione proprio nell’umiliazione, e il pieno manifestarsi della vita nella morte, nella croce. Così, riponendo tutta la nostra fiducia e la nostra speranza in Dio Padre, in ogni angoscia Lo potremo pregare anche noi con fede, e il nostro grido di aiuto si trasformerà in canto di lode. Grazie.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto le Suore Serve dei Poveri, che partecipano al loro Capitolo Generale; i Religiosi salesiani, in partenza per la missione ad gentes; i rappresentanti della comunità Shalom di Palazzolo sull’Oglio. A tutti auguro di essere gioiosi strumenti dell’amore e della misericordia divina.
Il mio pensiero va infine ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Oggi, la liturgia ci fa meditare sul mistero della Croce del Signore, e domani sui dolori della sua Madre. La Croce di Cristo e l’esempio di Maria, Vergine Addolorata, illuminino la vostra esistenza, cari giovani; vi sostengano nelle prove quotidiane, cari malati; e siano di stimolo per voi, cari sposi novelli, ad un’esistenza familiare coraggiosa e coerente con i principi evangelici.
Oggi, a Cosenza, viene proclamata Beata suor Elena Aiello, fondatrice delle Suore Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Subito dopo il Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona, la Chiesa che è in Italia gioisce per l’elevazione alla gloria degli altari di un’anima eminentemente eucaristica. Illustre figlia della terra di Calabria, suor Elena Aiello soleva dire: « L’Eucarestia è l’alimento essenziale della mia vita, il respiro profondo della mia anima, il Sacramento che dà senso alla mia vita, a tutte le azioni della giornata ».  L’esempio e l’intercessione della nuova Beata accrescano in tutti l’amore per il mirabile Sacramento dell’altare.

Salmo 40 *

dal sito:

http://www.associazioni.milano.it/comunitaelavoro/files/09_salmo40.htm

Salmo   40 *
 
Al vincitore. Di David, salmo.
 
Ho sperato: ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto dalla fossa della morte,
dal fango della palude;
i miei piedi ha stabilito sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo:
lode al nostro Dio.
 
Molti vedranno e avranno timore
e confideranno nel Signore.
Beato l’uomo che spera nel Signore
e non si mette dalla parte dei superbi,
né si volge a chi segue la menzogna.
Quanti prodigi hai fatto, Signore Dio mio,
quali disegni in nostro favore!
Nessuno a te si può paragonare.
Se li voglio annunziare e proclamare,
sono troppi per essere contati.
 
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi hai aperto.
Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa.
Allora ho detto: «Ecco, io vengo.
Sul rotolo del libro di me è scritto
che io faccia il tuo volere.
Mio Dio, questo io desidero,
la tua legge è nel profondo del mio cuore».
 
Ho annunziato la tua giustizia
nella grande assemblea;
vedi, non tengo chiuse le labbra, Signore: tu lo sai.
Non ho nascosto la tua giustizia in fondo al cuore,
la tua fedeltà e la tua salvezza ho proclamato.
Non ho nascosto la tua grazia
e la tua fedeltà alla grande assemblea.
 
Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia;
la tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre,
poiché mi circondano mali senza numero,
le mie colpe mi opprimono e non posso più vedere.
Sono più dei capelli del mio capo,
il mio cuore viene meno.
 
Degnati, Signore, di liberarmi;
accorri, Signore, in mio aiuto.
Siano confusi e coperti di vergogna
quanti cercano di togliermi la vita.
Retrocedano coperti d’infamia
quelli che godono della mia sventura.
Siano presi da tremore e da vergogna
quelli che mi scherniscono.
 
Esultino e gioiscano in te quanti ti cercano.
Dicano sempre: «Il Signore è grande»,
quelli che bramano la tua salvezza.
Io sono povero e infelice; di me ha cura il Signore.
Tu, mio aiuto e mia liberazione,
mio Dio, non tardare!
 
 
“Ho sperato, sperato, Signore”. E’ anche quello che dice un altro testo: “ E si dirà in quel giorno: ecco il nostro Dio. E’ in lui che abbiamo sperato, ed egli ci ha salvati. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato, esultiamo e rallegriamoci per la sua salvezza” (Is 25,9)
Israele non possiede altro che la speranza nella liberazione da parte del Santo -  benedetto sia.
Nella ricompensa “ho sperato, sperato, Signore”.
Come sta scritto “Buono è il Signore con quanti sperano in lui” (Lam  3,25).
E si dice pure: “Ritornate alla cittadella, prigionieri della speranza” (Zc  9,12)
Affinchè tu non dica “E’ passata la mietitura, l’estate è finita, e noi non siamo stati ancora salvati” (Ger  8,20), “spera nel Signore, sii forte, sia saldo il tuo cuore, e spera nel Signore” ( Sal  27,14).
“Spera nel Signore “ (una volta) “e spera nel Signore” (una seconda volta): speranza dopo speranza.
“Sii forte, sia saldo il tuo cuore”: anche se aveste già sperato, e tuttavia non foste stati salvati, speranza e ancora speranza.
Se tu ti chiedessi: Fino a quando dovremo sperare?, la scrittura ha già risposto: “Israele speri nel Signore da ora e per sempre” (Sal  131,3).
E aggiunge “Siate forti, rinsaldate il vostro cuore, voi tutti sperate nel Signore” (Sal 31,25).
Se farete così, allora sarete salvi, come è detto: “Saprai che io sono il Signore, e che non saranno confusi quanti sperano in me” (Is  49,23).
O anche “ Quanti sperano nel Signore ricambiano le  loro forze” ( Is 40,31)
E ancora : “ Quanti sperano nel Signore possederanno la terra” (Sal 37,9)
Per questo si dice “Ho sperato, sperato, Signore. Ed egli si è piegato su di me e ha ascoltato il mio grido”.  David ha sperato in me, perciò io gli ho risposto. 
 
Questo brano è tratto dai  Midrash Tehillim, il commento ebraico dei salmi, pubblicati in forma ridotta in italiano a cura di Alberto Mello, Un mondo di grazia, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose
La caratteristica dei Midrash è di commentare un brano della Bibbia attraverso la citazione e il confronto con altri passi della Bibbia.

(SALMO 102 – COMMENTO EBRAICO)

 dal sito:

 http://www.nostreradici.it/titoli_festa.htm

(SALMO 102 – COMMENTO EBRAICO)

« Benedici il Signore, anima mia,
Signore, mio Dio, quanto sei grande!
Rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto…
Fai scaturire le sorgenti nelle valli
scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche
e gli onagri estinguono la loro sete.
Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo,
cantano tra le fronde.
Dalle tue alte dimore irrighi i monti,
con il frutto delle tue opere sazi la terra.
Fai crescere il fieno per gli armenti
e l’erba al servizio dell’uomo,
perché tragga alimento dalla terra: 
il vino che allieta il cuore dell’uomo;
l’olio che fa brillare il suo volto
e il pane che sostiene il suo vigore.
Si saziano gli alberi del Signore,
i cedri del Libano da lui piantati.
Là gli uccelli fanno il loro nido
e la cicogna sui cipressi ha la sua casa.
Per i camosci sono le alte montagne,
le rocce sono rifugio per gli iraci
Voglio cantare al Signore finché ho vita,
cantare al mio Dio finché esisto.
A lui sia gradito il mio canto;
la mia gioia è nel Signore ».
Sal 104. 1-2a. 10-18.33-34.
 

Data e nome della Festa
Tu bi-shevat, come Tish’a be-av, è una festa designata per la sua data: Tu. 
Secondo il valore numerico della prima lettera (Tet=9) e della seconda (Waw=6) Tu è il quindicesimo giorno (9+6=15) del mese di Shevat. È I’undicesimo mese se si conta da Nissan (il mese della Pasqua) e quinto se si conta da Tishrì (il mese delle feste).
  Shevat è il mese durante il quale, nell’ultimo anno di peregrinazione per il deserto, Mosè avrebbe ripetuto al popolo tutte le parole di Dio: « Nel quarantesimo anno, I’undecimo mese, il primo giorno del mese, Mosè parlò agli Israeliti, secondo quanto il Signore gli aveva ordinato di dir loro » (Dt 1,3). In questo discorso, Mosè annunzia I’ esilio come castigo dell’infedeltà, ma nello stesso tempo apre alla speranza della conversione e del ritorno.   

Senso della festa 
  Secondo la Mishnah, Tu bi-Shevat è uno dei quattro giorni di Capodanno allora conosciuti: « Vi sono quattro inizi dell’anno.

  Il primo di Nissan inizia l’anno di regno dei re e il ciclo delle feste di pellegrinaggio.
  Il primo di Ellul è l’ inizio dell’anno per la prelevazione della decima degli animali.
  Il primo Tishrì è per l’ inizio del computo degli anni, anni di maggese e giubilari, Rosh ha-Shanah.
  Il primo di Shevat inizia il nuovo anno per gli alberi. Questa è l’ opinione di Shammai.
  L’opinione della scuola di HilleI è che l’anno degli alberi inizia il quindici di Shevat. » (1)
  La divergenza di parere tra i due era senz’altro dovuta alloro luogo di residenza. Hillel e i suoi discepoli vivevano a Gerusalemme e sulle colline della Giudea dove gli alberi, a una certa altitudine, fiorivano più tardi rispetto alla pianura in cui avevano le loro terre i seguaci di Shammai. La data che si impose fu Quella fissata da Hillel.
  Come Rosh ha-Shanah è un giorno di giudizio per gli uomini, il quindici di Shevat, Capodanno degli alberi, è un giorno di giudizio per gli alberi: in esso Dio decide l’abbondanza dei frutti dell’ annata. Gli uomini, allora, pregano Dio, Creatore e Giudice, per la prosperità di queste creature che sono gli alberi.
   Gravida d’acqua dopo la stagione delle piogge che di solito terminano in questo periodo, la terra permetterà agli alberi che saranno piantati di radicarsi e di portare frutto. Ed è sui frutti maturi, dopo questa data, che bisognerà prelevare la decima (Lv 19,23-25). Questo giorno è feriale, non è perciò che una festa a metà. Non se ne parla nella Bibbia, anche se vi abbondano le prescrizioni concernenti gli alberi.
    È comunque molto antica dato che se ne fa menzione nella Mishnah. La data oscilla per noi tra la fine di gennaio e la metà di febbraio: ci troviamo a una svolta importante nella natura poiché sotto la morte apparente dell’albero si nasconde un nuovo dinamismo. La linfa sale e si prepara un’ esplosione di vita.
    Il carattere festivo di questo giorno si sviluppò durante l’ esilio « galut », nel XVI secolo. Probabilmente per nostalgia della terra promessa, così lontana nello spazio, ma così vicina alla memoria del cuore.
  I mequbbalim (2) di Safed, cittadina della Galilea, hanno introdotto un ulteriore significato della festa. Ytzchak ben Salmon Luria (1534-1572) e i suoi discepoli si sentivano molto vicini alla natura e andavano spesso nei campi ad osservare il cambio delle stagioni. Secondo la Torah, dicevano, l’ albero da frutto, l’ albero del campo è l’uomo stesso. Mangiare dei frutti significa espiare il peccato originale.
  Gli alberi devono ricordarci l’ Albero della Vita che apporta al mondo la benedizione divina, Tu bi-Shevat è il momento per prepararci a ritrovare l’armonia dell’Eden, che permetterà la restaurazione spirituale del mondo « tikkun olam ».(3)  Simboli e riti 
  Si tratta di una festa minore come tutte le altre feste di istituzione rabbinica. Nell’ufficio non viene recitata nessuna preghiera penitenziale, non ha alcuna referenza speciale nella liturgia e il digiuno è vietato.
  Nelle comunità « ashkenazite » (4) originarie dell’est del Reno, vi è l’usanza di mangiare quindici frutti diversi, con una preferenza per quelli che vengono dalla terra d’Israele, recitando la benedizione: « Benedetto sei tu Signore nostro Dio, Re dell’Universo, che crei il frutto dell’albero ».
  Alcune comunità « sefardite » hanno arricchito i riti e i costumi di Tu bi-Shevat, introducendo un vero servizio liturgico sul modello del « seder » di Pasqua. Si celebra una funzione attorno alla mensa familiare e si pronuncia la benedizione sul grano, l’orzo, l’uva, i fichi, i melograni, le olive e il miele, le sette specie con le quali è stata benedetta la terra d’Israele (Dt 8,8). Si consuma, quindi, il pasto rituale che comprende anch’esso quattro coppe di vino ed è accompagnato dalla lettura di passi della Scrittura, del Talmud, di poemi e di canti. Dopo aver mangiato i frutti, si recita questa preghiera di ringraziamento:
« Noi ti rendiamo grazie, perché tu sei, Signore nostro Dio e Dio dei nostri padri, Dio di ogni carne, nostro Creatore, Creatore dell’inizio; benedizioni e lodi al tuo Nome grande e santo, per la vita che ci hai donato e conservato. Continua ancora a donarci vita e a mantenerci in questa vita e riunisci noi dispersi nei tuoi santi atri per osservare i tuoi comandamenti, compiere la tua volontà e servirti con un cuore puro ».
  Si recita poi il salmo 104 che è una lode al manifestarsi della grandezza di Dio nella creazione e i quindici salmi delle ascensioni (salI 120-134).
  I sefarditi, inoltre, recitano in questo giorno, che chiamano « festa dei frutti », delle poesie speciali « complas ». I bambini hanno diritto a una festa a parte e ricevono in regalo un sacchetto di frutta « bolsa de frutas ».

   La vigilia di Tu bi-Shevat, i sefarditi di Gerusalemme si riuniscono nelle sinagoghe o nelle « yeshivot », le scuole talmudiche. Leggono per tutta la notte passi della Torah, della Mishnah, del Talmud e dello Zohar, raccolti in un volumetto « Peri Es Hadar », il bel frutto, che contiene anche vari riferimenti alla vita agricola della terra santa.(5)

  Un frutto tipico della festa è il carrubo detto anche « pane di san Giovanni » forse perché il Battista se ne nutriva nel deserto: la stessa parola greca ha il doppio significato di cavalletta e di carrubo.

  Il ritorno del popolo ebraico in Israele ha dato un significato ulteriore a questa festa. I pionieri iniziarono a dissodare il deserto, a bonificare le paludi e a piantare alberi senza numero.

  La festa fu l’ occasione per rinsaldare il legame del popolo con la terra, facendolo partecipare al rimboschimento. Ancora oggi, in questo giorno, i bambini delle scuole, i nuovi immigrati e gli ospiti stranieri « piantano alberi ».

  La redenzione della terra in seguito al dissodamento del deserto e al rimboschimento di un suolo pietroso e spoglio, porta l’israelita ad elevare, con forza e con gioia, un canto di azione di grazie al Creatore: « Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato » (Dt 8, 10).

  È consuetudine fare passeggiate nel paese. Una bella preghiera è recitata da alcune comunità:

« Sia questa la tua volontà, Dio nostro ed eterno e Dio dei nostri padri, che per la virtù di questi frutti che stiamo per consumare e su cui pronunciamo la benedizione, gli alberi si carichino di una profusione di frutti, crescano e fruttifichino dall’inizio dell’anno fino alla fine, per la felicità, la vita e la pace. » (6)

Agganci con la liturgia cristiana 
  Si tratta di una festa che non ha l’equivalente nel mondo cristiano. Tuttavia la Scrittura è piena di riferimenti agli alberi, dalle prime pagine fino alle ultime.

   « E il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’ albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male » (Gen 2, 8-9).

  L’albero della vita, precluso all’uomo dopo il peccato, lo ritroviamo in Ap 22, 2: « In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’ altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’ albero servono a guarire le nazioni.

  « Questo albero di vita, questo albero unico, che si eleva tra la terra e il cielo e che ha squarciato il cielo per noi, è il legno spoglio della Croce. La liturgia della Passione ci invita a cantare:

O Croce fedele, albero venerato,
albero unico per la sua nobiltà.
Mai le foreste hanno prodotto fiori
e frutti simili.
Legno amatissimo, chiodi benedetti,
come è dolce il fardello che portate! »

 (1) Hillel e Shammai, due saggi dell’epoca del secondo Tempio, vissuti nei primi anni dell’era cristiana, capi di due scuole che rivaleggiavano tra loro.  
(2) Mequbbalim, seguaci della Qabbalah, tradizione, termine che indica l’insieme della dottrina esoterica e mistica ebraica.
(3) Colette Estin, Feste e Racconti Ebraici, Edizioni Dehoniane Roma, 1991, p.98.
(4) Ashkenazita è il rito « tedesco » degli ebrei provenienti dall’Europa centro-orientale, che si distingue da quello sefardita « spagnolo » seguito dalle comunità nord-africane e medio-orientali.
(5) Cahiers Evangile, Les fetes juives, Service Biblique Evangile et Vies, Edition du Cerf, Paris, 1993, p.113. 
(6) Rina Geftman, L’offerta della sera, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.79. 

Benedetto XVI : Salmo 120 – Il custode di Israele

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050504_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 4 maggio 2005

Salmo 120 – Il custode di Israele

Vespri – Venerdì 2a settimana

————————————————

[1] Canto delle ascensioni.

Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?

[2] Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.

[3] Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.

[4] Non si addormenterà, non prenderà sonno,
il custode d’Israele.

[5] Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre,
e sta alla tua destra.

[6] Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

[7] Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.

[8] Il Signore veglierà su di te, quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.
—————————————–

1. Come ho già preannunciato mercoledì scorso, ho deciso di riprendere nelle catechesi il commento ai Salmi e Cantici che compongono i Vespri, utilizzando i testi predisposti dal mio predecessore Giovanni Paolo II.
Il Salmo 120 che oggi meditiamo fa parte della raccolta dei «cantici delle ascensioni», ossia del pellegrinaggio verso l’incontro col Signore nel tempio di Sion. È un Salmo di fiducia poiché in esso risuona per sei volte il verbo ebraico shamar, «custodire, proteggere». Dio, il cui nome è invocato ripetutamente, emerge come il «custode» sempre sveglio, attento e premuroso, la «sentinella» che veglia sul suo popolo per tutelarlo da ogni rischio e pericolo.
Il canto si apre con uno sguardo dell’orante rivolto verso l’alto, «verso i monti», cioè i colli su cui si leva Gerusalemme: di lassù viene l’aiuto, perché lassù abita il Signore nel suo tempio santo (cfr vv. 1-2). Tuttavia i «monti» possono evocare anche i luoghi ove sorgono i santuari idolatrici, le cosiddette «alture», spesso condannate dall’Antico Testamento (cfr 1Re 3,2; 2Re 18,4). In questo caso ci sarebbe un contrasto: mentre il pellegrino avanza verso Sion, i suoi occhi cadono sui templi pagani, che costituiscono una grande tentazione per lui. Ma la sua fede è inconcussa e la sua certezza è una sola: «Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra» (Sal 120,2).
2. Questa fiducia è illustrata nel Salmo attraverso l’immagine del custode e della sentinella, che vigilano e proteggono. Si allude anche al piede che non vacilla (cfr v. 3) nel cammino della vita e forse al pastore che nella sosta notturna veglia sul suo gregge senza addormentarsi né prendere sonno (cfr v. 4). Il pastore divino non conosce riposo nell’opera di tutela del suo popolo.
Subentra, poi, un altro simbolo, quello dell’«ombra», che suppone la ripresa del viaggio durante il giorno assolato (cfr v. 5). Il pensiero corre alla storica marcia nel deserto del Sinai, ove il Signore cammina alla testa di Israele di «giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere» (Es 13,21). Nel Salterio non di rado si prega così: «Proteggimi all’ombra delle tue ali…» (Sal 16,8; cfr Sal 90,1).
3. Dopo la veglia e l’ombra, ecco il terzo simbolo, quello del Signore che «sta alla destra» del suo fedele (cfr Sal 120,5). È questa la posizione del difensore sia militare che processuale: è la certezza di non essere abbandonati nel tempo della prova, dell’assalto del male, della persecuzione. A questo punto il Salmista ritorna all’idea del viaggio durante un giorno caldo nel quale Dio ci protegge dal sole incandescente.
Ma al giorno succede la notte. Nell’antichità si riteneva che anche i raggi lunari fossero nocivi, causa di febbre, o di cecità, o persino di follia; perciò il Signore ci protegge anche nella notte (cfr v. 6).
Ormai il Salmo giunge alla fine con una dichiarazione sintetica di fiducia: Dio ci custodirà con amore in ogni istante, tutelando la nostra vita da ogni male (cfr v. 7). Ogni nostra attività, riassunta nei due verbi estremi dell’«uscire» e dell’«entrare», è sempre sotto lo sguardo vigile del Signore. Lo è ogni nostro atto e tutto il nostro tempo, «da ora e per sempre» (v. 8).
4. Vogliamo ora commentare quest’ultima dichiarazione di fiducia con una testimonianza spirituale dell’antica tradizione cristiana. Infatti, nell’Epistolario di Barsanufio di Gaza (morto verso la metà del VI secolo), un asceta di grande fama, interpellato da monaci, ecclesiastici e laici per la saggezza del suo discernimento, troviamo richiamato più volte il versetto del Salmo: «Il Signore ti proteggerà da ogni male, egli proteggerà la tua vita». Con esso egli voleva dare conforto a quanti gli manifestavano le proprie fatiche, le prove della vita, i pericoli, le disgrazie.
Una volta Barsanufio, richiesto da un monaco di pregare per lui e per i suoi compagni, così rispose, includendo nel suo augurio la citazione di questo versetto: «Figli miei diletti, vi abbraccio nel Signore, supplicandolo di proteggervi da ogni male e di darvi sopportazione come a Giobbe, grazia come a Giuseppe, mitezza come a Mosè e il valore nei combattimenti come a Giosuè figlio di Nun, la padronanza dei pensieri come ai giudici, l’assoggettamento dei nemici come ai re Davide e Salomone, la fertilità della terra come agli Israeliti… Vi accordi la remissione dei vostri peccati con la guarigione del corpo come al paralitico. Vi salvi dai flutti come Pietro e vi strappi dalla tribolazione come Paolo e gli altri apostoli. Vi protegga da ogni male, come suoi veri figli e vi accordi ciò che il vostro cuore chiede, per il vantaggio dell’anima e del corpo nel suo nome. Amen» (Barsanufio e Giovanni di Gaza, Epistolario, 194: Collana di Testi Patristici, XCIII, Roma 1991, pp. 235-236).

SALMO 64

dal sito:

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/Salmo64.htm

SALMO 64

Al maestro del coro. Saldo. Di Davide. Canto
 
Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion,
a te si sciolgono i voti.
A te, che ascolti la preghiera,
viene ogni mortale.
Pesano su di noi le nostre colpe,
ma tu perdoni i nostri delitti.
Beato chi hai scelto perché ti stia vicino:
abiterà nei tuoi atri.
Ci sazieremo dei beni della tua casa,
delle cose sacre del tuo tempio.
Con i prodigi della tua giustizia,
tu ci rispondi, o Dio, nostra salvezza,
fiducia degli estremi confini della terra
e dei mari più lontani.
Tu rendi saldi i monti con la tua forza,
cinto di potenza.
Tu plachi il fragore del mare
il fragore dei suoi flutti,
il tumulto dei popoli.
Gli abitanti degli estremi confini
sono presi da timore davanti ai tuoi segni:
tu fai gridare di gioia
le soglie dell’oriente e dell’occidente.
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli.
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia!

Commento

Il salmo è un inno di lode e di ringraziamento a Dio composto in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per l’annuale celebrazione della Pasqua Cf. Lv 23,5s). Il tempio è la meta di arrivo: “Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacre del tuo tempio”.
Il salmo ha un grande respiro universalistico presentando Dio non solo quale salvezza di Israele, ma quale fiducia di tutte le genti, poiché gli uomini tendono nella preghiera al “Dio ignoto” (At 17,23), di cui ne colgono l’esistenza e la bontà: “Fiducia degli estremi confini della terra e dei mari lontani”. “I mari lontani” non sono solo distese di acqua, ma sono mari con isole (Cf. Ps 96,1).
Il salmista conosce il valore di incontro con Dio che il tempio offre, perciò prova una santa invidia per coloro che hanno un’opportunità costante di frequentarlo; cioè coloro che sono diventati gli abitanti di Gerusalemme: “Beato chi hai scelto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri”. Il tempio è quello eretto da Salomone poiché il salmo dice come Dio abbia fermato e fermi il tumulto dei popoli: è tempo di pace, di libertà, il momento del massimo splendore di Israele. Dio è in pace col suo popolo: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini”. “Il fiume di Dio” è, con immagine poetica, il calare dell’acqua dal cielo; è la pioggia (Cf. Ps 103,3).
Questo salmo noi lo recitiamo in Cristo, così la casa del Signore è la chiesa dove è presente l’Eucaristia. Ed è beato chi ha lasciato tutto per seguire più da vicino il Signore poiché può “abitare nei suoi atrii”.
“In Sion”, nelle chiese, deve sempre innalzarsi la lode e i ringraziamento per la salvezza ricevuta in Cristo, per la sua presenza sull’altare. I voti, che uno puo’ aver fatto, di maggior partecipazione alla vita ecclesiale, apostolica, trovano il momento del loro scioglimento, o meglio la forza per essere adempiuti, nella partecipazione viva all’Eucaristia.

I Salmi : Un canto senza tempo (Gianfranco Ravasi)

 dal sito:

 http://www.apostoline.it/riflessioni/salmi/Salmi_canto.htm
 
 I SALMI:  CANTI SUI SENTIERI DI DIO

Un canto senza tempo

(Gianfranco Ravasi)

« Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro e Tetrarca c’è la stessa differenza che corre tra la patria e la terra straniera ». Difficilmente si immaginerebbe che questa affermazione è di W. F. Nietzsche, celebre filosofo ateo tedesco del secolo scorso. Noi la poniamo proprio in apertura al viaggio che per diversi mesi condurremo insieme all’interno di quel mondo mirabile di poesia e di preghiera che è la collezione biblica dei 150 Salmi.
In questa tappa ci metteremo quasi nella posizione di Mosè, giunto alla frontiera ultima della sua vita e della terra promessa da Dio al suo popolo: sul monte Nebo, in Transgiordania, prima di morire, egli contempla dall’alto e da lontano  la terra tanto sognata e attesa. Anche noi daremo uno sguardo solo panoramico per ora a questo territorio ideale di fede e di vita, alle sue città e alle sue vie spirituali. Nella prossima puntata, invece, scenderemo dal monte e ci avvieremo per le varie strade del Salterio, alcune oscure e altre luminose, alcune facili e altre tormentate.
Il grande teologo D. Bonhoeffer, morto martire in un campo di concentramento nazista il sabato santo del 1945, nel suo libro Pregare i Salmi con Cristo scriveva acutamente: « Si rimane sorpresi di primo colpo che nella Bibbia vi sia un libro di preghiere. La Bibbia non è infatti tutta una parola di Dio rivolta a noi? Ora, le preghiere sono parole umane e perciò come possono trovarsi nella Bibbia? Se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è soltanto quella che egli vuole rivolgere a noi ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi ». E proprio perché è anche parola umana, quella del Salterio è segnata dal riso e dalle lacrime degli uomini, si snoda per le strade tra le speranze e le paure ed è legata ad una lingua (l’ebraico), a una cultura (quella semitica antica), a una storia (quella di Israele), ad uno spazio (quello di Palestina e del nostro pianeta).
È per questo che gli studiosi distinguono nei Salmi vari registri poetici e spirituali – i cosiddetti generi letterari – che riflettono appunto i sentimenti, le attese, gli incubi, le gioie degli uomini di tutti i tempi. Ci sono, allora, gli « inni » che celebrano Dio come Creatore del cosmo e Signore della storia; ci sono le « suppliche » che raccolgono l’eterna domanda dell’uomo di fronte alla sofferenza: « Perché, Signore?… Fino a quando, Signore, starai a guardare?… Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Per sempre? ». Ci sono poi i canti di « fiducia » che esaltano l’abbandono sereno in Dio anche in mezzo alle oscurità: « Come un bimbo in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia », prega il poeta del salmo 131.
Ci sono poi i carmi « messianici » che, sul filo della genealogia e della discendenza di Davide, attendono l’apparizione gloriosa di un re – Messia, giusto e salvatore. Ci sono i testi « sapienziali » che si interrogano sul senso della vita e propongono la fedeltà alla parola di Dio « come lampada per i passi » sul sentiero dell’esistenza. Noi nel nostro percorso attingeremo a questi vari « generi » poetici e spirituali ma ogni lirica-preghiera che leggeremo ci svelerà un volto sempre diverso e nuovo, perché ogni orante mette una punta personale, un tocco intimo, un’annotazione sorprendente, e irripetibile da parte di altri suoi fratelli di fede, che pure hanno composto preghiere sullo stesso tema e con la stessa fiducia in Dio.
Ma queste pagine bibliche ci conquisteranno soprattutto con la ricchezza dei loro simboli, con lo splendore delle loro immagini, con l’intensità dei loro sentimenti e con la potenza della loro speranza. Anche se queste preghiere abbracciano un millennio di poesia e di fede dell’Israele biblico, la tradizione posteriore le ha messe tutte sotto il patrocinio ideale di Davide. Ora, una leggenda giudaica racconta che Davide, inseguito dalle truppe del suo avversario, il re Saul, vagava per le piste bruciate del deserto di Giuda. Con sé aveva solo il suo kinnor, la sua cetra. Una sera coi suoi amici aveva piantato le tende nell’oasi di Engheddi, « la sorgente del capriolo ». Ad una palma aveva appeso la sua cetra e si era ritirato nella sua tenda scura come quella dei beduini. Stanco, Davide sentiva arrotolarsi lentamente su di sé il filo morbido del sonno. Ma ecco, all’improvviso, nel silenzio notturno un suono, dolce e straziante, malinconico e gioioso, dalle mille sfaccettature e modulazioni. Forse era il vento che faceva vibrare la sua cetra… Davide era uscito nell’oscurità della notte ed ecco: le dita di un angelo intessevano quella trama musicale sulle corde della sua lira. E la leggenda conclude: da quella notte Davide ebbe in dono le dita degli angeli per comporre le armonie dei Salmi.
Da quando i Salmi esistono e salgono al cielo, uscendo dal Tempio di Gerusalemme, attraversando i tetti delle nostre chiese, sciogliendosi nell’aria delle processioni, i musicisti e i cantori cercano di ottenere dita e voci d’angelo come nel racconto giudaico.
I Salmi, infatti, suppongono di essere cantati soprattutto nella liturgia. Non per nulla in essi si parla spesso di melodie, di cantori, di musicisti, di fanciulle che battono tamburelli, di danze con timpani e cetre, di trombe festive, di arpe ecc. Anzi, nell’ultimo inno, l’alleluia del Salmo 150, ai sette strumenti dell’orchestra del Tempio (corno, arpa, cetra, timpano, corde, flauti e cembali) si associa i suono universale di « tutto ciò che respira ».
È per questo che i Salmi, oltre che diventare preghiera personale, devono essere la base della preghiera pubblica, comunitaria e corale della Chiesa e dell’intero popolo di Dio. È per questo che i Salmi devono essere cantati, e diventare la lode della liturgia in cui tutti sono chiamati a celebrare nella gioia e nel dolore il Signore: « Voi tutti, giovani e fanciulle, voi vecchi insieme ai ragazzi, lodate il nome del Signore perché solo il suo nome è meraviglioso! » (Salmo 148, 12-13). 

GIANFRANCO RAVASI

(da SE VUOI)

1...34567...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01