Archive pour la catégorie 'ANTICO TESTAMENTO – SALMI (I)'

I 7 SALMI PENITENZIALI

http://parrocchiasfdp.altervista.org/blog/?page_id=1838&doing_wp_cron=1381339085.8785579204559326171875

I 7 SALMI PENITENZIALI

Questi sette salmi (Sal 6; cfr. Sal 32; cfr. Sal 38; cfr. Sal 51; cfr. Sal 102; cfr. Sal 130; cfr. Sal 143) furono raccolti da sant’Agostino sotto il nome di “Sette salmi penitenziali”, che vengono recitati la sera, prima di confessarsi e dopo essersi pentiti di un peccato.
Questa raccolta era una delle preghiere preferite di san Luigi Gonzaga e altri santi.

SALMO 6
Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore.
Pietà di me, Signore, vengo meno; guariscimi, Signore: tremano le mie ossa.
L’anima mia è tutta sconvolta. Ma tu, Signore, fino a quando…?
Volgiti Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia.
Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi?
Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
irroro di lacrime il mio letto.
I miei occhi si consumano nel dolore, invecchio fra tanti miei oppressori.
Via da me, voi tutti che fate il male: il Signore ascolta la voce del mio pianto.
Il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera.
arrosiscano e tremino, i miei nemici, indietreggino all’istante.

SALMO 32 (31)
Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa, e perdonato il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa alcun male e nel cui spirito non è inganno.
Tacevo e si logoravano le mie ossa, mentre gemevo tutto il giorno.
Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore.
Ti ho manifestato il mio peccato, non ho tenuto nascosto il mio errore.
Ho detto: <<Confesserò al Signore le mie colpe>> e tu hai rimesso la malizia del mio peccato.
Per questo ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia.
Quando irromperanno grandi acque non lo potranno raggiungere.
Tu sei il mio rifugio, mi preservi dal pericolo, mi circondi di esultanza per la salvezza.
Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire; con gli occhi su di te, ti darò consiglio.
Non siate come il cavallo e come il mulo privi d’intelligenza;
si piega la loro fierezza con morso e briglie, se no, a te non si avvicinano.
Molti saranno i dolori dell’empio, ma la grazia circonda chi confida nel Signore.
Gioite nel Signore ed esultate, giusti, giubilate, voi tutti, retti di cuore.

SALMO 38 (37)
Signore, non castigarmi nel tuo sdegno, non punirmi nella tua ira.
Le tue frecce mi hanno trafitto, su di me è scesa la tua mano.
Per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati.
Le mie iniquità hanno superato il mio capo, come carico pesante mi hanno oppresso.
Putride e fetide sono le mie piaghe a causa della mia stoltezza.
Sono curvo e accasciato, triste mi aggiro tutto il giorno.
Sono torturati i miei fianchi, in me non c’è nulla di sano.
Afflitto e sfinito all’estremo, ruggisco per il fremito del mio cuore.
Signore, davanti a te ogni mio desiderio e il mio gemito a te non è nascosto.
Palpita il mio cuore, la forza mi abbandona, si spegne la luce dei miei occhi.
Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza.
Tende lacci chi attenta alla mia vita,
trama insidie chi cerca la mia rovina e tutto il giorno medita inganni.
Io, come un sordo, non ascolto e come un muto non apro la bocca;
sono come un uomo che non sente e non risponde.
In te spero, Signore; tu mi risponderai, Signore Dio mio.
Ho detto: <<Di me non godano, contro di me non si vantino quando il mio piede vacilla>>.
Poiché io sto per cadere e ho sempre dinanzi la mia pena.
Ecco, confesso la mia colpa, sono in ansia per il mio peccato.
I miei nemici sono vivi e forti, troppi mi odiano senza motivo,
mi pagano il bene col male, mi accusano perché cerco il bene.
Non abbandonarmi, Signore, Dio mio, da me non stare lontano;
accorri in mio aiuto, Signore, mia salvezza.

SALMO 51 (50)
Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto;
perciò sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.
Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore e nell’intimo m’insegni la sapienza.
Purificami con issopo e sarò mondo; lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia, esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso.
Insegnerò agli erranti le tue vie e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza, la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi.
Nel tuo amore fa grazia a Sion, rialza le mura di Gerusalemme.
Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

SALMO 103 (102)
Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie;
salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia;
egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza.
Il Signore agisce con giustizia e con diritto verso tutti gli oppressi.
Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere.
Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore.
Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono;
come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe.
Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono.
Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere.
Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Lo investe il vento e più non esiste e il suo posto non lo riconosce.
Ma la grazia del Signore è da sempre, dura in eterno per quanti lo temono;
la sua giustizia per i figli dei figli, per quanti custodiscono la sua alleanza
e ricordano di osservare i suoi precetti.
Il Signore ha stabilito nel cielo il suo trono e il suo regno abbraccia l’universo.
Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli, potenti esecutori dei suoi comandi,
pronti alla voce della sua parola.
Benedite il Signore, voi tutte, sue schiere, suoi ministri, che fate il suo volere.
Benedite il Signore, voi tutte opere sue,in ogni luogo del suo dominio.
Benedici il Signore, anima mia.

SALMO 130 (129)
Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera.
Se consideri le colpe, Signore,Signore, chi potrà sussistere?
Ma presso di te è il perdono, perciò avremo il tuo timore.
Io spero nel Signore, l’anima mia spera nella tua parola.
L’anima mia attende il Signore, più che le sentinelle l’aurora.
Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la Misericordia,
grande è presso di lui la redenzione; egli redimerà Israele da tutte le sue colpe.

SALMO 143 (142)
Signore, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alla mia supplica,
tu che sei fedele, e per la tua giustizia rispondimi.
Non chiamare in giudizio il tuo servo, nessun vivente davanti a te è giusto.
il nemico mi perseguita, capesta a terra la mia vita,
mi ha relegato nelle tenebre, come i morti da gran tempo.
In me languisce il mio spirito, si agghiaccia il mio cuore.
Ricordo i giorni antichi, ripenso a tutte le tue opere,
medito i tuoi prodigi. A te protendo la mie mani.
Rispodimi presto, Signore, viene meno il mio spirito.
Non nascondermi il tuo volto, perchè non sia come chi scende nella fossa.
Al mattino fammi sentire la tua grazia, poichè in te confido.
Fammi conoscere la strada da percorrere, poichè a te si innalza l’anima mia.
Salvami dai miei nemici, Signore, a te mi affido.
Per il tuo nome, Signore, fammi vivere, liberami dall’angoscia, per la tua giustizia.
Per la tua fedeltà disperdi i miei nemici,
fa’ perire chi mi opprime, poichè io sono tuo servo.

I Salmi come libro: introduzione a una lettura continua del Salterio

http://www.dimensionesperanza.it/aree/formazione-religiosa/bibbia/item/6064-i-salmi-come-libro-introduzione-a-una-lettura-continua-del-salterio-tiziano-lorenzin.html

I Salmi come libro: introduzione a una lettura continua del Salterio (Tiziano Lorenzin)

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del Concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l’obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura.

I Salmi come libro:
introduzione a una lettura continua
del Salterio
di Tiziano Lorenzin

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del Concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l’obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura. Proprio la moderna ricerca sui generi letterari, che ha molto contribuito alla comprensione dei salmi, ce li ha resi ancora più estranei. Gli studi di due grandi esegeti del secolo scorso, H. Gunkel (1862-1932) e S. Mowinckel (1884-1965), hanno permesso di stabilire la provenienza liturgica di molti salmi; ma era un altro culto, non il nostro.
E la classificazione dei salmi secondo il tipo (lamentazione, supplica, inno, salmo di ringraziamento, salmo sapienziale) ha rischiato spesso di mettere su uno stesso calderone tante preghiere, facendone perdere i colori originali. Gli studiosi erano più interessati al momento primitivo della produzione del testo e a ciò che lo rendeva simile ad altri testi sorti nella stessa situazione liturgica; molto meno al testo che abbiamo noi oggi, spesso considerato frutto di rimaneggiamenti peggiorativi.
Agli inizi degli anni Ottanta con i commentari di G. Ravasi e di L. Alonso Schokel si incominciò a tenere più in considerazione l’originalità poetica e teologica del singolo salmo. Il libro dei Salmi, tuttavia, era ancora considerato come un’antologia di poesie, una specie di archivio di testi senza alcun ordine oppure un cesto stupendo di frutti, salutari e nutrienti, da gustarsi però singolarmente. E questo tipo di considerazione sembra abbia influenzato anche il modo in cui sono distribuiti i salmi nell’attuale Liturgia delle Ore: salmi di supplica e di lode al mattino, di supplica e di rendimento di grazie la sera, salmi della torà nell’ ora media.
Tuttavia, già nel 1972 in Italia si era levata una voce controcorrente, quella di D. Barsotti. Egli scriveva:
Per vivere i salmi come nostra preghiera s’impone prima di tutto che noi consideriamo il Salterio nella sua unità. [ ...] La prima cosa che s’ impone per chi vuole affrontare il libro dei salmi, è rendersi conto che il Signore ha voluto che si presentasse a noi questo libro in una certa sua unità, che ci sfugge molto spesso, ma dà a noi la chiave migliore per l’interpretazione religiosa del Salterio.
Barsotti confessa candidamente di aver capito ben poco dei salmi, finché nell’introduzione al Salterio di Chouraqui non trovò questa proposta di una lettura unitaria e progressiva del libro dei Salmi.
È evidente che, se l’ordine dei salmi nel Salterio non è puramente casuale, ma è stabilito da un’intenzione precisa, allora è possibile che nei nostri studi abbiamo perso qualcosa. Da più di una decina d’ anni cresce sempre più il numero di esegeti convinti che «il più antico commento al senso dei salmi è la maniera stessa del loro arrangiamento nel Salterio» (M.D. Goulder). Si prende, cioè, sempre più in considerazione il titolo tradizionale, che si ritrova già a Qumran nella seconda metà del sec. I a.C.: sefer tehillîm, «libro dei salmi», ma anche nel Nuovo Testamento (biblos psalmõn: Lc 20,42; At 1,20). Il libro, con tutti i suoi elementi canonici, è così un orizzonte verso il quale guarda oggi l’interprete, con la convinzione che nell’assemblaggio finale ciascun salmo è divenuto l’ elemento di un tutto, da cui esso riceve senso e a cui pure dona senso.
Il Salterio: il  «libro dei canti» del secondo tempio?
Davanti al Salterio ci si potrebbe perciò domandare se noi abbiamo veramente in mano il «libro dei canti» in uso nelle liturgie del secondo tempio di Gerusalemme, come pensava la maggioranza degli esegeti del secolo scorso dopo Mowinckel. L’uso dei salmi al tempo di Gesù e nel cristianesimo primitivo sembra invece affermare il contrario. Sembra certo, infatti, che il Salterio in quel tempo non avesse alcun grosso ruolo liturgico. Alcuni salmi erano adoperati nel tempio all’ infuori delle grandi cerimonie: questo è tutto. E il Salterio non era neppure il «libro dei canti» della sinagoga. Anche quei pochi salmi che un tempo erano usati nel tempio non furono accettati subito dalla sinagoga (G. Stemberger).
Tuttavia, il Salterio a Qumran, negli scritti del Nuovo Testamento e nelle testimonianze del giudaismo ellenistico, era il libro dell’ Antico Testamento più conosciuto e più usato, più amato e più citato (N. Flueglister). La spiegazione più probabile potrebbe essere che il rotolo dei salmi fosse diventato quella torà che i fedeli del Signore – i poveri che non potevano entrare in possesso del grande rotolo del Pentateuco – meditavano «giorno e notte» come si dice nelle prime righe del Salterio (Sal 1,2). L’ambiente dove i salmi veni- vano recitati e cantati sembra essere stato piuttosto le haburot, fraternità di vita dei rabbini e dei loro scolari, e soprattutto la famiglia. Questo appare dal testo di 4 Maccabei, sorto nel I sec. d.C., dove i sette fratelli così dicono al loro padre:
«Quando egli era ancora presso di noi si preoccupava di insegnare la legge e i profeti… Egli cantava anche gli inni di Davide, che dice: «Molte sono le tribolazioni del giusto (Sal 34,20)» (4Mac 18,10.15).
Il Salterio torà di Davide
Il libro dei Salmi, forse già dal tempo della redazione di Lc 24,44 ( «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mose, nei Profeti e nei Salmi» ), stava al vertice della terza parte del canone ebraico: gli Scritti. Era considerato, cioè, una Scrittura santa da meditare, per scoprire il piano di salvezza di Dio. Doveva essere letto come si leggeva la seconda parte del canone: i Profeti, il cui primo libro, secondo gli ebrei, è Giosuè:
Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, perchè tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; perchè allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo (Gs 1,8).
Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche la comunità dei fedeli, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (D t 6,7; cf. Sal 1,1), non smarrirà la strada che porta alla vita. Il Salterio era considerato pertanto un rituale per una liturgia di santità da svolgersi nel grande tempio dell’ esistenza concreta di ogni giorno.
Un ulteriore indizio per intendere il libro dei Salmi come torà – una Scrittura da meditare – è la divisione del Salterio in cinque libri come la torà di Mosè.

È una divisione che probabilmente appartiene alla fase finale della redazione. Secondo il midrash, «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri» (Midrash Tehillim al Sal 1,1 [III-IX sec. d.C.]).

Quattro formule dossologiche, che si richiamano a vicenda mediante la ripetizione di alcuni termini, indicano la conclusione dei primi quattro libri:

- Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;

- Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d’Israele, lui solo compie meraviglie. E benedetto il suo nome glorioso per sempre e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen!»;
- Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;
- Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele da sempre e per sempre! E tutto il popolo dica: Amen».
Le quattro formule nella loro sequenza concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41 ), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante YHWH, il Dio dell’ alleanza (Sal 106). Al complesso dei Sal 107-150 manca una formula dossologica, che corrisponda alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio.
Il Salterio, una torà fatta preghiera
Anche le soprascritte che precedono molti salmi, pur essendo tardive e non canoniche, rappresentano un’ importante riflessione su come i salmi – in quanto collezione di Scrittura sacra – erano compresi già prima di Cristo. Queste soprascritte rappresentano in effetti l’esegesi più antica atte stata di alcuni salmi. Di particolare importanza è l’espressione spesso ripetuta: «Salmo di Davide», che aiuta a meditare e pregare il salmo con il cuore e la bocca del «soave cantore d’ lsraele» (2Sam 23,1), il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che l’aveva creato» (Sir 47,8). Soprattutto alcune soprascritte, che richiamano eventi della vita di Davide, invitano il lettore a rivivere gli stessi sentimenti che furono nel cuore dell’ antico re di Israele: paura, coraggio, amore, lamento, invocazione, lode e ringraziamento.
Il Davide con cui il pio fedele si deve identificare è il «servo del Signore», il sofferente esemplare, che anche da peccatore a motivo della sua preghiera è salvato dal suo Dio da tutte le sue difficoltà. Di fronte ai conflitti, alle crisi e vittorie della vita, il Salterio offriva ai suoi lettori un modello di una risposta personale al Signore.
Anche questo fenomeno di davidizzazione del Salterio è un indizio che la collezione dei salmi ha perduto la sua funzione liturgica originale e ora ha un nuovo ruolo, quello di sacra Scrittura sulla quale i figli di Israele meditano in preghiera.
È una torà fatta preghiera.
Posizione strategica dei salmi regali
Gli studiosi, poi, hanno notato che ci sono alcuni salmi che sono messi intenzionalmente nei punti strategici del Salterio e costituiscono delle specie di sutura tra varie collezioni già esistenti. Questi sono alcuni salmi regali. La distribuzione dei salmi regali alI’ interno del Salterio sembra corrispondere infatti a un principio deliberato di organizzazione dell’insieme del libro:
- il Sal 2 introduce la raccolta: introduce l’idea dell’alleanza davidica;
- il Sal 41 davidico, che alcuni commentatori classificano tra i salmi regali, conclude il primo libro: riprende la suddetta promessa; Davide parla infatti della protezione del Signore;
- il Sal 72 conclude il secondo libro: con le richieste in favore del figlio del re potrebbe rappresentare la preghiera di Davide per suo figlio Salomone in vista della sua accessione al trono;
- il Sal 89, anch’esso regale, conclude il terzo libro: in esso si popone una nuova prospettiva: si ricorda l’ alleanza davidica, ma essa è fallita; da qui il grido angosciato dei discendenti davidici. L’alleanza davidica introdotta nel Sal 2 è sfociata nel nulla, e il Signore tarda. Ma fino a quando? Con questo appello termina la prima parte del Salterio (libri I, Il, III).
La risposta si trova nel libro IV (Sal 90-106), al cui centro ci sono i salmi che celebrano la regalità del Signore. È vero – sembrano dire questi salmi – che non abbiamo più un re a Gerusalemme, ma il nostro Dio era re ancor prima di Davide, anzi ancor prima di Mosè, da sempre. Di che cosa abbiamo paura? Il nostro Signore tiene saldamente in mano le redini della storia.
Il Salterio, partitura poetica della vita
Facendo una «lectio continua» dei salmi, si è notato poi una tensione all’ interno del Salterio. Nella loro composizione i salmi sono disposti in modo tale da formare un cammino di preghiera – o un procedimento di preghiera – , mediante il quale essi vogliono trasformare gli oranti. L’ io che parla alla fine nel Sal 150, è un io diverso da quello all’inizio nel Sal 3.
Si è fatto corrispondere in modo suggestivo i diversi libri del Salterio ai diversi momenti di una giornata, che secondo il costume ebraico comincia con la sera o con la notte.
- Il primo libro (Sal 3-41) descrive la notte; il tono dominante è quello della supplica dell’innocente ingiustamente perseguitato.
- Il secondo libro (Sal 42- 72) descrive il mattino e introduce una nota di maggiore fiducia e un ardente desiderio di vedere Dio.
- Il terzo libro (Sal 73-89) descrive il mezzogiorno, in cui il tono dominante è quello del lamento per le grandi sciagure storiche del popolo ebraico, che però non uccidono mai la speranza in un futuro intervento di Dio.
- Il quarto libro (Sal 90-106) descrive invece la sera, in cui si incomincia a sperimentare la potenza del regno glorioso di Dio.
- Il quinto libro (Sal 107-150) descrive infine il nuovo mattino in cui sgorga dal cuore del popolo un rendimento di grazie e il canto di lode finale alla fedeltà di Dio (A. Chouraqui).
Altri – sempre riconoscendo il carattere redazionale e quindi non accidentale dei cinque libri del Salterio – tentano di rintracciare un percorso lineare di vita spirituale nella lettura continua e contestuale dei 150 salmi. A. Mello, per esempio, nel susseguirsi dei cinque libri riconosce delle preghiere, che, per il fatto di essere suggerite dallo Spirito, hanno la capacità di sostenere l’ orante nelle varie fasi del suo cammino spirituale:
- la vocazione (primo libro);
- la giovinezza (secondo libro);
- la crisi (terzo libro);
- l’uscita dalla crisi o la percezione del regno (quarto libro);
- la maturità spirituale (quinto libro).
Alcuni autori, poi, si soffermano a domandarsi perché la tradizione ebraica antica abbia chiamato tutti i 150 tehillîm «lodi», quando in realtà nella prima parte del Salterio fino al Sal 89 troviamo soprattutto una lunga serie di suppliche individuali e collettive, in cui è espressa tutta l’angoscia di uomini e di donne avvolti nelle tenebre del dubbio, del pericolo, dell’oppressione, della morte e della lontananza di Dio. In una lettura contestuale, tuttavia, questi salmi sono interpretati come grida nella notte, che svegliano l’ aurora, da cui sorgerà il Sole di giustizia. E di fatto, dal quarto al quinto libro il tono cambia, fino a trasformarsi nella lode di ogni uomo e donna, anzi, di ogni creatura che respira, nel fortissimo del salmo finale. Questa disposizione dei salmi non è certo casuale. L’editore voleva suggerire alla sua comunità di poveri e perseguitati il vero senso e scopo della vita: la lode al proprio signore.
Evidentemente può lodare il Signore chi ha gli occhi del cuore per riconoscere nella storia della propria esistenza, in quella della comunità e in quella del mondo, le orme dell’agire amoroso di Dio. Questi occhi del cuore possono sbocciare e essere continuamente rischiarati meditando, o meglio, sussurrando notte e giorno uno dopo l’ altro i salmi imparati a memoria, come suggerisce il Sal 1 nell’ introduzione al Salterio.
Alcune tecniche di collegamento tra i salmi
È una meditazione favorita da alcune importanti relazioni linguistiche e tematiche esistenti tra salmi immediatamente successivi: richiami non casuali, ma intesi dai redattori. Mentre  l’ orante o lettore passa di salmo in salmo, può cogliere un intreccio di particolarità significative tipiche di un testo unitario. Il pensiero semitico, infatti, rifugge dal cambiamento improvviso della situazione, preferendo superare uno iato con collegamenti di contenuto e di forma con il testo vicino. Questo procedimento ha come effetto di creare una continuità tra i salmi, che non sono più da leggersi come una successione di pezzi eterogenei, ma come lo sviluppo di una preghiera o lo sviluppo di un dramma. Le parole di un salmo risuonano come in un’eco nel seguente e si crea così l’impressione che sia la stessa voce a esprimersi lungo tutti i salmi. Colui che dice nel Sal 3,2: «Signore, quanti sono i miei oppressori», è lo stesso che dice: «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia» (Sal 4,2), «Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole» (Sal 5,2), «Pietà di me, Signore: vengo meno» (Sal 5,3), e così di seguito.
Può darsi che questa somiglianza di parole o di motivi fosse stata per i redattori un buon motivo per mettere i salmi uno dopo l’altro (iuxtapositio). Ma può anche darsi il caso che questa concatenazione di parole e di motivi ( concatenatio ) sia dovuta alI’ opera stessa dei redattori, che hanno composto o riscritto i salmi proprio perchè avessero la posizione in cui si trovano ora nel Salterio. Questi richiami si trovano di solito alla fine dei salmi e ai loro inizi.
Faccio un esempio. Il Sal 7 conclude con la promessa di lode: «Loderò il signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio, l’Altissimo» (v. 18). Il Sal 8 viene recitato come proseguimento di questa lode, come sottolinea il suo inizio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (v. 2). Questa frase termina pure il Sal 8, preparando la promessa di lode finale del Sal 9,2-3: «Loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le tue meraviglie. Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo». In questo modo, mediante la concatenazione attraverso la ripetizione del temine chiave «nome» nei tre salmi, il Sal 8 è espressamente considerato un inno di lode del perseguitato (Sal 7) e del povero (Sal 9), che nonostante le loro tribolazioni conservano in se stessi la «vera immagine di Dio» (cf Sal 8,6-9).
Un esempio di giustapposizione può essere il collegamento tra i Sal 1, 2 e 3: il Messia che spezza le nazioni con scettro di ferro e le frantuma come vasi d’argilla in Sal 2,9 è in realtà un sapiente che realizzerà tutto questo con le sole armi della saggezza (Sal 1), e questa sarà la sapienza della croce, in quanto vincerà le genti mettendosi alloro servizio come un servo del Signore (Sal 3).
A volte, poi, due salmi successivi sono strutturalmente e linguisticamente così simili, da essere giustamente chiamati «salmi gemelli». Un esempio chiaro sono i due salmi alfabetici 111 e 112.
Altre volte, più salmi sono messi uno dopo l’altro secondo uno schema liturgico o di genere letterario, in modo che la loro sequenza porti un messaggio teologico. Ad esempio, i tre Sal 90, 91, 92 guadagnano a essere letti senza discontinuità, perchè sono organizzati secondo la sequenza: supplica – oracolo di salvezza – azione di grazie (i tre elementi del genere letterario della supplica). Il lamento sulla brevità della vita umana (Sal 90,3-12), che è «come l’erba» (vv. 5-6), e la domanda dei servi di YHWH, di essere «saziati» da lui (vv. 13-17), non restano senza risposta. A chi si aggrappa a lui, Dio promette di «saziarlo di lunghi giorni e di manifestargli la sua salvezza» (Sal 91,16). Il Sal 92, poi, spiega che questo uomo è simile a una palma (sempre verde) e al cedro (simbolo di longevità), che «nella vecchiaia portano ancora frutti» (vv. 13-15), mentre i malfattori sono come l’erba che viene falciata (v. 8). Questi tre salmi sviluppano un’antropologia teologica disposta su tre gradini: dal lamento davanti alla caducità dell’ uomo (90,3-6), attraverso la confidenza nella protezione dell’ Altissimo nel Sal 91, fino alla ringraziamento per il governo di Dio su empi e giusti (Sal 92).
Un altro esempio è l’unità di composizione parziale dei Sal 3-7: cinque salmi collegati tra loro da uno schema temporale, che li rende la preghiera per tutti i tempi. Il Sal 3 è una preghiera del mattino (v. 4), il Sal 4 una preghiera della sera (v. 9), il Sal 5 ancora una preghiera del mattino (v. 6), il Sal 6 una preghiera della notte (v. 7), il Sal 7 una preghiera del giorno (v. 12). La notte richiama la morte, la sofferenza, la paura del nemico, l’insonnia di una malattia. In ogni situazione, soprattutto in quelle difficili, il giusto trascorre il tempo in preghiera: è l’uomo fatto preghiera, come si diceva di Francesco di Assisi.
Conclusione. Con l’ espressione programmatica: «Lettura continua del Salterio» s’intende dire che la nuova prospettiva della ricerca esegetica considera  il libro dei Salmi non come un ripostiglio di testi singoli o un’antologia di poesie raccolte a caso, ma una composizione formata da raccolte successive di collezioni parziali, sorta con l’ aiuto di specifiche tecniche di composizione e con un programma teologico particolare.
I redattori e gli editori hanno posto i singoli salmi uno dopo l’ altro secondo determinati concetti, in modo che i singoli salmi in questo modo ricevessero un ‘ulteriore dimensione di significato e di importanza.

(da Parole di Vita, n. 1, 1995)

BENEDETTO XVI: COME BIMBO IN BRACCIO A SUA MADRE (Sal 130,1-3)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Vita%20Spirituale/04-05/11-Salmo_130.html

LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI

COME BIMBO IN BRACCIO A SUA MADRE

Signore,
non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze.       
Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
Speri Israele nel Signore, ora e sempre. (Sal 130,1-3)

Poche parole, una trentina nell’originale ebraico del Salmo 130. Eppure sono parole intense, che svolgono un tema caro a tutta la letteratura religiosa: l’infanzia spirituale.            
Il pensiero corre subito in modo spontaneo a Santa Teresa di Lisieux, alla sua «piccola via», al suo «restare piccola» per «essere tra le braccia di Gesù» (cf Manoscritto «C», 2r°-3v°: Opere complete, Città del Vaticano 1997, pp. 235-236).
Al centro del Salmo, che recitiamo ai Vespri del martedì della terza settimana del Salterio, si staglia l’immagine di una madre col bambino, segno dell’amore tenero e materno di Dio, come si era già espresso il profeta Osea:
«Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato… Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1.4).

L’orgoglioso non conosce Dio
Il Salmo si apre con la descrizione dell’atteggiamento antitetico rispetto a quello dell’infanzia, la quale è consapevole della propria fragilità, ma fiduciosa nell’aiuto degli altri. Di scena, nel Salmo, sono invece l’orgoglio del cuore, la superbia dello sguardo, le «cose grandi e superiori» (cf Sal 130,1). È la rappresentazione della persona superba, che viene tratteggiata mediante vocaboli ebraici indicanti «altezzosità» ed «esaltazione», l’atteggiamento arrogante di chi guarda gli altri con senso di superiorità, ritenendoli inferiori a se stesso.
La grande tentazione del superbo, che vuol essere come Dio, arbitro del bene e del male (cf Gn 3,5), è decisamente respinta dall’orante, il quale opta per la fiducia umile e spontanea nell’unico Signore.

L’abbandono sereno dello spirito
Si passa, così, all’immagine indimenticabile del bambino e della madre. Il testo originario ebraico non parla di un neonato, bensì di un «bimbo svezzato» (Sal 130,2). Ora, è noto che nell’antico Vicino Oriente lo svezzamento ufficiale era collocato attorno ai tre anni e celebrato con una festa (cf Gn 21,8; 1 Sam 1,20-23; 2 Mac 7,27).
Il bambino, a cui il Salmista rimanda, è legato alla madre da un rapporto ormai più personale e intimo, non quindi dal mero contatto fisico e dalla necessità di cibo. Si tratta di un legame più cosciente, anche se sempre immediato e spontaneo. È questa la parabola ideale della vera «infanzia» dello spirito, che si abbandona a Dio non in modo cieco e automatico, ma sereno e responsabile.

La speranza nasce dalla fiducia
A questo punto la professione di fiducia dell’orante si allarga a tutta la comunità: «Speri Israele nel Signore, ora e sempre» (Sal 130,3). La speranza sboccia ora in tutto il popolo, che riceve da Dio sicurezza, vita e pace, e si estende dal presente al futuro, «ora e sempre».
È facile continuare la preghiera facendo echeggiare altre voci del Salterio, ispirate alla stessa fiducia in Dio: «Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio» (Sal 21,11). «Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto» (Sal 26,10). «Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia giovinezza. Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno» (Sal 70,5-6).

Il combattimento interiore
All’umile fiducia, come si è visto, si oppone la superbia. Uno scrittore cristiano del quarto-quinto secolo, Giovanni Cassiano, ammonisce i fedeli sulla gravità di questo vizio, che
«distrugge tutte le virtù nel loro insieme e non prende di mira solamente i mediocri e i deboli, ma principalmente quelli che si sono posti al vertice con l’uso delle loro forze».

Egli continua:
«È questo il motivo per cui il beato Davide custodisce con tanta circospezione il suo cuore fino ad osar proclamare davanti a Colui al quale non sfuggivano certamente i segreti della sua coscienza: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze»…
E tuttavia, ben conoscendo quanto sia difficile anche per i perfetti una tale custodia, egli non presume di appoggiarsi unicamente alle sue capacità, ma supplica con preghiere il Signore di aiutarlo per riuscire a evitare i dardi del nemico e a non restarne ferito: «Non mi raggiunga il piede orgoglioso»
(Sal 35,12)» (Le istituzioni cenobitiche, XII, 6, Abbazia di Praglia, Bresseo di Teolo – Padova 1989, p. 289).
Analogamente un anziano anonimo dei Padri del deserto ci ha tramandato questa dichiarazione, che riecheggia il Salmo 130:
«Io non ho mai oltrepassato il mio rango per camminare più in alto, né mi sono mai turbato in caso di umiliazione, perché ogni mio pensiero era in questo: nel pregare il Signore che mi spogliasse dell’uomo vecchio» (I Padri del deserto. Detti, Roma 1980, p. 287).

Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 11-08-2005

Benedetto XVI: Ogni fatica è vana senza il Signore (Salmo 126 – 31.8.2005)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050831_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 31 agosto 2005

Ogni fatica è vana senza il Signore

Vespri – Mercoledì 3a settimana

1. Il Salmo 126, ora proclamato, presenta davanti ai nostri occhi uno spettacolo in movimento: una casa in costruzione, la città con le sue guardie, la vita delle famiglie, le veglie notturne, il lavoro quotidiano, i piccoli e i grandi segreti dell’esistenza. Ma su tutto si leva una presenza decisiva, quella del Signore che aleggia sulle opere dell’uomo, come suggerisce l’avvio incisivo del Salmo: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (v. 1)
Una società solida nasce, certo, dall’impegno di tutti i suoi membri, ma ha bisogno della benedizione e del sostegno di quel Dio che, purtroppo, spesso è invece escluso o ignorato. Il Libro dei Proverbi sottolinea il primato dell’azione divina per il benessere di una comunità e lo fa in modo radicale affermando che «la benedizione del Signore arricchisce, non le aggiunge nulla la fatica» (Pr 10,22).
2. Questo Salmo sapienziale, frutto della meditazione sulla realtà della vita di ogni giorno, è costruito sostanzialmente su un contrasto: senza il Signore, invano si cerca di erigere una casa stabile, di edificare una città sicura, di far fruttificare la propria fatica (cfr Sal 126,1-2). Col Signore, invece, si ha prosperità e fecondità, una famiglia ricca di figli e serena, una città ben munita e difesa, libera da incubi e insicurezze (cfr vv. 3-5).
Il testo si apre con l’accenno al Signore raffigurato come costruttore della casa e sentinella che veglia sulla città (cfr Sal 120,1-8). L’uomo esce al mattino per impegnarsi nel lavoro a sostegno della famiglia e a servizio dello sviluppo della società. È un lavoro che occupa le sue energie, provocando il sudore della sua fronte (cfr Gn 3,19) per l’intero arco della giornata (cfr Sal 126,2).
3. Ebbene, il Salmista non esita ad affermare che tutto questo lavoro è inutile, se Dio non è al fianco di chi fatica. Ed afferma che Dio premia invece persino il sonno dei suoi amici. Il Salmista vuole così esaltare il primato della grazia divina, che imprime consistenza e valore all’agire umano, pur segnato dal limite e dalla caducità. Nell’abbandono sereno e fedele della nostra libertà al Signore, anche le nostre opere diventano solide, capaci di un frutto permanente. Il nostro «sonno» diventa, così, un riposo benedetto da Dio, destinato a suggellare un’attività che ha senso e consistenza.
4. Si passa, a questo punto, all’altra scena tratteggiata dal nostro Salmo. Il Signore offre il dono dei figli, visti come una benedizione e una grazia, segno della vita che continua e della storia della salvezza protesa verso nuove tappe (cfr v. 3). Il Salmista esalta in particolare «i figli della giovinezza»: il padre che ha avuto figli in gioventù non solo li vedrà in tutto il loro vigore, ma essi saranno il suo sostegno nella vecchiaia. Egli potrà, così, affrontare con sicurezza il futuro, divenendo simile a un guerriero, armato di quelle «frecce» acuminate e vittoriose che sono i figli (cfr vv 4-5).
L’immagine, desunta dalla cultura del tempo, ha lo scopo di celebrare la sicurezza, la stabilità, la forza di una famiglia numerosa, come si ripeterà nel successivo Salmo 127, in cui è tratteggiato il ritratto di una famiglia felice.
Il quadro finale raffigura un padre circondato dai suoi figli, che è accolto con rispetto alla porta della città, sede della vita pubblica. La generazione è, quindi, un dono apportatore di vita e di benessere per la società. Ne siamo consapevoli ai nostri giorni di fronte a nazioni che il calo demografico priva della freschezza, dell’energia, del futuro incarnato dai figli. Su tutto, però, si erge la presenza benedicente di Dio, sorgente di vita e di speranza.
5. Il Salmo 126 è stato spesso usato dagli autori spirituali proprio per esaltare questa presenza divina, decisiva per procedere sulla via del bene e del regno di Dio. Così il monaco Isaia (morto a Gaza nel 491) nel suo Asceticon (Logos 4,118), ricordando l’esempio degli antichi patriarchi e profeti, insegna: «Si sono posti sotto la protezione di Dio implorando la sua assistenza, senza mettere la loro fiducia in qualche fatica che avessero compiuto. E la protezione di Dio è stata per loro una città fortificata, perché sapevano che senza l’aiuto di Dio essi erano impotenti e la loro umiltà faceva loro dire con il Salmista: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori. Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode”» (Recueil ascétique, Abbaye de Bellefontaine 1976, pp. 74-75).

Commento su Geremia 23,1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Mc 6,30-34

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=25801

Commento su Geremia 23,1-6; Salmo 22; Efesini 2,13-18; Mc 6,30-34

CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie – famiglie)

XVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (22/07/2012)

Tre sono i temi chiave di questa domenica: il tema della pastoralità che potrebbe essere riassunto con l’espressione « per essere vere guide occorre essere veri pastori » (prima lettura, salmo); il tema, tutto paolino, dell’uomo nuovo autonomo e responsabile al quale non servono più leggi e decreti perché lo Spirito parla attraverso la coscienza del singolo (compito « pedagogico » di un vero pastore è far passare nella comunità questo messaggio) e, infine, il tema del deserto (Evangelo) ai primi due, come vedremo, strettamente collegati. Ma andiamo con ordine.
La prima lettura è tratta dal libro del profeta Geremia. Nato nel 650 avanti Cristo, Geremia – il secondo dei grandi profeti maggiori del Primo Testamento e il cui nome significa « Jahvè esalta » – pronuncia parole durissime nei confronti dei pastori del suo tempo: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore» (Ger 23,1). Il profeta parla in nome di Dio (« Oracolo del Signore ») mentre la sua voce tuona minacciosa nei confronti di questi pastori.
La domanda, collegata a questo primo tema, è: a distanza di 26 secoli, senza cadere in trappole interpretative letteralistiche o fondamentalistiche, possiamo applicare questa invettiva alla condizione ecclesiale odierna? Noi pensiamo di sì. Se infatti la domenica entriamo nelle nostre chiese, vedendole sempre più vuote, soprattutto di famiglie e di giovani, non possiamo non renderci conto della crescente disaffezione delle persone, non tanto nei confronti del fatto religioso che pure gode di un rinnovato interesse (ancorché secondo modelli sincretistici e da « supermercato del sacro »), quanto piuttosto nei confronti della Chiesa, intesa come Istituzione ecclesiale, considerata lontana non soltanto dal pensare comune (cosa di cui peraltro la Chiesa non dovrebbe preoccuparsi, se davvero possedesse uno spirito di profezia) ma anche e soprattutto dalla vita reale e faticosa delle persone. Di questo, sì, occorre preoccuparsi, ed è a nostro avviso uno dei problemi più grossi che la comunità cristiana si trova oggi ad affrontare. Oggi l’immagine della Chiesa non attira più…
In questa disaffezione (che non è, come si sente spesso affermare, causata solo dal processo di secolarizzazione in atto) c’è spesso, come sempre, un’anima profonda di verità: è una condizione – se così si può dire – che il Signore peraltro aveva previsto:«Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno» (Ger 23,3)… Quasi a dire: « Pastori infedeli, non ho più bisogno di voi, voi che vivete in ricchi palazzi con centinaia di camere, mentre la maggior parte del mio popolo vive in misere catapecchie; voi che vi affannate a coprire scandali sessuali; voi che trafficate denaro; voi che avete instaurato modelli di gestione del potere basati su malaffare e corruzione, mentre il mio popolo non trova lavoro, è disperato, e vive l’incubo della terza e della quarta settimana del mese… Voi che parlate di misericordia, ma che, escludendole dall’Eucaristia, non siete capaci di un gesto concreto di comunione con quelle coppie che vivono il dramma di un fallimento matrimoniale… ». Questo sembra dirci il Signore, ed è fuori discussione che queste parole sono rivolte a noi, ad ognuno di noi. Lungi da noi la tentazione di giudicare, perché tutti siamo al tempo stesso un po’ farisei e un po’ pubblicani, tutti soggetti alla fragilità, alla infedeltà e al peccato… Ciò non toglie, però, che ci si allarghi il cuore quando scopriamo che non tutti i pastori sono così. Quanti pastori attraversano nel nascondimento, nella povertà, nell’umiltà la dura fatica dell’esistere, in compagnia dei poveri, degli emarginati dalla società e dalla Chiesa, sempre disposti ad accogliere, a perdonare, a fare comunione con loro, a cogliere nei loro sguardi e nei loro gesti le fatiche del vivere, a fare insomma « pace », secondo quanto Paolo scrive (è il secondo tema), con le sue mani callose, ai cristiani di Efeso, come meditiamo oggi nella seconda lettura . A noi, affaticati, stanchi per la fatica del camminare, Paolo dice che è Cristo la nostra pace, è Lui che ha abbattuto il muro di divisione tra gli uomini, che ha abolito la Legge fatta di prescrizioni e decreti, che ha fatto in modo che nella Chiesa nessuno si debba sentire più né straniero né ospite. Noi siamo Chiesa.
I pastori che noi vogliamo non sono quelli che tengono le distanze nei confronti della povera gente, che circolano con ricche vesti colorate che già da sole costano un patrimonio, e che scandalizzano i poveri, e che parlano con linguaggi da diplomazia, che fanno accordi con i potenti e che frequentano i loro salotti, ma veri pastori, capaci di chinarsi realmente sulle fatiche della povera gente…, pastori capaci di insegnare anche a noi a fare altrettanto. Chi scrive ha conosciuto un missionario in un paese dell’Africa, avanti negli anni e distrutto fisicamente, alla costante ricerca insieme con gli abitanti della sua missione, il più delle volte senza esito, di un po’ di cibo e di un po’ d’acqua sempre più scarsa. Un giorno questo missionario riceve la visita del Nunzio Apostolico che, appena arrivato, gli dice: « Domani mattina, alle otto, fammi trovare il bagno pronto a 37 gradi di temperatura… » … « Mi sono nascosto per piangere », ci diceva sbigottito il missionario… Questi, non gli altri, sono i veri pastori della Chiesa, questi sono strumenti di unità e non di scandalo e di divisione, e questi, non gli altri, sono considerati dal Signore il « germoglio giusto » (Ger 23,6) e il popolo, incontrandoli, incontrerà la salvezza del Signore.
Il terzo tema è quello del deserto. Lo troviamo nell’Evangelo . Come racconta l’evangelista Marco (6,30-34), gli apostoli erano stati inviati da Gesù in missione: una missione positiva perché ora la folla si accalca attorno al Maestro, vuole ascoltare la sua parola. Come sempre, quando gli impegni di evangelizzazione si fanno più pressanti, gli apostoli non hanno neppure più il tempo di mangiare… E Gesù, che è anche un fine psicologo e coglie lo stress di chi è costretto a correre senza sosta da un luogo all’altro, da un impegno all’altro, dice loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Mc 6,31).
Non è, il suo, un invito alla fuga. Non è neppure è l’invito ad una vacanza. Non è l’invito ad andarsene in un hotel a cinque stelle… Venite, dice Gesù, eis èremon, letteralmente in un deserto.
Deserto è una di quelle parole in grado d’esercitare su molti di noi il fascino magico dell’ignoto e dell’esotico. Per questo il soggiorno « nel deserto » viene offerto nei « pacchetti » degli operatori turistici e trova aderenti soprattutto tra quelle persone danarose e annoiate, alla perenne ricerca di emozioni forti. È oggetto addirittura di trasmissioni televisive si pensi a « L’isola dei famosi »). Non diversamente accade in campo spirituale. Sono sempre più frequenti le domande e le offerte di vacanze in monasteri, o in « luoghi dello spirito », dove poter finalmente fare « un po’ di deserto », naturalmente con i canonici e abbondanti tre pasti quotidiani, camera con doccia e collegamenti wi fi e vista sui declivi dolci e pacificanti della campagna circostante. Sì, chi non conosce il deserto e non lo ha mai sperimentato, sia in senso fisico che spirituale, ne è attratto.
Nella bibbia il deserto è luogo infido, desolato, devastato. I secchi arbusti con dolorosissimi aculei, rovi e cardi, dissuadono spesso dall’avventurarvisi a piedi; gufi e civette lo abitano (cf Sal 102,7); ululati solitari (cf Dt 32,10) ne rompono l’angoscioso silenzio. È il luogo insomma della disperazione e dell’aridità, dove è impossibile procurarsi cibo; luogo pericoloso, animato da scorpioni velenosi e serpentelli; di notte è esperienza allucinante: grava su di esso un penoso silenzio, quasi a ricordare il caos delle origini, rotto di tanto in tanto da misteriosi fruscii o, improvvisamente, da un ululato selvaggio. È richiamo, non solo metaforico, dell’insopportabile silenzio e della stessa assenza di Dio.
Ma se è così, perché allora il profeta vuole portare nel deserto Gomer, la sua donna, e perché Gesù vuole portare nel deserto i suoi discepoli? Per una sorta di sadismo? Perché facciano anch’essi un’esperienza sconvolgente e devastante, come ha fatto Lui prima di iniziare la sua missione e come farà al termine, nel Getsemani?
No, assolutamente no. Gesù ci invita nel deserto perché questo è il luogo in cui il Signore ci parla, e qui possiamo ascoltarlo liberi, nel profondo della nostra coscienza. Il modo in cui Gesù ci parla è molto diverso da quello di molti pastori. Il loro è spesso un pensiero unico e assoluto, perché loro sono convinti di possedere quella verità alla quale occorre sottomettersi con una docilità acritica. Il Dio che parla alla nostra coscienza è invece un Signore misericordioso, ma non solo a parole, che alle nostre famiglie proprio non interessano se non sono accompagnate da gesti concreti. Il verbo greco splanchnìzomai usato in questo brano viene applicato solo a Gesù, perché solo lui è capace di essere contemporaneamente e totalmente misericordioso a parole e nei fatti: il sostantivo splanchna corrisponde infatti all’ebraico rehamìm che significa letteralmente viscere, il luogo stesso in cui, secondo la tradizione degli antichi, hanno sede i sentimenti, in particolare l’amore e la tenerezza, gli stessi sentimenti che uniscono la madre e il padre al figlio, tutti gli uomini e le donne al Dio di tutti. Questo è il Dio che parla nel deserto, ed è un Dio che parla singolarmente ad ogni persona, ad ogni sua creatura, senza mediazioni istituzionali, senza distinzioni tra « buoni » e « cattivi », senza giudizi previ, senza considerazione di meriti o demeriti, di retribuzione o di castigo. Dio parla alla nostra coscienza, suggerisce ad ogni persona pensieri nuovi, e parla nel deserto, non nelle adunate oceaniche, non nelle convention, nei family days o nei costosissimi incontri mondiali delle famiglie. Come documenta Giovanni Colombo (La Chiesa di Dior, « Il Margine », 32[2012], n.5), il VII Incontro Mondiale delle famiglie e l’arrivo del Papa è costato più di 10 milioni di euro. Alla faccia delle famiglie che non riescono a tirare avanti e che a Milano non erano certamente presenti. Ma che Dio ama e predilige.
Il Signore che parla alla nostra coscienza non vuole belle parole. Vuole gesti, fatti. La sua è, certo, una pedagogia severa, e spesso per parlarci ci butta con la faccia a terra, ci porta in un deserto faticoso da vivere; però solo addentrandoci in esso impariamo a muoverci, a camminare nel buio e nella notte, ad evitare gli ostacoli sempre più frequenti. E poi, completamente buia la notte non è mai. Non esiste una negatività così profonda dalla quale non derivi una minima filtrazione di senso, una piccola vena d’acqua capace di farsi strada a poco a poco nell’apparentemente irriducibile aridità. Ma questa pedagogia severa ci aiuterà sicuramente a riscoprire tre parole di cui forse nella Chiesa noi oggi abbiamo perduto la memoria: camminare; silenzio, essenzialità. Queste sono le parole che, insieme con i nostri (veri) pastori dobbiamo riprendere a pronunciare. Con coraggio e con parrhesia, con franchezza.

Traccia per la revisione di vita.
- Sappiamo tenere con i nostri pastori un linguaggio franco? Ci accettiamo reciprocamente con le nostre debolezze e le nostre fragilità? Oppure vogliamo apparire migliori di quanto siamo? O ancora vogliamo cambiare l’altro sulla base dei nostri parametri comportamentali?
- Sappiamo perdonare non in modo ostentato, sentendoci e credendoci migliori della persona che abbiamo perdonato, ma umilmente, nel profondo dell’intimità e del cuore? Anche ai nostri pastori?
- Confidiamo nello Spirito che viene in soccorso della nostra fragilità e della nostra aridità?

Luigi Ghia – Direttore della rivista Famiglia Domani

Benedetto XVI: Il grande canto della « Legge » : Salmo 119 (118)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111109_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 9 novembre 2011

Il grande canto della « Legge » Salmo 119 (118)

Cari fratelli e sorelle,

nelle passate catechesi abbiamo meditato su alcuni Salmi che sono esempi dei generi tipici della preghiera: lamento, fiducia, lode. Nella catechesi di oggi vorrei soffermarmi sul Salmo 119 secondo la tradizione ebraica, 118 secondo quella greco-latina: un Salmo molto particolare, unico nel suo genere. Anzitutto lo è per la sua lunghezza: è composto infatti da 176 versetti divisi in 22 strofe di otto versetti ciascuna. Poi ha la peculiarità di essere un “acrostico alfabetico”: è costruito, cioè, secondo l’alfabeto ebraico, che è composto di 22 lettere. Ogni strofa corrisponde ad una lettera di quell’alfabeto, e con tale lettera inizia la prima parola degli otto versetti della strofa. Si tratta di una costruzione letteraria originale e molto impegnativa, in cui l’autore del Salmo ha dovuto dispiegare tutta la sua bravura.
Ma ciò che per noi è più importante è la tematica centrale di questo Salmo: si tratta infatti di un imponente e solenne canto sulla Torah del Signore, cioè sulla sua Legge, termine che, nella sua accezione più ampia e completa, va compreso come insegnamento, istruzione, direttiva di vita; la Torah è rivelazione, è Parola di Dio che interpella l’uomo e ne provoca la risposta di obbedienza fiduciosa e di amore generoso. E di amore per la Parola di Dio è tutto pervaso questo Salmo, che ne celebra la bellezza, la forza salvifica, la capacità di donare gioia e vita. Perché la Legge divina non è giogo pesante di schiavitù, ma dono di grazia che fa liberi e porta alla felicità. «Nei tuoi decreti è la mia delizia, non dimenticherò la tua parola», afferma il Salmista (v. 16); e poi: «Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, perché in essi è la mia felicità» (v. 35); e ancora: «Quanto amo la tua legge! La medito tutto il giorno» (v. 97). La Legge del Signore, la sua Parola, è il centro della vita dell’orante; in essa egli trova consolazione, ne fa oggetto di meditazione, la conserva nel suo cuore: «Ripongo nel cuore la tua promessa per non peccare contro di te» (v. 11), è questo il segreto della felicità del Salmista; e poi ancora: «Gli orgogliosi mi hanno coperto di menzogne, ma io con tutto il cuore custodisco i tuoi precetti» (v. 69).
La fedeltà del Salmista nasce dall’ascolto della Parola, da custodire nell’intimo, meditandola e amandola, proprio come Maria, che «custodiva, meditandole nel suo cuore» le parole che le erano state rivolte e gli eventi meravigliosi in cui Dio si rivelava, chiedendo il suo assenso di fede (cfr Lc 2,19.51). E se il nostro Salmo inizia nei primi versetti proclamando “beato” «chi cammina nella Legge del Signore» (v. 1b) e «chi custodisce i suoi insegnamenti» (v. 2a), è ancora la Vergine Maria che porta a compimento la perfetta figura del credente descritto dal Salmista. E’ Lei, infatti, la vera “beata”, proclamata tale da Elisabetta perché «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45), ed è a Lei e alla sua fede che Gesù stesso dà testimonianza quando, alla donna che aveva gridato «Beato il grembo che ti ha portato», risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Certo, Maria è beata perché il suo grembo ha portato il Salvatore, ma soprattutto perché ha accolto l’annuncio di Dio, perché è stata attenta e amorosa custode della sua Parola.
Il Salmo 119 è dunque tutto intessuto intorno a questa Parola di vita e di beatitudine. Se il suo tema centrale è la “Parola” e la “Legge” del Signore, accanto a questi termini ricorrono in quasi tutti i versetti dei sinonimi come “precetti”, “decreti”, “comandi”, “insegnamenti”, “promessa”, “giudizi”; e poi tanti verbi ad essi correlati come osservare, custodire, comprendere, conoscere, amare, meditare, vivere. Tutto l’alfabeto si snoda attraverso le 22 strofe di questo Salmo, e anche tutto il vocabolario del rapporto fiducioso del credente con Dio; vi troviamo la lode, il ringraziamento, la fiducia, ma anche la supplica e il lamento, sempre però pervasi dalla certezza della grazia divina e della potenza della Parola di Dio. Anche i versetti maggiormente segnati dal dolore e dal senso di buio rimangono aperti alla speranza e sono permeati di fede. «La mia vita è incollata alla polvere: fammi vivere secondo la tua parola» (v. 25), prega fiducioso il Salmista; «Io sono come un otre esposto al fumo, non dimentico i tuoi decreti» (v. 83), è il grido di credente. La sua fedeltà, anche se messa alla prova, trova forza nella Parola del Signore: «A chi mi insulta darò una risposta, perché ho fiducia nella tua parola» (v. 42), egli afferma con fermezza; e anche davanti alla prospettiva angosciante della morte, i comandi del Signore sono il suo punto di riferimento e la sua speranza di vittoria: «Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra, ma io non ho abbandonato i tuoi precetti» (v. 87).
La legge divina, oggetto dell’amore appassionato del Salmista e di ogni credente, è fonte di vita. Il desiderio di comprenderla, di osservarla, di orientare ad essa tutto il proprio essere è la caratteristica dell’uomo giusto e fedele al Signore, che la «medita giorno e notte», come recita il Salmo 1 (v. 2); è una legge, quella di Dio, da tenere «sul cuore», come dice il ben noto testo dello Shema nel Deuteronomio:
Ascolta, Israele … Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai (6,4.6-7).
Centro dell’esistenza, la Legge di Dio chiede l’ascolto del cuore, un ascolto fatto di obbedienza non servile, ma filiale, fiduciosa, consapevole. L’ascolto della Parola è incontro personale con il Signore della vita, un incontro che deve tradursi in scelte concrete e diventare cammino e sequela. Quando gli viene chiesto cosa fare per avere la vita eterna, Gesù addita la strada dell’osservanza della Legge, ma indicando come fare per portarla a completezza: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21 e par.). Il compimento della Legge è seguire Gesù, andare sulla strada di Gesù, in compagnia di Gesù.
Il Salmo 119 ci porta dunque all’incontro con il Signore e ci orienta verso il Vangelo. C’è in esso un versetto su cui vorrei ora soffermarmi: è il v. 57: «La mia parte è il Signore; ho deciso di osservare le tue parole». Anche in altri Salmi l’orante afferma che il Signore è la sua “parte”, la sua eredità: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice», recita il Salmo 16 (v. 5a), «Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre» è la proclamazione del fedele nel Salmo 73 (v. 23 b), e ancora, nel Salmo 142, il Salmista grida al Signore: «Sei tu il mio rifugio, sei tu la mia eredità nella terra dei viventi» (v. 6b).
Questo termine “parte” evoca l’evento della ripartizione della terra promessa tra le tribù d’Israele, quando ai Leviti non venne assegnata alcuna porzione del territorio, perché la loro “parte” era il Signore stesso. Due testi del Pentateuco sono espliciti a tale riguardo, utilizzando il termine in questione: «Il Signore disse ad Aronne: “Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti”», così dichiara il Libro dei Numeri (18,20), e il Deuteronomio ribadisce: «Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come gli aveva detto il Signore, tuo Dio» (Dt 10,9; cfr. Dt 18,2; Gs 13,33; Ez 44,28).
I sacerdoti, appartenenti alla tribù di Levi, non possono essere proprietari di terre nel Paese che Dio donava in eredità al suo popolo portando a compimento la promessa fatta ad Abramo (cfr. Gen 12,1-7). Il possesso della terra, elemento fondamentale di stabilità e di possibilità di sopravvivenza, era segno di benedizione, perché implicava la possibilità di costruire una casa, di crescervi dei figli, di coltivare i campi e di vivere dei frutti del suolo. Ebbene i Leviti, mediatori del sacro e della benedizione divina, non possono possedere, come gli altri israeliti, questo segno esteriore della benedizione e questa fonte di sussistenza. Interamente donati al Signore, devono vivere di Lui solo, abbandonati al suo amore provvidente e alla generosità dei fratelli, senza avere eredità perché Dio è la loro parte di eredità, Dio è la loro terra, che li fa vivere in pienezza.
E ora, l’orante del Salmo 119 applica a sé questa realtà: «La mia parte è il Signore». Il suo amore per Dio e per la sua Parola lo porta alla scelta radicale di avere il Signore come unico bene e anche di custodire le sue parole come dono prezioso, più pregiato di ogni eredità, e di ogni possesso terreno. Il nostro versetto infatti ha la possibilità di una doppia traduzione e potrebbe essere reso pure nel modo seguente: «La mia parte, Signore, io ho detto, è di custodire le tue parole». Le due traduzioni non si contraddicono, ma anzi si completano a vicenda: il Salmista sta affermando che la sua parte è il Signore ma che anche custodire le parole divine è la sua eredità, come dirà poi nel v. 111: «Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, perché sono essi la gioia del mio cuore». È questa la felicità del Salmista: a lui, come ai Leviti, è stata data come porzione di eredità la Parola di Dio.

Carissimi fratelli e sorelle, questi versetti sono di grande importanza anche oggi per tutti noi. Innanzitutto per i sacerdoti, chiamati a vivere solo del Signore e della sua Parola, senza altre sicurezze, avendo Lui come unico bene e unica fonte di vera vita. In questa luce si comprende la libera scelta del celibato per il Regno dei cieli da riscoprire nella sua bellezza e forza. Ma questi versetti sono importanti anche per tutti i fedeli, popolo di Dio appartenente a Lui solo, “regno di sacerdoti” per il Signore (cfr. 1Pt 2,9; Ap 1,6; 5,10), chiamati alla radicalità del Vangelo, testimoni della vita portata dal Cristo, nuovo e definitivo “Sommo Sacerdote” che si è offerto in sacrificio per la salvezza del mondo (cfr. Ebr 2,17; 4,14-16; 5,5-10; 9,11ss). Il Signore e la sua Parola: questi sono la nostra “terra”, in cui vivere nella comunione e nella gioia.
Lasciamo dunque che il Signore ci metta nel cuore questo amore per la sua Parola, e ci doni di avere sempre al centro della nostra esistenza Lui e la sua santa volontà. Chiediamo che la nostra preghiera e tutta la nostra vita siano illuminate dalla Parola di Dio, lampada per i nostri passi e luce per il nostro cammino, come dice il Salmo 119 (cfr v. 105), così che il nostro andare sia sicuro, nella terra degli uomini. E Maria, che ha accolto e generato la Parola, ci sia di guida e di conforto, stella polare che indica la via della felicità.
Allora anche noi potremo gioire nella nostra preghiera, come l’orante del Salmo 16, dei doni inaspettati del Signore e dell’immeritata eredità che ci è toccata in sorte:

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice …
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi:
la mia eredità è stupenda (Sal 16,5.6).

Salmo 103 (104) Inno a Dio creatore

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/salmo103.htm

Salmo 103 (104) Inno a Dio creatore  

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,

avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda,

costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,

fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.

Egli fondò la terra sulle sue basi:
non potrà mai vacillare.

Tu l’hai coperta con l’oceano come una veste;
al di sopra dei monti stavano le acque.

Al tuo rimprovero esse fuggirono,
al fragore del tuo tuono si ritrassero atterrite.

Salirono sui monti, discesero nelle valli,
verso il luogo che avevi loro assegnato;

hai fissato loro un confine da non oltrepassare,
perché non tornino a coprire la terra.

Tu mandi nelle valli acque sorgive
perché scorrano tra i monti,

dissetino tutte le bestie dei campi
e gli asini selvatici estinguano la loro sete.

In alto abitano gli uccelli del cielo
e cantano tra le fronde.

Dalle tue dimore tu irrighi i monti,
e con il frutto delle tue opere si sazia la terra.

Tu fai crescere l’erba per il bestiame
e le piante che l’uomo coltiva
per trarre cibo dalla terra,

vino che allieta il cuore dell’uomo,
olio che fa brillare il suo volto
e pane che sostiene il suo cuore.

Sono sazi gli alberi del Signore,
i cedri del Libano da lui piantati.

Là gli uccelli fanno il loro nido
e sui cipressi la cicogna ha la sua casa;

le alte montagne per le capre selvatiche,
le rocce rifugio per gli iràci.
Hai fatto la luna per segnare i tempi
e il sole che sa l’ora del tramonto.

Stendi le tenebre e viene la notte:
in essa si aggirano tutte le bestie della foresta;

ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda
e chiedono a Dio il loro cibo.

Sorge il sole: si ritirano
e si accovacciano nelle loro tane.

Allora l’uomo esce per il suo lavoro,
per la sua fatica fino a sera.

Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi;

lo solcano le navi
e il Leviatàn che tu hai plasmato
per giocare con lui.

Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.

Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.

Nascondi il tuo volto: li assale il terrore;
togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.

Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.

Egli guarda la terra ed essa trema,
tocca i monti ed essi fumano.

Voglio cantare al Signore finché ho vita,
cantare inni al mio Dio finché esisto.

A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Scompaiano i peccatori dalla terra
e i malvagi non esistano più.
Benedici il Signore, anima mia.
Alleluia.

Commento

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.
Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo.
Egli ha separato la luce dalla notte e con l’albeggiare stende il cielo “come una tenda”; cioè stende la calotta azzurra del cielo. Così, pure, stende le tenebre della notte: “Stendi le tenebre e viene la notte”. Sovrano del cielo e della terra, pone la sua dimora di re sulle acque, cioè sulle nuvole alte e bianche, là dove nessuno può fare una dimora. Sovrano difende i suoi sudditi fedeli dai nemici, facendo delle nuvole basse e buie il suo carro da guerra trainato dal vento visto come un essere alato: “Costruisci sulle acque le tue alte dimore, fai delle nubi il tuo carro, cammini sulle ali del vento”. I venti annunziano il suo arrivo nella tempesta, mentre le folgori presentano la sua potenza sulla terra: “Fai dei venti i tuoi messaggeri e dei fulmini i tuoi ministri”.
Il salmo, che segue l’ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un’immagine tratta dalle congetture dell’uomo.
L’onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l’erba per il bestiame e le piante che l’uomo coltiva…”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell’ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un’immagine rivolta a presentare come all’inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L’uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l’uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l’autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell’assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l’alito delle narici “togli loro il respiro”. Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all’origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell’amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.

12345...10

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01