Archive pour la catégorie 'ANTICO TESTAMENTO – SALMI (I)'

SALMO 41 – COMMENTO

dal sito:

http://www.sanpietrodisorres.it/Salmo41.htm


Salmo 41

«La carità copre una moltitudine di peccati»

Beato l’uomo che ha cura del debole,
nel giorno della sventura il Signore lo libera.
Veglierà su di lui il Signore,
lo farà vivere beato sulla terra,
non lo abbandonerà alle brame dei nemici.
Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore;
gli darai sollievo nella sua malattia.

Io ho detto: «Pietà di me, Signore; risanami, contro di te ho peccato».
I nemici mi augurano il male: «Quando morirà e perirà il suo nome?».
Chi viene a visitarmi dice il falso,
il suo cuore accumula malizia e uscito fuori sparla.

Contro di me sussurrano insieme i miei nemici,
contro di me pensano il male:
«Un morbo maligno su di lui si è abbattuto,
da dove si è steso non potrà rialzarsi».
Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane,
alza contro di me il suo calcagno.

Ma tu, Signore, abbi pietà e sollevami, che io li possa ripagare.
Da questo saprò che tu mi ami se non trionfa su di me il mio nemico;
per la mia integrità tu mi sostieni,
mi fai stare alla tua presenza per sempre.

Sia benedetto il Signore, Dio d’Israele,
da sempre e per sempre. Amen, amen.
 

Gloria a te, Padre, che ci vinci sempre in generosità.
Lode a te, Figlio, che per arricchirci ti sei fatto povero.
Onore a te, Spirito Santo, che ci sostieni nella prova. Amen.
 

Preghiera salmica (di P. David M. Turoldo)

Nel giorno dell’angoscia e dell’abbandono, quando anche gli amici ci volgono le spalle,
donaci, Padre, la tua fedele protezione, perché, sostenuti dalla presenza dello Spirito,
possiamo percorrere senza incertezze il cammino che Gesù Cristo, tuo Figlio, ci ha indicato.
Amen. 

Note per la lectio:

Il Sal 41 (40) è, per i Padri della Chiesa, il lamento del Cristo “tradito dall’amico Giuda”. Infatti, Gesù stesso, nel contesto dell’ultima Cena, cita letteralmente il v. 10 del nostro Salmo: «Colui che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno», per annunciare ai Dodici il tradimento di uno di loro (Gv 13,18; cf. Mc 14,18).
A me, pregando il Sal 41 nella sua interezza, piace definirlo, più positivamente, un ex-voto di ringraziamento, che dimostra tutta la verità dell’affermazione di 1Pt 4,8: «La carità copre una moltitudine di peccati» (cf. Pr 10,12b; Gc 5,20).
Come “titolo” di questo ex-voto potremmo prendere la beatitudine con cui si apre lo stesso salmo: «Beato l’uomo che ha cura del debole, nel giorno della sventura il Signore lo libera». La prova da cui l’orante viene liberato è la malattia, considerata nella Bibbia come il castigo di un peccato (cf. Giobbe; Sal 38,4, Sal 107,17). Ebbene, l’orante è guarito dall’intervento diretto di quel Dio che punisce il peccatore, ma risana chi, come lui, ha viscere di misericordia (cf. Mt 5,7; 1Cor 13,7).
Con la beatitudine iniziale sono descritte le sette azioni di Dio in favore del suo fedele, azioni che sfociano nella Pasqua eterna, simboleggiata dal numero 8:

1.        “Lo libera”(v. 2b). 

2.        “Veglia su di lui”(v. 3a).

3.        “Lo farà vivere”(v. 3b).

4.        “Non lo abbandonerà ai nemici” (v. 3c).

5.        “Lo sosterrà nel dolore” (4a).

6.        “Gli darà sollievo nella malattia” (4b).

7.        E, alla fine, “lo solleva (lo fa risorgere)”(v. 11a),

8.        “e lo stabilisce per sempre davanti al suo volto” (v. 13).

All’atteggiamento di Dio si contrappone quello del “nemico”; tanto più esecrabile, poiché prima (come nel caso di Giuda) egli era “il confidente, il conviviale, l’amico”. Invece adesso s’accanisce contro l’ex perché, vedendolo malato, pensa sia ormai un maledetto, un abbandonato da Dio. L’orante, con tutta umiltà, ammette che la malattia di cui soffre è anche castigo per colpe personali (e chi non ne ha?), ma sa anche che nella bilancia di Dio, più del peccato, pesano le sue elemosine; perciò confida di essere guarito, a scorno dei nemici gelosi.

Note:

Il v. 12: “Da questo saprò che tu mi ami se non trionfa su di me il mio nemico”, è stato applicato dalla Liturgia al mistero dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine.
Il v. 14 è la dossologia che chiude il primo libro del Salterio. Così esso inizia con una beatitudine di tipo sapienziale = l’ortodossia (Sal 1,1), e termina con quella di tipo operativo = l’ortoprassi (Sal 41,2).

I SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA

dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo1_4.asp

I SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA
 
Mazzinghi L.

Un inatteso libro di poesie

E come potevamo cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
tra i morti abbandonati nelle piazze,
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese;
oscillavano lievi al triste vento.

I lettori hanno riconosciuto questo splendido poema di S. Quasimodo, pubblicato nel 1946 in Giorno dopo giorno; sanno anche che il poeta l’ha composto in un contesto di guerra e in riferimento all’oppressione nazista. Molti avranno anche riconosciuto le allusioni al Sal 137 che incorniciano il poema: «Come canteremo i canti del Signore? … ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre». Non c’è niente di meglio che un poeta per aiutarci a comprendere che i salmi sono anch’essi poesia e come tali parlano al cuore di ogni uomo. Quasimodo riesce a far parlare poeticamente il salmo composto dagli esuli a Babilonia con una forza nuova e aprendo nuovi orizzonti, trasponendolo in un contesto ben diverso, nel quale, almeno in superficie, Dio sembra essere del tutto assente.
Può sembrare strano a qualche lettore che l’intera annata dedicata ai salmi si apra con un articolo che parla di poesia; non siamo abituati, infatti, a vedere i salmi come un’opera poetica. Sarà questo, in realtà, uno dei fili che ci accompagneranno nel corso dei sei numeri di quest’anno interamente dedicati al Salterio. Una sfida appassionante e delicata, quella che ci aspetta; appassionante, perché il Salterio ci riserva sorprese sempre nuove; delicata, perché è necessario entrare in un mondo che spesso conosciamo solo in superficie.
«Cantate inni al Signore con arte» (Sal 47,8). Qui capiamo, con la voce stessa del salmista, che i salmi sono certamente preghiera, ma sono una preghiera che si esprime con la poesia. La scoperta e lo studio della dimensione poetica dei salmi è cosa relativamente recente; è grazie in modo particolare all’opera del grande biblista spagnolo Luis Alonso Schökel che oggi possiamo affrontare con più sicurezza questa tematica[1].
I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese. Se la prosa racconta, spiega, descrive e dimostra, il linguaggio della poesia esprime con immagini quello che altrimenti non è esprimibile. Per limitarci a esempi biblici, il lettore può da solo fare il confronto tra la grandiosa narrazione del passaggio del mare, in Es 14, e la ripresa poetica di questo evento nell’ancor più grandioso «canto del mare» (Es 15,1-17), che riprende poeticamente lo stesso avvenimento con accenti che emozionano chi lo pronuncia. È possibile poi leggere nel testo di Gdc 4,12-24 il racconto in prosa della sconfitta del generale cananeo Sisara a opera della profetessa Debora, e rileggere lo stesso evento riproposto poeticamente nel canto di Debora (Gdc 5), con un impatto ben più grande su chi lo ascolta.
Dobbiamo subito dire come la poesia dei salmi non è certamente quella a cui siamo abituati; la poesia ebraica, infatti, ha le sue leggi e i suoi meccanismi, che solo in parte si avvicinano a quelli della poesia classica o della poesia italiana. Nel corso di questa annata il lettore scoprirà, attraverso il commento ai vari testi salmici che verranno presentati, le molte facce di questa poesia. Per introdurlo in questo mondo faremo subito, in particolare, alcuni brevi cenni a due elementi chiave della poesia ebraica: l’uso del parallelismo e il mondo dei simboli. Non vogliamo però entrare nei dettagli di una presentazione tecnica della poesia dei salmi; a noi interessa più semplicemente far capire che leggere i salmi per quello che sono – preghiere in forma di poesia – è di vitale importanza per la comprensione dei salmi stessi.

La forma della poesia ebraica

Spesso si ripete che la poesia non deve essere legata a schemi prefissati; eppure ogni poeta esprime tutta la sua bravura nel saper legare la bellezza dei sentimenti e delle sensazioni che vuole esprimere con una precisa forma letteraria. Così anche la poesia ha inevitabilmente le sue regole; si pensi alla poesia italiana classica, legata per lo più al metro (verso endecasillabo, settenario, ecc.) e alla rima. Comprendere le «regole» della poesia è un primo passo per entrare nella poesia stessa.
Uno degli aspetti più evidenti della poesia ebraica è tipico della poesia di tutti i tempi, ben noto a tutti fin dalle filastrocche che abbiamo imparato nell’infanzia, ed è l’uso della ripetizione, che nella sua forma più elementare si presenta come ritornello. Nei salmi il ritornello ha una doppia funzione: prima di tutto aiuta la memoria, poi serve a suddividere il salmo in parti più o meno uguali; infine, il ritornello viene ripetuto dall’assemblea e aiuta la proclamazione del salmo stesso. L’alternanza solista / assemblea è esattamente ciò che ancora noi utilizziamo nel salmo responsoriale durante la celebrazione eucaristica. Non è difficile scoprire i ritornelli dei salmi; a volte aprono e chiudono il salmo, come avviene nel Sal 8: «O Signore nostro Dio…»; altre volte ritornano nel corpo del salmo (tre volte nel Sal 42-43: «Perché ti rattristi anima mia…»); altre volte strutturano l’intero salmo, come avviene nel Sal 136 («Eterna è la tua misericordia»); il lettore può cercare da solo i ritornelli nei Sal 46; 56; 57; 67; 99.
La ripetizione di una parola, di un verbo, di un’intera espressione, ha per lo più una funzione enfatica; serve cioè a sottolineare qualcosa di particolarmente importante e così colpire gli ascoltatori. Un esempio molto chiaro è la ripetizione del verbo «lodare» nel Sal 150, proprio a chiusura dell’intero Libro dei Salmi, che in ebraico è detto sefer tehillîm ovvero «libro delle lodi»:

Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza;
lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza;
lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra…

Vi sono salmi interamente giocati sulla ripetizione; il Sal 29 ripete per sette volte il termine «tuono», che in ebraico significa anche «voce»; in questo modo la ripetizione, unita al gioco di parole, pone l’accento sul tema della voce di Dio che si manifesta nella natura (il «tuono»). Nello stesso salmo, che si apre con quattro imperativi, appare per quattro volte il termine «gloria» e per ben diciotto volte il nome di Dio, il «Signore»: attraverso la contemplazione del creato si ode la voce del Dio di Israele.
L’uso dei ritornelli e della ripetizione ci aiuta a comprendere come i salmi siano prima di tutto poesie fatte per essere lette a voce alta; non è raro trovare nei salmi giochi di parole o giochi sonori che spesso sono comprensibili solo leggendo il testo nell’originale ebraico; del resto, ogni poesia andrebbe sempre letta nella lingua in cui è stata scritta. Ma già una buona traduzione italiana ci aiuta a gustare una buona parte della poesia dei salmi.

Il parallelismo nella poesia dei salmi

Il procedimento più tipico della poesia ebraica è senza dubbio il parallelismo. Per capire di che cosa stiamo parlando è opportuno spiegarsi subito con un esempio, che prendiamo dal Sal 114[2]. Riportiamo qui il testo del salmo ponendolo su due colonne parallele

(nell’originale, qui si trovano uno sotto l’altro, metto a. per il primo passo e b. per il secondo):

a.Quando Israele uscì dall’Egitto,
 b.la casa di Giacobbe da un popolo barbaro
 
a.Giuda divenne il suo santuario,
 b.Israele il suo dominio.
 
a.Il mare vide e si ritrasse,
b. il Giordano si volse indietro
 
a.i monti saltellarono come arieti,
 b.le colline come agnelli di un gregge.
 
a.Che hai tu mare per fuggire?
 b.e tu, Giordano, perché torni indietro?
 
a.Perché voi monti saltellate come arieti?
b. e voi, colline, come agnelli di un gregge?
 
Trema o terra davanti al Signore,
 davanti al Dio di Giacobbe
 
che muta la rupe in un lago,
 la roccia in sorgenti d’acqua .

È subito possibile notare un fatto curioso: se leggiamo soltanto la prima colonna, quella di sinistra, il salmo ha già un senso completo; leggendo soltanto la seconda colonna non avremmo invece alcun senso. Ogni verso del salmo, infatti, è suddiviso in due parti (dette stichi), dove la seconda parte è sempre in parallelo con la prima.
La regola del parallelismo nasce forse dalla percezione della realtà come una pluralità indifferenziata, priva apparentemente di senso, che il linguaggio poetico è capace invece di organizzare e unificare. Il parallelismo della poesia ebraica è per lo più di carattere binario, fatto cioè di due soli elementi (più raramente di tre); alcuni autori motivano questo fatto con il ricorso alla costituzione fondamentale dell’uomo, che è quella di vivere nella dimensione binaria di spazio e tempo.

Un primo evidente scopo del parallelismo è quello di creare antitesi:

Il Signore conosce la via del giusto
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal 1,6).

Si veda ancora questa chiara antitesi di carattere antimilitarista:

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli;
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono,
ma noi restiamo in piedi e stiamo saldi (Sal 20,8-9).

Il parallelismo è anche in grado di creare sintesi e armonia:

Vi sia pace nelle tue mura
sicurezza nei tuoi baluardi (Sal 122,7);
allora la nostra bocca si aprì al sorriso
la nostra lingua in canti di gioia (Sal 126,3).

Qui la seconda parte del verso amplia chiaramente la prima.

Il parallelismo può essere poi usato per creare effetti di accumulazione, che colpiscono chi lo ascolta:

Non temerai il terrore che vaga di notte,
la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno (Sal 91,5).

Nel caso del Sal 114, che già abbiamo ricordato, il parallelismo serve ad ampliare la prima parte di ogni verso; così l’Egitto diviene nel secondo stico un «popolo barbaro». Al termine religioso «il suo santuario» è affiancato dal salmista un termine politico, «il suo dominio»; la liberazione d’Israele è dunque allo stesso tempo un atto religioso e un atto di libertà «politica». Il ricordo del passaggio del mare (Es 14) si amplia in quello del passaggio del Giordano, descritto nel libro di Giosuè (Gs 3); in un solo verso il poeta riesce così a legare due episodi apparentemente lontani tra loro. Al termine del salmo la «roccia» intensifica il riferimento alla «rupe», così come le «sorgenti d’acqua» intensificano il «lago»; il parallelismo serve in questo caso ad aprire nuovi orizzonti, con un fenomeno di dilatazione.
Il gioco dei parallelismi nei salmi apre agli ascoltatori continue possibilità di interpretazione; ma perché una data realtà possa essere posta in parallelo con un’altra è necessario che la realtà venga colta nella sua dimensione «simbolica»; tutto ciò ci conduce all’altro aspetto importante della poesia dei salmi: l’uso dei simboli.

Il giardino dei simboli

«I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne» (Sal 98,8). «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). È del tutto evidente che i fiumi non hanno mani, né si può credere che Dio possa avere penne o ali. Il salmista utilizza dei simboli, espressi attraverso immagini.
Parlando di «simbolo» intendiamo l’accostamento di due elementi, il primo dei quali è sempre materiale; un accostamento che genera una novità di senso (ad esempio, le «ali» riferite a Dio). Il simbolo è sempre legato all’esperienza reale dell’uomo, ma allo stesso tempo la trascende, rinviando a significati sempre nuovi e, in ultima analisi, rinviando al sacro, che il simbolo allo stesso tempo svela e nasconde[3]. Il termine greco symbolon viene dal verbo syn-ballo che significa «mettere assieme», il contrario di dia-ballo, «disperdere», da cui diabolos, cioè il «dispersore». Leggere la realtà in chiave simbolica, come fanno i salmi, significa «mettere assieme» i molti aspetti del reale e scoprirne significati sempre nuovi alla luce dell’Altro a cui tutti i significati rimandano. Al contrario, leggere la realtà in modo frammentario significa compiere un’opera «diabolica».
Questo è ciò che ha fatto il mondo contemporaneo, che per troppo tempo ha liquidato il simbolo, o perché bollato, come nel marxismo classico, come «utopia conservatrice», o perché, erede del pensiero greco, ha visto nel simbolo un tipo di linguaggio pre-logico che deve cedere il passo al linguaggio «vero» ossia al linguaggio filosofico, scientifico, razionale; il simbolo può essere «vero» soltanto in relazione alla verità di cui sarebbe portatore. Nel leggere i salmi capita spesso di sentire concettualizzare i simboli, cosicché simboli come la «mano» di Dio o la splendida immagine del «Signore, il mio pastore» (Sal 23,1) perdono la forza dell’immagine e divengono semplicemente dei concetti.
La rivalutazione del simbolo nella lettura dei salmi va di pari passo con la rivalutazione dell’esperienza del poeta. Il simbolo, infatti, non si indirizza solo alla mente, ma all’uomo intero nella sua concreta esperienza di vita. Il simbolo, poi, è in grado di caricarsi di una vasta gamma di significati; si dice cioè che il simbolo è polisemico; il simbolo «fa pensare»[4]. L’uso dei simboli all’interno dei salmi invita a leggere il mondo come una realtà dotata di senso e, allo stesso tempo, come un mistero che il simbolo svela solo in parte, rinviando a un Altro che supera il simbolo stesso. Si comprende così come mai il Dio di Israele, immanente e trascendente insieme, non poteva trovare migliore espressione se non nel simbolo.
Il linguaggio del simbolo permette all’autore salmico di evitare due scogli: prima di tutto il rischio dell’immanenza, cioè il voler dire che «Dio è come…», pensando in qualche modo di poterlo ridurre alla realtà creata. D’altra parte, la parola di Dio evita il rischio di dire soltanto «Dio non è come…», eliminando la possibilità di ogni discorso su Dio. L’uso dei simboli permette di ri-velare e velare insieme, di parlare del Presente e insieme di nascondere l’Assente.
Concretamente, il simbolo si esprime nei salmi attraverso l’uso di una vasta serie di immagini: «Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge la brina» (Sal 147,16): il poeta può unire immagini sensibili («neve» e «brina»; «lana» e «polvere») che a loro volta suggeriscono un piano ulteriore, quello dell’agire di Dio. L’immagine può servire a caratterizzare una realtà umana in modo estremamente concreto e suggestivo insieme: il fedele può così rivolgersi a Dio implorando: «Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora» (testo ebraico del Sal 74,19, mal tradotto dalla CEI). Nel Sal 69,2 il salmista afferma: «Le acque mi giungono alla gola»; egli esprime con un’immagine ciò che nessun concetto sarebbe capace di definire.
Non continuiamo negli esempi; nel corso di quest’anno infatti il lettore troverà una rubrica nella quale verranno presentati i principali simboli usati nei salmi; così si farà anche nel corso del commento ai salmi stessi[5] .

Il volto di Dio svelato nella poesia dei salmi

La poesia esprime dunque l’inesprimibile: chi ascolta il Sal 8 si accorge come il salmista riesca a sintetizzare in parole e immagini l’esperienza della creazione; invece di descrivere l’opera di Dio, si limita a evocarla: «Se guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai create, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?». Luna e stelle, elementi assolutamente reali nello sguardo del salmista, divengono realtà simboliche che aprono all’uomo la contemplazione delle «dita» di Dio, un altro simbolo che ne esprime l’agire delicato e concreto insieme. Il poeta offre nel Sal 8 una visione unificata della realtà, dove tutto ha un senso e tutto rimanda all’esclamazione con la quale si apre e si chiude il poema: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!».
Il credente che prega questo o altri salmi si rende conto così di trovarsi davanti a testi «belli», che già parlano agli uomini attraverso la bellezza della loro poesia. La parola di Dio, infatti, non ha paura della bellezza:

Diversamente da Platone, la Bibbia non bandisce l’arte dall’universo morale dell’uomo. Tuttavia, la Bibbia sdivinizza il poeta e l’opera d’arte, smaschera la tentazione di fare dell’opera d’arte un idolo, senza speranza, della Bellezza assoluta e come oblio dell’Essere, dell’Assoluto. Il bello non è un assoluto in sé, ma un itinerario verso l’Assoluto [6].

Il poeta non ha bisogno di lunghe dimostrazioni razionali, di affermare o di negare qualcosa; con i simboli e attraverso la sua poesia egli pone davanti ai suoi ascoltatori la realtà quale essa è, svelandone allo stesso tempo i significati più nascosti e così facendone intuire il mistero, che il simbolo sfiora soltanto. Ecco perché l’immaginazione, la sensibilità e la fantasia giocano un ruolo importante nell’analisi di un salmo. Leggere un testo poetico è mettersi nei panni del poeta; leggere un testo poetico come quello dei salmi – che per i credenti sono ispirati da Dio – è calarsi nella fantasia di Dio per cantare la bellezza del mondo, ma in modo tutto speciale per cantare la bellezza di Dio.

Luca Mazzinghi

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[1] Cf. L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, e soprattutto il suo testo ormai fondamentale: Id., Manuale di poetica ebraica, Queriniana, Brescia 1989. Un’opera recente che tiene conto di questo approccio è quella di A. Wenin, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
[2] È l’esempio riportato da Alonso Schökel, Manuale di poetica ebraica, 67-70; in questo articolo seguiremo ancora lo studio del grande biblista spagnolo.
[3] Sono queste le riflessioni del filosofo francese P. Ricoeur, cf. in particolare «Parole et symbole», in Le symbole, ed. J.E. Menard, Strasbourg 1975.
[4] Cf. P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002 (or. fr. 1959).
[5] Il ben noto commento ai salmi di G. Ravasi (Il Libro sei Salmi, voll. I-III, EDB, Bologna 1981-1984) è un ottimo esempio di questa costante attenzione alla dimensione simbolica del Salterio.
[6] A. Bonora, «La Bibbia come opera d’arte letteraria», in CredereOggi 6 (1986) 14-15. 

Publié dans:ANTICO TESTAMENTO - SALMI (I) |on 2 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

La consolazione di ogni giorno: Gli Ebrei trovano nei salmi l’invocazione adatta alla circostanza

dal sito:

http://www.messaggerocappuccino.com/La_rivista_MC/_I_numeri_del_2009/MC_n_1__2009_/Caro_-_MC_1_2009.pdf

PAROLA E SANDALI PER STRADA

La consolazione di ogni giorno

Gli Ebrei trovano nei salmi l’invocazione adatta alla circostanza

di Luciano Caro

rabbino di Ferrara

Cantati da tutti

Il libro dei Salmi (in ebraico Tehillim) è una raccolta di 150 componimenti poetici, inserita al
primo posto nella terza parte (Ketuvim o Agiografi) della Bibbia ebraica. In queste poesie,
attribuite a Davide, l’autore esprime una varietà di sentimenti che vanno dalla riconoscenza al
dolore, dalla speranza alla richiesta di aiuto. L’espressione di sentimenti nei confronti di Dio è
designata spesso nel testo biblico con il termine tefillà, tradotto generalmente come preghiera.
Nell’ambito del santuario di Gerusalemme, i salmi erano talvolta cantati in pubblico, in coro e
accompagnati da strumenti musicali in occasione di festività o di eventi pubblici o privati.
Intonati dai leviti, ma anche dai fedeli che si recavano in pellegrinaggio al santuario, finirono
per diventare veri e propri canti popolari.

Il termine “salmi” deriva dal titolo greco del libro, Psalmoi, che significa canti accompagnati
da strumenti musicali a corde. Non c’è dubbio che alcuni salmi facevano parte del cerimoniale
liturgico del santuario, ma erano anche cantati dai pellegrini e dai contadini avviati verso la
città di Gerusalemme per recarvi in offerta le primizie. Le idee contenute in queste
composizioni si rifanno a quelle espresse dai profeti e ribadiscono pertanto il concetto
dell’unicità di Dio, della sua bontà e della sua giustizia. Nonostante le varie ipotesi formulate in proposito, è molto difficile riconoscere in ogni salmo l’occasione per la quale è stato composto. Gli accenni del testo sono spesso tenui e incerti come accade nella poesia, e inoltre i sentimenti dell’animo umano che così gran parte hanno nel libro sono sostanzialmente sempre gli stessi, indipendentemente dalle circostanze o dal tempo in cui sono stati espressi. La tradizione sostiene che Davide compose i suoi salmi ispirato da Dio, quando, a mezzanotte, la sua arpa collocata sopra il giaciglio, suonava sollecitata dal vento del nord. Le corde dell’arpa provenivano dall’ariete immolato da Abramo al posto del figlio Isacco. Sognare i salmi è considerato segno di comunione con Dio e, nei testi classici, è frequente l’esortazione a leggerli allorché si debbono affrontare momenti particolari, soprattutto sofferenza, malattia o crisi spirituali. Il libro dei salmi è il più usato nella liturgia comunitaria e anche nella preghiera privata, ad esempio in occasione di un viaggio, di una malattia, di una morte.

Manuale di consultazione di Dio

I Maestri affermano che la recitazione dei salmi è una forma di preghiera e di studio della
legge divina, la Torà. Ricordiamo anche che esistono confraternite che si riuniscono
appositamente per recitare ogni giorno un certo numero di salmi. La tradizione ebraica ha
identificato salmi da mettere in relazione con situazioni specifiche. Così, ad esempio, c’è un
salmo in corrispondenza a ogni singolo brano della Torà. Di fatto, i salmi occupano un posto
di rilievo nella liturgia quotidiana. Ne diamo una breve e incompleta panoramica.
La preghiera del mattino è introdotta dai Pesukè Dezimrà (versetti di lode). Si tratta di un
certo numero di salmi tra i quali gli ultimi sei capitoli del libro. Sono introdotti dal salmo 145:
“Beati coloro che abitano nella Tua dimora”. Il Talmud invita a recitarlo 3 volte al giorno per
assicurarsi la beatitudine eterna. Per questo motivo è stato inserito due volte nella preghiera
del mattino e una in quella pomeridiana. Il salmo è acrostico alfabetico, ma manca il verso
iniziante con la lettera Nun. Sempre nella preghiera del mattino, è inserito il salmo 67
sostituito di sabato col 19. Esistono salmi relativi a ogni giorno della settimana e a ogni
ricorrenza. Così la domenica si legge il salmo 24 che inizia con l’espressione: “All’Eterno appartiene la terra e quanto la riempie”. Si vuole sottolineare il fatto che con la creazione, iniziata il 1° giorno, viene proclamata la sovranità di Dio sull’universo. Il lunedì, quando Dio ha separato le varie parti del creato, leggiamo il salmo 48: “Grande è l’Eterno e degno di alta lode”. Al martedì, giorno in cui Dio ha preparato il mondo alla venuta dell’uomo, è collegato il salmo 82: “Dio presiede il raduno dei giusti”. Al mercoledì, in cui Dio ha creato il sole e la luna e
chiederà conto a coloro che adorano questi astri, è assegnato il salmo 94: “Dio delle
rivendicazioni”. Al giovedì, in cui sono stati creati vari tipi di uccelli e di pesci, è stato
riservato il salmo 81: “Giubilate all’Eterno che è la nostra forza”. Il venerdì, in cui è stata
completata l’opera della creazione, si legge il salmo 93: “L’Eterno regna ed è rivestito di
maestà”. E finalmente il sabato preghiamo il salmo 92, che preconizza l’avvento del tempo in
cui “cesseranno le guerre”. Al venerdì sera, poco prima del tramonto, come introduzione alla preghiera serale, si recita in sinagoga la Kabalath Shabbath (accoglienza del sabato). Consiste nella lettura di sei salmi uno per ogni giorno lavorativo: 95, 96, 97, 98, 99 e finalmente il 29, che fa parte delle composizioni inneggianti alla creazione, con invito alle forze della natura di lodare Dio. Queste forze non sono indipendenti, ma acquisiscono potenza dal Kol Hashem (voce
dell’Eterno). La locuzione compare nel salmo sette volte, ulteriore elemento che rimanda alla
creazione. Il salmo 29 è intonato anche allorché si riporta nell’Arca il rotolo della Torà dopo la lettura sabbatica poiché la Torà è espressione della potenza divina. Segue poi il canto Lechà Dodì (“Vieni, o sposo”), notissimo inno composto dal cabalista Alkabez (secolo XVI). Il sabato vi è descritto come una sposa accolta dallo sposo. Il cerimoniale risale all’ambiente dei mistici
di Safed, che usavano al tramonto del venerdì recarsi nei campi, vestiti di bianco, per
accogliere il sabato. Segue la lettura del salmo 92, intitolato, come si è visto, proprio al
sabato.

Una lode misurata

Infine, un cenno all’Hallel (lode). Con questo termine si designa un gruppo di salmi (113118)
entrati a far parte della liturgia dei giorni festivi e del primo giorno del mese. Contengono lodi a Dio e il ricordo della liberazione dall’Egitto nonché la speranza e la fiducia nella salvezza concessa da Dio. Sono recitati in forma abbreviata negli ultimi sei giorni di Pesach (la Pasqua ebraica) in relazione al fatto che la nostra gioia non può essere completa poiché, in occasione della miracolosa traversata del Mar Rosso, l’esercito egiziano fu sommerso dalle acque.
A proposito dei salmi, giustamente Siegfried Bernfeld ha scritto: “Tradotti in quasi tutte le
lingue, questi canti da due millenni sono stati di conforto e sollievo a milioni e milioni di
uomini, sono stati letti con fervore e con devozione da singoli e da gruppi di uomini. In tutte
le circostanze, in ogni momento della vita spirituale, si trovò in questa raccolta la parola che
sembrava scritta apposta per quella circostanza e per quel momento”.

SALMO 27 (26) Con Dio nessun timore

dal sito:

http://proposta.dehoniani.it/txt/salmi26_50.html

commento di Padre Pedron Lino dehoniano

SALMO 27 (26) Con Dio nessun timore

1 Di Davide.

Il Signore è mia luce e mia salvezza,

di chi avrò paura?

Il Signore è difesa della mia vita,

di chi avrò timore?

2 Quando mi assalgono i malvagi

per straziarmi la carne,

sono essi, avversari e nemici,

a inciampare e cadere.

3 Se contro di me si accampa un esercito,

il mio cuore non teme;

se contro di me divampa la battaglia,

anche allora ho fiducia.

4 Una cosa ho chiesto al Signore,

questa sola io cerco:

abitare nella casa del Signore

tutti i giorni della mia vita,

per gustare la dolcezza del Signore

ed ammirare il suo santuario.

5 Egli mi offre un luogo di rifugio

nel giorno della sventura.

Mi nasconde nel segreto della sua dimora,

mi solleva sulla rupe.

6 E ora rialzo la testa

sui nemici che mi circondano;

immolerò nella sua casa sacrifici d’esultanza,

inni di gioia canterò al Signore.

7 Ascolta, Signore, la mia voce.

Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi.

8 Di te ha detto il mio cuore: «Cercate il suo volto»;

il tuo volto, Signore, io cerco.

9 Non nascondermi il tuo volto,

non respingere con ira il tuo servo.

Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,

non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

10 Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato,

ma il Signore mi ha raccolto.

11 Mostrami, Signore, la tua via,

guidami sul retto cammino,

a causa dei miei nemici.

12 Non espormi alla brama dei miei avversari;

contro di me sono insorti falsi testimoni

che spirano violenza.

13 Sono certo di contemplare la bontà del Signore

nella terra dei viventi.

14 Spera nel Signore, sii forte,

si rinfranchi il tuo cuore e spera nel Signore.

Il salmo 27 per la sua forma non costituisce una composizione unitaria. Infatti a un salmo di fiducia (vv. 1-6) segue la lamentazione (vv. 7-13). La situazione è questa: qualcuno ingiustamente perseguitato proclama la sua giustizia (vv. 1-6). Giunto al tempio, davanti al volto di Dio da lui cercato (v. 4) implora che venga allontanata per sempre la pericolosa ostilità degli avversari. La parola di un sacerdote gli fa intravedere tale esito favorevole. Il salmo è nato da questi fatti e li esprime in una forma tradizionale presa soprattutto dai profeti. Gesù trovò facilmente in questo salmo una preghiera adatta per la sua anima e per le vicende della sua vita. Egli era profondamente radicato nel Padre come nel terreno da cui sgorga la sua vita e si muoveva senza paura in un mondo a lui ostile. Il suo sguardo andava al di là dei pinnacoli del tempio alla vera dimora di Dio, che egli tanto spesso chiama cielo. Ma nella sua Passione anche Gesù pagò alla paura il tributo della sua umanità e, « offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a colui che poteva liberarlo da morte » (Eb 5,7), mentre i suoi avversari non rifuggirono neppure dalle false accuse (v. 12; Mc 14,56-57). Un messaggero del Padre (Lc 22,43) lo confortò. Con la sua risurrezione Gesù contemplò in modo potente e definitivo la bontà del Signore nella terra dei viventi (v. 13). Il cristiano con questo salmo può rivolgersi allo stesso Gesù Cristo che è la sua vera luce (Gv 1,9; 8,12) e la sua salvezza (Eb 2,10; At 4,12).

Commento dei padri della chiesa

vv. 1-2 « L’anima che possiede la luce divina comincia col contemplare il Salvatore; e allora, intrepida contro tutti, combatte con Cristo al suo fianco » (Origene).

v. 3 « La cosa principale è che il cuore non tema. Alla carne è permesso di temere » (Origene).

v. 4 « Tutti i giorni della mia vita eterna, perché attualmente si potrebbe piuttosto dire: tutti i giorni della mia morte » (Agostino).

v. 6 « Offro la gioia spirituale; e siccome sorpassa ogni espressione umana, non resta che gioire nell’intimo. Ogni altra opera cessa, non resta che la lode » (Beda).

v. 8 « Non voglio altra ricompensa che vedere il tuo volto. Voglio amarti gratuitamente perché non trovo niente di più prezioso. Non voglio incontrare altro che te, perché tutto è delusione per chi ama » (Agostino).

v. 11 « Possa io seguire la via regale e giungere alla terra promessa senza deviare né a destra né a sinistra » (Girolamo).

v. 13 « Vedrà la faccia del Signore non sulla terra ma nel paese dei viventi » (Eusebio).

Publié dans:ANTICO TESTAMENTO - SALMI (I) |on 1 novembre, 2009 |Pas de commentaires »

Papa Benedetto, Salmo 129, Dal Profondo a te grido (19 ottobre 2005)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20051019_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 ottobre 2005

Salmo 129 – Dal profondo a te grido

Primi Vespri – Domenica 4a settimana

1. È stato proclamato uno dei Salmi più celebri e amati dalla tradizione cristiana: il De profundis, così chiamato dal suo avvio nella versione latina. Col Miserere, esso è divenuto uno dei Salmi penitenziali preferiti nella devozione popolare.

Al di là della sua applicazione funebre, il testo è prima di tutto un canto alla misericordia divina e alla riconciliazione tra il peccatore e il Signore, un Dio giusto ma sempre pronto a svelarsi «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato» (Es 34,6-7). Proprio per questo motivo il nostro Salmo si trova inserito nella liturgia vespertina del Natale e di tutta l’ottava del Natale, come pure in quella della IV domenica di Pasqua e della solennità dell’Annunciazione del Signore.

2. Il Salmo 129 si apre con una voce che sale dalle profondità del male e della colpa (cfr vv. 1-2). L’io dell’orante si rivolge al Signore dicendo: «A te grido, o Signore». Il Salmo poi si sviluppa in tre momenti dedicati al tema del peccato e del perdono. Ci si rivolge innanzitutto a Dio, interpellato direttamente con il «Tu»: «Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono; perciò avremo il tuo timore» (vv. 3-4).

È significativo il fatto che a generare il timore, atteggiamento di rispetto misto ad amore, non sia il castigo ma il perdono. Più che la collera di Dio, deve provocare in noi un santo timore la sua magnanimità generosa e disarmante. Dio, infatti, non è un sovrano inesorabile che condanna il colpevole, ma un padre amoroso, che dobbiamo amare non per paura di una punizione, ma per la sua bontà pronta a perdonare.

3. Al centro del secondo momento c’è l’«io» dell’orante che non si rivolge più al Signore, ma parla di lui: «Io spero nel Signore, l’anima mia spera nella sua parola. L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora» (vv. 5-6). Ora fioriscono nel cuore del Salmista pentito l’attesa, la speranza, la certezza che Dio pronuncerà una parola liberatrice e cancellerà il peccato.

La terza ed ultima tappa nello svolgimento del Salmo si allarga a tutto Israele, al popolo spesso peccatore e consapevole della necessità della grazia salvifica di Dio: «Israele attenda il Signore, perché presso il Signore è la misericordia e grande presso di lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe» (vv. 7-8).

La salvezza personale, prima implorata dall’orante, è ora estesa a tutta la comunità. La fede del Salmista si innesta nella fede storica del popolo dell’alleanza, «redento» dal Signore non solo dalle angustie dell’oppressione egiziana, ma anche «da tutte le colpe». Pensiamo che il popolo della elezione, il popolo di Dio siamo adesso noi. Anche la nostra fede ci innesta nella fede comune della Chiesa. E proprio così ci dà la certezza che Dio è buono con noi e ci libera dalle nostre colpe.

Partendo dal gorgo tenebroso del peccato, la supplica del De profundis giunge all’orizzonte luminoso di Dio, ove domina « la misericordia e la redenzione », due grandi caratteristiche del Dio che è amore.

4. Affidiamoci ora alla meditazione che su questo Salmo ha intessuto la tradizione cristiana. Scegliamo la parola di sant’Ambrogio: nei suoi scritti, egli richiama spesso i motivi che spingono a invocare da Dio il perdono.

«Abbiamo un Signore buono che vuole perdonare a tutti», egli ricorda nel trattato su La penitenza, e aggiunge: «Se vuoi essere giustificato, confessa il tuo misfatto: un’umile confessione dei peccati scioglie l’intrico delle colpe… Tu vedi con quale speranza di perdono ti spinga a confessare» (2,6,40-41: SAEMO, XVII, Milano-Roma 1982, p. 253).

Nell’Esposizione del Vangelo secondo Luca, ripetendo lo stesso invito, il Vescovo di Milano esprime la meraviglia per i doni che Dio aggiunge al suo perdono: «Vedi quanto è buono Iddio, e disposto a perdonare i peccati: non solo ridona quanto aveva tolto, ma concede anche doni insperati». Zaccaria, padre di Giovanni Battista, era rimasto muto per non aver creduto all’angelo, ma poi, perdonandolo, Dio gli aveva concesso il dono di profetizzare nel canto: «Colui che poco prima era muto, ora già profetizza», osserva sant’Ambrogio, «è una delle più grandi grazie del Signore, che proprio quelli che l’hanno rinnegato lo confessino. Nessuno pertanto si perda di fiducia, nessuno disperi delle divine ricompense, anche se lo rimordono antichi peccati. Dio sa mutar parere, se tu sai emendare la colpa» (2,33: SAEMO, XI, Milano-Roma 1978, p. 175).

Commento su Gn 3,1-2 (omelia per il 6 ottobre 2009)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16328.html

Omelia (06-10-2009) 
Eremo San Biagio
Commento su Gn 3,1-2

Dalla Parola del giorno
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico».

Come vivere questa Parola?
Giona, raggiunto da una chiamata di Dio che lo scomoda, sceglie la via della fuga. Non oppone un rifiuto verbale, ma volta le spalle imbarcandosi per non vedere, chiude l’orecchio rifugiandosi nell’angolo più riparato della nave per non sentire, consegna la mente all’intorpidimento del sonno per non capire. Un atteggiamento che potrebbe far sorridere, ma in cui, se letto in profondità, potremmo riconoscere alcuni comportamenti che, almeno in certe occasioni, si cade anche oggi.
Il nostro Dio è un Dio-Parola, un Dio-dialogo. Così lo presenta la Bibbia fin dalle prime pagine. Egli tratta l’uomo da partner e lo coinvolge nel suo progetto di salvezza, ne vuole fare un corredentore sia per quanto riguarda se stesso, con la corrispondenza alla grazia, sia per quanto riguarda gli altri, con la testimonianza verbale e vitale. Un compito non privo di difficoltà ma che dimostra l’infinita fiducia di Dio che non viene meno neppure di fronte alle nostre cadute e meschinità.
È la Sacra Scrittura stessa a documentarlo, come in questo caso. Dio mette Giona nella condizione di riflettere, di riconoscere il suo sbaglio facendolo passare per la penosa prova del buio, in cui il silenzio di Dio lo getta (di cui è immagine l’episodio del cetaceo che lo ingoia), ma poi rilancia la sua chiamata. È a quel “sì” rifiutato che bisogna tornare per riallacciare il dialogo interrotto. E allora la luce tornerà a inondare il cuore, rischiarando la via, così che si ritrovi il colore della gioia.

Oggi, nel mio rientro al cuore, mi porrò in ascolto del Signore con piena disponibilità, certo che Lui mi contatta quotidianamente e mi chiede di rendermi nelle sue mani strumento di salvezza.

Ti ringrazio, Signore, per l’immensa fiducia che continui a nutrire nei miei riguardi, nonostante la fragilità di cui ho più volte dato prova. Come il “Servo di YHWH”, ti chiedo di fare ogni giorno attento il mio orecchio e di sostenermi perché non opponga mai resistenza.

La voce della santa patrona d’Italia
Ogni gran peso diventa leggero, sotto questo santissimo giogo della volontà di Dio.
S.Caterina da Siena 

SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA

 dal sito:

http://www.paroledivita.it/upload/2005/articolo1_4.asp
 
SALMI: LA POESIA DELLA PREGHIERA
 
Mazzinghi L.

Un inatteso libro di poesie

E come potevamo cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
tra i morti abbandonati nelle piazze,
sull’erba dura di ghiaccio,
al lamento d’agnello dei fanciulli,
all’urlo nero della madre
che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese;
oscillavano lievi al triste vento.

I lettori hanno riconosciuto questo splendido poema di S. Quasimodo, pubblicato nel 1946 in Giorno dopo giorno; sanno anche che il poeta l’ha composto in un contesto di guerra e in riferimento all’oppressione nazista. Molti avranno anche riconosciuto le allusioni al Sal 137 che incorniciano il poema: «Come canteremo i canti del Signore? … ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre». Non c’è niente di meglio che un poeta per aiutarci a comprendere che i salmi sono anch’essi poesia e come tali parlano al cuore di ogni uomo. Quasimodo riesce a far parlare poeticamente il salmo composto dagli esuli a Babilonia con una forza nuova e aprendo nuovi orizzonti, trasponendolo in un contesto ben diverso, nel quale, almeno in superficie, Dio sembra essere del tutto assente.
Può sembrare strano a qualche lettore che l’intera annata dedicata ai salmi si apra con un articolo che parla di poesia; non siamo abituati, infatti, a vedere i salmi come un’opera poetica. Sarà questo, in realtà, uno dei fili che ci accompagneranno nel corso dei sei numeri di quest’anno interamente dedicati al Salterio. Una sfida appassionante e delicata, quella che ci aspetta; appassionante, perché il Salterio ci riserva sorprese sempre nuove; delicata, perché è necessario entrare in un mondo che spesso conosciamo solo in superficie.
«Cantate inni al Signore con arte» (Sal 47,8). Qui capiamo, con la voce stessa del salmista, che i salmi sono certamente preghiera, ma sono una preghiera che si esprime con la poesia. La scoperta e lo studio della dimensione poetica dei salmi è cosa relativamente recente; è grazie in modo particolare all’opera del grande biblista spagnolo Luis Alonso Schökel che oggi possiamo affrontare con più sicurezza questa tematica[1].
I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese. Se la prosa racconta, spiega, descrive e dimostra, il linguaggio della poesia esprime con immagini quello che altrimenti non è esprimibile. Per limitarci a esempi biblici, il lettore può da solo fare il confronto tra la grandiosa narrazione del passaggio del mare, in Es 14, e la ripresa poetica di questo evento nell’ancor più grandioso «canto del mare» (Es 15,1-17), che riprende poeticamente lo stesso avvenimento con accenti che emozionano chi lo pronuncia. È possibile poi leggere nel testo di Gdc 4,12-24 il racconto in prosa della sconfitta del generale cananeo Sisara a opera della profetessa Debora, e rileggere lo stesso evento riproposto poeticamente nel canto di Debora (Gdc 5), con un impatto ben più grande su chi lo ascolta.
Dobbiamo subito dire come la poesia dei salmi non è certamente quella a cui siamo abituati; la poesia ebraica, infatti, ha le sue leggi e i suoi meccanismi, che solo in parte si avvicinano a quelli della poesia classica o della poesia italiana. Nel corso di questa annata il lettore scoprirà, attraverso il commento ai vari testi salmici che verranno presentati, le molte facce di questa poesia. Per introdurlo in questo mondo faremo subito, in particolare, alcuni brevi cenni a due elementi chiave della poesia ebraica: l’uso del parallelismo e il mondo dei simboli. Non vogliamo però entrare nei dettagli di una presentazione tecnica della poesia dei salmi; a noi interessa più semplicemente far capire che leggere i salmi per quello che sono – preghiere in forma di poesia – è di vitale importanza per la comprensione dei salmi stessi.

La forma della poesia ebraica

Spesso si ripete che la poesia non deve essere legata a schemi prefissati; eppure ogni poeta esprime tutta la sua bravura nel saper legare la bellezza dei sentimenti e delle sensazioni che vuole esprimere con una precisa forma letteraria. Così anche la poesia ha inevitabilmente le sue regole; si pensi alla poesia italiana classica, legata per lo più al metro (verso endecasillabo, settenario, ecc.) e alla rima. Comprendere le «regole» della poesia è un primo passo per entrare nella poesia stessa.
Uno degli aspetti più evidenti della poesia ebraica è tipico della poesia di tutti i tempi, ben noto a tutti fin dalle filastrocche che abbiamo imparato nell’infanzia, ed è l’uso della ripetizione, che nella sua forma più elementare si presenta come ritornello. Nei salmi il ritornello ha una doppia funzione: prima di tutto aiuta la memoria, poi serve a suddividere il salmo in parti più o meno uguali; infine, il ritornello viene ripetuto dall’assemblea e aiuta la proclamazione del salmo stesso. L’alternanza solista / assemblea è esattamente ciò che ancora noi utilizziamo nel salmo responsoriale durante la celebrazione eucaristica. Non è difficile scoprire i ritornelli dei salmi; a volte aprono e chiudono il salmo, come avviene nel Sal 8: «O Signore nostro Dio…»; altre volte ritornano nel corpo del salmo (tre volte nel Sal 42-43: «Perché ti rattristi anima mia…»); altre volte strutturano l’intero salmo, come avviene nel Sal 136 («Eterna è la tua misericordia»); il lettore può cercare da solo i ritornelli nei Sal 46; 56; 57; 67; 99.
La ripetizione di una parola, di un verbo, di un’intera espressione, ha per lo più una funzione enfatica; serve cioè a sottolineare qualcosa di particolarmente importante e così colpire gli ascoltatori. Un esempio molto chiaro è la ripetizione del verbo «lodare» nel Sal 150, proprio a chiusura dell’intero Libro dei Salmi, che in ebraico è detto sefer tehillîm ovvero «libro delle lodi»:

Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza;
lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza;
lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra…

Vi sono salmi interamente giocati sulla ripetizione; il Sal 29 ripete per sette volte il termine «tuono», che in ebraico significa anche «voce»; in questo modo la ripetizione, unita al gioco di parole, pone l’accento sul tema della voce di Dio che si manifesta nella natura (il «tuono»). Nello stesso salmo, che si apre con quattro imperativi, appare per quattro volte il termine «gloria» e per ben diciotto volte il nome di Dio, il «Signore»: attraverso la contemplazione del creato si ode la voce del Dio di Israele.
L’uso dei ritornelli e della ripetizione ci aiuta a comprendere come i salmi siano prima di tutto poesie fatte per essere lette a voce alta; non è raro trovare nei salmi giochi di parole o giochi sonori che spesso sono comprensibili solo leggendo il testo nell’originale ebraico; del resto, ogni poesia andrebbe sempre letta nella lingua in cui è stata scritta. Ma già una buona traduzione italiana ci aiuta a gustare una buona parte della poesia dei salmi.

Il parallelismo nella poesia dei salmi

Il procedimento più tipico della poesia ebraica è senza dubbio il parallelismo. Per capire di che cosa stiamo parlando è opportuno spiegarsi subito con un esempio, che prendiamo dal Sal 114[2]. Riportiamo qui il testo del salmo ponendolo su due colonne parallele:

Quando Israele uscì dall’Egitto,
 la casa di Giacobbe da un popolo barbaro
 
Giuda divenne il suo santuario,
 Israele il suo dominio.
 
Il mare vide e si ritrasse,
 il Giordano si volse indietro
 
i monti saltellarono come arieti,
 le colline come agnelli di un gregge.
 
Che hai tu mare per fuggire?
 e tu, Giordano, perché torni indietro?
 
Perché voi monti saltellate come arieti?
 e voi, colline, come agnelli di un gregge?
 
Trema o terra davanti al Signore,
 davanti al Dio di Giacobbe
 
che muta la rupe in un lago,
 la roccia in sorgenti d’acqua .
 

È subito possibile notare un fatto curioso: se leggiamo soltanto la prima colonna, quella di sinistra, il salmo ha già un senso completo; leggendo soltanto la seconda colonna non avremmo invece alcun senso. Ogni verso del salmo, infatti, è suddiviso in due parti (dette stichi), dove la seconda parte è sempre in parallelo con la prima.
La regola del parallelismo nasce forse dalla percezione della realtà come una pluralità indifferenziata, priva apparentemente di senso, che il linguaggio poetico è capace invece di organizzare e unificare. Il parallelismo della poesia ebraica è per lo più di carattere binario, fatto cioè di due soli elementi (più raramente di tre); alcuni autori motivano questo fatto con il ricorso alla costituzione fondamentale dell’uomo, che è quella di vivere nella dimensione binaria di spazio e tempo.

Un primo evidente scopo del parallelismo è quello di creare antitesi:

Il Signore conosce la via del giusto
ma la via degli empi andrà in rovina (Sal 1,6).

Si veda ancora questa chiara antitesi di carattere antimilitarista:

Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli;
noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio.
Quelli si piegano e cadono,
ma noi restiamo in piedi e stiamo saldi (Sal 20,8-9).

Il parallelismo è anche in grado di creare sintesi e armonia:

Vi sia pace nelle tue mura
sicurezza nei tuoi baluardi (Sal 122,7);
allora la nostra bocca si aprì al sorriso
la nostra lingua in canti di gioia (Sal 126,3).

Qui la seconda parte del verso amplia chiaramente la prima.

Il parallelismo può essere poi usato per creare effetti di accumulazione, che colpiscono chi lo ascolta:

Non temerai il terrore che vaga di notte,
la freccia che vola di giorno,
la peste che vaga nelle tenebre,
lo sterminio che devasta a mezzogiorno (Sal 91,5).

Nel caso del Sal 114, che già abbiamo ricordato, il parallelismo serve ad ampliare la prima parte di ogni verso; così l’Egitto diviene nel secondo stico un «popolo barbaro». Al termine religioso «il suo santuario» è affiancato dal salmista un termine politico, «il suo dominio»; la liberazione d’Israele è dunque allo stesso tempo un atto religioso e un atto di libertà «politica». Il ricordo del passaggio del mare (Es 14) si amplia in quello del passaggio del Giordano, descritto nel libro di Giosuè (Gs 3); in un solo verso il poeta riesce così a legare due episodi apparentemente lontani tra loro. Al termine del salmo la «roccia» intensifica il riferimento alla «rupe», così come le «sorgenti d’acqua» intensificano il «lago»; il parallelismo serve in questo caso ad aprire nuovi orizzonti, con un fenomeno di dilatazione.
Il gioco dei parallelismi nei salmi apre agli ascoltatori continue possibilità di interpretazione; ma perché una data realtà possa essere posta in parallelo con un’altra è necessario che la realtà venga colta nella sua dimensione «simbolica»; tutto ciò ci conduce all’altro aspetto importante della poesia dei salmi: l’uso dei simboli.

Il giardino dei simboli

«I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne» (Sal 98,8). «Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio» (Sal 91,4). È del tutto evidente che i fiumi non hanno mani, né si può credere che Dio possa avere penne o ali. Il salmista utilizza dei simboli, espressi attraverso immagini.
Parlando di «simbolo» intendiamo l’accostamento di due elementi, il primo dei quali è sempre materiale; un accostamento che genera una novità di senso (ad esempio, le «ali» riferite a Dio). Il simbolo è sempre legato all’esperienza reale dell’uomo, ma allo stesso tempo la trascende, rinviando a significati sempre nuovi e, in ultima analisi, rinviando al sacro, che il simbolo allo stesso tempo svela e nasconde[3]. Il termine greco symbolon viene dal verbo syn-ballo che significa «mettere assieme», il contrario di dia-ballo, «disperdere», da cui diabolos, cioè il «dispersore». Leggere la realtà in chiave simbolica, come fanno i salmi, significa «mettere assieme» i molti aspetti del reale e scoprirne significati sempre nuovi alla luce dell’Altro a cui tutti i significati rimandano. Al contrario, leggere la realtà in modo frammentario significa compiere un’opera «diabolica».
Questo è ciò che ha fatto il mondo contemporaneo, che per troppo tempo ha liquidato il simbolo, o perché bollato, come nel marxismo classico, come «utopia conservatrice», o perché, erede del pensiero greco, ha visto nel simbolo un tipo di linguaggio pre-logico che deve cedere il passo al linguaggio «vero» ossia al linguaggio filosofico, scientifico, razionale; il simbolo può essere «vero» soltanto in relazione alla verità di cui sarebbe portatore. Nel leggere i salmi capita spesso di sentire concettualizzare i simboli, cosicché simboli come la «mano» di Dio o la splendida immagine del «Signore, il mio pastore» (Sal 23,1) perdono la forza dell’immagine e divengono semplicemente dei concetti.
La rivalutazione del simbolo nella lettura dei salmi va di pari passo con la rivalutazione dell’esperienza del poeta. Il simbolo, infatti, non si indirizza solo alla mente, ma all’uomo intero nella sua concreta esperienza di vita. Il simbolo, poi, è in grado di caricarsi di una vasta gamma di significati; si dice cioè che il simbolo è polisemico; il simbolo «fa pensare»[4]. L’uso dei simboli all’interno dei salmi invita a leggere il mondo come una realtà dotata di senso e, allo stesso tempo, come un mistero che il simbolo svela solo in parte, rinviando a un Altro che supera il simbolo stesso. Si comprende così come mai il Dio di Israele, immanente e trascendente insieme, non poteva trovare migliore espressione se non nel simbolo.
Il linguaggio del simbolo permette all’autore salmico di evitare due scogli: prima di tutto il rischio dell’immanenza, cioè il voler dire che «Dio è come…», pensando in qualche modo di poterlo ridurre alla realtà creata. D’altra parte, la parola di Dio evita il rischio di dire soltanto «Dio non è come…», eliminando la possibilità di ogni discorso su Dio. L’uso dei simboli permette di ri-velare e velare insieme, di parlare del Presente e insieme di nascondere l’Assente.
Concretamente, il simbolo si esprime nei salmi attraverso l’uso di una vasta serie di immagini: «Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge la brina» (Sal 147,16): il poeta può unire immagini sensibili («neve» e «brina»; «lana» e «polvere») che a loro volta suggeriscono un piano ulteriore, quello dell’agire di Dio. L’immagine può servire a caratterizzare una realtà umana in modo estremamente concreto e suggestivo insieme: il fedele può così rivolgersi a Dio implorando: «Non abbandonare ai rapaci la vita della tua tortora» (testo ebraico del Sal 74,19, mal tradotto dalla CEI). Nel Sal 69,2 il salmista afferma: «Le acque mi giungono alla gola»; egli esprime con un’immagine ciò che nessun concetto sarebbe capace di definire.
Non continuiamo negli esempi; nel corso di quest’anno infatti il lettore troverà una rubrica nella quale verranno presentati i principali simboli usati nei salmi; così si farà anche nel corso del commento ai salmi stessi[5] .

Il volto di Dio svelato nella poesia dei salmi

La poesia esprime dunque l’inesprimibile: chi ascolta il Sal 8 si accorge come il salmista riesca a sintetizzare in parole e immagini l’esperienza della creazione; invece di descrivere l’opera di Dio, si limita a evocarla: «Se guardo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai create, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi?». Luna e stelle, elementi assolutamente reali nello sguardo del salmista, divengono realtà simboliche che aprono all’uomo la contemplazione delle «dita» di Dio, un altro simbolo che ne esprime l’agire delicato e concreto insieme. Il poeta offre nel Sal 8 una visione unificata della realtà, dove tutto ha un senso e tutto rimanda all’esclamazione con la quale si apre e si chiude il poema: «O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!».
Il credente che prega questo o altri salmi si rende conto così di trovarsi davanti a testi «belli», che già parlano agli uomini attraverso la bellezza della loro poesia. La parola di Dio, infatti, non ha paura della bellezza:

Diversamente da Platone, la Bibbia non bandisce l’arte dall’universo morale dell’uomo. Tuttavia, la Bibbia sdivinizza il poeta e l’opera d’arte, smaschera la tentazione di fare dell’opera d’arte un idolo, senza speranza, della Bellezza assoluta e come oblio dell’Essere, dell’Assoluto. Il bello non è un assoluto in sé, ma un itinerario verso l’Assoluto [6].

Il poeta non ha bisogno di lunghe dimostrazioni razionali, di affermare o di negare qualcosa; con i simboli e attraverso la sua poesia egli pone davanti ai suoi ascoltatori la realtà quale essa è, svelandone allo stesso tempo i significati più nascosti e così facendone intuire il mistero, che il simbolo sfiora soltanto. Ecco perché l’immaginazione, la sensibilità e la fantasia giocano un ruolo importante nell’analisi di un salmo. Leggere un testo poetico è mettersi nei panni del poeta; leggere un testo poetico come quello dei salmi – che per i credenti sono ispirati da Dio – è calarsi nella fantasia di Dio per cantare la bellezza del mondo, ma in modo tutto speciale per cantare la bellezza di Dio.

Luca Mazzinghi

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[1] Cf. L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, EDB, Bologna 1982, e soprattutto il suo testo ormai fondamentale: Id., Manuale di poetica ebraica, Queriniana, Brescia 1989. Un’opera recente che tiene conto di questo approccio è quella di A. Wenin, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
[2] È l’esempio riportato da Alonso Schökel, Manuale di poetica ebraica, 67-70; in questo articolo seguiremo ancora lo studio del grande biblista spagnolo.
[3] Sono queste le riflessioni del filosofo francese P. Ricoeur, cf. in particolare «Parole et symbole», in Le symbole, ed. J.E. Menard, Strasbourg 1975.
[4] Cf. P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002 (or. fr. 1959).
[5] Il ben noto commento ai salmi di G. Ravasi (Il Libro sei Salmi, voll. I-III, EDB, Bologna 1981-1984) è un ottimo esempio di questa costante attenzione alla dimensione simbolica del Salterio.
[6] A. Bonora, «La Bibbia come opera d’arte letteraria», in CredereOggi 6 (1986) 14-15.
 

Publié dans:ANTICO TESTAMENTO - SALMI (I) |on 5 juillet, 2009 |Pas de commentaires »
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