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14 GIUGNO: SANT’ ELISEO PROFETA (mf)

http://www.santiebeati.it/dettaglio/57250

SANT’ ELISEO PROFETA (mf)

14 GIUGNO

M. 790 A.C.

Ricco possidente, originario di Abelmeula, il suo nome che significa «Dio salva» risponde bene alla missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853-842 a.c.), Iehu (842-815 a.c.), Ioacaz (814-798 a.c.) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvé, lo consacrava profeta e suo successore. Eliseo prese parte attiva alle vicende politiche del suo popolo attraverso il carisma della sua profezia e può essere considerato il più taumaturgico dei profeti dell’Antico Testamento. La Scrittura ricorda infatti una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; rese potabile l’acqua di Gerico; riportò in vita il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone. Profeta non scrittore, come il suo maestro Elia si preoccupò del suo paese in tempi difficili durante la guerra contro i Moabiti e durante quelle contro gli Aramei. Morì verso il 790 a.C. e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di San Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro. (Avvenire)

Etimologia: Eliseo = Dio è la mia salvezza (o salute), dall’ebraico

Martirologio Romano: A Samaria o Sebaste in Palestina, commemorazione di sant’Eliseo, che, discepolo di Elia, fu profeta in Israele dal tempo del re Ioram fino ai giorni di Ioas; anche se non lasciò oracoli scritti, tuttavia, operando prodigi a vantaggio degli stranieri, preannunciò la futura salvezza per tutti gli uomini.
Il continuatore dell’opera di Elia era un ricco possidente, originario di Abelmeula. Il suo nome, Eliseo (« Dio salva »), risponde bene alla natura della missione svolta tra il popolo di Israele, sotto il regno di Ioram (853 a.C.-842), Iehu (842-815), Ioacaz (814-798) e Ioash (798-783). Eliseo era un uomo deciso e lo dimostra la prontezza con cui rispose al gesto simbolico di Elia che, per ordine di Jahvè, lo consacrava profeta e suo successore.
« Elia andò in cerca di Eliseo – si legge al cap. 19 del I libro dei Re – e lo trovò che stava arando: aveva davanti a sè dodici paia di buoi; egli arava col dodicesimo paio. Giunto a lui, Elia gli gettò addosso il proprio mantello. Allora Eliseo, abbandonati i buoi, corse dietro a Elia e gli disse: Permettimi di passare a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò. Elia gli disse: Va’ e torna presto, poiché tu sai ciò che ti ho comunicato. Eliseo, allontanatosi, prese un paio di buoi e li immolò, quindi col legno dell’aratro e degli strumenti da tiro dei buoi ne fece cuocere le carni e le dette a man lare ai suoi compagni di lavoro. Poi partì e seguì Elia, mettendosi al suo servizio ».
Il ricco agricoltore, con quel gesto significativo, voleva dire al suo maestro che ormai era disposto a rinunciare a tutto per rispondere in pieno alla vocazione profetica. E con altrettanta prontezza eseguì gli ordini del maestro fino al momento del misterioso commiato, oltre il Giordano, quando Elia scomparve dentro un turbine di fuoco. Elia gli aveva chiesto: « Che cosa vuoi, prima che io parta dalla terra? ». La richiesta di Eliseo non fu di poco conto: « io chiedo che abiti in me uno spirito doppio del tuo ». Gli era stato fedele discepolo per sei anni, ora gli avanzava la sua richiesta di eredità, non in beni materiali, ma in virtù carismatica. La domanda di Eliseo venne esaudita.
Egli è, infatti, il più taumaturgico dei profeti. La Bibbia ricorda una lunga serie di prodigi da lui operati: stendendo il mantello di Elia divise le acque del Giordano; con una manciata di sale rese potabile l’acqua di Gerico; rese inesauribile l’olio d’oliva di una vedova; risuscitò il figlio della sunamita che lo ospitava; moltiplicò i pani sfamando un centinaio di persone; guarì dalla lebbra Naaman, generale del re di Damasco. Operò miracoli anche dopo la morte: un morto, gettato frettolosamente sulla tomba del profeta da un becchino impaurito dall’arrivo di alcuni predoni « risuscitò, si alzò in piedi e se ne andò ». Il profeta Eliseo morì verso il 790 a.C., e venne sepolto nei pressi di Samaria, dove ai tempi di S. Girolamo esisteva ancora il suo sepolcro.

Autore: Piero Bargellini

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DOMENICA DELLE PALME, COMMENTO SULLA PRIMA LETTURA: iSAIA 50,4-7

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.html

DIMANCHE 24 MARS : COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT

PREMIERE LECTURE – Isaïe 50, 4-7

(come vedete è una traduzione Google dal francese, per me è una delle migliori, come ogni traduzione ha qualche difetto, ma si comprende bene)

Per anni abbiamo letto e riletto questi testi che parte sorprendente del libro di Isaia chiama « Canti del Servo » che ci interessano soprattutto noi cristiani, per due motivi: in primo luogo, le Messaggio Isaia voluto dare se stesso in tal modo ai suoi contemporanei, quindi, perché i primi cristiani hanno chiesto a Gesù Cristo.
Comincio con il messaggio del profeta Isaia ai suoi contemporanei: una cosa è certa, non è ovviamente pensato Isaia a Gesù Cristo quando scrisse questo, probabilmente nel VI secolo aC, durante l’esilio babilonese. Dato che i suoi abitanti sono in esilio, in condizioni difficili e può anche cedere allo scoraggiamento, Isaia gli ricorda che lui è sempre il servo di Dio. Dio e fare affidamento su di lui, il suo servo (il suo popolo) per realizzare il suo piano di salvezza per l’umanità. Per il popolo di Israele è il Servo di Dio, alimentata dalla Parola ogni mattina, ma anche perseguitato per la sua fede giusta e durevole, tuttavia, a tutti gli eventi.
 In questo testo, Isaia descrive lo straordinario rapporto che unisce il Servo (Israele) al suo Dio. La sua caratteristica principale è l’ascolto della Parola di Dio, « orecchio aperto », come dice Isaia, « Play » la Parola, « lascia educare » da esso, significa vivere nella fiducia. « Dio, il Signore mi ha dato la lingua di un uomo che è l’insegnamento » … « La parola mi sveglio ogni mattina » … « Io ascolto come uno che lascia l’insegnamento » … « Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio. »
  »Play » è una parola che ha un significato speciale nella Bibbia significa fiducia in voi l’abitudine di opposizione tra questi due tipi di atteggiamenti che le nostre vite oscillano incessantemente la fiducia nel verso Dio, sereno abbandono alla sua volontà, perché sappiamo per esperienza che la sua volontà è solo un bene … o diffidenza, il sospetto incentrato sulle intenzioni di Dio … e disgusto per gli eventi, la rivolta ci può portare a credere che egli ci ha abbandonato o peggio che poteva trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze.
 Profeti, uno dopo l’altro, raccontare « Ascolta, Israele » o « Ora si ascolta la Parola di Dio …? « E in bocca la loro raccomandazione » Listen « significa sempre » fiducia in Dio, non importa quello che succede « , e san Paolo vi dirò perché: perché » Dio non contribuiscono al bene di coloro che lo amano (v. vale a dire che si fida di lui). « (Rm 8, 28). Da ogni male, di qualsiasi difficoltà in ogni caso, dà luogo alla proprietà, l’odio, si oppone un amore più forte ancora, nella persecuzione, dà il potere del perdono, di tutti i decessi che mette in evidenza la vita Resurrezione.
 Questa è la storia di fiducia reciproca. Dio si fida il suo servo, affida una missione per restituire la Banca Depositaria accetta la missione con fiducia. Ed è questa stessa fiducia che gli dà la forza di resistere fino a quando l’opposizione che inevitabilmente incontrano. Qui la missione è di testimoniare: « . So che il mio turno lui conforta chi può » Affidando questa missione, il Signore dà forza necessaria: « dare » il linguaggio necessario: « Dio, il Signore mi ha dato la lingua di un uomo che è l’insegnamento » … E ancora meglio, essa si nutre la fiducia che è la fonte di tutti l’audacia di servizio agli altri: « Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio », che significa che l’ascolto (nel senso biblico trust) è di per sé un dono di Dio. Tutto è un dono: la missione e anche la forza e la rende anche la fiducia incrollabile. E ‘proprio la caratteristica di ogni credente accetta come un dono di Dio.
 E coloro che vivono in questo dono permanente della potenza di Dio in grado di affrontare: « Non sono ribelle, io non ho rubato … « La fedeltà alla missione affidata comporta inevitabilmente la persecuzione dei veri profeti, vale a dire coloro che effettivamente pronunciare il nome di Dio, sono raramente apprezzate nella loro vita. In particolare, Isaia disse ai suoi contemporanei valide, il Signore non ti ha abbandonato, però, siete in una missione per lui. Quindi non essere sorpreso di essere abusati.
 Perché? Dato che il servo che « ascolta » veramente la Parola di Dio, vale a dire, che mette in pratica diventa rapidamente molto inquietante. Chiamato sua conversione alla conversione altri. Alcuni sentono la chiamata per attivare … altri rifiutano, e per conto dei loro motivi, Servant perseguitano. E ogni mattina, il servo deve ricaricarsi da Colui che può affrontare qualsiasi cosa: « La parola mi sveglio ogni mattina, ogni mattina si sveglia … Il Signore Dio è venuto in mio soccorso, è per questo che non sono influenzati dagli insulti … « E Isaias utilizza un’espressione in francese un po ‘curioso, ma al solito in ebraico: » Ho la mia faccia dura come pietra « 1: esprime la volontà e il coraggio, in francese viene talvolta chiamato » il volto hanno sconfitto « Beh qui il servo dice: » non mi vedrete viso smunto, non mi schiacciare, mi correggerà qualunque cosa accada « non è orgoglio o pretesa, c ‘ la fiducia è puro perché sa dove la sua forza viene: « Il Signore Dio è venuto in mio soccorso, è per questo che non sono interessate dalle violenze. ‘
 Ho detto all’inizio che il profeta Isaia ha parlato al suo popolo perseguitato, umiliato nel suo esilio a Babilonia, ma, naturalmente, quando si legge la Passione di Cristo, è evidente che Cristo è esattamente ciò che questo ritratto del servo di Dio. L’ascolto della Parola, la fiducia e la certezza quindi inalterabile di vittoria, anche all’interno della persecuzione, tutte caratterizzate Gesù al momento preciso della folla applausi Palm firmato e si precipitò la sua perdita.
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 * Luca ha preso esattamente questa frase quando si parla di Gesù, disse: « Gesù indurisce il viso di prendere la strada verso Gerusalemme » (Lc 9, 51, ma le nostre traduzioni dire « Gesù risolutamente preso la strada per Gerusalemme »)

ISAIA 6: VISIONE E MISSIONE

 http://www.cjconroy.net/pr-it/pr2-t06a.htm

 (Profezia e apocalittica: secondo semestre 2006-07)

CHARLES CONROY

ISAIA 6: VISIONE E MISSIONE

La presentazione di questo testo molto conosciuto ci occuperà eccezionalmente per due lezioni (che non basteranno certamente a vedere tutte le questioni che si potrebbero porre), e la sintesi che segue vale per ambedue le lezioni. La maggior parte del tempo sarà dedicata ad una lettura letteraria e teologica della forma finale del testo. Alla fine vedremo brevemente alcune questioni che si pongono nella fase di studio diacronico. I punti principali sono:
Lettura della forma finale del testo
Studio diacronico

La bibliografia della lezione si trova qui.

1.   FORMA FINALE DEL TESTO
Dividiamo la presentazione in quattro punti: (1.1) delimitazione e strutturazione del brano; (1.2) determinazione del suo contesto letterario immediato; (1.3) una lettura commentata; (1.4) il problema del genere letterario.

(IL TESTO NELLA TRADUZIONE CEI, prima edizione)
[6,1a] Nell’anno in cui morì il re Ozia,
[6,1b] io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato;
[6,1c] i lembi del suo manto riempivano il tempio.
[6,2a] Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali;
[6,2b] con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava.
[6,3a] Proclamavano l’uno all’altro:
[6,3b] «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti.
[6,3c] Tutta la terra è piena della sua gloria».
[6,4a] Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava,
[6,4b] mentre il tempio si riempiva di fumo.
[6,5a] E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono
[6,5b] e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;
[6,5c] eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».
[6,6a] Allora uno dei serafini volò verso di me;
[6,6b] teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare.
[6,7a] Egli mi toccò la bocca e mi disse:
[6,7b] «Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
[6,7c] perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato».  
[6,8a] Poi io udii la voce del Signore che diceva:
[6,8b] «Chi manderò e chi andrà per noi?».
[6,8c] E io risposi: «Eccomi, manda me!».
[6,9a] Egli disse: «Và e riferisci a questo popolo:
[6,9b] Ascoltate pure, ma senza comprendere,
[6,9c] osservate pure, ma senza conoscere.
[6,10a] Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
[6,10b] fallo duro d’orecchio
[6,10c] e acceca i suoi occhi
[6,10d] e non veda con gli occhi
[6,10e] né oda con gli orecchi
[6,10f] né comprenda con il cuore
[6,10g] né si converta in modo da esser guarito».
[6,11a] Io dissi: «Fino a quando, Signore?».
[6,11b] Egli rispose: «Finché non siano devastate le città, senza abitanti,
[6,11c] le case senza uomini, e la campagna resti deserta e desolata».
[6,12a] Il Signore scaccerà la gente
[6,12b] e grande sarà l’abbandono nel paese.
[6,13a] Ne rimarrà una decima parte,
[6,13b] ma di nuovo sarà preda della distruzione
[6,13c] come una quercia e come un terebinto,
[6,13d] di cui alla caduta resta il ceppo.
[6,13e] Progenie santa sarà il suo ceppo.

1.1    DELIMITAZIONE E STRUTTURAZIONE
Come nel caso di Is 5,1-7, anche qui per il cap. 6 la delimitazione del brano non crea nessun problema (formule iniziali nel 6,1 e grande differenza di tema con gli ultimi versetti del cap. 5, da una parte, e il fatto evidente che 7,1 segnala l’inizio di un altro racconto, dall’altra). Perciò possiamo passare subito ad una considerazione della struttura del cap. 6.
Due verbi di percezione in prima persona (v. 1b « io vidi », e v. 8a « io udii ») sembrano suggerire la divisione primaria del capitolo in due parti: vv. 1-7 (visione del Signore tre volte santo) e 8-13 (parole udite sulla missione di Isaia).
Le due parti poi si possono suddividere secondo uno schema comune composto da tre elementi: descrizione / reazione di Isaia / risposta divina alla sua reazione.
In forma schematica dunque la proposta di strutturazione è come segue:
Lo scenario della visione e gli avvenimenti iniziali nella visione (vv. 1-7)
Descrizione della visione (vv. 1-4)
Reazione di Isaia (v. 5)
Risposta dal mondo divino, cioè le azioni e le parole di uno dei Serafini (vv. 6-7)
Le parole di YHWH sulla missione di Isaia e le risposte del profeta (vv. 8-13)
Descrizione della missione (vv. 8-10)
Reazione di Isaia (v. 11a)
Risposta di YHWH (vv. 11b-13)                                                  
Volendo spingere avanti l’analisi, si potrebbe notare la tendenza di articolare le piccole unità (per esempio, vv. 1-4 oppure 8-10) anche in tre parti.

VOLENDO SPINGERE AVANTI L’ANALISI, SI POTREBBE NOTARE LA TENDENZA DI ARTICOLARE LE PICCOLE UNITÀ (PER ESEMPIO, VV. 1-4 OPPURE 8-10) ANCHE IN TRE PARTI.
Una serie di osservazioni porta alla conclusione che l’unità maggiore alla quale appartiene Is 6 è 6,1–9,6, perchè questo blocco si trova circondato da testi che hanno stretti rapporti fra loro (5,1-7 + 5,8-30 da una parte, e 9,7–10,4 dall’altra parte) cosicchè 6,1–9,6 resti come isolato in mezzo a questi testi.
[N.B.  Si noterà che qui (e sempre altrove nel corso) si usa la numerazione dei versetti come nelle edizioni del testo ebraico. Qualche volta certe traduzioni moderne hanno una numerazione diversa (è il caso per i primi versetti del cap. 9 qui); normalmente le differenze vengono menzionate nelle note della traduzione in questione.]
Abbiamo già visto come il canto della vigna (5,1-7) funge come introduzione ad una serie di brani di critica sociale nel 5,8ss. Aggiungiamo adesso che questi oracoli iniziano con la parola tradotta « Guai »: 5,8-10; 5,11-17; 5,18-19; 5,20; 5,21; 5,22-24. Dopo l’ultima unità bisogna andare avanti fino a 10,1-4 per trovare la prossima unità di critica sociale che inizia con « Guai ». C’è un’altra unità con « Guai » in 10,5 ma il tema non è più quello di critica sociale bensì di critica politica.
Nell’ultima unità di critica sociale (10,1-4) notiamo la frase finale del brano: « Con tutto ciò non si calma la sua ira / e ancora la sua mano rimane stesa » (10,4). La stessa frase si trova prima a 5,25 e poi alla fine delle unità 9,7-11; 9,12-16; 9,17-20. Di nuovo un legame fra il cap. 5 e la sezione 9,7–10,4.
Nella sezione 6,1–9,6 al contrario non si trova nè un oracolo di « Guai » con tema di critica sociale nè il ritornello conclusivo (« ira » e « mano stesa »).
Sembra proprio che i compositori del libro abbiano voluto costruire una struttura di tipo A (cap. 5) — B (6,1–9,6) — A′ (9,7–10,4).
Conseguentemente se nell’interpretazione del cap. 6 cerchiamo luce dal contesto immediato, dobbiamo appellarci in primo luogo ai testi che seguono nel 7,1–9,6. L’utilità di questo risultato si vedrà più avanti, soprattutto per la lettura dei versetti difficili 6,9-10.

1.3    LETTURA COMMENTATA
1.3.1    La visione (vv. 1-8)
Non avendo il tempo per un commento dettagliato versetto-dopo-versetto, scegliamo una presentazione sintetica incentrato sui tre personaggi della visione: YHWH, i serafini, e Isaia.
1.3.1.1    YHWH re santissimo
Tutta la presentazione di YHWH qui comunica un forte senso di trascendenza che provoca un atteggiamento di umile adorazione da parte di Isaia nel testo e poi del lettore credente.
Il titolo « re » occorre esplicitamente nel v.5 nella bocca di Isaia, ma l’immagine è chiara dall’inizio (YHWH, immensamente grande, seduto in trono nel v. 1, circondato dai suoi servi i serafini nei vv. 2-3). L’uso del titolo « re » per una divinità si trova spesso nelle culture intorno a Israele (a Ugarit, per esempio, verso la fine del secondo millennio a.C. il dio supremo « El » viene spesso chiamato « re » or « re eterno »). Nei testi biblici l’uso del titolo è particolarmente frequente in testi che provengono dalle tradizioni di Gerusalemme (cf. Sal 93; 96; 97). Nel libro di Isaia il sostantivo « re » viene applicato a YHWH cinque volte (6,5; 33,22; 41,21; 43,15; 44,6) e YHWH è soggetto del verbo « regnare » due volte (24,23; 52,7).
La santità di YHWH viene sottolineata dalla triplice acclamazione dei serafini « Santo, santo, santo » (v. 3). Qui incontriamo una caratteristica della presentazione di Dio in tutto il libro di Isaia. Il titolo « il Santo di Israele » (che come tale non ricorre nel cap. 6) è tipico del libro, dove si trova 25 volte (mentre in tutto il resto dell’AT si trova solo 6 volte); di queste 25 ricorrenze 12 si trovano nei capp. 1-39, 11 nei capp. 40-55, e 2 nei capp. 56-66. Applicato a YHWH il concetto di santità ha due aspetti: (1) quello « ontologico », cioè, connotando l’altereità di YHWH di fronte a ogni altro essere, la sua trascendenza; (2) l’aspetto etico di santità morale, l’opposto di ogni imperfezione etica. Ambedue gli aspetti si trovano nel cap. 6: quello ontologico soprattutto nei vv. 3-4, quello etico nella reazione di Isaia nel v. 5.
1.3.1.2    I serafini
Is 6 è l’unico testo nell’AT dove i serafini sono presentati in stretta relazione con YHWH (non sono da confondere con i cherubini di Ezech 10 e altri testi). Vediamo che funzione hanno nel testo (il punto più importante) e poi che si possa dire sulla loro maniera di apparire.
Chiaramente la funzione principale dei serafini in Is 6 è quella di creare un’atmosfera di maiestà e soprattutto di santità intorno a YHWH (vv. 1-4) e anche di mostrare come Isaia è piccolo e impuro nella presenza di YHWH (vv. 5-7).
Per quanto riguarda la loro figura, il testo li presenta come esseri alati (sei ali a ciascuno) ma anche con tratti umani (acclamano a gran voce la santità di Dio; hanno mani cf. v. 6). La parola « serafino » viene da un verb ebraico che significa « bruciare », dunque « essere bruciante » in qualche modo. A parte Is 6, il sostantivo si trova in due altri testi di Isaia (14,29 e 30,6), dove sono presentati con delle ali (CEI « drago alato » e « draghi volanti »). Sono pertinenti anche i testi di Num 21 (vv. 6 e 8), dove si tratta dei serpenti che mordevano gli israeliti e del serpente di bronzo. Poi le ricerche archeologiche hanno trovato in diversi siti di Giuda negli strati del 8º sec. a.C. un numero considerevole di sigilli con l’immagine di un serpente alato. Ciò porta a pensare che nella religiosità popolare c’era una venerazione per queste figure, appunto i serafini, forse con funzioni di guarire le persone malate. Se ciò fosse, allora si potrebbe concludere che il testo di Is 6 si preoccupa di subordinare tali serafini venerati nella religiosità popolare a YHWH, presentandoli come suoi servitori e adoratori.
1.3.1.3    Isaia
La reazione di Isaia di fronte alla visione maiestosa di YHWH circondato dai serafini inizia nel v. 5 con un verbo ebraico che può essere tradotto in due modi: « sono perduto » (cioè, sono in pericolo di morte) oppure « devo stare zitto » (cioè, la mia impurità non mi consente di aprire bocca e associarmi al canto dei serafini). In ogni caso, due aspetti sono da sottolineare nella presentazione di Isaia nei vv. 5-7.
Primo, l’insistenza sulla sua impurità, non solo rituale ma anche morale, una impurità poi che lo associa con il suo popolo. Una solidarietà nella colpa. Il testo non si interessa di specificare la natura di questa colpevolezza di Isaia (la tradizione esegetica, già nell’antichità, ha offerto varie ipotesi, ma la questione non ha importanza). Centrale qui invece è l’iniziativa del santo Dio che manda uno dei serafini a purificare le labbra di Isaia con un carbone ardente (fuoco simbolo di santità!), una purificazione dolorosa s’intende (anche se il testo non lo dice esplicitamente). La colpevolezza non dev’essere un peso che paralizza e porta alla morte, ma può diventare l’occasione di manifestare la santa volontà di YHWH di comunicare la santità alle sue creature. La purificazione specificamente delle labbra è particolarmente adatta per un profeta che deve comunicare le parole del santo Dio.
Secondo, lo sgomento di Isaia per aver « visto Dio con i suoi occhi » (v. 5) potrebbe collegare il testo con altri testi biblici che asseriscono che nessuno può vedere Dio e rimanere in vita (per es. Es 33,20; Gdc 6,22-23). Però è stato notato che ci sono altri testi che parlano di « vedere Dio » in una visione senza conseguenze negative (1 Re 22,19; Am 7,7; 9,1). Forse bisogna riconoscere l’esistenza di diverse tradizioni nella Bibbia a proposito.
1.3.2    La missione (vv. 8-13)
Questi versetti fanno parte ancora della visione, si capisce, ma dal v. 8 in poi l’attenzione si sposta al dialogo fra YHWH e Isaia ormai purificato e reso capace di ascoltare le parole del Dio santo che gli affida una missione.
1.3.2.1    Scenario: corte celeste
Nel v. 8b si nota l’uso di una prima persona plurale nelle parole di YHWH: « chi manderò e chi andrà per noi? Questo plurale probabilmente implica uno scenario di corte celeste, in cui il sovrano Dio circondato dai suoi ministri li associa con sé nelle sue decisioni. Anche la presenza dei serafini nei vv. 1-7 appoggia questa tesi. (Altri invece sostengono che si tratta di un semplice « plurale di maiestà ».)
Il concetto di corte celeste era ben noto nelle religioni politeistiche della Mesopotamia e di Ugarit (per non parlare della religione greca e altrove), dove si trattava di un vero consesso di divinità sotto la presidenza del capo del panteon. Il concetto passò anche nella letteratura di Israele con addattamenti, dove lo troviamo in una trentina di testi biblici; a parte Is 6, si veda specialmente 1 Re 22,19-23; Ger 23,18.21-22; Am 3,7; Sal 82; 89,6-8; Gb 1-2. Nei testi biblici YHWH è il capo incontestato dell’assemblea; gli altri membri possono essere descritti come « figli dei dei » o « figli dell’Altissimo » (cf. Sal 82; 89; Gb 1–2), o « serafini » (Is 6), o « l’esercito del cielo » (1 Re 22,19). Svolgono varie funzioni subordinate: dare consiglio o aiutare nell’esecuzione delle decisioni di YHWH (Is 6; Gb 1–2); lodare e glorificare YHWH (Is 6; Sal 19,2; 29,1-2; 89,7-8); aiutare gli umani poveri e oppressi (Sal 82). In un certo numero di testi c’è l’idea che un profeta vero ha accesso alla corte celeste, dove sente le decisioni di YHWH e riceve la sua missione (Is 6; Ger 23,18.21-22; Am 3,7.20).
In questo scenario, dunque, Isaia si offre volontario per una missione che verrà subito precisata. Alcuni studiosi sottolineano il contrasto fra l’atteggiamento di Isaia qui e le esitazioni di Geremia di fronte alla sua missione (Ger 1,6), ma i due contesti sono ben diversi e il paragone probabilmente non è molto corretto (soprattutto se viene fatto in chiave psicologico!)
1.3.2.2    Compito del profeta: indurire il popolo (vv. 9-10)
Si annunzia che « questo popolo » (di Giuda: cf. v. 5) non comprenderà il messaggio del profeta (v. 9). Più duro ancora il v. 10 che con una serie di imperativi nell’ebraico dice che Isaia deve « rendere insensibile, indurire, e accecare » il popolo in modo che non si converta e venga guarito (e si noti l’enfasi creata dalla struttura ternaria concentrica all’interno del v. 10: A – B – C – C′ – B′ – A′). Un compito durissimo e di difficile comprensione. Già nell’antichità si vede che il testo ebraico ha creato disagio: la versione greca (la Settanta) infatti non ha forme imperative nel v. 10 ma verbi nell’indicativo aoristo che descrivono uno stato di cose già avvenuto, il che è molto meno difficile a capire (e perciò sospetto come lettura in sede di critica testuale).
Con la quasi totalità degli studiosi rimaniamo col testo ebraico, dove sembra che la missione di Isaia è proprio quella di indurire il popolo di Giuda. Come capire una tale missione che pare l’esatto contrario di ciò che si aspetta da un profeta?
Come prima cosa, dobbiamo uscire dalla mentalità moderna che volentieri trasferisce la problematica in chiave psicologica (come Isaia si sarebbe sentito di fronte a un tale commando? ecc.). Il testo biblico qui non si interessa granchè di tali analisi ma guarda soprattutto la realtà delle relazioni fra YHWH e « questo popolo ». Allora già nel cap. 5 abbiamo letto dell’intenzione del padrone della vigna di esporre la sua amata vigna alla devastazione e alla rovina a causa dell’ingiustizia che pervade Giuda e Gerusalemme. Adesso manda Isaia come profeta a proclamare una parola che il popolo, che si è già chiuso alle attenzioni di Dio, non capirà, cosicchè la parola di Dio produrrà l’effetto paradossale di rendere il popolo ancora più chiuso di fronte a Dio. Un indurimento che vedremo poi portato in atto nel contesto immediato seguente: nel cap. 7 leggeremo dell’indurimento del re Acaz di fronte all’invito di Dio comunicato da Isaia (7,10-17), e poi nel cap. 8 leggeremo dell’indurimento di « questo popolo » che « ha rigettato le acque di Siloe » (8,6) che stanno per indicare la protezione salvifica per Gerusalemme offerta da YHWH. Re e popolo dunque hanno rigettato YHWH e perciò la devastazione arriverà (cioè, l’invasione degli Assiri e dopo di loro dei Babilonesi). Ma la chiusura, l’indurimento non è totale. C’è già un piccolo gruppo di fedeli, simboleggiati da Isaia e i suoi discepoli (8,16-18), che aspettano fiduciosi anche se YHWH sembra aver nascosto la sua faccia da Gerusalemme. E poi nel futuro (9,1-6) dopo le tenebre ci sarà un re davidico che reggerà il popolo « con il diritto e la giustizia » (9,6) sul trono di Davide in un’era di pace e benessere. La vigna verrà ristabilita (cf. 27,2-5).
Letto dunque nel contesto immediato, come si trova nella forma finale del libro, l’indurimento del popolo da realizzare dal profeta dev’essere visto come una tappa, uno stadio, in un processo più grande di purificazione del popolo anche tramite le calamità storiche (cf. il testo programmatico di Is 1,21-28).
1.3.2.3    Dialogo conclusivo (vv. 11-13)
La domanda fatta da Isaia nel v. 11a (« Fino a quando, Signore? ») probabilmente non vuole solo chiedere un’informazione temporale sulla durata dell’indurimento del popolo. In vista degli altri casi di intercessione profetica (cf. per es. Am 7,2.5), e dell’uso nei Salmi della frase « fino a quando » con la connotazione di una supplica a Dio per la fine di uno stato di sofferenza (cf. Sal 74,10; 79,5; 90,13; 94,3), c’è da sentire qualcosa del genere anche nella reazione di Isaia qui. Il profeta mostra la sua solidarietà con il popolo (cf. 6,5).
Comunque la risposta del Signore (vv. 11b-13) non offre nessuna consolazione per l’immediato. La calamità dovrà arrivare: devastazione e desolazione nel paese e deportazione degli abitanti di Giuda (11b-12b). Poi nel v. 13 (dove il testo ebraico è assai difficile, soprattutto in 13c-d, con molte differenze di comprensione nelle traduzioni e nei commentari) si dice che anche la decima parte che rimane (= il regno del sud, Giuda, dopo la fine del regno del Nord?) soffrirà anch’essa una devastazione (= l’invasione dei Babilonesi?) e solo una minima parte resterà. Da questa « progenie santa » (cf. Esdra 9,2) verrà un ceppo di nuova vita. Una piccola luce come prospettiva dopo le grandi tenebra, che costituiscono il messaggio centrale del capitolo.
1.4    GENERE LETTERARIO: RACCONTO DI VOCAZIONE?
La domanda potrebbe sorprendere a prima vista, in quanto quasi tutte le traduzioni intitolano Is 6 « La vocazione di Isaia » o qualcosa di equivalente. Però ci sono indizi nel testo che rendano incerto, o almeno problematico, un tale titolo. Per questo discutiamo la questione nell’ambito della lettura di forma finale del libro. Dopo nella fase di studio diacronico ci sarà modo di ritornare alla questione.
1.4.1    Argomenti in favore della lettura di Is 6 come « racconto di prima chiamata »
La solennità del testo (scenario di corte celeste ecc.) servirebbe molto bene per sottolineare il momento decisivo della prima chiamata e della prima missione profetica.
Specificamente il riferimento alle labbra impure di Isaia e al rito di purificazione delle labbra sembra presupporre che Isaia non fungeva da profeta prima (un profeta con labbra impure?!).
1.4.2    Difficoltà per la lettura come « racconto di prima chiamata »
Prima di tutto la posizione del capitolo nel libro: perchè il racconto si trova al cap. 6, e non al cap. 1 (come sarebbe normale e come è il caso infatti per i racconti della prima chiamata di Geremia e di Ezechiele)?
Se la nota cronologica a 6,1 (« nell’anno in cui morì il re Ozia ») vuole situare la visione dopo la morte di questo re (come è certamente il senso della frase analoga a Is 14,28 – l’unico testo parallelo nel libro di Isaia), allora non si vede come può essere la prima chiamata in visto del fatto che il lettore sa già da Is 1,1 che Isaia era attivo come profeta durante il regno di Ozia.
Ci sono poi dei paralleli impressionanti fra Is 6 e il racconto della visione del profeta Michea in 1 Re 22,19ss. Quest’ultimo testo però non è un racconto di prima chiamata di Michea, che è già profeta, ma presenta una missione particolare data da YHWH nella corte celeste.
Sommando queste osservazioni, diversi studiosi hanno proposto che Is 6 così come sta nel contesto della forma finale del libro non è da leggere come racconto della prima chiamata di Isaia bensì come racconto di una missione molte particolare ed importante data a Isaia, già profeta, in vista della situazione particolare di Giuda (cf. i legami con i capp. 7-8).

1.4.3    CONCLUSIONE
Non è facile offrire una conclusione a questo dibattito, in quanto ambedue le parti sembrano avere delle buone ragioni per le rispettive tesi. Si può comunque notare che gli argomenti per la tesi della « prima chiamata » sono tirati dall’interno del testo di Is 6, mentre alcuni degli argomenti per la tesi della « missione particolare » vengono dal contesto intorno a Is 6.
Per adesso dunque si potrebbe forse dire che nell’orizzonte di una lettura della forma finale del libro sembra preferibile una lettura che privilegi l’orientamento dato dal contesto del libro e che dunque leggerà Is 6 come un racconto di una « missione particolare » solennemente data a Isaia già profeta (cf. i capp. 1-5!). Gli argomenti contro questa lettura però ci obbligano a ritornare alla questione nella fase di studio diacronico del testo.

2.   STUDIO DIACRONICO
Qui vedremo molto sinteticamente la questione della genesi del testo di Is 6 (2.1) e su questa base esamineremo la questione del rapporto fra il testo e l’esperienza del Isaia storico (2.2).

2.1    STORIA REDAZIONALE DI IS 6
C’è un accordo pressochè generale fra gli studiosi nel sostenere che ci sono degli indizi testuali che ci orientano a distinguere diacronicamente in Is 6 uno strato originale e delle aggiunte attualizzanti posteriori. Come spesso capita in tali questioni non c’è accordo fra tutti quanto ai dettagli di questa distinzione, ma sulla necessità della distinzione, sì.
Non è possibile nel tempo a disposizione presentare tutto il dibattito, perciò in seguito verrà presentata solo una tesi assai comune, anche se non viene accettata da tutti.
Secondo questa tesi ci sono buoni indizi per sostenere che i vv. 12 e 13 siano stati aggiunti al testo-base in epoche posteriori. Il testo-base, che riflette in qualche modo il tempo di Isaia del VIII sec., l’abbiamo nei vv. 1-11 (a parte forse v. 10g). Vediamo adesso le ragioni per questa tesi.
Per quanto riguarda il v. 12, si nota prima che ripete praticamente il contenuto del v. 11b-c, solo che insiste più esplicitamente su una deportazione dal paese. Poi si constata che non è chiaro se i vv. 12-13 debbano essere letti come la continuazione della risposta di YHWH nel v. 11 (e in questo caso YHWH parlerebbe di sé stesso in terza persona in v. 12a: cosa un po’ sorprendente anche se non impossibile) o se i vv. 12-13 debbano essere letti come dei commenti alle parole di YHWH nel v. 11 fatti dal narratore del testo, cioè Isaia (e in questo caso ci si chiede perchè l’autore non abbia espresso questo cambiamento di voce più chiaramente). Tutto diventa più comprensibile se si propone che il v. 12 sia stato scritto da un altro autore che non si curava molto di questioni di estetica letteraria ma che aveva la preoccupazione dominante di attualizzare il testo per la situazione di una deportazione dal paese, attribuendo la causalità ultima di questa deportazione ad una decisione di YHWH stesso. In altre parole, il v. 12 offre una giustificazione teologica della deportazione. Quale deportazione? Potrebbe essere quella avvenuta alla caduta del regno del Nord nel 722/721, ma più probabilmente (visto l’orizzonte di Gerusalemme e di Giuda nel testo) si tratta della prima deportazione da Giuda effettuata dai Babilonesi nel 597.
Quest’ultima ipotesi diventa ancora più probabile quando notiamo che le parole del v. 13a-b (una decima parte rimane ma sarà anch’essa preda di distruzione) si applicano benissimo alla seconda deportazione da Giuda nel 587/586. Purtroppo il testo del v. 13d è troppo oscuro per permettere un’identificazione sicura del « ceppo » (la gente rimasta in Giuda dopo il 597 oppure quelli rimasti dopo il 587/586?). In ogni caso, non è chiaro se il senso di questo riferimento a un ceppo nel v. 13c-d sia positivo (salvifico) o negativo (il ceppo sarebbe la « decima parte » del v. 13a e sarà preda di nuova distruzione).
Solamente nel v. 13e abbiamo un riferimento certo ad una prospettiva positiva; il « ceppo » del v. 13d viene identificato con una « progenie santa », un sintagma che ricorre altrove in un solo testo, cioè Esdra 9,2 (testo postesilico). Si può capire perchè molti studiosi ritengono che la menzione salvifica del v. 13e è da attribuire a un commentatore postesilico, che voleva introdurre una nota positiva in un testo che è quasi del tutto di tonalità negativa e minacciosa.
Se dunque i vv. 12-13 siano delle aggiunte al racconto originale della visione di Isaia, bisogna concludere che lo strato originale del testo che adesso si trova in Is 6 non conteneva nessuna espressione di speranza; il messaggio era solamente di giudizio per il popolo indurito.
2.2    Contesto dello strato originale di Is 6, e conseguenze per il problema dell’indurimento
Abbiamo visto che nella forma finale del testo ci sono buone ragioni per sostenere che il blocco 6,1–9,6 abbia una sua identità specifica, diversa dai testi prima e dopo. Molti studiosi hanno concluso che questa conclusione sincronica deve valere anche a livello diacronico, e cioè che storicamente esisteva una piccola raccolta (una volta indipendente) di testi comprendenti una buona parte dei materiali che adesso leggiamo fra 6,1 e 9,6. A questa raccolta viene dato spesso il nome « Memoriale » (« Denkschrift ») di Isaia. Non tutti i sostenitori di questa tesi estendevano questa raccolta fino a 9,6; molti vedevano la fine originale della raccolta nel brano 8,16-18. Anche diversi altri versetti all’interno dei capp. 7 e 8 potrebbero essere delle aggiunte alla raccolta originale (come lo sono probabilmente 6,12-13).
L’interesse di questa tesi sta anche nel fatto che secondo essa il racconto della visione di Isaia nel cap. 6 stava all’inizio della piccola raccolta. Cade, cioè, una della ragioni principali per negare che il testo possa essere letto come racconto di prima chiamata. In altre parole, nell’ipotesi della piccola raccolta originalmente indipendente (6,1–8,18*) si può benissimo leggere il testo del cap. 6* come racconto della vocazione di Isaia, presentato per autorizzare i suoi interventi nella crisi della guerra Siro-Efraimita (capp. 7–8).
Ciò detto, bisogna però andare molto cauti nel voler tirare delle conclusioni psicologiche riguardo all’esperienza personale di Isaia dal testo anche nel suo strato originale. Le lunghe discussioni esegetiche del passato su come il profeta abbia potuto esortare alla fedeltà (cf. 7,9) se sapeva dall’inizio che doveva invece indurire il popolo, sono probabilmente da scartare come problematiche estranee all’orizzonte del testo anche a livello del suo strato originale. La discussione fra gli studiosi però continua su questo punto.

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LIBRO DEL PROFETA NEEEMIA

http://www.bibbiaweb.org/jk/jk_pcat_neemia.html

PICCOLO COMMENTARIO DELL’ANTICO TESTAMENTO

NEEMIA

JEAN KOECHLIN

Indice:
 Neemia 1    Neemia 2    Neemia 3    Neemia 4    Neemia 5    Neemia 6    Neemia 7    Neemia 8    Neemia 9    Neemia 10    Neemia 11    Neemia 12    Neemia 13

Neemia

Capitolo 1, versetti da 1 a 11

Storicamente il libro di Neemia è l’ultimo colpo d’occhio che l’Antico Testamento ci permette di gettare sul popolo d’Israele. Gli avvenimenti che riferisce cominciano circa trent’anni dopo quelli che il libro d’Ester riferisce e tredici anni dopo il ritorno di Esdra. I suoi insegnamenti sono dunque particolarmente appropriati a noi cristiani «che ci troviamo agli ultimi termini dei tempi» (1 Corinzi 10:11).
Povero popolo! Si trova in «gran miseria e nell’obbrobrio», secondo quel che raccontano alcuni viaggiatori (vers. 3). Ma Dio ha preparato qualcuno che si prenderà a cuore questo stato. È Neemia! Quest’uomo è sensibile alle sofferenze e all’umiliazione degli scampati, superstiti della cattività e confessa dinanzi all’Eterno i peccati che ne sono la causa. Così aveva fatto Esdra (cap. 9). Dio sceglie sempre gli strumenti delle sue liberazioni fra quelli che amano il suo popolo.
Ma dirigiamo i nostri sguardi su uno più grande di Neemia. Chi ha preso in cuore la condizione disperata d’Israele e dell’uomo in generale, se non il Figlio di Dio stesso? Egli investigava a fondo il nostro misero stato, quell’abisso di male ove eravamo immersi. Ed Egli venne per strapparci di là.

Capitolo 2, versetti da 1 a 8
Mentre i figli di Giuda erano nella miseria e nell’obbrobrio, Neemia occupava alla corte un posto dei più onorevoli: quello di coppiere del re. Avrebbe potuto, egoisticamente, conservare quel posto vantaggioso. Ovvero giustificarlo pensando: Poiché ho la fiducia del re, restando presso di lui sarò più utile al mio popolo. Dio mi ha posto qui a questo scopo.
Ma Neemia non ragiona così. Il suo cuore, come un tempo quello di Mosè, lo conduce a visitare i suoi fratelli, i figli d’Israele (Atti 7:23). E, piuttosto di godere per breve tempo i piaceri del palazzo reale, sceglie «d’essere maltrattato col popolo di Dio» (Ebrei 11:25).
Notate che il suo abboccamento con Artaserse è non soltanto preceduto (cap. 1:4), ma anche accompagnato dalla preghiera (vers. 5). Fra la domanda del re e la propria risposta, Neemia trova il tempo di rivolgersi a Dio nel cuore. Si è chiamato questa una «preghiera-freccia». Imitiamo più sovente quest’esempio! E vedremo, come questo servitore (servitore dell’Eterno prima d’esserlo del re), la buona mano di Dio riposare su noi e su quel che faremo.

Capitolo 2, versetti da 9 a 20
Neemia è arrivato a Gerusalemme munito delle lettere del re. Comincia col fare l’ispezione delle mura, o piuttosto di quel che ne rimane. Il fratello suo gliene aveva parlato (cap. 1:3), ma desidera rendersi conto da sé dell’estensione dei guasti. Grande è la sua costernazione dinanzi a quello spettacolo, a cui gli abitanti di Gerusalemme, da parte loro, si erano abituati! Anche noi, cristiani, siamo certamente in pericolo di non più soffrire dello stato di rovina in cui si trova oggi la Chiesa responsabile. Nessun muro la protegge più contro l’invasione del mondo. E un tale stato è perfettamente ciò che i suoi nemici desiderano.
Al tempo di Zorobabel e d’Esdra, questi nemici si chiamavano per Israele: Bishlam, Tabeel… poi Tattenai, Scethar-Boznai e i loro colleghi. Sotto Neemia si tratta di Samballat, di Tobia e di Ghescem. Il diavolo si serve di strumenti diversi. Egli rinnova di tanto in tanto il suo «personale». Ma il suo scopo è sempre il medesimo: Mantenere il popolo di Dio nell’abbassamento e nella servitù.
Neemia sa come fare per esortare gli uomini di Gerusalemme. Il suo nome significa: l’Eterno ha consolato. Egli ottiene questa risposta gioiosa e incoraggiante: «Leviamoci e mettiamoci a costruire» (vers. 18).

Capitolo 3, versetti da 1 a 15
Al contrario dell’ordine normale, la ricostruzione di Gerusalemme ha cominciato dall’altare, poi dal tempio (Esdra 3) ed è soltanto dopo questo che le mura della città sono riedificate. L’altare e il santuario ci parlano del culto che, evidentemente è la prima responsabilità del popolo di Dio. Ma noi non siamo soltanto dei cristiani della domenica. Anche il resto della città, che si riferisce alla vita quotidiana nelle nostre case e nelle nostre circostanze di ogni giorno, deve ugualmente essere protetto contro i nemici e separato arditamente dal mondo circostante. Ad ognuno spetta di vegliarvi e in particolare di costruire dirimpetto alla propria casa (vers. 10, 28, 30).
Sotto l’impulso di Neemia, tutto Giuda s’è messo all’opera. E questo capitolo ci fa fare il giro della città per presentarci in atto i vari gruppi di lavoratori. Ognuno ha intrapreso, chi la propria porta, chi la propria torre, chi la propria parte di muro, in proporzione delle forze che ha e soprattutto della propria devozione. Ma mentre alcuni hanno abbastanza zelo per restaurare una parte doppia (vers. 11, 19, 24, 27, 30), altri — fra cui i principali — rifiutano di piegare il loro collo al servizio del loro Signore (parag. Matteo 20:27-28). Triste testimonianza, non è vero?

Capitolo 3, versetti da 16 a 32
Dal vers. 16 si tratta della parte di muro che proteggeva la città di Davide e il cortile del tempio.
Siamo stupiti di venire a conoscenza che Eliascib, il sommo sacerdote non ha restaurato dirimpetto alla propria casa (parag. 1 Timoteo 3:5). Altri han dovuto farlo in vece sua (vers. 20-21). Seconda negligenza colpevole: costruendo la porta delle Pecore, lui ed i suoi fratelli, come cattivi pastori, avevano omesso di munirla di serrature e di sbarre (vers. 1). Era lasciare ai ladri e ai marioli il mezzo di introdursi per impadronirsi delle «pecore» di Israele (vedere Giovanni 10:8,10).
Degli orefici, dei profumieri, dei commercianti (vers. 8 e 32) si sono improvvisati muratori. Uno dei capi, Shallum (vers. 12), lavorò alle riparazioni con le sue figlie. Con questi esempi Dio ci insegna che possiamo lavorare all’opera Sua a qualsiasi età, qualunque sia il nostro sesso o la nostra professione. Notiamo pure che parecchi di questi uomini, o i padri loro, si erano compromessi al tempo di Esdra nella triste unione con le donne straniere. Tale era il caso di Baruc figlio di Zabbai, di Malkia, di Benaia, figli di Parosh (Esdra 10:25,28). È bello vedere ora la loro premura per proteggere Gerusalemme precisamente contro le influenze straniere.

Capitolo 4, versetti da 1 a 14
Durante la riparazione delle mura, l’ira dei nemici si scaglia contro Giuda. Samballat, il loro portavoce, esprime beffeggiando il suo disprezzo più profondo. Le beffe! noi vi siamo particolarmente sensibili. Il mondo non manca di beffarsi della separazione dei cristiani, della debolezza del loro radunamento… Non lasciamoci turbare dalle sue riflessioni. «Noi dunque riedificammo…», conclude Neemia! (vers. 6).
Allora il nemico passa alla guerra aperta. E lo scoraggiamento minaccia gli uomini di Giuda. Guardano alla loro debolezza (vers. 10). Equivale ad esser d’accordo col nemico che aveva sprezzato «quegli spossati Giudei» (vers. 2). Essi considerano i pesi dei carichi, il volume delle macerie… Ma vi sono quelli che, insieme a Neemia, conoscono la doppia risorsa (vers. 9). Essa è ad un tempo un ordine del Signore: «Vegliate e pregate…» (Matteo 26:41; 1 Pietro 4:7). La preghiera deve essere la nostra prima risposta agli sforzi dell’Avversario. Però non dispensa dalla vigilanza. Perciò Neemia prende varie disposizioni per assicurare la sorveglianza e la custodia del popolo durante la fine del lavoro.

Capitolo 4, versetti da 15 a 23
Capitolo 5, versetti da 1 a 5
Alle difficoltà e alla fatica della costruzione si aggiungono, alla fine del cap. 4, quelle del combattimento. Infatti il credente non è soltanto operaio, è anche soldato. Assomiglia al milite di Neemia, che tiene con una mano il suo arnese e con l’altra la sua arma (che è la Parola di Dio: Efesini 6:17). Non ha il diritto di deporre né l’uno né l’altra.
Dopo il bello zelo a cui abbiamo assistito, il capitolo 5 ci reca una penosa sorpresa. Quei «superstiti della cattività», che, prima della venuta di Neemia, erano in gran miseria (cap. 1:3), si trovano ora in una situazione anche peggiore. Hanno dovuto impegnare ciò che possedevano, e talvolta sottoporre i loro figli alla schiavitù, per pagare le imposte e non morir di fame. Per di più, quelli che li hanno ridotti in quello stato non sono dei nemici. Sono i loro propri fratelli, che hanno in tal modo trasgredito la legge (Esodo 22:25); Levitico 25:39 a 43; Deuteronomio 15:11; 23:19-20).
A che punto siamo, miei cari amici, per ciò che riguarda l’amor fraterno? Senza di esso il più bel servizio cristiano non ha valore (1 Corinzi 13:1 a 3). Realizziamo quel che dice l’apostolo Giacomo (cap. 2:15-16). Sì, esaminiamo bene il nostro cuore a questo riguardo, e anche il nostro comportamento!

Capitolo 5, versetti da 6 a 19
«Indignato forte», Neemia raduna i notabili ed i magistrati davanti al resto del popolo per rivolger loro i rimproveri che meritano! I colpevoli si sottomettono. Non semplicemente perché Neemia è il governatore, ma perché egli stesso dà l’esempio del disinteressato! Egli ha rinunziato ai diritti personali che gli dava la sua posizione, e questo gli permette di chiedere ai capi di agire nello stesso modo. L’esempio è la regola d’oro per ottenere qualunque cosa dagli altri. L’apostolo Paolo s’è sempre proposto di poter servire di modello ai credenti che egli ammaestrava (Atti 20:35; 1 Corinzi 4:11,16; 10:32-33…). Ma soprattutto consideriamo il divino Maestro. Egli diceva ai suoi discepoli: «Io v’ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v’ho fatto io» (Giovanni 13:15). Ma nello stesso tempo li metteva in guardia contro gli scribi e i farisei: «Fate dunque ed osservate tutte le cose che vi diranno, ma non fate secondo le opere loro; perché dicono e non fanno..» (Matteo 23:3). Le moltitudini notavano la differenza: Gesù «le ammaestrava come avendo autorità, e non come i loro scribi» (Matteo 7:29).

Capitolo 6, versetti da 1 a 14
I loro cattivi esiti precedenti non hanno scoraggiato Samballat, Tobia e Ghescem. Essi fanno a Neemia una proposta ipocrita: «Vieni e troviamoci assieme…» La valle di Ono (ossia degli artigiani: cap. 11:35), fissata come luogo di incontro, suggerisce una collaborazione con i nemici del popolo di Dio. Ma l’offerta è respinta, nonostante le minacce che l’accompagnano per la quinta volta. Allora un altro laccio è teso per l’intermediario d’un giudeo, Scemaia. Con una falsa profezia, questo agente del nemico cerca di indurre Neemia (che non era sacerdote) a disobbedire all’Eterno cercando asilo nel Tempio (vedere 2 Corinzi 11:13 e 1 Giovanni 4:1). Nello stesso modo hanno agito i Farisei col Signore Gesù. «Parti e vattene di qui — Gli dicono — perché Erode ti vuol far morire» (Luca 13:31). Essi, avendo Satana dietro a loro, cercavano di spaventare, e far deviare dal sentiero della fede, Colui che «si era messo risolutamente in via per andare a Gerusalemme» (Luca 9:51). La doppia offensiva, sventata dal fedele Neemia, mette il cristiano in guardia contro due pericoli opposti:
Allargare il sentiero, lavorando in collaborazione con quelli che non sono sottomessi alla Parola.
Rinchiudersi in un settarismo orgoglioso ed egoista.

Capitolo 6, versetti da 15 a 19
Capitolo 7, versetti da 1 a 7
Son bastati cinquantadue giorni agli uomini di Giuda per colmare le brecce e ricostruire le mura. La maggior parte di loro erano inesperti nel maneggio della cazzuola e della zappa. Ma avevano zelo, e gran cuore per il lavoro (cap. 3:20; 4:6). Agli occhi del Signore, la devozione dei suoi operai ha più valore delle loro capacità. D’altronde, Egli dà precisamente queste capacità a quelli che hanno della devozione e si confidano in Lui.
Gli sforzi di Tobia per intimidire Neemia, e l’appoggio che questo nefasto personaggio trova in alcuni notabili di Giuda, sono le ultime manifestazioni d’ostilità dei nemici. Gerusalemme con le sue mura ricostruite appare ormai alle nazioni circonvicine, «edificata come una città ben compatta» (Salmo 122:3). Però bisogna assicurarne la sorveglianza. Neemia s’occupa delle porte, e anche di stabilire dei guardiani (vedere Isaia 62:6 e 7). Si attribuiscono altre funzioni, comprese quelle dei due governatori della città (vers. 1. 2). L’uno e l’altro hanno meritato quest’incarico: Hanani, per il suo interessamento per il popolo (cap. 1:2), Hanania, per fedeltà e timor di Dio (vers. 2).

Capitolo 7, versetti da 61 a 73
Dio ha messo in cuore a Neemia di fare il censimento del popolo. E si è servito per questo del registro genealogico stabilito al tempo del primo ritorno a Gerusalemme. I vers. 6 a 73 riproducono press’a poco il cap. 2 del libro di Esdra. Vi ritroviamo per esempio la discendenza di quest’uomo «che aveva sposato una delle figliuole di Barzillai, il Galaadita, e fu chiamato col nome loro» (vers. 63). Barzillai era quel vecchio ricco e considerato che aveva fornito i viveri al re Davide a Mahanaim (2 Samuele 19:32). Qui siamo informati che suo genero, benché sacerdote, aveva dianzi rinunziato al proprio nome. Si era fatto chiamare con quello del suocero che lo metteva in maggior evidenza. Quali ne sono state le disastrose conseguenze? I suoi discendenti sono esclusi come profani dalle cariche del sacerdozio! Guardiamoci, per tema di perdere considerazione, di abbandonare i nostri privilegi cristiani! Vi è forse maggior dignità e nobiltà che appartenere alla famiglia di Dio, al «sacerdozio regale»?
Questo censimento del popolo sottolinea il contrasto con i giorni di Davide! La sola tribù di Giuda contava allora 470’000 uomini di guerra; dieci volte più numerosa. Ma quel che vale, non è la potenza; è la fedeltà.

Capitolo 8, versetti da 1 a 12
Per la bella scena di questo capitolo, Neemia ha ceduto il posto principale a Esdra, il sacerdote. Sappiamo che questi era uno «scriba versato nella legge di Mosè» e che aveva da molto tempo «applicato il cuore… ad insegnare in Israele le leggi e le prescrizioni divine» (Esdra 7:6 e 10). Felice desiderio che, alla richiesta del popolo, trova occasione per realizzarsi! Si tratta della lettura distinta e della spiegazione della Parola di Dio.
Aprendola, Esdra benedice l’Eterno che ha dato questa Parola, proprio come oggi si rende grazie quando la Bibbia è letta e meditata in un’assemblea. Riguardo agli assistenti, non basta aver intelligenza (vers. 3); occorre anche che essi tendano le orecchie (fine vers. 3). Lo facciamo noi sempre durante le riunioni o la lettura in famiglia? Capire la Parola è il mezzo per essere nutriti e rallegrati dalla comunione col Signore (vers. 12). Ma dobbiamo pensare anche a «mandar porzioni ai poveri», cioè fare approfittare gli assenti di quel che ha fatto bene a noi.
Infine quel magnifico versetto: «Il gaudio dell’Eterno è la vostra forza» (fine del vers. 10). E soprattutto facciamone l’esperienza!

Capitolo 8, versetti da 13 a 18
Capitolo 9, versetti da 1 a 4
«Così è della mia parola, uscita dalla mia bocca; essa non torna a me a vuoto…» — dice l’Eterno (Isaia 55:11). E questa promessa si realizza qui. Secondo l’insegnamento divino, il popolo, sotto la condotta dei suoi capi, celebra i Tabernacoli con più magnificenza che ai giorni più belli di Salomone. Per noi cristiani, la rovina attuale deve anche farci realizzare più che mai il nostro carattere di forestieri (l’abitazione sotto tende) e dirigere i nostri pensieri sulle gioie del regno futuro (i Tabernacoli).
Al principio del. cap. 9 la scena cambia. I figli d’Israele si radunano di nuovo in un giorno fissato. Questa volta lo scopo del radunamento è la confessione dei loro peccati. Vi sono forse anche nella nostra vita di credenti dei momenti particolari in cui dobbiamo fare il bilancio dei nostri falli e umiliarcene? Alcuni pensano che si debba regolare questo ogni sabato sera; altri, alla fine di ogni giornata. Non hanno ragione né gli uni, né gli altri. Il giudicio di sé è un’azione continua. Dobbiamo praticarlo ogni volta che lo Spirito Santo ci ha resi coscienti d’un peccato.

Capitolo 9, versetti da 5 a 15
Alcuni Leviti, di cui abbiamo i nomi, invitano il popolo ad alzarsi per benedire l’Eterno. E Gli rivolgono, a nome di tutta l’assemblea, la lunga preghiera che occupa il resto del capitolo. Risalendo alla creazione, celebrano l’adempimento dei consigli di Dio: la chiamata d’Abrahamo (il cui cuore fu trovato fedele) la liberazione dall’Egitto, il mar Rosso, le cure pazienti lungo tutto il tragitto nel deserto con il dono della legge, poi l’entrata nel paese.
Se apparteniamo al Signore, potremo stendere una lista altrettanto lunga e che non sarà meno meravigliosa! Poiché comincerà nel modo seguente: «Tu hai dato per amor mio il tuo Figlio». Ripassiamo sovente nei nostri cuori ciò che la grazia ha fatto per noi. Ed esercitiamoci a scoprire dei motivi sempre più numerosi di riconoscenza, che saranno altrettanti nuovi legami d’amore col nostro Padre celeste e col Signore Gesù. Come Davide esortiamo l’anima nostra a benedire l’Eterno e a non dimenticare «nessuno dei Suoi benefizî» (Salmo 103:2). Ma veramente questi benefizi sono innumerevoli! (vedere Salmo 139:17- 18).

Capitolo 9, versetti da 16 a 27
Dopo aver, come questi Leviti, tracciato a lungo la storia della grazia di Dio verso Israele, Stefano, nel cap. 7 degli Atti, continua il suo discorso nello stesso modo: «Gente di collo duro,… voi contrastate sempre allo Spirito Santo…» (vers. 51). Il collo duro, la nuca che non vuol piegarsi per sottomettersi al giogo del Signore, non caratterizza unicamente il popolo d’Israele, e neppure soltanto gl’inconvertiti! Abbiamo tutti in noi questa natura volontaria, indomita. Ogni cristiano, senza eccezione, la conosce purtroppo. E gli è impossibile venirne a capo con i propri sforzi. Ma conosce ognuno ad un tempo la liberazione che Dio gli concede? Poiché alla croce, ha messo a morte questa volontà ribelle ed irriducibile, Egli ci ha dato in sua vece la natura obbediente di Gesù. La vecchia natura è sempre in noi, con i suoi desideri, ma non ha più il diritto di dirigerci.
Come risaltano di più tutti quei peccati d’Israele quando sono messi, come qui, in contrasto con la grazia divina! Raddoppiano, per così dire, d’ingratitudine (vedere Deuteronomio 32:5-6). E non è forse anche il caso di tanti giovani e giovanette allevati da genitori credenti?

Capitolo 9, versetti da 28 a 38
Al vers. 33 abbiamo il riassunto di tutto questo capitolo: «Tu sei stato giusto in tutto quello che ci è avvenuto, poiché tu hai agito fedelmente, mentre noi ci siamo condotti empiamente». Accostiamo questo a quella parola dell’Evangelo di Giovanni: «Chi ha ricevuto la Sua (di Gesù) testimonianza ha suggellato che Dio è verace» (Giovanni 3:33; vedere anche Romani 3:4). Suggellare, vuol dire approvare formalmente una dichiarazione, garantirla e impegnarsi a rispettarla. I principi, i Leviti ed i sacerdoti appongono così i loro sigilli (cioè le loro firme), per confermare il loro accordo.
Al termine di questa lunga confessione, riteniamo anche due insegnamenti molto importanti: In primo luogo, è necessario risalire quant’è possibile alle origini d’un male, con un completo dietro front. La violazione della legge è incominciata con l’affare del vitello d’oro; ebbene, questa non può passare sotto silenzio (vers. 18)! Poi, una confessione deve essere precisa: Dire a Dio in modo generale: Io sono un peccatore; ho commesso dei peccati — costa ben poco, e non ha valore ai suoi occhi. Egli aspetta che Gli diciamo: Signore, io sono questo colpevole. Ho fatto quest’atto e quello ancora (vedere Levitico 5:5).

Capitolo 10, versetti da 28 a 39
Gli uomini nominati al principio del capitolo sono quelli che hanno apposto il loro sigillo al patto dell’Eterno. Sapete voi che Dio ha ugualmente il suo sigillo? Lo Spirito Santo è, sopra ogni riscattato, il segno di proprietà per mezzo del quale Dio lo riconosce e dichiara: Ecco qualcuno che mi appartiene (Efesini 1:13 e 4:30). Può Egli riconoscervi in questo modo? Ma, mentre i loro sigilli non potevano dare ai compagni di Neemia la forza di compiere ciò a cui s’impegnavano, lo Spirito Santo invece è ad un tempo il sigillo, la potenza per cui il cristiano agisce secondo la volontà divina (Efesini 3:16).
Tutto il popolo si è associato d’un medesimo cuore ai suoi conduttori. La conoscenza della legge, acquistata a nuovo, non resta teoria per loro. Li conduce successivamente alla purificazione, al rispetto del sabato e dell’anno di riposo della terra; poi al servizio della casa e all’osservanza delle istruzioni concernenti le primizie e le decime. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate», diceva il Signore Gesù (Giovanni 13:17).

Capitolo 11, versetti da 1 e 2
Capitolo 12, versetti da 22 a 30
Erano ben poco numerosi i rimpatriati da Babilonia in paragone a quelli che abitavano nel paese prima della deportazione. Gerusalemme, con le sue mura ricostruite sulle loro antiche basi, non contava che un infimo numero di cittadini: fra altri quelli che avevano riparato le mura dirimpetto alla loro casa! Si decide di fare appello a dei volontari di Giuda e di Beniamino per venire a ripopolare la città. Sono riferiti i loro nomi. Dio infatti onora quelli che, rinunziando ai loro campi e alle loro case, vengono per amore a dimorare presso il Suo santuario.
Son fatte delle promesse a riguardo della Gerusalemme del regno di mille anni (Zaccaria 2:4; Isaia 33:20; 60:4 e 15). — Ma delle promesse più belle ancora concernono la santa Città, la Gerusalemme celeste. Dio, che l’ha «preparata» per Cristo (Apocalisse 21:2), l’ha pure «preparata» per quelli che Gli appartengono ed hanno rinunziato a possedere quaggiù una città permanente (Ebrei 11:16). Questa meravigliosa Città non è fatta per rimanere vuota. Dio stesso vi abiterà in mezzo ai suoi. Tuttavia vi si penetra ad una condizione: Bisogna aver «lavato le proprie vesti» per fede nel sangue dell’Agnello (Apocalisse 22:14). L’avete fatto?

Capitolo 12, versetti da 31 a 47
La cerimonia della dedicazione delle mura, che comincia al vers. 27, si svolge fra una grande allegrezza. Due cortei formati di cantori e accompagnati da trombe partono insieme sul sentiero di ronda, ognuno dal proprio lato. Uno è condotto da Esdra, mentre Neemia chiude la marcia del secondo. Le due processioni si incontrano in prossimità del Tempio dopo aver compiuto ognuno la metà del giro della città. Hanno realizzato la parola del bel salmo 48: «Circuite Sion, giratele attorno; contatene le torri… osservatene i bastioni…» (Salmo 48:12-13).
Giunti alla casa dell’Eterno, i due cori riuniti «fecero risonar forte le loro voci» e «numerosi sacrifizi» sono offerti fra la gioia generale. Il vers. 43 ci insegna tre cose a proposito di questa gioia:
1. Anzitutto che essa ha la sua sorgente in Dio: «Iddio aveva loro concesso una grande gioia.»
2. Poi, che tutti vi partecipano, compresi i fanciulli. Ciò che forma la gioia dei genitori, forma anche quella dei figli?
3. Infine, che questa gioia «si sentiva di lontano». Il mondo che ci attornia può forse vedere e udire che siamo delle persone il cui cuore è ripieno d’una gioia divina?

Capitolo 13, versetti da 1 a 14
Neemia era stato obbligato di ritornare dal re. Approfittando della sua assenza, Tobia, il nemico ben conosciuto, era pervenuto a farsi attribuire una delle camere contigue alla casa dell’Eterno, grazie alla complicità d’un sacerdote, quel tale Eliascib che si era già dimostrato tanto negligente al tempo della costruzione delle mura. Ahimè! i portinai, gli uomini che al capitolo precedente erano stati «preposti… alle stanze che servivano da magazzini delle offerte», non avevano dal canto loro osservato ciò che si riferiva al servizio del loro Dio (cap. 12:45).
Indignato, Neemia fa gettare fuori dalla camera tutte le masserizie appartenenti a Tobia. Poi fa purificare le camere e rimettere a posto gli utensili e le offerte. L’affezione di questo uomo di Dio per la casa dell’Eterno e lo zelo che pone a sbarazzarla da ogni contaminazione, ci fa pensare a Gesù, quando caccia dal tempio quelli che avevano fatto, d’una casa di preghiera, una spelonca di ladroni (Matteo 21:12- 13).
Questa prima negligenza ne aveva trascinate altre, e Neemia deve anche occuparsi delle porzioni dovute ai Leviti come pure della sorveglianza e della ripartizione delle decime recate dal popolo.

Capitolo 13, versetti da 15 a 31
Nonostante l’impegno preso dal popolo (cap. 10:31), neppure il riposo del sabato era stato rispettato. Neemia energicamente prende le misure necessarie per rimediare a questa situazione.
Non dovremmo noi, cari figli di Dio, attribuire almeno altrettanta importanza al giorno del Signore quanto Israele al suo sabato? Certamente noi non siamo più sotto la legge. Ma è triste che la domenica sia considerata, da certi cristiani, come un semplice giorno di riposo o di agio; ovvero che sia impiegata ad un compito scolastico che avrebbe potuto essere terminato alla vigilia!
A che cosa ci fan pensare quelle porte che bisognava chiudere durante la notte, per la protezione contro i pericoli del mondo? Non è forse una volta ancora alla santa Città di cui è detto: «E le sue porte non saranno mai chiuse di giorno (la notte quivi non sarà più)… E niente d’immondo e nessuno che commetta abominazione o falsità v’entreranno» (Apocalisse 21:25,27).
Il sipario della storia cade ora su Israele. Esso non si alzerà che quattro secoli dopo (esattamente quattrocento quarant’anni) sul suo Liberatore e Messia, alla prima pagina del Nuovo Testamento.

Isaia 40,1-5.9-11 – commento biblico

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Isaia%2040,1-5.9-11

Isaia 40,1-5.9-11

1 « Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. 2 Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati ».
3 Una voce grida: « Nel deserto preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio. 4 Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato ».
9 Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: « Ecco il vostro Dio! 10 Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. 11 Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri ». 

COMMENTO
Isaia 40,1-5.9-11
Il lieto annunzio del ritorno  
Il testo preso in esame è l’introduzione al libro della Consolazione di Israele, detto anche Deuteroisaia perché costituisce la seconda parte del libro che porta il nome del grande profeta (cc. 40-55). L’ambiente non è più quello dell’antico regno di Giuda, in cui è vissuto e ha operato Isaia (sec. VIII), ma quello degli esuli giudei che si trovano in esilio a Babilonia, quando questo regno sta ormai cadendo sotto i colpi dei persiani guidati da Ciro (538). Questo brano si presenta non come una composizione unitaria, ma piuttosto come una piccola antologia di diversi oracoli riguardanti la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli a Gerusalemme: la consolazione di Israele (vv. 1-2); il nuovo esodo (vv. 3-5); l’efficacia della parola di Dio (vv. 6-8); il lieto annunzio (vv. 9-11).
La consolazione di Israele (vv. 1-2)
Il testo si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a «consolare» il suo popolo. Questo invito viene rivolto non tanto al profeta, il quale si limita a registrare le parole di JHWH, quanto piuttosto ad anonimi araldi i quali sono inviati a tutto il popolo (v. 1). Nel versetto successivo appare che il messaggio è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico, e forse non senza un riferimento specifico ai giudei che hanno vissuto la tragedia dell’esilio pur restando nella terra dei padri. I messaggeri devono parlare al «cuore» di Gerusalemme (v. 2a). Il cuore indica il centro della persona, dove hanno luogo le scelte determinanti per la vita: perciò «parlare al cuore» di Gerusalemme significa annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché JHWH ha deciso di  ripristinare quel legame d’amore che univa lo univa al suo popolo (cfr. Os 2,16).
Il motivo della consolazione di Gerusalemme consiste nel fatto che «è finita la sua schiavitù, è scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati» (v. 2b). È dunque terminato il servizio coatto a cui erano sottoposti i suoi abitanti condotti in esilio dai babilonesi. Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità (cfr. Lv 26,41.43), ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe. In sintonia con tutta la predicazione profetica il castigo viene attribuito a Dio stesso, anche se la causa immediata sono state le vicende politiche di un travagliato periodo storico.
Tra breve il popolo sarà dunque liberato, con un gesto gratuito di misericordia, dallo stesso Dio che aveva dovuto intervenire con una dura punizione. Per gli esuli è giunto il momento del ritorno nella città santa, rappresentata come la sposa infedele che JHWH riprende con sé dopo una punizione esemplare (cfr. Ez 16; 23; Os 2,16; Is 49,14-26; 51,17-52,12; 54,1-17).
Il nuovo esodo (vv. 3-5)
Il profeta comunica ora quanto dice «una voce», cioè un anonimo messaggero di Dio, il quale ordina di preparare nel deserto una strada perché in essa possa passare JHWH. Egli aveva guidato un giorno il suo popolo fuori dell’Egitto camminando alla sua testa sotto forma di colonna di fuoco di notte e di colonna di nubi durante il giorno (Es 13,20-22; 14,17), poi aveva posto la sua dimora nel santuario (Es 40,34) e infine nel tempio di Gerusalemme (2Re 8,10-11), ma lo aveva abbandonato a motivo dei peccati del popolo (Ez 10,18; 11,22-23). Ora egli sta per ritornare nella città santa e nel tempio alla testa del suo popolo dopo averlo liberato dall’oppressione babilonese (v. 3).
La preparazione consiste nel colmare ogni valle, nell’abbassare monti e colli e nel trasformare il terreno accidentato e scosceso in pianura (v. 4). Fuori metafora ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei, guidato e illuminato dalla predicazione profetica che non era mai venuta meno durante tutto il tempo dell’esilio. La religione di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti nella madre patria e avevano continuato nelle pratiche sincretistiche dei loro padri. Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo di cui i rimpatriati erano portatori provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio.
Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio: «Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato» (v. 5). Il termine «gloria» (kabôd) indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. La gloria è la forma visibile e luminosa sotto cui Dio si era manifestato più volte nell’esodo (cfr. per es. Es 16,7.10; 24,16-17) e aveva preso dimora prima nella tenda (Es 40,34) e poi nel tempio di Gerusalemme (1Re 8,11). Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini. Secondo il Deuteroisaia l’evento del ritorno avrà una forte connotazione universalistica: tutti i popoli saranno coinvolti in esso, se non altro come spettatori che partecipano intimamente a quanto si svolge sotto i loro occhi. Nei successivi vv. 6-9 si dice che l’uomo è come l’erba che dissecca, mentre la parola di Dio dura per sempre. Dio dunque è più potente degli oppressori del suo popolo (cfr. Is 51,12), e anche del suo popolo peccatore: la sua promessa di liberazione perciò si attuerà infallibilmente. Questo concetto, che viene ripreso nella conclusione del libro (cfr. 55,10-11), rappresenta una delle idee chiave del libro.
Il lieto annunzio (vv. 9-11)
Nuovamente viene chiamato in scena un araldo che viene inviato con un compito specifico: «Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: Ecco il vostro Dio!» (v. 9). L’araldo deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno di JHWH alla testa degli esiliati. Egli è designato come «colui che reca liete notizie» (mebasseret): da questa espressione, tradotta in greco «colui che evangelizza» (euangelizomenos) deriverà il termine «vangelo», con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna alla testa del suo popolo è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (v. 10): questo rappresenta il popolo stesso che JHWH ha sottratto alla dominazione straniera. La seconda immagine è quella del pastore che guida il suo gregge (cfr. Sal 23; Ez 34), lo raduna, lo fa pascolare, porta sulle spalle gli agnellini e ha cura delle pecore madri (v. 11).

Linee interpretative
Nell’introduzione del Deuteroisaia sono indicati in modo significativo i grandi temi del libro: la fine dell’esilio, visto come un duro castigo per i peccati del popolo, il nuovo esodo, l’esigenza di una preparazione da parte del popolo, l’efficacia della parola di Dio, l’universalismo della salvezza. Dio viene presentato con immagini diverse: condottiero, marito, pastore. Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo poema è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al suo controllo, Dio non rinunzia al suo potere e non viene meno alle sue promesse. L’importante per l’uomo è di saper vedere la sua gloria quando si manifesta.
Il profeta è convinto che il momento del ritorno segni l’attuazione delle grandi profezie che alla vigilia dell’esilio preannunziavano la trasformazione escatologica del popolo di Dio (Ger 31,31-34; Ez 36,25-27; Dt 30,6). Il tema del castigo è ancora presente, ma passa ormai in secondo piano: il popolo aveva un debito che doveva essere pagato, e di fatto ha scontato amaramente per le sue colpe, ma in realtà la salvezza è frutto di un intervento gratuito di Dio. Purtroppo la restaurazione del popolo non si verificherà con la pienezza annunziata, ma le immagini elaborate in questo momento entusiasmante serviranno per delineare la futura salvezza, rinviata ormai agli ultimi tempi.

Omelia sulla prima lettura, Bar 5, 1-9: Rivestìti di splendore

http://www.qumran2.net/dvd/dvd-b-altro/commenti/commento_8790.htm

Rivestìti di splendore

II Domenica di Avvento (Anno C) (10/12/2006)

Brano biblico: Bar 5,1-9

La prima lettura è la conclusione del libro di Baruc, nel quale un anonimo autore, qualche secolo dopo il ritorno di Israele dall’esilio babilonese, richiamandosi al segretario del profeta Geremia, rilegge quel lieto evento per attingervi consolazione e speranza per l’oggi. In particolare, il brano che leggiamo oggi è intessuto di richiami a Isaia.
Splendide le espressioni che il Signore rivolge al suo popolo in affanno, rappresentato da Gerusalemme vestita a lutto. Basta con quella veste! Il nuovo vestito che Dio offre e invita ad indossare, è sfolgorante: lo splendore della gloria, il manto della giustizia, il diadema di gloria (vv. 1-2).
La nuova salvezza che il Signore sta realizzando nel suo popolo è anche rappresentata dalla metafora del nome nuovo: « Sarai chiamata da Dio: ‘Pace della giustizia e gloria della pietà’ » (v. 4).
Giustizia e pace, pietà e gloria: elementi importanti e ricchi di significato nell’Antico Testamento, che in sostanza richiamano una situazione di armonia sia orizzontale (nei rapporti tra gli uomini) che verticale (nel rapporto tra l’uomo e Dio). Le due dimensioni – le stesse della croce – sono sempre strettamente connesse e interdipendenti: ‘ama Dio’ e ‘ama il prossimo’ formano un solo comandamento. Le relazioni giuste tra gli uomini generano l’armonia della pace. La relazione giusta con Dio diventa « gloria », manifestazione chiara e « pesante » di Dio nella concreta esperienza umana.
Promessa e meta perennemente attuale. La liturgia dell’avvento ci chiama a deporre le vesti di lutto nelle quali tendiamo sempre continuamente e nuovamente a nasconderci: sfiducia, amarezza, chiusura, pessimismo. Al di là di ogni musoneria personale o ecclesiale, sentiamo rivolto a noi l’invito a rivestire l’abito della speranza, tutta fondata su ciò che Dio sta realizzando, sulla sua promessa. Per questo è essenziale mantenere viva la gioiosa « memoria Dei », il continuo ricordo di Dio (v. 5), senza il quale la nostra speranza manca di fondamento e rischia continuamente di deragliare nell’euforia di chi rimane abbagliato da false promesse di salvezza o nella disperazione di chi ne vive la delusione.
Con nuovo vigore e consapevolezza preghiamo che la gloria del Signore abiti la nostra terra e « sia santificato il Nome di Dio »; nell’impegno – sereno ma determinato – a dare a Dio il posto che merita (il primo) e a stabilire, nelle piccole e nelle grandi questioni, relazioni giuste tra i suoi figli.

commento al brano biblico: Ger 33,14-16 : Signore-nostra-giustizia

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=8725

Signore-nostra-giustizia

don Marco Pratesi 

I Domenica di Avvento (Anno C)

Brano biblico: Ger 33,14-16  

Una parte degli oracoli del profeta Geremia riguarda la restaurazione di Israele, cioè la sua rinascita dopo lo sfacelo dell’esilio babilonese, della distruzione del tempio e della fine della dinastia davidica. La prima lettura è appunto costituita da uno di essi: il profeta vi annunzia la realizzazione della promessa di un germoglio giusto dalla stirpe di Davide, un suo discendente che avrebbe regnato con giustizia e avrebbe assicurato al popolo sicurezza e pace.
Israele non ha saputo vivere nella giustizia; non ha saputo dare a Dio il suo posto di unico Signore; ha cercato sicurezza e appoggio altrove, negl’idoli. Non ha saputo vivere la fraternità, creando al suo interno situazioni di oppressione e ingiustizia sociale. Per questo è stato giudicato e punito con l’esilio.
La risposta del Signore però – dice Geremia – non si ferma al castigo: Dio vuole prendere un nuovo e più forte impegno. Egli stesso sarà la giustizia del suo popolo: « Così sarà chiamata (Gerusalemme): Signore-nostra-giustizia » (v. 16). Tramontata l’illusione di una propria giustizia, Israele saprà che occorre fondarsi del tutto sul Signore.
Tutto questo si realizzerà in Gesù. È lui la nostra giustizia (cf. 1Cor 1,30). Non ci presentiamo a Dio forti di una nostra giustizia, ma della sua (cf. Fil 3,9).
Anche noi attendiamo che questa promessa si realizzi nella nostra vita e Dio – in Gesù – sia sempre più limpidamente la nostra giustizia.
« Tu sei la gloria, Signore,
tu la giustizia del tuo popolo », ci fa proclamare la liturgia delle ore (lodi mattutine del venerdi della I settimana, 2.a antifona).
Siamo chiamati a costruire la nostra vita su di essa. Da questo giusto rapporto con Dio, devono scaturire come frutto concreto rapporti giusti con il prossimo e con il creato.
Quanto andiamo costruendo nel corso dell’esistenza non finirà allora nel nulla ma, attraverso e oltre il caos che si manifesta nella storia, potrà entrare in quel mondo rinnovato che il tempo di avvento ci addita: in esso finalmente la giustizia avrà piena e stabile dimora (cf. 2Pt 3,13).

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