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IL PROFETA AGGEO – 16 DICEMBRE

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IL PROFETA AGGEO – 16 DICEMBRE

DAL LIBRO DEL PROFETA AGGEO (1,1-9; 2,1-9; 15-19)  

L’anno secondo del re Dario, il primo giorno del sesto mese, questa parola del Signore fu rivolta per mezzo del profeta Aggeo a Zorobabele figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, e a Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote. Così parla il Signore degli eserciti: Questo popolo dice: «Non è ancora venuto il tempo di ricostruire la ca­sa del Signo­re!». Allora questa parola del Signore fu rivelata per mezzo del profeta Aggeo: «Vi sembra questo il tempo di abitare tranquilli nelle vostre case ben coperte, mentre questa casa è ancora in rovina? Ora, così dice il Signore degli eserciti: ri­flettete bene al vostro comportamento. Avete seminato molto, ma avete raccolto poco; avete mangiato, ma non da togliervi la fame; avete bevuto, ma non fino a inebriarvi; vi siete ve­stiti, ma non vi siete riscaldati; l’operaio ha avuto il salario, ma per metterlo in un sacchetto forato. Così dice il Signore degli eserciti: Riflettete bene al vostro comportamento! Salite sul monte, portate legname, ricostruite la mia casa. In essa mi compiacerò e manifesterò la mia gloria – dice il Signore -. Facevate assegnamento sul molto e venne il poco: ciò che portavate in casa io lo disperdevo. E perché? – dice il Signore degli eserciti -. Perché la mia casa è in rovina, mentre ognuno di voi si dá premura per la propria casa. Il ventuno del settimo mese, questa parola del Signore fu rivelata per mezzo del profeta Aggeo: Su, parla a Zoroba­bele figlio di Sealtièl, governatore della Giudea, a Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote, e a tutto il resto del popolo: Chi di voi è ancora in vita che abbia visto questa casa nel suo primitivo splendore? Ma ora in quali condizioni voi la vede­te? In confronto a quella, non è forse ridotta a un nulla ai vostri occhi? Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore – coraggio, Giosuè figlio di Iozedàk, sommo sacerdote; co­raggio, popolo tutto del paese, dice il Signore, e al lavoro, perché io sono con voi – oracolo del Signore degli eserciti – secondo la parola dell’alleanza che ho stipulato con voi quando siete usciti dall’Egitto; il mio spirito sarà con voi, non temete. Ora, pensate, da oggi e per l’avvenire: prima che si cominciasse a porre pietra sopra pietra nel tempio del Signore, come andavano le vostre cose? Si andava a un mucchio da cui si attendevano venti misure di grano e ce n’erano dieci; si andava a un tino da cinquanta barili e ce n’erano venti. Io vi ho colpiti con la ruggine, con il carbonchio e con la grandine in tutti i lavori delle vostre mani, ma voi non siete ritornati a me – parola del Signore -. Considerate bene da oggi in poi (dal ventiquattro del nono mese, cioè dal giorno in cui si posero le fondamenta del tempio del Signore), se il grano verrà a mancare nei granai, se la vite, il fico, il melograno, l’olivo non daranno più i loro frutti. Da oggi in poi io vi benedirò!  

INTRODUZIONE      

Nel 538 a.C., con un editto Ciro, il re di Persia, concede agli ebrei deportati in Babilonia di tornare alla propria terra. 45.000 o forse 50.000 ebrei fecero ritorno in Palestina. La situazione che vi trovano è di una città in rovina, campagne abbandonate, mura distrutte e il tempio incendiato e ridotto ad un ammasso di ruderi. Pur in preda allo scoraggiamento il popolo si impegna alla ricostruzione di quanto potesse essere sufficiente alla sopravvivenza trascurando completamente di mettere mano al tempio. Diciotto anni dopo, nel 520 – nonostante un decreto di Dario I il grande, successore di Ciro al trono di Persia che, nel 516, aveva concesso agli ebrei di ricostruire il tempio sollecitando anche l’aiuto dei popoli vicini – l’opera di ricostruzione non prosegue. Ecco allora la voce di Aggeo (tradotto letteralmente significa “festivo”) che, sollecitando il governatore Zorobabele e il sommo sacerdote Giosué, preme sul popolo perché porti avanti l’opera di riedificazione del tempio.  Anche se non sappiamo nulla di lui come persona, il testo di Aggeo ci riporta dettagliatamente le date dei suoi interventi, compresi tra agosto e dicembre del 520.  Nell’ottica del profeta la ricostruzione del tempio avrebbe indotto benessere e prosperità per il popolo ed è sottesa anche l’idea di recuperare l’indipendenza politica di Israele sognata da Aggeo come guidata da Zorobabele, ultimo discendente vivente della dinastia di Davide.

RALLEGRATI, DESERTO E TERRA ARIDA – (Is 35, 1ss). III AVVENTO A

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RALLEGRATI, DESERTO E TERRA ARIDA

NELL’ATTESA DEL SALVATORE – III AVVENTO A  

“Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.  Come fiore di narciso fiorisca;  sì, canti con gioia e con giubilo.  Le è data la gloria del Libano, lo splendore del Carmelo e di Saron.  Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.   Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.  Dite agli smarriti di cuore:  Coraggio!  Non temete; ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.  Egli viene a salvarvi. – Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.  Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto.  Ci sarà una strada appianata e la chiameranno ‘via santa’; su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto” (Is 35, 1ss).

 “Giovanni, era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli:  Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro? – Gesù rispose: Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete:  i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me.  – Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle:  Che cosa siete andati a vedere nel deserto?  Una canna sbattuta dal vento?  Che cosa dunque siete andati a vedere?  Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re!          E allora che cosa siete andati a vedere?  Un profeta?  Sì, vi dico, anche più di un profeta.  Egli è colui, del quale sta scritto:  Ecco io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. – In verità vi dico:  tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui” (Mt 11, 2ss).       Il libro di Isaia (nella Bibbia) dice parole molto elevate per chiunque attende il Messia:  Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.  Come fiore di narciso fiorisca; canti con gioia e con giubilo. – Poi continua dicendo che non ci saranno ciechi, sordi, zoppi, malattie e sofferenze. Le parole della Bibbia sono piene di promesse straordinarie sia nei riguardi dell’umanità (che sarà guarita da ogni male), sia nei riguardi dello stesso mondo materiale che sarà trasformato come un giardino incantevole, un paradiso terrestre.  Anzi i beni che si promettono sono al superlativo, al di là di ogni intendimento.  Questo vuol dire in poche parole:  beni materiali, umani e super-umani. Molte altre pagine della Bibbia abbondano di immagini del genere.  Ne accenno un’altra:  il mondo sarà lastricato di pietre preziose e le città costruite di oro e di argento. Sono semplici immagini letterarie oppure vera realtà?  E’ vera realtà.  Chiunque attende il Messia o al tempo di Cristo o al nostro tempo (mediante la preparazione spirituale del Natale) ottiene realtà  che sorpassano immensamente ogni aspettativa.  Solo Gesù Messia è colui che porta la fortuna in mano, la felicità piena, la pace e la gioia.  E’ realmente fortunato chi cerca e trova Gesù, perché lui fu ed è l’unico Messia e Salvatore del mondo. Qualcuno dirà:  Sarà proprio vero?  Come avverrà?  Era la stessa domanda di Giovanni Battista a Gesù, come riferisce il Vangelo. Il Battista aveva preannunziato la venuta di Gesù come Messia, lo aveva additato alle folle.  Però in un momento si trovò in carcere per aver rimproverato il re dissoluto Erode Antipa. Da dove proveniva il dubbio di Giovanni? Vedeva in Gesù dei segni propri del Messia (i miracoli), ma vedeva pure delle cose che contrastavano con la presenza del Messia (le ingiustizie, le sofferenze, le prepotenze…).  Si domandava Giovanni:  Dove sono le promesse dei profeti?  Dov’è la pace, la gioia senza fine, il mondo trasformato e l’umanità santificata e fatta tutta divina? Il Battista mandò alcuni discepoli per interrogare Gesù:  Sei tu il Messia o dobbiamo attendere un altro? Gesù gli rispose che si adempivano in lui le profezie degli antichi profeti con i miracoli operati da lui:  I ciechi ricuperavano la vista, gli storpi camminavano, i lebbrosi erano guariti, i sordi riacquistavano l’udito, i morti risuscitavano.  Veniva annunziata una bella notizia di salvezza e la gioia perfino ai più poveri cioè a quelli che sono senza speranza in questo mondo.  Al tempo di Gesù i fatti prodigiosi erano innegabili; facevano prevedere una storia nuova e un mondo materiale straordinario come dicevano le profezie:  Si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno gli orecchi dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto; si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.  Come fiore di narciso fiorisca e canti con gioia e con giubilo. Questi segni erano già incominciati con la comparsa di Gesù. Però non si vedevano ancora tutti i segni, tutte le promesse avverate, tutta la gioia, la felicità e la pace:  Felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.  Quello che chiedeva Giovanni Battista lo chiedono ancora gli ebrei di oggi.  Essi non credono in Gesù Messia perché non vedono la pace universale e la fraternità che unisce i popoli della terra. Gesù dunque è il Messia o no?  Con la sua presenza è venuto davvero tutto quello che la Bibbia prometteva del tempo del Messia? Gesù rispose affermativamente a Giovanni e ripete anche a noi le stesse parole lette nel Vangelo.  Il Vangelo si legge perché si attua in tutto l’arco della storia e perciò anche ai nostri giorni.  Anche noi siamo fortunati, anzi molto di più dei contemporanei di Gesù. Però le sue parole contengono una risposta doppia e non unica o solo affermativa.  Gesù dice senza ombra di dubbio: 1) che lui solo e nessun altro uomo al mondo è il Messia promesso e l’unico Salvatore dell’umanità.  Perciò dalla sua venuta in terra sino alla fine della storia  esistono i miracoli e meraviglie proprio come afferma la Bibbia.  Solo che bisogna saperli vedere e credere.  2)  Gesù infatti aggiunse un’altra espressione importante:  Beato colui che non si scandalizza di me.  Le meraviglie del messianismo sono visibili solo con l’occhio della fede. Chi si scandalizzava di Gesù?  Chi lo vedeva con la forma tutta umana e ordinaria.  Egli appariva un uomo come gli altri; e il suo tempo era o appariva come tutti gli altri tempi della storia umana con le ingiustizie, le angherie e le cattiverie di ogni genere. Qui sta il mistero di Gesù che viene scoperto e goduto solo mediante la fede cristiana.  Egli appariva un uomo, ma era anche l’infinito Dio venuto in mezzo a noi.  Sapere unire insieme vera divinità e vera umanità come in tutti:  questo è il segreto per risolvere il problema. Chi ha fede vede meraviglie che nessuno ha mai sperimentato o – come dice la Bibbia – “Occhio non vide e cuore non sperimentò mai quello” che Dio dona ai suoi fedeli e così li rende felici, fortunati, gioiosi e Il messianismo di Gesù (oppure la redenzione cristiana) ha due fasi:  una nel tempo presente e una alla fine della storia, cioè nell’eternità.  La prima fase o prima venuta di Gesù è carica di benefici divini, ma iniziali e nascosti sotto il velo della fede.  La seconda poi toglierà ogni nascondimento e apparirà in tutto il suo splendore. Lo sbaglio di Giovanni Battista e di chi non ha fede cristiana è quello di non distinguere le due venute del Messia una con la sua comparsa in terra Palestina e ai nostri giorni e una alla fine della storia nello splendore divino visibile a tutti. Fatta la distinzione chiara tra le due venute, possiamo leggere con immensa gioia anche oggi i testi profetici che invitano alla gioia per la trasformazione del mondo materiale e del mondo umano per opera del Messia Gesù. La novità del Messia è trasformare il mondo materiale e quello umano e inserirvi realtà super-umane o soprannaturali.  E questo già è avvenuto.  Ne do degli esempi.  Esistono trasformazioni più strabilianti che se le pietre delle strade si cambiassero in oro e le case si costruissero con gemme preziosissime. Prendete pane e vino e vedete che cosa sono dopo la consacrazione nella messa.  Sono il corpo e il sangue di Gesù che con essi ci santifica, ci divinizza, dona quello che mai avremmo potuto sognare:  essere nutriti con il corpo e il sangue dell’Uomo-Dio Gesù, nostro Redentore.  Prendete l’acqua e l’olio e vedete che effetti straordinari producono quando sono usati nel sacramento del battesimo, della cresima e dell’unzione degli infermi.  Non è raro il caso di malati guariti, anche ai nostri giorni, per aver ricevuto l’olio degli infermi.  Lungo i secoli cristiani ci sono stati casi di persone nutrite solo con l’eucaristia, cibo dell’anima e del corpo.  Un giorno, quando avremo il corpo risorto nella gloria del paradiso saremo nutriti direttamente da Dio nell’anima e nel corpo. I miracoli del tempo di Gesù non finiti con la sua morte e risurrezione, anzi proprio allora si sono moltiplicati e ingigantiti.  Gesù lo dice nel Vangelo ai cristiani:  Voi farete miracoli superiori ai miei perché io sarò con voi tutti i giorni sino alla fine della storia. Dove sono questi miracoli?  Basti pensare che ogni volta che il papa dichiara beato o santo un cristiano, esige almeno un miracolo che deve essere vagliato con la più rigorosa critica scientifica fatta da competenti in materia.  E dichiarazioni di beati e di santi esistono molte ogni anno. I grandi miracoli del nostro Salvatore Gesù sono quelli che riguardano l’anima.  Il loro numero è senza fine.  Eccone alcuni: Il cristianesimo porta Dio nei cuori con la comunione;  rende innocenti i più grandi peccatori con il sacramento della confessione; nutre di divinità le nostre persone con la comunione; trasforma in esseri con poteri divini i sacerdoti con il sacramento dell’ordine sacro.  Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?  I sacerdoti possono rimettere i peccati per l’autorità conferita loro da Gesù con le parole:  Coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi (Gv 20). Anche la pace e la felicità, che sembrano tanto lontane dalla storia di tutti i tempi,  sono realtà vere nel cuore dei cristiani che vivono la vita divina dataci da Gesù. Leggo nella vita dei santi, i cristiani autentici:  Signore, basta, non ne posso più con tanta gioia che mi infondi nel cuore.  Sono stato colmato di una pace sovrumana che non so descrivere.  Mancano le parole le esperienze cristiane sorpassano ogni realtà esistente nel mondo.  Occhio non vide e cuore non ha sperimentato quello che Dio dà a coloro che gli sono fedeli.  Se mantenessimo il raccoglimento continuo, Dio parlerebbe a noi di frequente.  Egli parla, ma noi non lo sentiamo perché siamo fuori del profondo di noi stessi dove abita Dio.  Per ottenere la gioia che il Vangelo annunzia occorre una vita austera, paziente e la lotta all’egoismo. Nel Vangelo Gesù ci dà come modello Giovanni Battista, un uomo forte e non una canna sbattuta dal vento, un uomo penitente nel cibo e nel vestito.  Egli così divenne un grande profeta che vedeva le meraviglie di Dio con una fede straordinaria e le rivela anche agli altri. Le meraviglie racchiuse nell’anima che vive il cristianesimo sono straordinarie.  E non solo nell’interno invisibile dell’anima, ma anche in mezzo alla società.  Chi segue Cristo aumenta l’abnegazione di sé, fa crescere la condivisione, la carità fraterna.  Il problema del mondo è quello della distribuzione delle ricchezze. Il cristiano deve donarsi e donare al prossimo. Si avverano così le profezie anche oggi:  Si rallegrino il deserto e la terra arida.  Rallegratevi sempre nel Signore.  Felicità perenne spenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.  Cerca la gioia nel Signore, esaudirà i desideri del tuo cuore.  Ai poveri è annunziato un lieto messaggio.  La gioia del Signore è la nostra forza.

PROTOISAIA: ACCOSTANDOCI AL PROFETA ISAIA PREMETTO ALCUNE OSSERVAZIONI

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AVVENTO

PROTOISAIA: ACCOSTANDOCI AL PROFETA ISAIA PREMETTO ALCUNE OSSERVAZIONI

anzitutto c’è un elemento di fondo dell’AT per cui tutto l’AT nel suo insieme è il massimo dell’espressione profetica. Esso infatti raccoglie fatti e parole di Dio che si riferiscono al passato, ma che al tempo stesso riguardano il futuro. L’AT è posto in mezzo al cammino tra le promesse di Dio realizzate e da realizzarsi per il popolo ebraico lungo certe tappe della sua storia, poi in Gesù e poi alla fine dei tempi. Compito suo è ricordare le promesse e la loro graduale realizzazione, tenendo desta l’attesa del compimento ultimo. In questo quadro si collocano i singoli profeti, ciascuno col proprio messaggio, tutti però con un compito unico, che è dialogare con qualcuno (Israele, Giuda, i sacerdoti, il re, ecc.) per fargli scoprire la sua particolare situazione di quel momento davanti a Dio. Quando parliamo di Isaia però ci riferiamo a un periodo storico molto complesso e doloroso per il popolo di Dio, di cui ricordiamo alcune tappe fondamentali: nell’anno 970 prima di Cristo (circa) era morto Davide a cui era succeduto il figlio Salomone che muore a sua volta nel 931 circa, dopo un regno estremamente prospero e pacifico. Anche a lui succede il figlio Roboamo; ma sotto di lui le tribù del popolo che risiedono nel Nord (Samaria) si separano da quelle del Sud (Giudea e dintorni di Gerusalemme), fanno uno stato in proprio sotto l’impulso di Geroboamo che si fa ungere loro Re (la vicenda è raccontata in 1 Re 12). Da questo momento gli Ebrei sono divisi in due stati sovrani, ciascuno con una vita propria, e partecipano alla vita politica delle nazioni intorno a sé, finché nel 721 il regno del Nord cade in mano agli Assiri e la popolazione è deportata. Qualche decennio dopo, nel 701 durante il regno di Ezechia, anche il Sud sarà invaso, pur continuando a esistere con alterne vicende fino al 598 quando Gerusalemme è presa e la popolazione deportata a Babilonia. Vediamo ora in sintesi il Profeta più da vicino I 66 capitoli che la Tradizione scritturistica ci ha tramandato come « LIBRO DEL PROFETA ISAIA » raccolgono in realtà, come è ormai noto, l’insegnamento di almeno tre diversi maestri: a)Protoisaia cui si ascrivono i capitoli da 1 al 39, eccettuata qualche sezione; b)Deuteroisaia per i capitoli 40-55; c)Tritoisaia per i capitoli 56-66. Non possiamo dilungarci sul come e perché e da chi queste fatti siano stati raccolti e messi assieme. Ci basti per ora sapere che i tre maestri corrispondono a tre periodi contigui della storia del regno di Giuda. Quando ci riferiamo ad uno di essi in particolare, li distinguiamo in ProtoIs, DeuteroIs, TritoIs. Mentre, quando si intende il libro nel suo complesso, diciamo soltanto Isaia. Consideriamo ora il ProtoIsaia, autore dei capp.1-39. Stando alle sue stesse indicazioni, la sua vocazione risale al 740 prima di Cristo, quando Amos e Osea sono scomparsi e Michea ha appena iniziato la sua attività. Vive e predica nel regno del Sud, mentre quello del Nord è agli sgoccioli e vive una prosperità che ha in sé i sussulti dell’agonia. La sua vocazione avviene nel Tempio (6,1-13) ed egli riceve il mandato di annunciare la rovina di Israele e di Giuda. Seguono infatti anni di guerre e di grandi sofferenze, la più grande delle quali è la guerra fra i due regni (la cosiddetta guerra siro-efraimita in cui il regno del Nord, cioè Efraim, è alleato degli Arami, cioè i Siri) scoppiata qualche anno dopo, che vede l’uno contro l’altro il regno d’Israele alleato degli Aramei e il regno di Giuda alleato dell’Assiria. Questo conflitto accelera il processo di decadenza del regno del Nord, e il Sud si trova quindi responsabile della rovina dei suoi stessi fratelli. Tale politica del regno del Sud è guidata dal re Akaz, cui fa seguito Ezechia che, viceversa, cercherà una politica di intesa con l’Egitto (30,1-5) fino al 701, anno in cui il re assiro Sennacherib invade la Palestina e assedia Gerusalemme. Con questi fatti termina il libro del ProtoIs. E quello che sappiamo di lui direttamente; però possiamo aggiungere ancora qualcosa. Raramente si trova un testo raffinato e smagliante come questo. Esso testimonia, da parte di colui che pronunciò questi oracoli (e in parte li scrisse o fece scrivere egli stesso: 8,16-18 e 30,8) vivacità di cultura, conoscenza profonda della cultura dei popoli vicini e grande creatività poetica. Non sempre perciò è facile capire e apprezzare il ProtoIs. Certo doveva essere un uomo di condizione sociale elevata, capace di stare a corte come una persona di rango, in grado di guidare le vicende politiche e di intervenire nei rapporti internazionali della corte. Tutto questo in una visione della vita e del suo ministero che, più che religiosa, diremmo sacrale ( non scordiamo che il Signore lo chiama nel Tempio e lo purifica col carbone dell’altare). Il Protols. Si occupa della politica perché è un uomo di Dio, l’interprete verace della realtà; colui che, essendo scelto, si lascia guidare e può a sua volta indicare la strada sicura al popolo intero senza compromessi. La struttura del ProtoIs. È molto complessa e varia. Gli annunci del Profeta non sono disposti per argomento né per ordine cronologico se non in maniera molto relativa. Capita a volte che nel bel mezzo di un gruppo di oracoli che si riferiscono agli stessi fatti, ce ne sia uno del DeuteroIs.o simili. Di questo non dobbiamo stupirci, perché il ProtoIs. Come tutti i profeti, avrà certo scritto ben poco di suo pugno. Molto hanno scritto gli allievi o persone che lo hanno amato e seguito, preoccupate più di raccogliere il messaggio che di lasciare un documento secondo la nostra mentalità. Vediamo la struttura del libro nella sua ossatura fondamentale. Ci limitiamo a scendere nel particolare solo là dove sia strettamente necessario per la comprensione del Testo. Quanto ai brani di data dubbia, ne rimandiamo ad altro tempo la discussione. Capp. 1-5 oracoli che precedono la guerra siro-efraimita. In questa sezione si alternano minacce e promesse. Da notare in 5,1-7 il canto della vigna, perché il simbolo della vigna (=popolo di Dio) è tipico dell’AT e sarà ripreso da Gesù in Mt.21,33-44 e Gv.15,1-2. Capp.6-12 oracoli del tempo della guerra siro-efraimita, detti anche « Libro dell’Emmanuele », con il solito alternarsi di promesse e minacce, esortazioni e parole di giudizio. La sezione si apre con la vocazione del profeta in 6,1-13 alla fine della quale troviamo proprio l’annuncio della guerra. Fermiamo però la nostra attenzione su 7,10-25 dove viene preannunziata la vittoria di Giuda col segno dell’Emmanuele, la nascita cioè del principe ereditario del trono di Gerusalemme, che la tradizione ha poi interpretato come oracolo messianico. In 8.1-4 il Profeta ci dà qualche notizia di sé. Vediamo (come ad esempio per Osea) che il Profeta dà a tale notizia un peso tutto speciale per la predicazione, come mostrano i nomi simbolici dei figli, qui e in 7,3. In 8,16-20 abbiamo conferma del fatto che il Profeta avesse degli allievi. Notiamo anche che egli ha una coscienza altissima e ben chiara del suo ruolo e della sua scuola. In 10,5-19 e 24-34 si parla dell’invasione dell’anno 701 e quindi andrebbero letti accanto ai capitoli 36-39. In 11,10-16 i versetti meritano un discorso a parte: parlano di un nuovo esodo, di un ritorno dall’esilio. Dunque sono versetti del DeuteroIs. E descrivono il ritorno dall’esilio di Babilonia. Non è facile dire come si trovino qui. Certo è che appartengono ad un altro tempo e non sono del Profeta. Capp.13-23 oracoli su popoli stranieri (anche qui i capp.13 e 14 sono senz’altro posteriori. Capp.24-27 sezione apocalittica, cioè oracoli che vanno oltre i fatti più o meno vicini nel tempo per contemplare il mistero del giudizio di Dio. Con ogni probabilità questi capp. Sono i più tardi di tutto il libro di Isaia; se cioè volessimo mettere tutti i discorsi di questo libro in ordine cronologico (ammesso che si possa fare e che sia una cosa utile) questi andrebbero messi in fondo. Ci soffermiamo a notare queste cose per renderci consapevoli di quanto sia complesso a volte interpolare il testo e quanta prudenza e dedizione si rendano necessari. 25,6-12 il banchetto messianico degli ultimi tempi; 26,1-6 l’esaltazione di Gerusalemme; l’eco di questi brani si sente in tutto il NT, è bene quindi dedicargli un’attenzione speciale. 27,2-5 controcanto di 5,1-7.

Capp.28-36 oracoli diversi su Israele e Giuda. In particolare 29,1-10 grande carme su Ariel (=Gerusalemme); 30,1-5 contro l’ambasciata in Egitto per stipulare un trattato di alleanza anti-assira; 32,15-20 e 35,1-10 carmi del DeuteroIs. Per il ritorno dall’esilio di Babilonia.

Capp.36-39 appendice storica, la cui narrazione si trova in 2 Re 18-20. Notiamo a questo proposito che non è il Profeta a parlare e a raccontare il fatto, ma c’è qualcuno che lo riferisce indirettamente. Il passo è quindi aggiunto agli oracoli del Profeta per ricordare il suo intervento nella storia del regno nel suo momento più delicato. Come si vede, il messaggio del ProtoIs. È non solo ricco, ma anche complesso, ed espresso in forme per noi oscure. Teniamo presente, come già abbiamo accennato, che il Profeta è un poeta, e un poeta autentico; usa immagini talora fuori della nostra portata e un linguaggio non sempre chiaro neppure per i raffinati conoscitori del Testo originale. Per accostarci di più al Testo, seguiamo alcune indicazioni che esso stesso ci offre, o, per meglio dire, seguiamo alcuni temi familiari al Profeta e attorno ai quali egli, per così dire, unifica il suo messaggio; per esempio: a) raccogliamo tutto ciò che il Profeta dice attorno a Gerusalemme (17,12-14; 10,27b-34; e cap:39) e mettiamolo a confronto con Salmo46, Salmo48, Salmo 76, Mi.7,8-13; che tipo di salvezza prospetta al popolo minacciato e che tipo di atteggiamento gli chiede nei confronti di Dio; che senso ha per il Profeta la parola contemplazione in questo quadro? Si può dire che è salvato colui che davvero contempla? Gerusalemme è chiaramente per il ProtoIs. Un segno di salvezza che viene da Dio: conserviamo questa cosa nel nostro cuore; vedremo in seguito come DeuteroIs. E TritoIs. Considerano la Città Santa. b) E’ centrale nel ProtoIs. L’idea della giustizia. Facciamo un lavoro di pazienza: rincorriamo questa parola nel Testo e vediamone il significato. Si tratta solo di una virtù morale? O è invece la vera e unica risposta dell’uomo a Dio? Esercitare la giustizia che cosa coinvolge e perché? Come punto di partenza per questa indagine prendiamo Is:1-2. Già qui è delineato chiaramente che tipo di rapporto il Signore avesse instaurato con gli uomini e come essi abbiano risposto e che cosa Egli ora si aspetti, quando il suo Profeta parla di giustizia. c) Direttamente legato a questi due temi di indagine ne propongo un terzo, che pare più connesso al Tempo d’Avvento; parlo cioè dell’Unto del Signore. Anche qui è necessario inseguire le parole che lo riguardano per tutti i 39 capitoli del ProtoIs.: vedremo quasi subito che il Messia è indissolubilmente legato a Gerusalemme e ha poteri particolari e che ha un rapporto speciale con Dio, perché da Dio ha avuto una speciale missione di cui i poteri suddetto sono il segno. Una figura complessa quindi il Principe della pace, e anch’essa da custodire nel cuore per confrontarla con quella che propongono il DeuteroIs. E il TritoIs. Ricordiamo che questa ricerca , forse faticosa in un primo tempo, serve soprattutto a renderci familiari col Testo Biblico, penetrandolo più che si può; ma serve anche per creare fra noi un nuovo stile di rapporto fraterno con lo scambio, cioè con l’interrogarci e con l’istruirci reciprocamente, costruendo sulla base stessa di Cristo, di cui il Libro ci parla, una vera collaborazione tra anima e anima, che ci faccia reciprocamente crescere nella fede. Ricordiamo infine che non si può avere con la Sacra Scrittura un rapporto che non coinvolga la nostra fede. Non si tratta quindi tanto di crescere nella competenza o nella conoscenza del Testo in senso scientifico, quanto di crescere nell’adesione di fede al patto che Dio ha stabilito col suo popolo. Patto che è sempre iniquo, lo sappiamo, perché il popolo che è il secondo contraente, è sempre infedele, e solo Dio ne è il garante fedele.

COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA: ABACUC 1,2-3; 2,2-4

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Abacuc%201,2-3;%202,2-4

COMMENTO ALLA PRIMA LETTURA

ABACUC 1,2-3; 2,2-4

2 Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: « Violenza! » e non soccorri? 3 Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese.
2,2 Il Signore rispose e mi disse: « Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. 3 È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà ». 4 Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.
Il Signore rispose e mi disse: « Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà ». Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.

COMMENTO

L’efficacia della fede

Il libretto che porta il nome di Abacuc non dice nulla dell’autore, ma per il suo contenuto si situa nell’ambiente storico dell’esilio babilonese. Subito dopo il titolo (Ab 1,1), si riferisce un dialogo tra il profeta e il suo Dio (Ab 1,2 – 2,4) nel quale Abacuc pone a due riprese il problema dell’invasione caldea e delle devastazioni che comporta e riceve una risposta ispirata alla fede. Seguono cinque invettive contro l’oppressore (2,5-20) e un salmo che contiene un accorato atto di fede (3,1-20).  La liturgia riprende la prima domanda (1,2-3) e la seconda risposta (2,2-4).
La prima domanda contiene un rimprovero nei confronti di Dio: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non salvi?» (v. 2). Angosciato davanti al trionfo dell’empietà e dell’ingiustizia, il profeta si rivolge a Dio invocando il suo aiuto. Siccome Dio sembra indifferente di fronte alla triste situazione in cui il popolo si trova, il profeta gli espone le miserie di cui soffre. Egli parla a nome di tutto il popolo e dei giusti oppressi, di cui si fa portavoce. L’espressione «fino a quando», dettata dall’impotenza, indica al tempo stesso la supplica e il rimprovero (cfr. Sal 13,2-3; 62,4; Ger 12,4). Viene messo in questione l’atteggiamento di Dio nei confronti del male: come può Dio tollerare che capitino certe cose?
Il profeta continua la sua domanda rincarando la dose: «Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese» (v. 3). Dio viene provocatoriamente ritenuto colpevole di quello che sta accadendo. Egli permette che il profeta assista impotente all’espandersi del male e dell’oppressione. Abacuc si lamenta di dover vedere intorno a sé soltanto rapina e violenza, liti e contese. Ciò che egli descrive è una situazione di profonda degenerazione sociale, in cui dominano i prepotenti, i quali litigano fra loro e impongono agli altri il loro volere. La domanda che gli sale alla bocca esprime un dubbio amaro circa il governo del mondo da parte di Dio. L’impressione che egli ha è che Dio si sia lasciato sfuggire di mano il controllo di questo mondo.
La riposta riportata dalla liturgia è quella che fa seguito alla seconda domanda, simile alla prima, con la quale il profeta accusa Dio di comportarsi con gli uomini come fa il pescatore che prende all’amo i pesci del mare e fa di essi il suo cibo (cfr. 1,12-17). Ad essa Dio risponde, non prima però di avere sottolineato l’importanza di ciò che sta per dire: ««Scrivi la visione incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà» (2,2-3). L’uso di scrivere una visione su una tavoletta di legno, pietra o bronzo (cfr. Is 8,1; 30,8; Ger 30,2; Ez 37,16) ha lo scopo di far conoscere con precisione e a un gran numero di persone il contenuto del messaggio. Esso serve anche a dare la possibilità un giorno, quando l’oracolo si sarà verificato, di riconoscere che l’evento era stato annunziato in precedenza. La parola di Dio, comunicata in una visione, possiede una potenza intrinseca, di cui il fatto di essere scritta aumenta l’efficacia. In questo caso il messaggio contiene l’indicazione di un termine, cioè di una scadenza. La sciagura non durerà indefinitamente, ma è destinata a terminare. Al credente non resta altro che aspettare con fiducia che la predizione si attui.
Dopo questa lunga premessa, viene riportato il messaggio che invece è molto corto: «Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,4). L’oracolo divino è redatto in forma lapidaria: esso contiene due frasi parallele in forma antitetica, di cui la prima riguarda l’empio e la seconda il giusto. Il primo viene designato in modo negativo come «colui che non ha l’animo retto». Dal contesto risulta che si tratta non degli invasori caldei, ma dei giudei che, pur accettando le prescrizioni divine, non le mettono in pratica, peccando così di orgoglio e di presunzione. A costoro si preannunzia l’insuccesso e la rovina (cfr. Sal 1,4-5; 35,5; Gb 21,18). Per coloro che, nel mezzo di una sciagura che si è abbattuta su tutto il popolo, si aggrappano a false sicurezze, come potrebbero essere i soldi o l’adorazione degli dèi degli invasori, non c’è speranza. Essi saranno spazzati via dalla disgrazia e non avranno un futuro.
Diverso sarà invece il destino dei giusti. Costoro sono quella parte del popolo che si mantiene fedele a jhwh e agli impegni presi con lui nel contesto dell’alleanza. Essi non si lasciano intimidire dalle violenze degli invasori e rifiutano di venire a patti con loro e con i connazionali che li seguono. Si tratta perciò di persone a rischio, che in ogni momento potrebbero attirare su di sé la vendetta degli oppressori e dei loro sostenitori. Di costoro si dice che «vivranno». In un contesto in cui si parla di giustizia, la vita che viene loro garantita non è la semplice sopravvivenza, ma la vita piena in comunione con Dio che comporta anche il benessere materiale (cfr. Dt 30,15-16; Pr 10,27-28\; 11,19). Solo loro vedranno la fine della calamità e potranno ritornare a una vita tranquilla e senza eccessive tribolazioni.
La promessa riservata ai giusti è motivata dalla loro «fede» (’emunah). Questo termine in ebraico è ricavato dalla radice ’man, che significa fermezza, sicurezza e stabilità. Nella forma causativa essa significa appoggiarsi su jhwh, aver fiducia in lui, trovare in lui quella sicurezza che proviene dall’aver dato alla propria vita la giusta direzione (cfr. Gn 15,6; Es 14,31; Nm 14,11;  Is 7,9; 28,16). Il sostantivo indica l’accettazione della parola di Dio (cfr. Ger 7,28) e l’osservanza di quelle prescrizioni di tipo morale che sono alla base dell’alleanza con lui.

Linee interpretative
L’oracolo pronunziato da Abacuc mette in luce l’efficacia della fede nella vita quotidiana delle persone. Colui che crede nella potenza e nella bontà di Dio, lottando per la giustizia, pronto a pagare di persona per i valori in cui crede, non si scoraggia di fronte alle prove che lo colpiscono, ma riesce a stare in piedi. Anche se dovesse soccombere, egli resta vittorioso, perché ha attuato una vita piena di significato e ha fiducia che la sua opera non andrà persa. Chi invece si comporta in modo egoistico, nelle prove giunge facilmente alla disperazione e ne viene travolto. Questo principio vale sia per gli individui che per i raggruppamenti umani. Questi riescono a superare le prove solo se sono animati d ideali di giustizia e di solidarietà.
Paolo utilizza l’oracolo di Abacuc in funzione del concetto di giustificazione mediante la fede (cfr. Gal 3,11; Rm 1,17; 3,21-31). Per lui la giustizia viene a indicare il rapporto con Dio che prelude alla salvezza escatologica. La fede invece è lo strettissimo rapporto che l’individuo instaura con Cristo, facendo proprio il suo insegnamento e il suo esempio. Aderendo in questo modo a Gesù, il credente dà un significato alla sua vita e compie quelle opere che gli permetteranno un giorno di entrare nella pienezza del regno di Dio. 

GEREMIA Eb. YIRMEYAHU (“Yah[weh] fonda, esalta, libera,getta”)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/PROFETgeremia.htm

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GEREMIA Eb. YIRMEYAHU (“Yah[weh] fonda, esalta, libera,getta”)

In questo affresco medievale, conservato in Vaticano, appare il nome HYEREMIAS

Geremia era un ragazzo di soli 12 o 13 anni quando fu chiamato a essere profeta nel 627 a.C. e fu testimone dell’ultima ripresa del regno di Giuda e della sua distruzione. Solo pochi anni dopo la chiamata di Geremia, la riscoperta della Legge (forse il libro del Deuteronomio) all’interno del recinto del tempio in Gerusalemme diede il via alla riforma religiosa di re Giosia. Contemporaneamente, la disgregazione dell’impero assiro consentì a Giosia di ricuperare l’indipendenza di Giuda dopo quasi un secolo di vassallaggio. Purtroppo, sia la riforma sia l’indipendenza ebbero vita breve e questo spiega l’intensa e tormentata esperienza personale di Geremia durante i suoi 40 anni di attività al servizio del Signore, come profeta sotto Giosia e i suoi quattro successori. Il lungo libro biblico che porta il suo nome è essenzialmente una raccolta di oracoli contro Giuda e i suoi nemici esterni dettati dal profeta al suo aiutante, lo scriba Baruc.
Geremia era nato nel 640 a.C. da una famiglia sacerdotale di Anatot, un villaggio situato circa 5 chilometri a nord di Gerusalemme. Suo padre, Chelkia, era un proprietario terriero abbastanza conosciuto e forse discendeva dalla famiglia del sacerdote Ebiatar, che era stato esiliato in Anatot da re Salomone perché, nella sua lotta per il trono con il fratello maggiore Adonia, si era schierato contro di lui.

UN PROFETA RILUTTANTE
Secondo il resoconto della sua chiamata fatto dallo stesso Geremia, Dio lo conosceva ancora «prima di formar[si] nel grembo materno»(Ger 1,5). Al tempo della chiamata, però, Geremia non pensava di essere pronto per un compito del genere e protestò: «Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Così la storia di Geremia ricalca quella di Samuele, «il fanciullo» che «rimase a servire il Signore» (1 Sam 2,11). E la sua riluttanza a obbedire ricorda Mosè, che aveva resistito alle ingiunzioni del Signore, scusandosi: «Io non sono un buon parlatore [...] sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). Dio superò le reticenze di Geremia, dicendo al giovane di non aver paura e rassicurando il nuovo profeta che il Signore era con lui. Poi toccando Geremia sulla bocca, Dio fece capire che sarebbe stato lui a suggerirgli le parole da dire. Il messaggio che il Signore voleva trasmettere tramite il prescelto era un annuncio della sua intenzione di «sradicare e demolire, [...] distruggere e abbattere» (Ger 1,10) il regno di Giuda per la sua infedeltà.
Per rendere più chiaro il messaggio, il Signore mandò a Geremia due visioni. Nella prima, chiese al profeta di descrivere ciò che vedeva e questi rispose: «Vedo un ramo di mandorlo». Dio disse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (Ger 1,11-12). Il termine ebraico tradotto con « mandorlo » è shaqed e Dio lo applicò a sé con un gioco di parole, come shoqed, che significa « sentinella », « vigilante ». Come una sentinella solitaria su un’alta torre, al di sopra degli eventi della vita quotidiana che si svolge in basso, Geremia deve vegliare sulla parola che Dio gli ha affidato finché quelle predizioni non si realizzeranno nelle vicende del mondo. Nella seconda visione, Geremia vede poi una caldaia sul fuoco, inclinata da nord verso sud, pronta a riversare il suo bollente contenuto. Dio ne spiegò il significato come il trionfo di un nemico «dal settentrione» (Ger 1,14), di Babilonia cioè, che egli avrebbe utilizzato per distruggere Giuda. Nella chiamata di Geremia, però, Dio offre anche una nota di speranza, dicendo che vuole «edificare e piantare» (Ger 1,10), un riferimento alla restaurazione della nazione dopo la sua distruzione nel 586 a.C.
I primi 18 anni del ministero di Geremia furono forse i più felici per lui, perché il pio Giosia «cominciò a ricercare il Dio di Davide, suo padre» (2 Cr 34,3). Ma quando il faraone egiziano Necao guidò il suo esercito verso nord attraverso Israele per aiutare l’Assiria contro il crescente potere di Babilonia, Giosia imprudentemente cercò di fermarlo e fu colpito mortalmente nella battaglia di Meghiddo, nel 609 a.C. Il vittorioso Necao nominò allora re di Giuda il figlio maggiore di Giosia, Ioiakim, invece del figlio più giovane, Ioacaz, che era stato scelto dal popolo.
Per far capire la sua disapprovazione per l’apostasia del nuovo re, il Signore comandò a Geremia di pronunciare nel tempio le seguenti parole: «Se non mi ascolterete, se non camminerete secondo la legge che ho posto davanti a voi e se non ascolterete le parole dei profeti miei servi che ho inviato a voi con costante premura [...] farò di questa città un esempio di maledizione per tutti i popoli della tera» (Ger 26,4-6). Re Ioiakim, inizialmente un burattino nelle mani dell’Egitto, fu in seguito costretto a pagare il tributo alla trionfante potenza babilonese per riuscire a salvaguardare una fragile indipendenza nei territori del suo regno (609-598 a.C.). Quando Geremia e altri profeti annunciarono che Babilonia era in realtà un agente del giudizio di Dio e che avrebbe più tardi invaso Giuda, Ioiakim rispose uccidendo il profeta Uria, mentre altri tentavano di uccidere Geremia. Ma i suoi difensori, appellandosi all’ispirazione divina di Geremia, ottennero la sospensione dell’esecuzione.
A Geremia fu proibito di parlare nel tempio e allora dettò i suoi oracoli a Baruc e lo inviò a leggere il rotolo nel recinto sacro. Quando alcuni funzionari di corte udirono quelle parole, avvertirono Baruc di nascondersi con il suo maestro, ma prima gli chiesero di consegnare loro il rotolo per portarlo al re. Ioiakim volle farselo leggere e man mano che ne ascoltava i brani, tagliava quelle parti del rotolo con un temperino da scriba e le gettava in un braciere finché bruciò tutto il rotolo. Obbedendo a Dio, Geremia dettò un secondo rotolo, non solo salvando il messaggio originale, ma aggiungendo anche altre dure parole di condanna nei confronti del re: «Il suo cadavere sarà esposto al calore del giorno e al freddo della notte. Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per le loro iniquità» (Ger 36,30-31).
Nel 598 a.C., Ioiakim morì e fu sostituito dal figlio diciottenne, Ioiachin. Ma tre mesi dopo, Nabucodonosor di Babilonia conquistò Gerusalemme, saccheggiò il tempio e il suo tesoro e deportò gran parte della famiglia reale e gli altri capi del popolo. Le cronache babilonesi citano Ioiachin tra i prigionieri. Nel 597 Nabucodonosor mise sul trono di Giuda il terzo figlio di Giosia, Sedecia; egli sarebbe stato l’ultimo re del regno del Sud.
In quei giorni Dio mandò a Geremia una visione di due cesti di fichi, uno buono e l’altro cattivo. I fichi buoni rappresentavano il popolo di Giuda che era andato in esilio con Ioiachin, perché sarebbero ritornati nel paese. I fichi cattivi rappresentavano Sedecia e gli altri capi che erano rimasti in Giuda. Così Geremia rivelava che parte della popolazione in cattività si sarebbe salvata e avrebbe continuato a osservare la Legge di Dio. Questi fedeli superstiti avrebbero infine ripopolato il paese e ricostruito la nazione.
Geremia confermò la promessa di restaurazione di Dio con un gesto provocatorio. Mentre Nabucodonosor cingeva d’assedio Gerusalemme, il Signore disse a Geremia di comprare alcune proprietà che suo cugino possedeva in Anatot. Quanto doveva apparire stolto comprare della terra che presto sarebbe appartenuta ai Babilonesi, tanto più che era lo stesso Geremia ad avere predetto la caduta di Giuda!
Nondimeno, il profeta svolse tutte le pratiche necessarie all’acquisto di una proprietà, comprese le due copie del contratto che dovevano essere conservate in un’anfora di terracotta, affinché nessuno potesse impugnare il suo diritto di proprietà. Geremia, alquanto sconcertato, si rivolse a Dio, e Dio replicò che il profeta aveva appena testimoniato a tutti che un giorno si sarebbe ancora comprato e venduto in Giuda. Con quel gesto, il profeta faceva una promessa alle generazioni future che pochi dei suoi contemporanei potevano capire.
Molti gesti di Geremia lo fecero apparire anticonformista. Mentre tutti gli altri si recavano alla casa del lutto per manifestare la loro disperazione per gli attacchi di Babilonia contro Giuda, il Signore chiese a Geremia di non fare lamento, ma di dedicarsi alle solite occupazioni, come se nulla fosse. Mentre il popolo si mostrava spensierato di fronte al pericolo incombente, Dio disse a Geremia di tagliarsi i capelli in segno di umiliazione e di lutto. E come simbolo del futuro senza speranza di Giuda, il Signore ingiunse a Geremia di non sposarsi e di non avere figli. Un’altra volta, il profeta comprò una cintura nuova di lino, poi andò sulle rive dell’Eufrate e la nascose in una fessura della roccia, seguendo fedelmente le istruzioni divine. Quando Geremia, qualche tempo dopo, recuperò la cintura, fece vedere a tutti che «la cintura era marcita, non era più buona a nulla» (Ger 13,7). Indipendentemente dal fatto se il profeta avesse davvero percorso oltre un migliaio di chilometri per giungere fino all’Eufrate e altrettanti per tornare, o aveva solo romanzato un viaggio su scala più ridotta, Geremia mostrò in pratica le conseguenze dell’esilio babilonese. In un’altra occasione egli comprò una brocca nuova, quindi invitò alcuni sacerdoti e capi del popolo a seguirlo fuori città, nella valle di Ben-Innom, e lì la fece in frantumi per far vedere la gravita dell’imminente punizione di Giuda da parte del Signore.

MONITI SENZA TEMPO
Molte parole di Geremia sono riportate senza riferimenti a date o circostanze specifiche, e questo conferisce loro un valore atemporale, non legato al periodo o al luogo in cui furono pronunciate. Il profeta sollevò serie obiezioni contro una condotta religiosa priva di introspezione, di pentimento e di cambiamento. L’osservanza rituale, diceva, è autentica solo se il devoto vi infonde una convinzione interiore. Secondo lui, il tempio non era più una casa di preghiera, ma una «spelonca di ladri» (Ger 7,11), un’espressione che Gesù riprenderà quando scaccerà dal tempio i cambiavalute. Mise in discussione l’efficacia dei sacrifici che non erano accompagnati dalla buona volontà di ascoltare e seguire la parola di Dio. Invece che sottomettersi alla circoncisione per ottemperare a un rito imposto, Geremia diceva agli uomini che sarebbe stato meglio circoncidere «il [...] cuore [...] a causa delle [...] azioni perverse» (Ger 4,4). Invece di accarezzare false promesse di pace mentre il mondo era in fiamme, sarebbe stato meglio ascoltare l’aspra parola dei profeti fedeli. Invece di limitarsi a possedere un libro di insegnamenti rivelati, sarebbe stato meglio capire e obbedire a Dio.
Pubblicamente Sedecia si opponeva a Geremia, ma in segreto mandò messaggeri al profeta perché chiedesse a Dio quali erano le intenzioni di Nabucodonosor e pregasse per la liberazione della nazione. Poi Sedecia incontrò personalmente Geremia in privato, per chiedere il suo aiuto, ma gli fece giurare che avrebbe detto a chiunque lo avesse interrogato in merito che la visita era stata richiesta dal profeta stesso. E quando Sedecia fece un viaggio a Babilonia, nel suo quarto anno di regno, forse per professare lealtà a Naducodonosor, Geremia mandò un libro di profezie per mezzo del capo degli alloggiamenti di Sedecia: si chiamava Seraia ed era fratello di Baruc. Geremia diede istruzioni a Seraia di leggere quegli oracoli contro Babilonia e poi di legare il rotolo a una pietra e gettarlo nell’Eufrate. Seraia avrebbe dovuto gridare: «Così affonderà Babilonia e non risorgerà più dalla sventura che io le farò piombare addosso» (Ger 51,64).
Geremia spesso si oppose anche ai profeti favoriti del re, uomini che enunciavano premonizioni diverse dalle sue e che egli descriveva come usurpatori che conducevano una vita corrotta e profetizzavano per denaro. Così accadde, per esempio, che il Signore avesse detto a Geremia di indossare un giogo di legno mentre diceva al popolo di Giuda di sottomettersi al giogo di Babilonia. Anania, uno dei profeti del re, affrontò Geremia nel tempio, annunciando che Dio avrebbe rimosso «il giogo del re di Babilonia» e che entro due anni le suppellettili del tempio portate via da Nabucodonosor sarebbero tornate in Gerusalemme. Geremia disse semplicemente: «Così sia! Così
faccia il Signore!» (Ger 28,2;6). Ma quando espresse i suoi dubbi, Anania gli strappò il giogo dalle spalle e lo spezzò per dimostrare il suo disprezzo per i timori dell’avversario e la certezza della sua previsione. Qualche tempo dopo, Dio diede a Geremia un nuovo messaggio per Anania: «Tu hai otto un giogo di legno, ma io, al suo posto, ne farò uno di ferro. [...] Io porrò un giogo di ferro sul collo di tutte queste nazioni perché siano soggette a Nabucodonosor» (Ger 28,13-14).
Nonostante gli ammonimenti di Geremia, Sedecia sfidò i Babilonesi, rifiutando di pagare il tributo. Nabucodonosor rispose conquistando per la seconda volta Gerusalemme nel 586 a.C. Dopo aver ucciso i figli di Sedecia sotto i suoi occhi, i vincitori accecarono il re e lo deportarono in catene, assieme alla maggior parte degli artigiani e delle persone benestanti della città, nella lontana Mesopotamia.
In un momento in cui l’assedio di Gerusalemme venne interrotto per l’intervento degli Egiziani contro i Babilonesi, Geremia fu preso mentre cercava di raggiungere Anatot per questioni personali e messo in prigione. Più tardi il re gli permise di stare nell’atrio della prigione. Sempre durante gli ultimi giorni del regno di Giuda, il profeta fu gettato in una cisterna abbandonata perché aveva consigliato di arrendersi, ma fu salvato da una morte quasi certa da un etiope di nome Ebed-Melech.
Dopo la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia della maggior parte dei suoi abitanti, Geremia andò verso nord, a Mizpa, una città distante alcuni chilometri dalla capitale, dove Nabucodonosor aveva insediato Godolia come governatore fantoccio, perché si occupasse di quel che restava di Giuda. Ma quando Godolia venne assassinato, alcuni tra i Giudei rimasti proposero di fuggire in Egitto per evitare la rappresaglia di Babilonia. Parlando in nome di Dio, Geremia consigliò loro di rimanere: «Se continuate ad abitare in questa regione, vi renderò stabili e non vi [...] sradicherò, perché ho pietà del male che vi ho arrecato» (Ger 42,10). I ribelli non solo disobbedirono a Geremia, partendo per l’Egitto, ma portarono con sé anche Geremia e Baruc. In Egitto, Geremia dovette combattere il culto che i rifugiati rendevano alla dea Astarte e mise fine ai suoi oracoli predicendo che quel resto di Giuda sarebbe morto nella terra del volontario esilio. Di fatto, sia essi sia Geremia scomparvero presto dalle pagine della storia.
Poiché Geremia «compose un lamento su Giosia» che «tutti i cantori e le cantanti [...] ripetono ancora nei lamenti su Giosia» (2 Cr 35,25), il libro delle Lamentazioni è stato tradizionalmente attribuito a Geremia. Tuttavia i salmi delle Lamentazioni piangono la distruzione di Gerusalemme e non la morte del re, e per concetti e stile sono talmente diversi dagli oracoli di Geremia da far pensare a un altro autore o ad altri autori. La cosiddetta Lettera apocrifa di Geremia è un’invettiva contro l’idolatria basata sull’oracolo di Geremia che «gli dei che non hanno fatto il cielo e la terra scompariranno dalla terra e sotto il cielo» (Ger 10,11): forse fu scritta 300 anni dopo la morte del profeta.

BENEDETTO XVI: L’INTERCESSIONE DI MOSÈ PER IL POPOLO (ES 32,7-14)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110601_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

PIAZZA SAN PIETRO

MERCOLEDÌ, 1° GIUGNO 2011

L’UOMO IN PREGHIERA (5)

L’INTERCESSIONE DI MOSÈ PER IL POPOLO (ES 32,7-14)

Cari fratelli e sorelle,

leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).
Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.
Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza.
La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12). L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.
Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé. In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso – «cancellami» -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull’alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio. E non solo si offre – «cancellami» -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.
Penso che dobbiamo meditare questa realtà. Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l’anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall’alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.
Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […] né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).

IL PROFETA ELIA NELLA TRADIZIONE BIZANTINA – GIOISCI ANGELO TERRESTRE E UOMO CELESTE – DI MANUEL NIN (O.R.)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2010/164q01b1.html

IL PROFETA ELIA NELLA TRADIZIONE BIZANTINA

GIOISCI ANGELO TERRESTRE E UOMO CELESTE

DI MANUEL NIN

Il 20 luglio le liturgie cristiane di oriente e occidente celebrano la festa del profeta Elia. Quella bizantina – che ha una ufficiatura completa e un canone proprio attribuito a Giuseppe l’Innografo (IX secolo) – lo presenta come il grande intercessore per il popolo, uomo pieno di zelo per il Signore. Molti tropari mettono insieme Elia e il suo discepolo Eliseo:  « Due astri luminosi sono sorti sulla terra, Elia ed Eliseo. L’uno, con la sua parola, ha trattenuto le gocce di pioggia dal cielo, ha rimproverato i re e, su un carro di fuoco, è asceso ai cieli. L’altro ha sanato le acque che rendevano sterili, e avendo ricevuto duplice grazia, ha imbrigliato i flutti del Giordano. Gioisci, angelo terrestre e uomo celeste, Elia glorioso. Gioisci, tu che da Dio hai ricevuto duplice la grazia, Eliseo venerabilissimo ».
Inoltre, la celebrazione dei due profeti è immagine della concordia tra Antico e Nuovo Testamento manifestatasi nel Giordano, luogo di salvezza e purificazione nella prima alleanza e luogo di salvezza e battesimo nella seconda:  « O tu che sei salito sul carro che correva il cielo, stella d’oriente senza tramonto, distendi, insieme al mirabile Eliseo, i flutti del nuovo Giordano e rendi chiaro l’annuncio della pietà, poiché visibilmente voi rinnovate con questa duplice immagine la gloria concorde dell’antica e della nuova alleanza, raddoppiando la benedizione per quanti ne celebrano con fede la solennissima memoria ». I testi liturgici mettono poi in rilievo il contrasto tra la visione di Dio che Elia ha nella brezza leggera e il carro di fuoco con cui è assunto in cielo:  « Non nel terremoto, ma in un’aura leggera hai contemplato, o Elia in Dio beato, la divina presenza che un giorno ti ha illuminato; trasportato poi da un carro a quattro cavalli, hai straordinariamente attraversato il cielo, guardato con stupore, o divino ispirato ».
In diversi tropari Elia, salendo in cielo, diventa precursore del ritorno finale del Signore:  « Colui che prima di essere concepito è stato santificato, l’angelo in carne, l’intelletto igneo, l’uomo celeste, il divino precursore del secondo avvento di Cristo, il glorioso Elia, fondamento dei profeti, ha misticamente convocato gli amici della festa per celebrare solennemente la sua divina memoria. L’angelo in carne, il fondamento dei profeti, il secondo precursore dell’avvento del Cristo, il glorioso Elia, inviata dall’alto la grazia a Eliseo, scaccia le malattie e purifica i lebbrosi:  anche per quanti l’onorano fa dunque scaturire guarigioni ». Le tre lunghe letture del vespro percorrono quasi tutto il ciclo di Elia (1 Re, 17-19):  la sua solitudine, la benedizione della vedova, lo scontro con Acab e i falsi profeti, la siccità con la successiva pioggia e la benedizione divina, il discepolato di Eliseo, fino all’ascensione in cielo.
L’ufficiatura del mattutino e la Divina liturgia prevedono la stessa pericope evangelica (Luca, 4, 22-30):  Gesù rifiutato dai suoi come profeta, che evoca la figura di Elia anche lui rifiutato. Nel canone del mattutino, uno dei tropari sottolinea il ruolo di due donne nella vita di Elia:  Gezabele e la vedova; l’una lo perseguita fino a farlo diventare esule, l’altra ne attira la misericordia:  « Dio piega il tuo zelo infuocato e ti invia da una vedova per esserne nutrito, tu che eri divenuto fuggiasco, o Elia, per la minaccia di una donna, o uomo mirabile:  ti prego dunque di nutrire con divini carismi la mia anima affamata ».
Alcuni testi mettono l’accento sullo zelo che Elia mostra nel combattere l’empietà nella casa di Israele:  « Hai trattenuto nubi cariche di pioggia, acceso di zelo per la fede. Mostrandoti sacerdote, hai immolato con le tue mani innocenti, o felicissimo, i sacerdoti degli abomini che operavano ciò che è indegno ». Altri tropari con immagini evangeliche mettono in contrasto lo zelo di Elia con la misericordia di Dio che attende sempre la conversione degli uomini:  « Vedendo il profeta Elia la grande iniquità degli uomini e il grande amore di Dio per loro, sconvolto e pieno di sdegno rivolse parole spietate al pietoso, gridando:  Scatena dunque la tua ira contro i ribelli, o giustissimo giudice. Ma non riuscì per nulla a scuotere le viscere pietose del Buono, così da indurlo a castigare quanti si erano rivoltati contro di lui:  sempre infatti attende la conversione di tutti il solo amico degli uomini ».
Altri testi sottolineano come la visione di Dio in Elia, e in tutti i cristiani, vada legata anche a una purificazione, a una vita nell’ascesi:  « Sei stato degno di vedere Dio in una leggerissima brezza, per quanto è possibile vederlo, tu che prima avevi reso leggero il tuo corpo, o glorioso, con le opere dell’ascesi. Ti prego dunque:  per le tue preghiere rischiara con i divini fulgori della penitenza il mio intelletto, alleggerendone la pesantezza ».
L’iconografia bizantina rappresenta Elia – molto stimato nel monachesimo orientale e occidentale e accostato alle figure di sant’Antonio il Grande e di san Benedetto – nella solitudine di una grotta, alimentato col pane da un corvo, immagine ripresa e applicata da san Gregorio Magno ai primi anni di solitudine di san Benedetto a Subiaco, mentre un’altra tradizione iconografica riassume in un’unica immagine la sua vita fino all’ascensione sul carro di fuoco.

(L’Osservatore Romano 19-20 luglio 2010)

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