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Commenti alle letture di Domenica – 30 settembre 2012: Nm 11, 25-29 – Ognuno deve essere profeta

http://home.clear.net.nz/pages/bfletch/b152.html

(Traduzione Google dall’inglese)

Commenti alle letture di Domenica – 30 SET 2012

PRIMA LETTURA : Nm: 11, 25-29

Ognuno deve essere un profeta

     Il passaggio nel Vangelo di oggi da Marco si trova in un contesto ampio in cui il gruppo vicino a Gesù oppone alcuni di coloro che – anche se sono estranei – anche lo seguivano. Gesù dà ai suoi seguaci una linea guida per il discernimento in futuro;
      »Chi non è contro di noi, è per noi. » Questo criterio generale di accettazione al discepolato, sfide di Gesù ‘più stretti complici (e noi stessi) di qualsiasi tendenza a sentire, che essi (o noi) da solo, proprio il messaggio di Gesù!

la prima lettura:

La storia di Eldad e Medad nel Libro dei Numeri suggerisce che il potere-di-vita può essere esercitato a parte i canali facilmente riconosciuto e legittimato pubblicamente di autorità religiosa.
Numeri 11: 25-29

     Gli Ebrei si lamentano della mancanza di gusto della vita sotto la guida di Mosè ‘(Nm.11 :4-6) e Mosè ammette la sua incapacità di sopportare gli oneri della leadership da solo (Nm.11 :10-16). Il Santo nomina pubblicamente settanta anziani per aiutare Mosè. Ma giusto ordine è sconvolto quando Eldad e Medad profetizzano, nonostante il fatto che non era stato presente alla cerimonia pubblica (vv.26-29)! Essa profetizza all’interno del campo ebraico. Fanno qualcosa di buono – ma al momento sbagliato, nel posto sbagliato, e senza aver fatto attraverso i canali appropriati!
     Quando Mosè sente su di loro e la loro attività, capisce che lo spirito profetico, che era sceso sui settanta anziani (v. 25) era sceso a Eldad e Medad troppo! La scelta di YHWH non è un privilegio personale, da custodire gelosamente. Guida profetica di Mosè ‘aveva rappresentato una rottura radicale con l’impero oppressivo del Faraone. Lo smantellamento del potere dell’impero iniziata con voicing dolore ebraico e il rifiuto egiziano « dei », che non avrebbe ascoltato e non poteva rispondere! Il risultato è stato la libertà rischiosa del libero Dio! Senza leader profetici come Mosè, la gente si accontenterebbe di gustosi pasti e la sicurezza del lavoro schiavo regolare!
     Le complainers minacciano questa comunità alternativa libera. Tali minacce sono rimossi da una garanzia fresco che il potere della vita può essere esercitato in modi nuovi e inaspettati! Per Eldad e Medad questi modi sono a prescindere dai canali facilmente riconoscibili e pubblicamente legittimato di autorità!

Omelia sulla prima lettura: Piove pane!

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15754.html

Omelia don Marco Pratesi – prima lettura

Piove pane!

Gli Israeliti « mormorano » (vv. 2 e 12). L’espressione ha connotazione negativa, si tratta di un brontolare privo di fede. In effetti è già decisivo il fatto che essi non si rivolgano al Signore o a Mosè perché interceda, ma si limitino a protestare con i capi. Inoltre il progetto dell’esodo viene nel complesso interpretato, in modo opposto al vero, come un progetto di morte: « ci avete fatto uscire in questo deserto per farci morire di fame » (v. 3). Essi stanno perdendo di vista l’obiettivo del cammino – la terra ideale adesso non sta più davanti ma dietro – perché adesso tutto ciò che interessa è la sazietà, indipendentemente da ogni altra considerazione. Ogni sazietà, anche la sazietà dell’Egitto, la sazietà dello schiavo, andrebbe benissimo.
Di fronte a una simile incredulità quale reazione ci aspetteremmo da parte di Dio? Esaudisce le richieste del popolo. Nella protesta riconosce l’elemento di verità: evidentemente si deve pur mangiare! Da questo punto di vista la richiesta è buona, Dio lo sa. « Dacci oggi il nostro pane », Gesù insegnerà a pregare. Appunto questo avrebbero dovuto fare gli Israeliti invece di mormorare: chiedere con fiducia a Dio.
Nella loro difficoltà a fidarsi il Signore li educa, li invita con pazienza a un « esodo nell’esodo ». Egli sa che l’uomo è alle prese con due grandi insidie. La prima: l’idolo della sazietà fine a se stessa, grande tentazione di fermarsi, di cessare ogni cammino per non cercare nient’altro non appena la pancia sia piena e il bisogno appagato. Seguo chi mi dà il pane e basta, il resto non mi interessa. La seconda: l’accumulo. Non mi basta saziarmi, ho bisogno di sentire che questa sazietà mi è garantita, che ne ho il controllo. Per stare tranquillo devo potermi dire: « ho tanto pane per tanto tempo » (cf. Lc 12,19). Tale esigenza corrisponde all’ »ansia della vita » (Lc 21,34 etc.), della quale si è inevitabilmente preda quando non ci si fida di Dio, e conseguentemente ci si deve garantire la vita con i propri mezzi, sempre insufficienti.
Dio viene incontro alla richiesta degli Israeliti. Anche lui è del parere che non si può riconoscere Dio come vita mentre si soffre la fame: « mangerete carne e vi sazierete di pane, e saprete che io sono il Signore » (v. 12). Ma proprio qui sta il punto: questa sazietà non deve essere chiusa, ma aperta al riconoscimento del Signore come tale, cioè come colui che solo ha in mano la mia vita. Che il nostro « mangiare » (di ogni tipo) non ci renda insensibili e ottusi, ma sia incontro con il Signore! Inoltre, e qui il precetto divino è formale, si deve « raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno » (v. 4). Il pane che « piove dal cielo » (cf. v. 4) non può essere confezionato, manipolato, accaparrato, commercializzato. Il dono non può diventare proprietà, la gratuità possesso. Quando lo si tenta, le cose ci marciscono tra le mani (cf. 16,20). Il deserto è il luogo giusto per imparare a dipendere con gioia e semplicità dall’amore gratuito e affidabile del Signore (cf. Fil 4,6).
Sì, davvero sconosciuto è il cibo che il Signore ci dà (cf. v. 15), e buon segno il sentirne meraviglia. Non è davvero merce ordinaria, sa di cielo, un pane che nutre tutto l’uomo, aprendolo alla conoscenza di Dio come gratuità e liberandolo dalla diffidenza e dall’ansia.

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano – EDB nel libro Stabile come il cielo.

« Come ali di acquila vi ho sollevato » – Leggere il libro dell’Esodo

http://www.nabot.org/esodo.html

« COME SU ALI DI AQUILA VI HO SOLLEVATO »

Leggere il libro dell’Esodo

di fratel Luca Fallica, monaco

1. Premessa: il significato di questa introduzione

Se volessimo fare un’introduzione vera e propria al libro dell’Esodo, dovremmo affrontare una serie di questioni: come è nato questo libro? chi l’ha scritto? come si è formato? Fino al secolo scorso si riteneva che questo libro, come del resto i primi cinque libri della Bibbia, fosse stato scritto da Mosè. Ora, dagli studi e dalla ricerca più approfondita che sono stati condotti su questi testi biblici sappiamo bene che dietro il libro dell’Esodo, come succede nella maggior parte dei libri della Bibbia, più che degli autori concreti ci sono delle tradizioni che sono confluite insieme a formare i testi così come noi oggi li leggiamo.
Un’altra questione da affrontare potrebbe essere questa: il libro dell’Esodo racconta una storia, ma come dobbiamo intenderla? E’ una storia autentica? Fino a che punto? In questa storia si narrano tanti fatti straordinari, meravigliosi: le acque che si separano, le piaghe… Come intendere l’autenticità di questi racconti? Sono attendibili dal punto di vista storico?
E un terzo problema da risolvere sarebbe questo: qual è il tema centrale del libro dell’Esodo? la liberazione di un popolo? il dono di una legge? l’alleanza stipulata sul Sinai fra Dio e il popolo?
In una introduzione al libro dell’Esodo queste ed altre questioni dovrebbero essere affrontate. Personalmente preferisco seguire un’altra strada che penso possa essere più utile per il lavoro che dovrete fare leggendo questo testo. Più che un’introduzione al libro dell’Esodo, vi propongo un’introduzione alla lettura del libro dell’Esodo. Vorrei aiutare la vostra lettura personale, dandovi alcune indicazioni pratiche. Come possiamo leggere questo libro oggi? Quali chiavi di lettura ci permettono di aprire, di dischiudere questo testo che è stato scritto in un tempo, in una cultura e in un ambiente geografico molto lontani da noi? Attraverso quale percorso possiamo introdurci all’interno del libro dell’Esodo? Come possiamo rendere attuale questo scritto in modo che sia una parola che nutre oggi la nostra vita?

2. L’Esodo: professare la fede raccontando una storia
Rispondere a queste domande significa prima di tutto considerare in che modo questo libro è stato letto e interpretato lungo il corso dei secoli. L’Esodo, infatti, è stato letto e riletto continuamente nella tradizione del popolo ebraico e poi anche nella tradizione cristiana. I segni di questa rilettura si trovano nella Bibbia stessa. Pensate ai profeti. Continuamente fanno riferimento al libro dell’Esodo. Il profeta Osea, per esempio, racconta il rapporto tra Dio e il suo popolo usando l’immagine di una relazione d’amore che ha avuto il suo centro focale proprio nel cammino del deserto descritto nel libro dell’Esodo e in altri libri della Bibbia. Pensate anche a Isaia che, al tempo in cui il popolo di Israele è in esilio a Babilonia, annuncia il ritorno a Gerusalemme, e quindi la fine dell’esilio, ricorrendo proprio all’immagine dell’esodo: il popolo vivrà un nuovo esodo! Ma pensiamo anche ai racconti del Nuovo Testamento che forse conosciamo meglio. Anche il Nuovo Testamento rilegge continuamente l’esperienza dell’esodo. Prendiamo ad esempio i racconti dell’infanzia nel vangelo di Matteo. Per sfuggire all’oppressione di Erode (non è il Faraone, ma gli assomiglia!) Gesù fugge in Egitto e vi resta fino alla morte del re, poi anche lui come il popolo viene chiamato dall’Egitto e torna nella Terra promessa, nella Terra dei padri. Pensate ancora al vangelo di Giovanni che descrive tutta la storia di Gesù come un grande esodo. Ad un certo punto, nel vangelo di Giovanni Gesù dice: « Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo, ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre » (Gv 16,28). Questo testo evidenzia un duplice movimento: c’è un entrare e un uscire. Come il popolo è uscito dall’Egitto per entrare nella Terra, così anche Gesù. Tutto nella sua vita è stato un entrare e un uscire: uscire dal seno del Padre per entrare nel mondo e uscire dal mondo per rientrare nel seno del Padre. Ma questa forse è la nostra stessa vicenda. Anche noi viviamo questo esodo: veniamo nel mondo in attesa di entrare nella Terra che ci è stata promessa.
Nella continua rilettura a cui il libro dell’Esodo è stato sottoposto l’aspetto più importante è forse espresso in alcune parole proprie della tradizione ebraica. La lettura giudaica dice: « Ogni generazione deve considerare se stessa come uscita dall’Egitto ». In un altro testo, che è particolarmente importante perché gli ebrei ancora oggi lo ripetono ogni volta che celebrano la pasqua, la stessa idea è espressa in modo ancora più preciso: « In ogni generazione ognuno deve considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, come è detto: in quel giorno tu dichiarerai ai tuoi figli: questo si fa per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto, perché il Santo, benedetto Egli sia, non redense solo i nostri padri, ma liberò anche noi con loro, come è detto: ci fece uscire di là per farci entrare e darci il Paese che aveva giurato ai nostri padri » [dall'Haggadah di Pasqua; traduzioni italiane di questo testo ebraico sono state proposte da R. BONFIL, Milano 1962; A. S. TOAFF, Roma 1976; R. DI SEGNI, Assisi-Roma 1979]. Quindi, secondo questo testo, non solo ogni generazione, ma ognuno di noi deve considerare se stesso come uscito dall’Egitto. Perciò, quando leggiamo il libro dell’Esodo, dobbiamo leggerlo non come una storia del passato che riguarda alcuni uomini di tanti secoli fa, ma come una storia che riguarda e continua a riguardare ciascuno di noi. Ognuno di noi è dentro questa storia.
Nel testo che vi ho letto si dice anche un’altra cosa importante: « Il Signore ci fece uscire di là per farci entrare e darci il Paese che aveva giurato ai nostri padri ». Il Signore ci ha fatto uscire! In fondo, il libro dell’Esodo che cosa racconta? Racconta la storia di un popolo. Meglio ancora, racconta la storia di un gruppo di schiavi oppressi in Egitto che, ad un certo punto, riescono a fuggire e dopo un lungo cammino entrano in una Terra che apparterrà loro, la Terra della libertà, la Terra promessa. Ma poi, rileggendo questa storia, riconoscono: non siamo stati noi a uscire dall’Egitto. E’ il Signore che ci ha fatto uscire! Nella storia che hanno vissuto, che è una storia di liberazione comune a tanti altri popoli, riconoscono un intervento del Signore. Quindi, la rilettura di questa storia diventa per loro una professione di fede: il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto.
Nella Bibbia il libro dell’Esodo è quello che più di altri libri può essere considerato all’origine della fede di Israele proprio perché racconta quell’esperienza che ha permesso al popolo di riconoscere il Signore, il suo Dio, colui che lo ha liberato, che lo ha fatto uscire, che gli ha donato una Terra. Quindi, nel libro dell’Esodo abbiamo sì una storia, ma è una storia che è riletta nella fede. Raccontando questa storia, il popolo confessa: il Signore ha agito in mezzo a noi! Ma questo significa che l’Esodo, raccontandoci questa storia riletta nella fede, ci racconta anche la fede di questo popolo e in questo modo ci aiuta a capire quale deve essere la nostra stessa fede. Ci insegna a riconoscere nella nostra vita la presenza del Signore e a dire con fede: ecco, il Signore agisce nella mia vita e io lo riconosco presente come colui che interviene nella mia storia.
Abbiamo detto che il libro dell’Esodo racconta degli avvenimenti, ma li racconta come sono stati interpretati dalla fede di un popolo. E allora capite che questo è già un criterio per leggere il testo. Questa è la prima chiave di lettura: possiamo leggere questi racconti preoccupandoci non solamente di comprendere ciò che è avvenuto, ma anche di capire in che rapporto sta ciò che è avvenuto con la fede di quel popolo. E soprattutto siamo invitati a chiederci: quello che è avvenuto in che rapporto sta con la mia fede?
Nell’Esodo la professione di fede appare legata ad una storia. Possiamo dire che per l’Esodo, ma più ancora per tutta la Bibbia, professare la fede significa raccontare una storia. La fede di Israele, come del resto la fede cristiana, non è una fede astratta, teorica. Non consiste semplicemente nel credere ad alcune verità, nel credere vero che Dio ha creato il cielo e la terra, nel credere vero che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo… Tutto questo c’è, ma la fede dell’Esodo, la fede della Bibbia consiste soprattutto nel fare memoria di una storia, nel riconoscere che in questa storia Dio è intervenuto e continuamente interviene, si manifesta, si fa conoscere, rivela se stesso, il suo volto. Ecco, la caratteristica che distingue la fede di Israele dalla fede dei popoli circostanti: per Israele credere non è semplicemente affermare l’esistenza di un solo Dio: gli altri popoli hanno molti dèi, noi invece crediamo in un unico Dio. No! non è solo questo: la peculiarità, ciò che è tipico e proprio in modo esclusivo della fede di Israele è il fatto che è una fede che affonda le radici nella storia. Chi è Dio per il popolo di Israele? E’ colui che lo ha liberato dall’Egitto. Dio è colui che ha fatto uscire i padri dalla Terra della schiavitù. Questa è la fede di Israele. Prima ancora che essere colui che ha creato il cielo e la terra, Dio per Israele è colui che è stato protagonista di questa storia di liberazione. E guardate che questo vale anche per noi cristiani, perché anche per noi la fede ha questa struttura che è poi la struttura tipica della fede biblica. Chi è per noi Dio? E’ colui che ha risuscitato Gesù dai morti. Nient’altro che questo. Quindi, il Dio della Bibbia, il Dio dell’Esodo è un Dio che parla, che si comunica attraverso la sua parola. Ma attenzione: la parola di Dio non è mai soltanto una emissione di suoni, un comunicare delle informazioni, un dire delle verità. La parola di Dio nella Bibbia è sempre una parola-cosa, una parola-evento. Dio parla attraverso i fatti della storia, parla attraverso il suo agire nella storia. Per un ebreo e per un cristiano la parola di Dio non è in primo luogo qualcosa che si ascolta ma una realtà che si rende visibile. E’ una parola che si ascolta non solo con gli orecchi, ma in qualche modo anche con gli occhi, è cioè una parola-fatto che si vede, che si vede crescere nella storia.
Dicevamo che Dio si rivela nella storia e che questa storia non è solo una storia passata. E’ una storia che coinvolge anche noi, anche me. Ogni generazione, ogni persona deve considerare se stessa come uscita dall’Egitto, come liberata grazie all’intervento di Dio. Questo significa allora che l’esperienza dell’esodo assume il valore di un paradigma, è un’esperienza paradigmatica. In qualche modo è il modello attraverso il quale possiamo capire anche la nostra vita e quel che deve essere la nostra esperienza di fede. Se il Dio dell’Esodo si è rivelato come colui che ha liberato il popolo dalla schiavitù per condurlo verso la Terra, significa che Dio è fatto così: è un Dio che ha spezzato le catene di coloro che erano schiavi in Egitto e che anche oggi desidera liberare la mia vita e la vita del mondo. Allora, ecco un’altra chiave di lettura. Il problema per noi sarà quello di domandarci: da quale schiavitù devo essere liberato? quale cammino devo fare per giungere alla libertà? verso quale Terra il Signore mi sta conducendo? verso quale esperienza di libertà? E a proposito della libertà può essere interessante sapere che nell’ebraico biblico non esiste il sostantivo « libertà ». C’è solo il verbo « liberare », perché la libertà è una storia. Anche in questo caso: la libertà non è qualcosa di astratto, è una storia, e precisamente è un cammino di liberazione, che però non puoi fare da solo, che non puoi fare con le tue sole forze. E’ necessario che qualcuno venga a liberarti e ti strappi dalla schiavitù in cui ti trovi per condurti verso una Terra di libertà.

3. Tre temi fondamentali: Rivelazione di Dio, Alleanza e Legge
Da quanto abbiamo detto finora appare chiaro che il libro dell’Esodo è un libro di rivelazione. Rivela chi è Dio. Per questo la domanda fondamentale che ci poniamo accostando questo libro è: che volto di Dio mi rivela? come mi fa conoscere Dio? Quando si legge un testo, l’importante è leggerlo con la domanda giusta. Questa considerazione vale per qualsiasi testo: per un romanzo, per un saggio, per un articolo di giornale… Per leggere qualunque testo ci vogliono delle domande e la domanda giusta per leggere la Bibbia è proprio questa: che volto di Dio mi rivela? come mi fa conoscere Dio? chi è Dio? Perché tutta la Bibbia è rivelazione di Dio. E l’Esodo lo è in modo particolare. Fa parte infatti dei primi cinque libri della Bibbia, quei libri che noi solitamente chiamiamo Pentateuco, che in greco significa « cinque libri », ma che nella Tradizione ebraica sono indicati con il termine Torah. Questa parola di solito viene tradotta con « legge », ma è un modo un po’ povero di tradurla. Certo, in questi primi cinque libri ci sono anche ampie sezioni legislative. Pensate ai dieci comandamenti, ma oltre al decalogo ci sono tante altre leggi nella Torah. Dunque Torah significa « legge », ma soprattutto « rivelazione ». Per la Bibbia la rivelazione e la legge non sono due cose diverse, ma si compenetrano vicendevolmente, sono collegate l’una all’altra in modo intrinseco proprio perché Dio si rivela non solo agendo in una storia, ma anche donando una legge. E così ci siamo introdotti nell’altro grande tema dell’Esodo, quello della legge che Dio dona al popolo con il quale fa alleanza. In che senso la rivelazione di Dio passa anche attraverso il dono di una legge? Direi questo: innanzi tutto dobbiamo dimenticare il senso che noi solitamente attribuiamo al termine « legge ». La legge per noi è una serie di precetti, di norme che esigono obbedienza, altrimenti scattano delle sanzioni, delle punizioni. Per la Bibbia, invece, e dunque per l’Esodo la legge è soprattutto una regola, un’istruzione per vivere bene. E in modo particolare la legge è quell’istruzione che ti fa vivere bene in modo tale che, attraverso l’esistenza che vivi in obbedienza al comando di Dio, tu lo possa incontrare, conoscere e fare esperienza di Lui.
Forse, per capire meglio conviene prendere un esempio dal Nuovo Testamento, perché qui abbiamo un’idea di legge un po’ meno condizionata. Pensate al « comandamento nuovo » che si trova nel vangelo di Giovanni e che riassume tutta la legge dell’Antico Testamento: « vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri » (Gv 13,34). Questo comandamento ci aiuta a capire il senso autentico della legge. Se, infatti, noi viviamo il comandamento dell’amore, cioè se ci amiamo gli uni gli altri come il Signore ci ha amato, in questo modo possiamo giungere a capire che Dio è amore. Ecco in che senso il comandamento è anche rivelazione! Solo se sono capace di vivere relazioni con gli altri segnate dall’amore, io capisco veramente cosa vuol dire che Dio è amore. Solo così conosco davvero chi è Dio. Il comandamento nuovo dice: « amatevi come io vi ho amato ». Quel « come » non va inteso nel senso dell’imitazione. Chi di noi potrebbe imitare l’amore del Signore? Dobbiamo intenderlo piuttosto nel senso che l’amore del Signore, l’amore con cui Lui per primo ci ha amato, è in grado di trasformare la nostra vita e di darci quel cuore nuovo capace di amare come Cristo ci ha amato. Solo vivendo questa esperienza di amore, cioè solo accogliendo l’amore del Signore, fino al punto di farlo diventare l’amore con il quale io amo il fratello, solo a questa condizione posso capire chi è Dio: Dio è amore.
Questo dinamismo che caratterizza il comandamento nuovo è lo stesso che riscontriamo nella legge che Dio dona a Mosè. Allora possiamo dire che nell’Esodo Dio dona una legge proprio perché attraverso di essa l’uomo possa vivere quel cammino di libertà che gli fa riconoscere che è il Signore ad averlo liberato, perché attraverso la legge l’uomo diventi così libero da riconoscere che Dio è colui che libera. Dunque, nel contesto biblico la legge non è mai semplicemente un comando. Per Israele la legge non è un’imposizione, ma un dono, perché accogliendola il popolo può accogliere il dono della liberazione. La legge, per il libro dell’Esodo, è ciò che mi rende capace di vivere un cammino da uomo libero, perché in questo modo io possa sempre riconoscere che è il Signore colui che mi libera.
La logica della legge è la logica dell’alleanza. Dio ha liberato il popolo dall’Egitto per condurlo verso la Terra della promessa, ma prima di entrarvi il popolo deve incontrare il Signore presso il monte Sinai. Qui Dio stipula un’alleanza con il suo popolo: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (cfr. Es 19, 5-6). La stipulazione dell’alleanza implica anche il dono di una legge che il popolo si impegna ad osservare: « Tutto ciò che il Signore dirà noi lo faremo e lo ascolteremo » (Es. 24, 7). Per entrare nella terra, il popolo deve rimanere fedele all’alleanza. Questa sembra quasi una condizione che Dio pone al suo popolo. Occorre però intendere bene il suo significato. La libertà è il dono di Dio e Dio non ritira il suo dono, che rimane dato in modo irrevocabile. E tuttavia soltanto se il popolo vive in modo conforme al dono, questo potrà portare i suoi frutti. Altrimenti il dono imputridirà tra le mani di Israele, verrà meno, perderà il suo significato e la sua efficacia. Potremmo dire così: osservando il comandamento, rimanendo fedele all’alleanza, il popolo imparerà a conoscere che all’origine della sua libertà c’è il dono di Dio. Il comandamento è ciò che consente al popolo di mantenere viva la memoria di Dio come di colui che lo ha liberato; gli consentirà di riconoscere che non si è liberato da solo, ma che all’origine della sua libertà c’è l’azione gratuita di Dio. La legge è dunque ciò che nella vita del popolo custodisce il dono, ne ravviva la memoria e ne mantiene in vigore l’efficacia.

4. Come Dio si rivela nelle tre tappe del cammino di Israele
Questi che ho introdotto sono i temi fondamentali dell’Esodo. Vorrei ora approfondirli, cercando di mettere a fuoco in che modo la liberazione che Dio opera si realizza nello svolgimento del racconto. Il libro dell’Esodo presenta questa struttura: ci sono due grandi blocchi tematici collegati fra loro da una sezione intermedia. Il primo blocco, che comprende i primi 15 capitoli, è ambientato in Egitto: il popolo è schiavo e Dio lo libera facendogli attraversare il mare. Il secondo blocco comprende i capitoli 19-40: il popolo stipula l’alleanza con il Signore sul monte Sinai e accetta di obbedire alla legge che il Signore gli dona. Tra questi due blocchi c’è la sezione di collegamento (i capitoli 15-18), nella quale è raccontato il cammino nel deserto, il cammino che Israele percorre dall’Egitto fino al Sinai dove incontrerà il Dio dell’alleanza. Quindi, ci sono tre grandi sezioni: l’Egitto, il cammino nel deserto e l’alleanza sul Sinai. In ognuna di queste tre sezioni possiamo notare che Dio si rivela in un modo diverso.

a) La liberazione dall’Egitto: 1,1 -15,21
Consideriamo innanzi tutto la prima sezione (Es 1. 1 -15, 21): il popolo schiavo in Egitto. Che volto di Dio incontriamo in questi capitoli? Fondamentalmente è il volto di un Dio che ascolta il grido dell’oppresso, il grido del povero, dello schiavo. Vi leggo la conclusione del capitolo 2 dell’Esodo: « Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero » (Es 2,23-25). E’ un Dio che ascolta il grido dell’oppresso, il grido dello schiavo. Non solo ascolta, ma guarda e se ne prende pensiero. Eppure, se leggiamo quanto si racconta nei primi due capitoli dell’Esodo, ci accorgiamo che il popolo di Israele che è schiavo in Egitto sembra aver dimenticato la fede dei padri. Il grido che sale dalla schiavitù non è un grido che Israele rivolge immediatamente al suo Dio, perché il popolo sembra aver perso la propria fede, sembra non ricordare più il Dio che si è rivelato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe… il Dio dei padri. In questo momento Israele è un popolo senza Dio. Il suo grido è come un grido inarticolato che si alza, ma non ha una direzione precisa verso la quale rivolgersi. Eppure Dio lo ascolta. Il popolo ha dimenticato Dio, ma Dio non si è dimenticato del suo popolo, non ha dimenticato la sua fedeltà ad Abramo, Isacco e Giacobbe.
Un secondo tratto di questo volto: è un Dio solidale e compassionevole. Mosè lo incontra presso il roveto ardente, in quel roveto che brucia e non si consuma. La tradizione ebraica legge questo episodio in modo molto bello, mettendo sulla bocca di Dio queste parole rivolte a Mosè: « Ti rendi conto di come partecipo alle sofferenze di Israele? Io ti parlo circondato da spine, come se partecipassi direttamente al tuo dolore » [Shemot Rabba II.5; cfr. R. PACIFICI, Midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 59]. Il Dio di Mosè è un Dio compassionevole, che partecipa personalmente al dolore del popolo, per questo parla dal roveto, dalle spine. Per noi che crediamo in Gesù il roveto diventa l’immagine della croce, ci rimanda al suo volto circondato dalle spine di cui è stato coronato. Il Dio compassionevole che si è rivelato a Mosè nel roveto manifesterà pienamente e definitivamente se stesso nel volto coronato di spine del crocifisso.
A questo punto, per mostrare un terzo tratto di questo volto di Dio che vogliamo scoprire, vorrei citarvi un brano del capitolo 5 del libro dell’Esodo in cui si racconta il primo incontro di Mosè con il Faraone. Dio aveva affidato a Mosè questa missione: va’ a dire al Faraone di lasciare partire il mio popolo. Mosè obbedisce al Signore, va dal Faraone, ma il Faraone si rifiuta di concedere al popolo il permesso di partire. Ed è interessante vedere in che modo il Faraone si oppone alla richiesta di Mosè. « Il Faraone rispose: chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele » (Es 5,2). Il rifiuto è duplice. Non soltanto rifiuta di dare al popolo il permesso di partire, ma il suo rifiuto assume i tratti della negazione stessa di Dio: non conosco il Signore!
Nel libro dell’Esodo il Faraone è sempre senza nome. E questo è uno dei tanti problemi storici posti dal libro dell’Esodo. Chi è questo Faraone? Possiamo dire che non ha nome perché non è solo un personaggio storico, è anche un personaggio simbolico, il simbolo di tutto ciò che si oppone a Dio, di tutto ciò che si erge contro Dio e fa schiavo l’uomo. Il Faraone rappresenta il tentativo di impedire a Dio di liberare l’uomo. Anche in questo caso la tradizione ebraica rilegge questo episodio in modo estremamente significativo. Ci sono due midrashim, cioè due racconti giudaici che interpretano questo testo [Shemot Rabba V.14]. Il primo dice che il Faraone, quando udì l’espressione « il Dio degli Ebrei », esclamò con meraviglia: da quando gli schiavi hanno un Dio? Nella sua mentalità è inconcepibile che gli schiavi abbiano un Dio. Tenete presente che nell’Antico Egitto la società ha un carattere sacrale, è una società in cui il Faraone si fa chiamare « figlio di Dio », proprio perché Dio è il Dio dei forti, dei vincenti… La Bibbia contesta questo modo di vedere le cose e ha il coraggio di dire che sono gli Israeliti schiavi coloro che conoscono il vero Dio, mentre il Dio dei padroni è un Dio falso. Quello vero è il Dio degli schiavi. Dunque, il Dio che si rivela a Mosè non è neutrale, non interviene nella storia in modo generico. Si schiera, prende sempre una posizione precisa e la posizione che prende è questa: stare dalla parte degli oppressi. Guardate che questo è un concetto di Dio rivoluzionario, che non si trova nelle mitologie, nei tanti dèi che popolano i pantheon delle culture dell’epoca, perché questi dèi appartengono al mondo dei potenti e dei dominatori della storia, quindi, di conseguenza, instaurano con l’uomo un rapporto di dominazione. Invece il Dio degli schiavi non stabilisce con l’uomo un rapporto di oppressione, ma sempre un rapporto di libertà. E questa è un’immagine rivoluzionaria di Dio, che dice molto anche sul senso della libertà. Ci insegna che la libertà non è semplicemente essere senza padroni, ma piuttosto riuscire a trattare gli altri non secondo la relazione padrone-schiavo, ma da uomini liberi. Si può forse dire che la vera libertà non consiste tanto nel non avere padroni sopra di sé, quanto nel riuscire a non essere padrone. Questa è la libertà che ci testimonia Dio, un Dio che in Gesù giunge addirittura a farsi schiavo per la nostra salvezza. Il rapporto normale con cui siamo abituati a pensare la relazione dell’uomo con Dio si ribalta. Dio si fa servo, si fa schiavo per liberare gli uomini!
C’è anche un secondo midrash riferito sempre a questo versetto. Racconta che il Faraone afferma di non conoscere il Dio degli Ebrei e dice: non lascerò partire il popolo che ha un Dio senza nome, dunque un Dio che non esiste. E dice così, perché in precedenza aveva mandato i suoi servi a consultare negli archivi e a cercare il nome del Dio di Mosè, ma i servi non riescono a trovare il nome del Dio di Mosè negli archivi. Quindi, se il suo nome non è conservato negli archivi, evidentemente è un Dio che non esiste. Ma – sempre secondo il midrash – Mosè prende la parola e risponde al Faraone: « non puoi trovare il nome di Dio negli archivi e negli elenchi, perché quelli sono il cimitero degli dei. Il nostro Dio non ha nome, vive eternamente e riceve il nome dalle azioni che compie », dalla storia che fa. E ancora una volta appare che Dio si rivela nella storia. Noi non conosciamo il nome di Dio prima di averlo visto agire nella storia. Per questo il nome che Israele dà a Dio è: colui che ha liberato i miei padri dalla schiavitù dell’Egitto. Appunto, il Dio che ascolta il grido degli oppressi e si mostra solidale è anche un Dio che libera.
I primi 15 capitoli del libro dell’Esodo si concludono con la liberazione che si realizza attraverso il passaggio del mare. In particolare terminano con questo versetto: dopo il miracolo del mare « Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè » (Es 14,31). Dopo aver visto l’azione di Dio nella storia il popolo « vide e credette ». Il nostro Dio non ha un nome conservato negli archivi. Riceve un nome dalle azioni che compie.

b) Il cammino nel deserto: 15, 22 – 18, 27

Nella seconda sezione dell’Esodo (15, 22 – 18, 27), in cui si descrive il cammino di Israele nel deserto, che volto di Dio ci viene rivelato? Innanzi tutto il volto di un Dio che sembra farsi assente. Dopo essere stato liberato, il popolo teme di venire abbandonato a se stesso. E’ l’Israele che sperimenta la fame, che ricorda con nostalgia le cipolle dell’Egitto, la schiavitù e dice: almeno lì mangiavamo, almeno avevamo di che dissetarci! E così la grande tentazione del deserto viene espressa dall’Esodo con queste parole di mormorazione messe in bocca al popolo di Israele: « Ma il Signore è in mezzo a noi, sì o no? » (Es 17,7). La tentazione di Israele è quella di pensare che Dio, che si è manifestato con tanta potenza e si è reso presente nella storia, ora sia assente. E il popolo arriva fino al punto di dire: sarebbe stato meglio per noi morire schiavi in Egitto piuttosto che vivere in questo deserto dove non c’è da mangiare né da bere! In fondo, è come se il popolo sconfessasse la sua fede, è come se si pentisse di aver creduto, perché ora si sente ingannato, è portato a credere che quello che sembrava un cammino di liberazione nasconda invece un grande inganno. Ma anche in questa situazione Dio viene incontro al suo popolo e accoglie questa invocazione. E’ una mormorazione, ma Dio la ascolta come un’invocazione e dona pane e acqua al popolo che ha fame e sete. E con il pane e l’acqua dona anche una legge o, meglio, dona al popolo delle prove per misurare la sua fede. Pensate alla manna, donandola Dio impone anche questa norma: ne raccoglierete quanta ne basta per un giorno. C’è una legge che accompagna il dono e il modo di accogliere il dono è appunto obbedire alla legge. Che senso ha questa legge? Ha questo significato: il popolo deve essere messo alla prova per verificare la sua fede, il popolo deve imparare a vivere un cammino di liberazione attraverso il deserto senza mettere alla prova Dio, ma lasciando che sia Dio a metterlo alla prova. Che cosa vuol dire mettere alla prova Dio? Significa voler vivere avendo in mano tutte le sicurezze, essere disposti a fidarsi di Dio solo a condizione che Lui dia prova dell’affidabilità della fede che richiede. Ma Dio non accetta questo gioco. E’ disposto a guidare il popolo solo a patto che il popolo si affidi a Lui senza pretendere delle garanzie, solo a condizione che il popolo abbia fede e anziché fidarsi delle proprie certezze si fidi della promessa di Dio.
Un aspetto da sottolineare a proposito del cammino nel deserto è che il pane e l’acqua con cui il popolo viene nutrito sono un pane e un’acqua che il popolo non conosce, al di sopra di quanto il popolo ha fino allora sperimentato. Perché la manna ha questo nome? Perché il popolo, vedendo questa strana sostanza depositata sulla superficie del deserto domanda: »Man hu? Che cos’è? » (Es 16,15). Questo pane non è solo un dono del Signore, è qualcosa che il popolo ancora non conosce. Perciò il cammino del deserto ha per Israele questo significato: fare esperienza di Dio fidandosi di Lui e aprendosi ad accogliere un dono che il popolo ancora non conosce. Questo significa vivere nel desiderio di sperimentare sulla mia vita la benedizione di ciò che ancora non conosco, di ciò che le mie mani non sono capaci di produrre, di ciò che il mio desiderio è incapace di progettare. Il cammino nel deserto mi insegna a saziarmi di quel pane che non è il frutto di quello che io so fare o posso fare, m’invita ad accogliere il dono di Dio come qualcosa che supera le mie stesse aspettative, il mio stesso desiderio. Camminare nel deserto ha questo significato: il popolo deve imparare a vivere più di desiderio e di speranza che di nostalgia. Che cos’è che tiene ancora legato il popolo alla schiavitù dell’Egitto? Il ricordo, la nostalgia. Ma questi sentimenti vanno superati. Il popolo deve imparare a desiderare una terra « promessa », che non corrisponde al suo progetto, ma è una terra che è dono di Dio. In una parola il popolo deve imparare a vivere non del proprio progetto ma della promessa di Dio. Che cosa significa progettare la propria vita? Significa prenderla e gettarla davanti a se, costruire da soli il proprio futuro, la propria terra. Ma Dio dice al popolo: attento! Più che del pro-getto devi vivere della pro-messa. La promessa è ciò che Dio ti mette davanti, non ciò che le tue mani sanno costruire. Vivere della promessa significa vivere rispondendo ad una vocazione, ad una chiamata. E’ questo che il popolo deve imparare. Perciò il Dio che si rivela nel deserto è un Dio che ti dona una Terra che tu ancora non conosci.

c) L’alleanza sul Sinai: 19, 1 – 40, 38
E per finire: qual è il volto di Dio che si rivela sul Sinai? Vorrei citare due versetti del capitolo 19. Dio, apparendo a Mosè, gli promette un’alleanza in questi termini: « Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquila e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! » (Es 19,4-5). Vi ho sollevato su ali di aquila. E’ come dire: voi non avete camminato, sono io che vi ho preso e vi ho condotto fin qui. La tradizione giudaica commenta così l’immagine dell’aquila: « L’aquila porta i suoi nati sulle ali mentre gli altri volatili li portano sotto le zampe: perché l’aquila teme di essere colpita dalla freccia dell’uomo e pensa sia meglio che la freccia colpisca lei piuttosto che i suoi figli. Così ha fatto Dio che prima precedeva il popolo, ma poi si sposta dietro a lui ricevendo i colpi degli egiziani invece di Israele » [cfr. Rashi di Troyes, Commento all'Esodo]. Dio fa la stessa cosa e dice: fin qui vi ho portati io, ma « ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli » (Es 19,5). Il testo dice: ora. C’è un « ora ». Fino ad un certo punto il Signore ti conduce, ma c’è un momento in cui l’uomo deve iniziare a rispondere, a camminare sulle sue gambe e a vivere responsabilmente davanti al Signore; deve cioè accettare di vivere un’alleanza con Lui. Sull’alleanza si potrebbero dire molte cose, ma uno dei tratti fondamentali che l’alleanza ci rivela del volto di Dio è il fatto sorprendente che Dio si fida completamente dell’uomo al punto da voler stringere un’alleanza con Lui. Noi spesso parliamo della fede dell’uomo in Dio, ma la Bibbia ci parla soprattutto della fede che Dio ha nell’uomo. Dio si fida dell’uomo al punto che, facendo alleanza con lui, gli affida la storia. Come dire: fin qui ti ho portato io, ora sei capace di camminare da solo e io ti affido il creato, la storia. E’ Dio stesso che nell’alleanza si affida all’uomo. Non solo gli chiede di affidarsi a Lui! Dio è così: si fida dell’uomo e si affida a lui. L’anti-Dio, invece, Satana è descritto dalla Bibbia proprio nei termini opposti: se Dio si fida dell’uomo, il diavolo è colui che non si fida, che diffida dell’uomo. Il libro di Giobbe si apre con un dialogo fra Dio e Satana in cui appare proprio questo concetto. Dio è contento perché Giobbe è un uomo giusto ma Satana ribatte: sfido che è giusto! Non gli manca nulla, per questo obbedisce ai tuoi comandi. Mettilo alla prova, togligli quello che ha e vedrai « come ti benedirà in faccia »! (Gb 1,11). Così pensa l’avversario, Satana. Il Dio dell’alleanza è diverso: è il Dio fedele, il Dio della fiducia.

5. Anche la nostra vita è un esodo: come la Bibbia ci aiuta a riconoscerne il senso?
Concludo lasciandovi una domanda che spero possa esservi utile per la vostra lettura dell’Esodo. Ve la suggerisco proponendovi un racconto popolare dell’Africa orientale, che potrebbe stare benissimo tra gli apoftegmi dei padri del deserto o fra i detti dei rabbini… Si racconta che ad una vecchia indigena che era molto legata alla Bibbia, al punto che leggeva solo quella, viene detto di interessarsi anche ad altri libri… « Ce ne sono tanti molto belli nella storia del popolo, leggi anche altre cose! ». E l’indigena risponde: « Sì, è vero. Posso leggere tanti altri libri, ma c’è solo un libro che legge me, ed è la Bibbia ». Ecco, quella donna ha ragione. La Bibbia non è solo un libro che noi leggiamo, è anche un libro che ci legge la vita. Quindi il suggerimento che vi do accostandovi ai testi dell’Esodo è questo: provate a domandarvi come questi racconti leggono e giudicano la vostra vita; non preoccupatevi solamente di leggere voi il testo, ma lasciate che il testo legga la vostra vita. Se glielo permetterete probabilmente vi farà scoprire che anche la vostra vita è un cammino, un esodo, un entrare e un uscire. Che cosa vuol dire entrare e uscire? C’è un salmo molto bello, il salmo 121, che dice: « Il Signore ti proteggerà da ogni male, Egli proteggerà la tua vita. Il Signore veglierà su di te quando esci e quando entri da ora e per sempre » (Sal 121, 7-8). Quando esci e quando entri è un modo per dire tutta la vita. Gli ebrei quando parlano della realtà di solito la descrivono ricorrendo ai due poli entro i quali è ricompresa. Per dire il mondo parlano del cielo e della terra, per dire la vita parlano dell’entrare e dell’uscire, del nascere e del morire… E l’entrare e l’uscire è in fondo l’immagine del nostro vivere. Tutta la nostra vita è un esodo e allora questo libro può aiutarci a leggerla facendoci scoprire che c’è un Dio che si rivela nella nostra storia, in forme diverse, secondo le tappe del cammino della nostra esistenza. In ognuno di noi c’è qualcosa del cammino di Israele: c’è una parte di noi che è ancora nella schiavitù, una parte di noi che è nel deserto, nella prova e c’è anche una parte di noi che è già nella Terra Promessa… Ecco, provate a domandarvi a quale livello la vostra vita si pone e quale volto di Dio già conosce o deve ancora scoprire.

6. Una storia incompiuta?
Il libro dell’Esodo si conclude sul Sinai. Questo è strano in un racconto di liberazione che ha un punto di partenza (la schiavitù dell’Egitto) e un punto di arrivo (la Terra promessa), ma di fatto termina prima di entrare nella Terra. Si conclude sul Sinai. Non solo l’Esodo, ma tutto il Pentateuco resta, per così dire, fuori dalla Terra promessa. Solo con il libro di Giosuè si entra nella Terra promessa e questo fatto dà l’impressione che il Pentateuco, la Torah contenga una storia incompiuta. Ma forse non è così. Il vero compimento è il Sinai, cioè l’alleanza con Dio. La pienezza è là dove il popolo dice: io non voglio più essere schiavo dell’Egitto, voglio servire Dio! Questa è la vera libertà: non tanto un cammino verso un luogo geografico, ma un passare dalla schiavitù dell’Egitto al servizio di Dio. Un bel libro sull’Esodo si intitola proprio così: « Dalla servitù al servizio » e s’intende dalla servitù del faraone al servizio di Dio. Non so se è il più bel libro che sia stato scritto sull’Esodo; probabilmente, però, è il libro che ha il titolo migliore, perché questa è la vera libertà. La vera Terra promessa è Dio. Questo è il punto di arrivo di ogni cammino e ricerca dell’uomo: Dio come la nostra vera Terra.

Fratel Luca Fallica
Comunità Monastica SS.Trinità
(Vertemate con Minoprio – CO)

Palazzolo Milanese, 15 ottobre 1996 – Scuola di formazione missionaria alla mondialità

L’alfabeto della Parola di Dio: Hesed

dal sito:

http://www.parrocchialoreto.it/giovani/98-lalfabeto-della-parola-di-dio-hesed.html
  
L’alfabeto della Parola di Dio: Hesed

 Dal Vangelo di Luca (10,30-35).
Gesù rispose: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e s’imbatté nei briganti che lo spogliarono, lo ferirono e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote scendeva per quella stessa strada; e lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Così pure un Levita, giunto in quel luogo, lo vide, ma passò oltre dal lato opposto. Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe pietà;  avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, versandovi sopra olio e vino; poi lo mise sulla propria cavalcatura, lo condusse a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno dopo, presi due denari, li diede all’oste e gli disse: « Prenditi cura di lui; e tutto ciò che spenderai di più, te lo rimborserò al mio ritorno ».

PREMESSA: I TERMINI
Nella Bibbia non incontriamo l’espressione « AMORE MISERICORDIOSO » in senso letterale, se non in Lc 1,78: Dio salva e perdona « grazie alla (sua) bontà misericordiosa » (splánchna eléous; traduzione latina: viscera misericordiae; in ebraico: rahamin = viscere materne).

Tuttavia « Amore Misericordioso » può tradurre bene anche due altre espressioni. La prima è: hesed we’ emet (= grazia e fedeltà: cf Es 34,6; 2Sam 2,6; 15,20; Sal 25,10; 40,11s; 8511; Mic 7,20). Trattandosi di un’endiade, è corretta la traduzione: grazia fedele, cioè amore che per essere fedele nei confronti dell’uomo irrimediabilmente peccatore deve essere misericordioso.
L’altra espressione è: « pleres cháritos kai aletheias » (il Verbo è « pieno di grazia e verità »: Gv 1,14 e poi anche più avanti in Gv 1,17). Anche qui ci troviamo davanti ad un’endiade che possiamo tradurre con amore vero, cioè misericordioso. Per mezzo di Mosé ci è arrivata la legge, per Gesù abbiamo ricevuto l’Amore misericordioso.

Tre sono i vocanoli che stanno dietro all’espressione Amore misericordioso: Hesed, rahamin, emet.

A. Il primo, hesed, indica bontà originaria e costitutiva, l’amore sorgivo, puro e gratuito. E’ l’amore paterno nel senso che « Dio è amore » (1Gv 4,8.16), ci ama « per primo » (1Gv 4,19). Un amore che continuamente si riversa su di noi. Si esprime nell’alleanza con Israele e soprattutto nella nuova alleanza che è definitiva. « Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano; … ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare ». (Os 11,4; cf anche Is 63,15s; 64,7).
B. Il termine emet dice fedeltà assoluta anche nel caso dell’infedeltà del partner. Unito alla hesed specifica che l’amore paterno di Dio è fedele anche dinanzi alla risposta negativa dell’uomo. Dio continua ad amarlo settanta volte sette (cf Mt 18,22), cioè perdona sempre, è misericordioso. « Canterò senza fine le grazie del Signore, con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nel secoli perché hai detto: « La mia grazia rimane per sempre »; e la tua fedeltà è fondata nei cieli » (Sal 89,2s). « Ti ho amato di amore eterno, per questo di conservo ancora pietà » (Ger 31,3).
C. Infine rahamim suggerisce l’amore viscerale della madre (rehem = seno materno) e quindi misericordia. Dal profondo legame della madre col bambino, scaturisce un particolarissimo rapporto di tenerezza e comprensione. Il bambino lascia una traccia indelebile nel grembo della madre, inclinandola alla misericordia.
« Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato (tatuato) sulle palme delle mie mani » (Is 49,15s). « Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia » (Is 54,10).
Se è vero che l’espressione « Amore Misericordioso » è poco ricorrente nella Bibbia, è altrettanto vero che tutta la storia della salvezza raccontata dalla Parola di Dio ha come filo conduttore l’Amore di Colui che è « ricco di misericordia » (Ef 2,4). L’Amore misericordioso è la vera identità del Dio di Abramo, del Padre di Gesù e nostro. E’ questo il motivo principale della Rivelazione, è questa la fede che ci salva.

Leggiamo questa rivelazione in alcune pagine bibliche.

1. Nel primo esodo e nella alleanza sinaitica.

1.1 « Il Signore disse (a Mosé): « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso … » (Es 3,7-8).
Yahwé interviene con tutta la sua potenza mosso unicamente dal suo cuore, dalla sua pietà nei confronti di persone in balia della prepotenza della nazione allora più forte. Dio si schiera dalla parte dei deboli e degli oppressi.
1.2 Non solo. Sul Sinai lo stesso Yahwé propone a Israele, ormai libero, un’alleanza di reciproca appartenenza, addirittura nei termini di una relazione sponsale. Se Israele accetta di ascoltare le dieci Parole (decalogo) allora Yahwé sarà « il Dio d’Israele e Israele il popolo di Yahwé (formula dell’alleanza).
1.3 Israele dice di sì, si celebra l’Alleanza, ma subito dopo il popolo rinnega tutto, addirittura con l’idolatria. Tutto finito, se Yahwé non fosse il « Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà » (Es. 34,6). Questa è la sua Gloria, rivelata in modo singolare a Mosé.
L’Amore misericordioso di Yahwé appare chiaramente nell’Esodo dall’Egitto come liberazione totalmente gratuita, come offerta dell’alleanza, come perdono.
2. Nel secondo esodo e nell’annuncio profetico della Nuova Alleanza.
2.1 Riflettendo sulla storia d’Israele, e più in particolare sulla vicenda della deportazione a Babilonia o del secondo esodo, i profeti annunciano la Nuova Alleanza.
Dio vedendo l’estrema debolezza del suo popolo, invece di abbandonarlo, lo riprende ancora, lo riporta nuovamente a Gerusalemme che viene ricostruita, ma soprattutto fa sapere, per bocca dei profeti, che questo è segno di un Amore che supererà definitivamente l’ostacolo più grande: il peccato dell’uomo.
2.2 Così Is 40,1-22 annuncia la grande Consolazione. « Consolate, consolate il mio popolo… e gridate che è finita la sua schiavitù » (40,1s).
2.3 Il profeta Geremia assicura che la legge del Signore verrà scritta non più su tavole di pietra, ma direttamente nel cuore dell’uomo che così potrà conoscere il Signore e avere il perdono (cf Ger 31,31-34).
2.4 Ezechiele profetizza: « Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti » (Ez 36,26s).
3. Nei libri sapienziali.
3.1 Soprattutto nel libro dei Salmi troviamo preghiere, lodi e accorate invocazioni all’Amore misericordioso di Yahvé. Come dire che il cuore della preghiera è l’esperienza della misericordia divina che si prende cura della miseria dell’uomo. Ciò è motivo di fiducia e di lode.
3.2 Citiamo qualche Salmo. Spesso viene ripetuto: « La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua fedeltà fino alle nubi » (Sal 57,11; cf Sal 89). « O mia forza, a te voglio cantare, poiché tu sei, o Dio, la mia difesa, tu, mio Dio, sei la mia misericordia » (Sal 59,18). Tutto il Sal 136 celebra un grande ringraziamento ritmato dal ricorrente ritornello « perché eterna è la sua misericordia ». Tutta la storia d’Israele è letta in questa chiave. Il più breve Salmo recita così: « Lodate il Signore, popoli tutti, voi tutte nazioni, dategli gloria; perché forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno » (Sal 117).
La misericordia, nel Nuovo Testamento, esprime il modo con cui Dio si rivolge all’uomo, lo ama e lo giustifica in Cristo  Nell’Antico Testamento il termine hesed indica l’agire di Dio nella sua amicizia e fedeltà soccorritrice. Esso rimanda al contesto dell’alleanza e quindi ai temi nuziali come in Os, 2,21.
Accanto ad hesed viene posto spesso il termine rahamim che indica le viscere materne e più precisamente l’utero (rehem) che si commuove sotto la spinta di un profonda emozione del cuore. Anche nel N.T. vi sono echi di questa terminologia attraverso la parola eleos riferita a hesed e splagchna riferita a rehamim.. Essa, come ha affermato Giovanni Paolo II, possiede la forma interiore dell’Agápe  Cf Giovanni Paolo II. Dives in Misericordia. , n. 6) che perdona, riconcilia, guarisce e rigenera l’uomo, attraverso il mistero pasquale, rendendolo “ciò che è chiamato ad essere”: figlio nel Figlio di Dio.
Essa è la rivelazione radicale del Padre, ricco di misericordia (Ef 2,4), il Suo essere reso presente nella vita terrena di Gesù Cristo e, in modo del tutto particolare, di sua madre Maria: nella pro-esistenza; nella compassione e nell’amore per l’uomo a partire dai piccoli e dai poveri, dai sofferenti e dagli esclusi ; nel perdono che salva tutto l’uomo; nell’offerta di sé e nel sacrificio di espiazione e di amore per l’uomo.
 La misericordia si è incarnata definitivamente nel Cristo pasquale per il quale l’amore promuove il bene da tutte le forme di male e restituisce l’uomo a se stesso nella sua dignità di persona umana. Essa è quindi il ritorno, grazie anche al dono della Madre Immacolata, alle “viscere di carità”, al grembo umano-divino dal quale “rinascere dall’alto” (Gv 3,3) ed essere ri-generati in Cristo e vivere nell’Amore (cf 1 Pt 1,3).
Essa diviene quindi la missione della Chiesa, che ripropone all’uomo, per opera dello Spirito Santo, una “relazione di misericordia” in Cristo, di cui i sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia sono il momento centrale di un’azione di rigenerazione dell’umanità che trasfigura la giustizia.
In questo modo, attraverso la compassione, l’immedesimazione, il perdono e l’amore operante, per dono dello Spirito Santo, ognuno può riscoprire il bene e la dignità di sé stessi e dell’altro, riconciliarsi essere perdonato e perdonare; essere così ricondotto a se stesso e al suo mistero in Cristo e ritrovare il senso della sua vita nell’amore e nel dono sincero di sé a Dio e al prossimo.
La misericordia costituisce infine il contenuto fondamentale del messaggio messianico del Salvatore espresso nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,18s) e sintetizzata nella frase: «Mi ha mandato ad evangelizzare i poveri» e nella risposta data ai portavoce del Battista: «I poveri sono evangelizzati» (Lc 7,22s).
Nel Vangelo di Luca la misericordia di Dio viene particolarmente espressa nella commozione profonda che prende il padre del figliol prodigo allorché lo vede ritornare. Il termine che viene utilizzato è splagchnizomai: essere commosso fino alle viscere. Luca lo usa per indicare la commozione del padre, quella di Gesù dinanzi alla vedova di Nain e quella del samaritano alla vista del suo prossimo in fin di vita.
Tutti contesti quindi in cui c’è uno sguardo sulla morte: “Questo tuo fratello era morto…”. Questo sguardo suscita pietà e questa pietà spinge a ridare vita: il padre lo vide… Nell’uomo più miserabile, Dio misericordioso vede la sua eminente dignità di figlio. Questo sguardo opera una commozione profonda che spinge Dio a restituire l’uomo, che si crede perduto, alla sua dignità di figlio prediletto. Giovanni Paolo II sottolinea, nella parabola del figliol prodigo, la potenza della misericordia: «Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato.
Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e “rivalutato”. Il padre gli manifesta innanzitutto la gioia che sia stato «ritrovato» e che sia «tornato in vita». Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica inoltre un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il ritorno alla verità su se stesso». In questo modo il figlio minore non è più invitato a far valere le sue azioni, che sono ingiuste, ma a vedere se stesso come lo vede il Padre. Solo in seguito può guardare alle sue azioni non conformi al suo essere filiale «Alle volte, seguendo un tale modo di valutare, accade che avvertiamo nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siamo pronti a dedurre che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità dell’uomo.
La parabola del figliol prodigo dimostra che la realtà è diversa: la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l’uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria. Questa comune esperienza fa sì che il figliol prodigo cominci a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità (tale visione nella verità è un’autentica umiltà); e per il padre, proprio per questo motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede con così limpida chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa irradiazione della verità e dell’amore, che sembra dimenticare tutto il male che il figlio aveva commesso».
 

Paolo era un vero fariseo (Il rapporto con la legge)

dal sito:

http://www.stpauls.it/vita/0909vp/0909vp32.htm

Il rapporto con la legge

Paolo era un vero fariseo

di PAOLO DE BENEDETTI 
    
Tra gli articoli sull’Apostolo ci mancava il punto di vista di un cristiano di radici e fedeltà ebraiche come De Benedetti, che ci parla dell’autocoscienza ebraica di Paolo, dell’adesione alla corrente farisaica e della sua tensione messianica. 

Che Paolo fosse e si sentisse ebreo, appare da diverse sue affermazioni, a cominciare dalla dichiarazione che, secondo Atti 22,3, fece sui gradini del tempio al momento dell’arresto: «Fratelli, io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi». E poco dopo, davanti al sinedrio: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti» (Atti 23,6). Da queste due dichiarazioni emerge non soltanto la sua autocoscienza ebraica, ma anche la sua adesione alla corrente farisaica (in cui, secondo alcuni studiosi moderni, si era formato Gesù): Gamaliele il Vecchio era nipote di Hillel, il grande maestro che, a differenza del contemporaneo Shammaj, era noto per la sua dolcezza e moderazione.
La tradizione farisaica non era compatta e omogenea. Una citazione talmudica distingue sette tipi di farisei: «Il fariseo shikmi (che, come il biblico personaggio Sichem, si converte per opportunismo); il fariseo niqpi (che cammina a piccoli passi per ostentare umiltà); il fariseo kizai (che per non vedere le donne cammina a testa bassa e quindi picchia contro i muri e si copre di sangue); il fariseo pestello (che cammina curvo come il pestello nel mortaio); il fariseo che grida sempre (qual è il mio dovere perché io lo possa compiere?); il fariseo per amore e il fariseo per timore» (Talmud babilonese, Sotah 22b).
Ma che cosa dice la Scrittura a proposito dei precetti? «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme perché tu viva» (Dt 30,15-16). Ascoltando tali precetti – dopo la rivelazione sinaitica – il popolo disse a Mosè: «Tutto ciò che il Signore ha parlato, eseguiremo e ascolteremo» (Es 24,7). Dove si deve notare la precedenza dell’ »eseguire » sull’ »ascoltare », della prassi sulla riflessione.

Il rapporto di Paolo con la legge

Qual è la posizione di Paolo sui precetti? «Quelli che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione [...] e che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge, risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede [...]. Cristo ci ha salvati dalla maledizione della legge» (Gal 3,10-11.13). A questa e altre numerose negazioni della legge, Paolo alterna valutazioni di altro senso (per esempio in Rm 7,7.14-16). Tutto ciò deriva, a mio parere, da un’esperienza giovanile turbata e forse traumatica dell’osservanza dei precetti, come quella esemplificata nella citazione talmudica proposta sopra. Mi pare evidente che nella sua giovanile presenza farisaica il rapporto di Paolo con la legge non sia stato quello del « fariseo per amore ».
La sua colpa (che ha avuto conseguenze gravissime nelle interpretazioni cristiane dell’ebraismo) sta nell’aver generalizzato ed esclusivizzato il modello del fariseo kizai, e nell’aver ignorato una tradizione orale che insiste su quello che potremmo chiamare il significato sacramentale del precetto: il precetto, come il sacramento, non ha il suo significato nell’atto o nella materia prescritti, ma nella « provenienza ». Ossia: il precetto, come il sacramento, è un memoriale, una memoria attiva ed efficace, della volontà di Dio. Quando mi astengo, per esempio, da cibi proibiti, il vero senso del precetto è che io mi ricordo di Dio. Mi sia consentito riprendere in proposito quanto ho scritto nella mia Introduzione al giudaismo (Morcelliana 1999, pp. 74 -75). La presenza,l’incarnazione della volontà di Dio – potremmo dire di Dio in quanto volontà – è la radice biblica della halakhà, « norma ». Come afferma E. Levinas, la halakhà è un accesso all’intellettuale – direi alla conoscenza di Dio – a partire dall’obbedienza.
Leggiamo uno dei precetti biblici più incompresi dai non ebrei: «Parla ai figli di Israele e di’ loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti, per tutte le loro generazioni, e mettano alla frangia di ogni angolo un filo di porpora azzurra. E della frangia avverrà che quando la guarderete vi ricorderete di tutti i comandi del Signore, e li eseguirete, e non devierete dietro il vostro cuore e dietro i vostri occhi, al seguito dei quali vi siete prostituiti» (Nm 15,38-39). Se Paolo non avesse sofferto una situazione psicologica disturbata come quella del fariseo kizai, avrebbe compreso che i due versetti sono il cuore della Torà, perché contengono tre elementi assolutamente fondamentali: un comando di Dio, un comando spoglio di senso etico, e un collegamento del comando al ricordo. Potremmo aggiungere: al ricordo di Dio come voce. Proprio perché il valore dei precetti sta nella provenienza, si capisce quel detto midrashico secondo cui «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti».
Il grande rabbi Jochanan ben Zakkaj, contemporaneo di Paolo, diceva: «Né il morto contamina né l’acqua purifica [che sono due principi della Torà] ma è il decreto del Re dei re, come dice il Santo benedetto sia: « Ho decretato i miei decreti e ho prescritto le mie prescrizioni, né l’uomo può violare il mio decreto »» (Midrash Rabbà a Numeri 19,8).
E due secoli dopo Rav – altro grande maestro della tradizione orale – diceva a proposito delle regole di macellazione rituale: «Forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale lo colpisca al collo o lo colpisca alla nuca? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Midrash Rabbà 6,2). Questi precetti « punteggiano » l’esistenza quotidiana, indipendentemente dall’eventuale formazione teologica del singolo: potremmo dire perciò che in un certo senso sono un modo che Dio ha di arrivare all’uomo comune. Ecco perché è stato affermato che Dio sta nel precetto (e, aggiungiamo noi, non soltanto nella morale).
La posizione, o meglio l’alternanza di posizioni di Paolo sui precetti (che, lo ripetiamo, è responsabile di gravissimi fraintendimenti dell’ebraismo da parte dei cristiani) è tuttavia, paradossalmente, un fattore intra-giudaico. Infatti il giudaismo si è sempre nutrito di discussioni anche violente, di divergenze profonde, come quelle famose, nel primo secolo, tra la scuola di Hillel e quella di Shammaj. Se i cristiani leggessero più criticamente le discordanti asserzioni di Paolo sui precetti, forse anch’essi, come i discepoli dei due maestri, sentirebbero una voce dal cielo che afferma: «Queste e quelle sono parole del Dio vivente». Ma ci vuole ancora pazienza e libertà.

La sua tensione messianica

Se l’ebraicità di Paolo emerge anche dalle sue ossessioni, c’è un altro elemento ebraico del pensiero paolino, che lo pone tra le più grandi – se non la più grande – personalità del Nuovo Testamento. Mi riferisco alla sua tensione messianica, tipica del medio giudaismo e radice perenne del cristianesimo. Essa trova il suo culmine in un passo della lettera ai Romani che vorrei fosse riletto da ogni ebreo e da ogni cristiano ogni giorno: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere liberata dalla corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Romani 8,19-24).
E non dimentichiamo che questa è anche la speranza messianica di Dio.

Paolo De Benedetti  

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