4 Dicembre : Santa Barbara (Goya)
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dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/177q04a1.html
(L’Osservatore Romano 3-4 agosto 2009)
Il curato d’Ars modello sacerdotale in un discorso dell’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini
(PRIMA PARTE)
Ma non si crede a un prete che se la gode
Il 18 novembre 1959, nell’anno centenario della morte di san Giovanni Maria Vianney, l’arcivescovo di Milano pronunciò un discorso sulla figura e l’opera del curato d’Ars. Lo ripubblichiamo secondo l’edizione critica dei Discorsi e scritti milanesi (1954-1963) (Brescia, Istituto Paolo VI, 1997, pp. 3153-3169). Il testo è stato ora opportunamente compreso nel volume curato da Leonardo Sapienza Stile sacerdotale. Sulle orme di San Giovanni Maria Vianney Curato d’Ars (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2009, pagine 202, euro 11).
Parlare di un Santo è sempre difficile, se non si vuole fare semplicemente la narrazione storica, ché questa è relativamente facile e, nel caso nostro sarebbe anche abbastanza semplice. La vita di Giovanni Maria Vianney non presenta grandi quadri, né grandi drammi: procede con una uniformità nel periodo che ci interessa, dal principio alla fine, molto uguale e molto semplice.
È difficile, dico, se non si vuol fare della esaltazione retorica e se si vuole stare alla realtà, questa realtà umana che l’agiografia moderna cerca di proporzionare alla statura comune. E avviene allora che ci sentiamo in simpatia col Santo di cui vogliamo descrivere la vita e conoscere le virtù. Ci sembra quasi che, a metterlo al nostro livello, diventiamo anche noi un po’ come lui e possiamo in qualche modo pretendere di avere con lui qualche conversazione. A un certo punto poi ci si accorge che la statura sua, quella del Santo, eccede alla nostra misura e di quel tanto che non ci è facile misurare. Qualche cosa di superiore, di singolare, di eccezionale, di carismatico viene a dare al Santo questa sua prerogativa, questa sua singolarità, e restiamo ancora silenziosi e un po’ umiliati di saperci diversi e forse quanto diversi da lui.
Nel caso poi del Santo Curato d’Ars, per me almeno, le difficoltà crescono: crescono per il fatto che c’è qualche cosa di veramente straordinario in questa vita così ordinaria; giuocano degli elementi che hanno fatto il fascino di alcune sue biografie e, in gran parte, della popolarità che questo Santo si è acquisito e di quanto ha circondato la letteratura che ne ha illustrato la vita. Ma la difficoltà maggiore, mi pare che cresca in questo, che ci è proposto questo Santo sotto un duplice aspetto: di protettore nostro, di noi preti e di modello, vale a dire che dovremmo essere capaci di imitarlo. E se lo accettiamo tanto volentieri come protettore e ci sentiamo confortati da una figura così dolce, così mite, così umile, così sollecita, così comprensiva come fu questo del secolo scorso, di averlo nostro tutore, di averlo nostro interprete presso il Signore dei nostri bisogni, delle nostre fatiche, delle nostre aspirazioni, quando, invece, si tratta di dire: devo conformarmi a lui, dovrei essere capace di assimilarmi a questa figura, le cose diventano molto difficili, dico almeno per me.
Per fortuna questo Santo è fra i più documentati, come sapete; direi che non ci sfugge nulla della sua vita. Se si pensa a quanto è stato scritto, almeno in Francia e altrove, sopra di lui, vediamo che non c’è gran che fatica a trattare di lui e venire a conoscenza di questa mirabile apparizione che è la sua vita. Fu tra i Santi, dico, che ebbero l’onore di una « canonizzazione » ancora in vita. Tanti Santi scoprono la loro santità a morte avvenuta ed è quasi una riabilitazione che l’opinione pubblica, la Chiesa stessa tante volte fa dei Santi che poi onora sugli altari. Pensate a quanti Santi hanno avuto, direi, un processo di riesame, di riabilitazione della loro vita per essere proposti poi al culto del pubblico e all’imitazione dei buoni.
Questo invece fu già in vita molto molto celebrato, molto conosciuto; circolavano ancora prima della sua morte delle piccole biografie, tanti ritratti, gente che si dava premura di raccogliere le reliquie ancora prima che la sua vita fosse al tempo terminata. Si dice che questo capitò un po’ anche ad altri Santi, a San Carlo per esempio. Il Giussano, che è uno dei biografi di San Carlo e gli fu segretario negli ultimi anni, scrivendone la vita, che è una delle fondamentali su la vita di San Carlo, dopo circa una trentina d’anni, notava che erano già uscite sette biografie di San Carlo.
Ebbene, del Curato d’Ars, a due anni nemmeno dalla sua morte, sono usciti due grossi volumi del Monnin che sono ancora la base principale per questa sua descrizione, per questa sua conoscenza. E vediamo che il processo di beatificazione fu auspicato nell’elogio funebre stesso che il Vescovo di Belley pronunciò sul Santo, augurandosi che fosse riconosciuta dalla Chiesa questa eccezionale figura come degna del culto dei cristiani, della comunità cristiana.
Tardò invece la canonizzazione e anche la beatificazione più di cinquant’anni. Ma il fatto è che la fama di santità e la conclamata sua eccezionalità di vita fu immediata e, di lì, tutta una letteratura che ci ha conservato parole, un po’ di prediche, frammenti, episodi moltissimi, e poi, e poi pochi Santi hanno avuto i commenti autorevoli che questo ha avuto, voglio dire dei Papi. I Papi di questo secolo hanno preso la parola sopra questo santo per magnificarne le virtù, per illustrarne la vita, per raccomandarne gli esempi.
E così veniamo dopo i discorsi di Pio xi sul Santo Curato d’Ars, dopo i tanti accenni che ne fece Pio xii, veniamo nientemeno che ad una Enciclica, l’ultima, quella che provoca queste nostre meditazioni sul santo; l’Enciclica fu pubblicata, come tutti sanno, da Papa Giovanni XXIII, che è felicemente regnante (…).
Mi pare invece che noi abbiamo sempre qualche cosa da fare su questo Santo, non tanto, ripeto, per presentarci una figura, che diamo per conosciuta, quanto per assimilare noi stessi a questo Santo. Se volessimo davvero avvicinarci a lui, se volessimo davvero osare di compaginare in qualche maniera la nostra vita sacerdotale alla sua, che cosa dovremmo fare?
Il tema resta molto più accessibile a questa nostra semplice conversazione.
E lo sforzo, anzi il tentativo di approssimarci a lui, ci impone prima di tutto un problema: quello di esaminare se la nostra coscienza sacerdotale sia simile a quella che il Curato d’Ars ebbe della propria vita e dignità sacerdotale. Abbiamo lo stesso pensiero? La pensiamo alla stessa maniera? Noi dobbiamo avere un concetto di noi. Che concetto aveva il Curato d’Ars di sé? E qual è il nostro? Differiscono? Combaciano? Si ricercano?
Direi che fortunatamente si ricercano e in parte anche combaciano. Ed è una delle cose più belle che possiamo notare sulla vita ecclesiastica del nostro tempo; questo modello ha già lavorato nella Chiesa di Dio, ha già avuto una riproduzione tendenziale almeno che merita che la accettiamo e la notiamo con consolazione e con incoraggiamento. Ma il fatto è che bisogna che noi stringiamo, sotto questo punto di vista, le distanze e cerchiamo di fare nostra, quanto è possibile, la considerazione che il Curato d’Ars aveva di se stesso. Se partiamo di qui, qualche cosa di più otterremo.
E vediamo, sotto questo punto di vista, due punti molto molto ovvi: il primo che non è originale in San Giovanni Maria Vianney, ma direi in tutti i Santi, i veri Santi, è di una straordinaria umiltà. I Santi sono divorati da questo senso del loro nulla, di questo senso di sproporzione fra il Dio e il Cristo che adorano e che servono, e ciò che loro sono. Questa abissale distanza è stata notata per prima dalla più santa delle creature, la Madonna. Nel canto del Magnificat, che proprio mentre celebra le grandezze di Dio, in Dio e in sé, dice: fecit mihi magna qui potens est ha fatto cose grandi il Signore in me perché ha guardato l’umiltà, la bassezza, l’inanità della sua serva, della sua ancella.
E così San Giovanni Maria Vianney ha di sé una ricorrente, una istancabile umiltà. Noi siamo alcune volte quasi disturbati da queste professioni, che ci sembrano esagerate, di nullità dei Santi; ma bisogna capirle, non sono affettazioni, non sono professioni gratuite, non sono difese formali contro gli elogi che la gente fa a chi si mostra virtuoso e diventa maestro degli altri. I Santi hanno davvero questo senso di vuoto proprio e lo vivono, e lo declamano, e lo professano, e ne accettano anche logicamente le conseguenze se qualcuno li disprezza; se qualcuno li prende sul serio, sembra che davvero li abbiano a ringraziare, perché è proprio così. Io leggo una frase o due che possono documentare, per quanto sia superfluo, questo modo di vedere e questo modo di sentire del Santo di sé.
Quando verso la fine della sua vita gli fu dato un Sacerdote che lo aiutasse, un coadiutore, egli andava dicendo al suo coadiutore: « Oh! quando voi siete presente, qui ancora ci si fa, ma quando io sono solo, oh, io non valgo nulla. Io sono come gli zero che non hanno valore se non a fianco di altre cifre ».
E poi, con una frase che mi sembra splendida anche dal punto di vista letterario, esclamerà una volta: « Oh! io non ho ancora vissuto un giorno ».
Quanta miseria sentiva nella propria vita che diceva che nessun giorno era stato come avrebbe dovuto essere. E quando cominceranno a tributargli qualche segno di considerazione, di onore, lui ironizzerà i segni di onore che lo circondano e continuerà a dirsi: « Bisogna proprio dire che io sia un ipocrita perché mi manifesto a qualche maniera che inganna gli altri ».
E nella Vita che vi ho citato del Monnin, nella prima pagina, c’è la riproduzione di un suo scritto, litografata, in cui anche là abbondano queste frasi, vergate con fatica, ma con energia: « Come sono ipocrita, ma che sono un povero peccatore », e così via.
C’è il senso affliggente, ma atrocemente vero, nella coscienza di questo prete, di una radicale povertà, di una radicale nullità. Chi non ha raggiunto questa sensazione, che ha del metafisico e ha dell’abisso psicologico, non avvicina la psicologia del Santo Curato d’Ars.
E simultaneamente, con questa terribile umiltà, quasi balzasse proprio dal profondo di questo abisso, che è riuscito a scavare in sé, un senso superlativo della propria dignità. Bisogna andare dalle labbra di questo Santo, come di tanti altri, ma qui troviamo nella semplicità stessa delle espressioni una veridicità che ci persuade e che ci confonde e che ci commuove, il senso immenso della dignità sacerdotale.
Voi sapete che su questi due elementi, l’umiltà del prete e il senso della sua dignità e della sua autorità, giuoca tutta la letteratura contemporanea, che fa del protagonista di tanti racconti romantici il pover’uomo che racchiude in sé qualche cosa di immensamente grande, di incommensurabilmente degno.
E questo che sente di sé la miseria la più incolmabile, sente di contenere in sé una dignità, una potenza, un mistero che non finisce mai di celebrare e che non ha ritegno di confessare con la stessa sincerità e con la stessa osservanza con le quali prima si confessava un miserabile.
Alcune frasi, sempre del Curato d’Ars: « Il prete non si comprenderà mai bene se non in cielo », il che vuol dire che anche qui abbiamo davanti qualche cosa che supera la nostra capacità di misura. Non comprenderemo mai abbastanza noi stessi; siamo diventati noi stessi oggetto di mistero dal giorno in cui è piovuta dentro di noi la grazia di essere cristiani dapprima, di essere poi i rappresentanti e i funzionari di Cristo, poi di essere i Suoi ministri e i Suoi Sacerdoti.
Se il Sacerdote, continua, fosse bene penetrato dalla grandezza del suo ministero, potrebbe a stento vivere, sarebbe sopraffatto, sarebbe quasi paralizzato da questa comprensione, che incomberebbe dentro e sopra di lui come un peso insopportabile. Se si comprendesse bene il Sacerdote sulla terra, si morirebbe. Forse di spavento; non di spavento però, ma di amore.
Il prete a causa dei suoi poteri è più grande di un angelo. È il Sacerdote che continua l’opera della redenzione sulla terra. Il sacerdozio è l’amore del cuore di Cristo. E si potrebbero sopra questo punto moltiplicare enormemente le citazioni.
Dunque avere coscienza di sé mi pare che sia uno dei primi tributi che noi dobbiamo fare, se vogliamo che la celebrazione del centenario del Curato d’Ars non sia del tutto vana. Vediamo di ricalcare la nostra coscienza sopra questi due fuochi della sua psicologia, della sua coscienza sacerdotale. E che l’avere coscienza di sé sia sempre cosa ardua e cosa importante lo sappiamo, direi, dalla filosofia antica che faceva del conosci te stesso il cardine della sapienza.
Noi che abbiamo certamente qualche cosa di singolare, che abbiamo una funzione certamente decisiva per la vita di tanti altri, che siamo in comunicazione coi misteri di Dio e che siamo nello stesso tempo medici, vale a dire in comunicazione con tutti i mali dell’umanità, dobbiamo avere una coscienza di noi stessi proporzionata a questa natura del sacerdozio, a questa sua funzione.
Troveremo difficile questo? Sì, sì è difficile. Perché? Ma perché, direi che c’è un pericolo nell’atto stesso che noi cerchiamo di far questa meditazione sopra noi stessi; l’atto riflesso ci può dare una vertigine, ci può dare un capogiro.
La dignità stessa di Sacerdote che noi possediamo può, direi, incantarci e, quando vogliamo mantenere questo concetto, ci mostriamo di fronte al nostro pubblico, alla nostra scena storica che ci circonda, pieni, gli altri lo dicono, di un’ambizione che nessuno aspetterebbe in noi e forse è nata anche da questa considerazione: sono portato così in alto, sono superiore agli altri, non sono più come un laico, come una persona del popolo, mi distinguo dal popolo, bisogna che gli altri me la riconoscano questa. Ed ecco che compaginiamo tutta la nostra psicologia sacerdotale sopra un focolare operante di ambizione, di orgoglio.
Se poi pensiamo che alla dignità si aggiungono dei poteri, delle potestà, vale a dire: io sono arbitro di tante altre sorti, di tante altre anime, io ho le chiavi del regno dei cieli e cioè posseggo nelle mie mani un diritto, anche questo può darci un certo senso di ebbrezza e alterare la vera coscienza sacerdotale che noi abbiamo di noi, cioè ci possiamo porre davanti agli altri come diritto. Sono io, qui comando io; non c’è nessuno sopra di me. Bisogna che tutti mi obbediscano. È una concezione che si è radicata molto anche nel nostro clero, specialmente negli anni passati, nei secoli scorsi, quando accanto alla autorità spirituale si è aggiunta una autorità temporale, si sono fusi i due poteri: la spada e il pastorale; è entrato in noi il concetto che per amministrare bene bisogna comandare molto. È nata una psicologia, starei per dire, feudale del Sacerdote. Il Sacerdote è distante, deve comandare a cenni, deve essere obbedito ancor prima di pronunciarsi; è il Sacerdote che si confina in un suo cerchio distante dal popolo e, il vero popolo, secondo questa concezione, dovrebbe essere davvero un gregge molto obbediente e che domanda poco, che non disturba orari e che lascia al Sacerdote questa maiestatica contemplazione di sé e questo quieto vivere che dev’essere il suo ministero; pericolo, ripeto, che anche lo sforzo di dare a se stessi una coscienza sacerdotale derivata dalla realtà di questo mistero operato in noi dal sacramento dell’Ordine, possa anche in noi alterare la vera coscienza sacerdotale.
Invece, secondo quel che ci insegna il Curato d’Ars con questa sua duplice psicologia, dobbiamo correggere la nostra mentalità e cercare di renderla quale la vuole Cristo poi, perché non è mica diversa quella del Santo da quella che Cristo ha predicato, che ha detto essere sì la nostra dignità immensa, essere sì incontestabile il nostro diritto, ma tutto questo che cosa è? Perché siamo Sacerdoti?
Siamo Sacerdoti per servire; è funzionale la nostra dedizione: qui praecessor est, sit sicut ministrator; chi precede sia l’ultimo, chi precede deve essere utile agli altri. Siamo in funzione degli altri, non in funzione di noi stessi e se vogliamo davvero riprodurre in noi l’idea che Cristo ha fatto del acerdote e che il Curato d’Ars ci riproduce e ci rende familiare e accessibile, dobbiamo sopra questo punto insistere assai.
E vedremo, carissimi confratelli, come siamo candidati a delle cose tremende, proprio perché abbiamo questa eccelsa dignità. Abbiamo la dignità di essere sì i redentori del mondo, ma la redenzione si compie con la croce. Noi dobbiamo redimere gli altri con la nostra sofferenza, come Cristo che non era peccato, dice San Paolo, e si è fatto Lui peccato, cioè ha assorbito dentro di Sé tutta l’iniquità umana per espiarla e annullarla, e questo gli è costata la croce. Noi se siamo Sacerdoti, cioè siamo i capi, le guide, gli esempi degli altri, dobbiamo ricevere sulle nostre spalle questo tremendo pondus della espiazione altrui. Vedrete in certe pagine e in certi momenti della vita del Curato d’Ars come questo pesa fino all’angoscia sopra questa umile coscienza, ma veggente coscienza di prete. « Oh! se avessi saputo – esclama una volta – che cosa significasse essere prete, forse avrei temuto di ricevere questa grazia del Signore ».
Sente come pochi la responsabilità. Si sente lui incaricato di espiare i peccati degli altri. Fa penitenza in luogo dei suoi penitenti. Si sente schiacciato dai peccati del mondo che lo circonda e sente di dover diventare vittima di questa situazione. Il Sacerdote è al centro di questo urto fra il bene e il male, fra la grazia e il peccato, fra il demonio e Dio. E questo urto, lo sappiamo bene, è il sacrificio, è la croce. Questa è la coscienza sacerdotale del Santo Curato d’Ars e che noi dobbiamo cercare di fare nostra.
Se così poniamo la nostra approssimazione al Santo Curato d’Ars, viene da considerare un secondo aspetto, quello che potremmo dire della spiritualità. Che cosa intendiamo per spiritualità? Un nome che fa fortuna e che corre con grande facilità sulle labbra di tutti. Mi pare che sia esatta la definizione che ne ha dato uno scrittore spagnolo, quando dice che è il modo con cui cerchiamo di realizzare l’ideale della vita cristiana e, possiamo dire, del Sacerdozio.
In che modo questo ideale di Sacerdozio lo possiamo praticare e realizzare? In che modo lo ha realizzato e praticato il Curato d’Ars? Cioè, dobbiamo cercare i principi operanti, le idee forza, le linee di svolgimento di questa coscienza; dobbiamo vedere se la sua spiritualità, cioè questo svolgimento della vita, della coscienza al di fuori, alla manifestazione dei suoi atti e delle sue virtù, sia da noi perseguibile e in che modo semmai.
Sapete che l’Enciclica, tracciando appunto questa epifania, questa esplicazione della vita del Curato d’Ars, cita tre aspetti molto elementari. Siamo stupiti di non trovare niente nell’Enciclica che parli delle manifestazioni singolari, prodigiose, miracolose del Santo; si direbbe che sono ad arte dimenticate, perché non ci sia nulla in questa apologia del Santo, che non possa essere anche a noi di conforto e di invito all’imitazione.
dal sito:
http://www.zenit.org/article-25616?l=italian
L’Anno paolino, un anno di grazia ed evangelizzazione
Il bilancio delle celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo
di Chiara Santomiero
ROMA, giovedì, 17 febbraio 2011 (ZENIT.org).- “Un anno di grazia, anche al di là delle nostre aspettative”: è il bilancio tratto dal Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete emerito della Basilica papale di S. Paolo fuori le mura, a proposito dell’Anno paolino celebrato dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009 in occasione della ricorrenza dei duemila anni dalla nascita dell’apostolo delle genti. Se ne è parlato nella conferenza stampa tenuta giovedì presso la Sala stampa della Santa sede.
“Un evento storico” lo ha definito anche il Cardinale Montezemolo, ricordando come per la prima volta nella storia della Chiesa sia stato celebrato un anno tematico dedicato a san Paolo che ha dato luogo non solo a numerosi pellegrinaggi alla basilica romana che custodisce la tomba dell’apostolo e ai luoghi paolini dell’area mediterranea, ma anche ad altrettanto numerose conferenze e concerti e ad una copiosa produzione di libri, opere musicali, film, programmi Internet che hanno coinvolto milioni di persone.
“Contro il rischio di dimenticare”, di quanto di più significativo è avvenuto a San Paolo fuori le mura e nelle chiese locali di tutti i continenti, “dà atto” il libro di oltre 500 pagine “L’Anno paolino” scritto da Graziano Motta, giornalista responsabile della comunicazione dell’Anno paolino, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e presentato nel corso della conferenza stampa. Una sezione, esplora in particolare, il significato ecumenico dell’Anno paolino celebrato insieme da cattolici, ortodossi e protestanti.
“E’ stata l’occasione – ha ricordato il Cardinale Montezemolo – per stabilire tra le diverse confessioni un’atmosfera di cordialità non nuova ma intensificata”.
Un anno, quindi “strategico per la stessa vita della Chiesa”, come lo ha definito nel suo intervento alla conferenza stampa mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. L’Anno paolino, infatti, “ha permesso di riportare alla luce non solo la multiforme ricchezza del pensiero dell’apostolo delle genti con una produzione teologica e bibliografica probabilmente mai raggiunta nel passato” ma soprattutto “ha evidenziato la sua attualità per la vita della Chiesa nella sua missione evangelizzatrice”.
Non a caso, proprio dalla Basilica di San Paolo, il 28 giugno 2010, in occasione dei Primi Vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo, Papa Benedetto XVI manifestò la sua intenzione di istituire il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione la cui nascita è stata formalizzata nell’ottobre successivo.
“Siamo convinti – ha affermato Fisichella – che questa basilica dovrà essere ancora di più nel futuro segno evidente della volontà della Chiesa nell’intraprendere il suo cammino di nuova evangelizzazione” e non è escluso che il nuovo dicastero non promuova delle iniziative in questo senso per il prossimo ottobre.
Intanto, ha dato notizia mons. Fisichella rispondendo alle domande dei giornalisti sulle attività del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, “proseguono gli incontri con le conferenze episcopali di vari paesi, europei e non, mentre sono già in programma per marzo prossimo una due giorni di studio sulla nuova evangelizzazione con degli specialisti e a maggio un incontro per la definizione di una nuova forma di evangelizzazione di ambiente”. Naturalmente tutta l’attività del dicastero “resta in attesa di quanto sarà proposto nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione previsto per il 2012 e dalla successiva Esortazione post-sinodale”.
Il grande impulso dato alla conoscenza del pensiero paolino dall’anno celebrato in onore dell’apostolo delle genti non deve essere disperso, così come quello dato alla vitalità del complesso della basilica di San Paolo. Il Cardinale Francesco Merisi, attuale Arciprete di San Paolo, ha informato della pubblicazione di un libro sulla basilica che sarà presentato alla stampa il prossimo 10 marzo. A sua volta, padre Edmund Power, Abate del monastero benedettino presso la basilica, ha annunciato la volontà di creare nel complesso un centro di spiritualità e un centro ecumenico di studi paolini.
dal sito:
http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/martini_preghiera.htm
La natura misteriosa della preghiera (su Rm 8, 26-27)
di S. Em. Card. Carlo Maria Martini
Meditazione ai sacerdoti della diocesi di Milano tenuta il 30 ottobre 1991 a Rozzano diocesi di Milano. Il testo è tratto da: Carlo Maria Martini, Briciole dalla Tavola della Parola, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp. 55-61.
Introduzione
Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima settimana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).
È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.
Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Ufficio di Lettura delle settimane venticinquesima e ventiseiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?
A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio» (1).
Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.
Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?
Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera conscia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costituisce una porta molto interessante per costringerci a entrare in questo mondo immenso.
Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi riprendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.
Le due definizioni della preghiera
In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionali della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.
- La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale dell’orazione, che sale dal basso verso l’alto.
- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La richiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nell’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazione, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’elevazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa richiesta di preghiera per noi peccatori.
Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nelle orazioni della messa).
Come si realizza questo secondo elemento della preghiera, che è la richiesta di cose convenienti?
Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime »(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uomini» (2).
Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bisogni. Non tanto però – dice Agostino – con la moltiplicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Viene così introdotta la nozione di «gemito» che ritroviamo nella pagina di san Paolo.
Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, significa anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisicamente il gemito è l’espressione di chi, mancando di aria, cerca di aspirarla.
Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera
Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristica dice: decentium, cose convenienti. E comincia il problema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a caso Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che convengono (Matteo 7, 11).
Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.
I Padri insistono soprattutto su una cosa conveniente, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non diciamo piuttosto col salmista: « Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario » (Salmo 26, 4)?».
E Agostino specifica: si tratta della «vita beata» (3). Tale formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradizione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoicismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.
La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita felice. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbiamo però riflettere che a lui non importa tanto la manifestazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: « Pregate incessantemente » (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna?» (4).
La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.
Ogni richiesta che non è orientata a questa non è conveniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.
E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.
Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desiderio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, diventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.
Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.
Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, invece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spirito santo».
Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cercare, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dunque voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della domanda è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.
Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito santo) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongono come l’oggetto fondamentale della preghiera di domanda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.
Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua venuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito santo venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfetta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantaggio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.
Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scrittura e dell’insegnamento dei Padri.
[1] Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
[2] Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63
[3] 130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60
[4] Ibidem.
l’immagine è nell’articolo, dal sito:
http://www.popoli.info/anno2009/06/0906art6.htm
In missione con san Paolo
Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi
Davide Magni S.I.
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.
LE MOTIVAZIONI DI PAOLO
Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.
LO SCOPO DELLA MISSIONE
Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.
EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO
Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».