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REPORTAGE : SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO (2008)

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REPORTAGE : SUI PASSI DI PAOLO IN TURCHIA, « CULLA » DEL CRISTIANESIMO

Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia…
A pochi giorni dall’apertura dell’ »Anno Paolino », il 29 giugno,
ecco cosa resta del passaggio dell’ »Apostolo delle Genti » in Asia Minore.
Là dove sbocciò la Chiesa, e oggi dominano « islam » e « laicismo atatürkiano ».

Dal nostro inviato in Turchia, Anna Maria Brogi
(« Avvenire », 8/6/’08)

Sventola la bandiera con la mezzaluna e la stella su fondo rosso, davanti alla Chiesa di San Pietro ad Antiochia. Sventola per affermare il primato statale. Da questa balconata naturale sulla città e sul Mediterraneo, più che a una Chiesa si accede a una grotta, scavata dall’acqua nel Monte Staurino. O meglio a un sito « museale », come rivela la biglietteria. Per entrare sul « sagrato-terrazza », con i pini e gli olivi, ci vogliono cinque lire turche (due euro e mezzo).
Il panorama le vale. Nella Chiesa solo un altare spoglio, una statuetta di Pietro e il « trono » del Santo. Collocati negli anni Trenta, sono posteriori alla facciata di marmo ricamata sul grigio del calcare nel 1863. Dal basso sale l’odore della polvere. Un « caos » senza rumore, attutito dalla distanza e dal vento. Questa è Antiochia di Siria, sull’Oronte, dove fuggirono molti ebrei cristiani al tempo delle prime persecuzioni. Qui arrivò Paolo, chiamato da Barnaba, intorno all’anno 46. E qui avvenne l’incontro con Pietro, narrato nella « Lettera ai Galati ». Forse fu proprio in questa cavità naturale: quale rifugio più amico per una comunità di profughi?
Oggi la Chiesetta torna a vivere di tanto in tanto grazie ai pellegrini, che con un permesso vi celebrano Messa. Diventa la casa di tutti il 29 giugno, festività dei Santi Pietro e Paolo, quando accoglie i cristiani locali (un migliaio di differenti riti e confessioni) insieme con le comunità di ebrei e musulmani.
Dal porto di Antiochia Paolo salpò per i suoi tre viaggi, che lo portarono nel Mediterraneo orientale su un percorso di 25mila chilometri.
Non sembra ricordarsene la città, che pure è « crocevia » dei tre « monoteismi ». Aleppo, in Siria, dista appena ottanta chilometri; ancora meno i resti, sempre oltre frontiera, della Basilica di San Simeone lo Stilita.
Di tanta eredità « paleocristiana », in Turchia sembrano riecheggiare quasi solo i « toponimi ».
Antiochia, Efeso, Tarso, Iconio, Cesarea di Cappadocia (le odierne Konya e Kayseri). Bastano a evocare personaggi e vicende dei primi secoli di evangelizzazione. In quest’ »Anno Paolino », che si aprirà ufficialmente il 29 giugno, si è deciso di valorizzare questi luoghi, per farne bandiera di benvenuto ai pellegrini d’Europa. E dunque a Tarso uno striscione proclama « St. Paul Yili 2008″, in turco e in inglese (« The Pauline Year »).
Sono già arrivati i venditori di « gadget », dalle « iconcine segnalibro » ai cappellini di tela. Ma è l’unico indizio di qualcosa nell’aria. Nelle « viuzze » dell’antico quartiere ebraico, dove Paolo nacque e dove restano le fondamenta della tradizionale « casa », si respira un’atmosfera giovanile da anni Settanta. La zona « pullula » di caffè e « narghilé bar »: nei freschi interni e nei cortili ombreggiati i ragazzi « strimpellano » la chitarra e le ragazze improvvisano cori, tra un tiro e l’altro della pipa ad acqua. Un cartello racconta la storia di Paolo.
È scritto in inglese e l’ha posto, nel 1988, la municipalità. Di stranieri, ne arrivano: la regione, stretta tra i monti Tauro e il Mediterraneo, costellata di torrenti e cascate, ha una forte vocazione turistica e richiama gli appassionati delle attività all’aria aperta. Nel Medioevo qui passavano i pellegrini sulla via di Gerusalemme.
Oggi come allora, si può sostare al pozzo di San Paolo e berne l’acqua in segno di benedizione: è stato ripulito e l’acqua è tornata potabile. Di Paolo a Tarso resta anche una Chiesa, costruita nell’Ottocento dai cristiani armeni. Non più in uso, è un sito « museale ». In attesa di rianimarsi.
Musei all’aperto, fin troppo animati, sono la Cappadocia ed Efeso, mete obbligate del turismo culturale. Accomunate dal cristianesimo delle origini, mantengono pallida traccia di quel loro passato. Nel Parco di Göreme, con le Chiese rupestri, un affresco lascia intuire il volto di Paolo. E nella valle dei « camini delle fate », la più famosa della Cappadocia, le guide raccontano ai pellegrini del passaggio dell’Apostolo da una Chiesetta scavata in quei coni di tufo. Di certo c’è che qui Paolo è transitato, poiché vi si trovava una comunità cristiana, e nel primo secolo la cavità esisteva, pur non essendo Chiesa. Ma la bellezza del sito e la « bizzarria » geologica bastano a soddisfare le aspettative di chi va di fretta.
Chi invece sia disposto a ricalcare a passo lento le orme dell’Apostolo può muoversi lungo il « Cammino di San Paolo » (« St. Paul Trail »), un percorso di « trekking » di montagna segnato su sentiero dal 2004: cinquecento chilometri da Perge, vicino ad Antalya, fino a Yalvaç (Antiochia di Pisidia), con un ramo che parte da Aspendos per raggiungere il sito romano di Adada. Fuori dalle rotte del turismo di massa, Antiochia di Pisidia fu sede episcopale e uno dei centri principali del cristianesimo in Asia Minore.
Distrutta dalle invasioni arabe nel settimo secolo, conserva le fondamenta della sinagoga dove predicò Paolo, poi trasformata in Basilica.
Se il sito non è paragonabile alle glorie di Efeso, ha il pregio del silenzio e invita alla meditazione.
A Efeso poco resta di archeologia cristiana.
Splendide le vie « colonnate » e le terme, le case del pendio con affreschi e mosaici, la biblioteca di Celso. Mirabilmente intatta la struttura urbanistica. E il Teatro, dove andò in scena quella « rivolta degli orefici » che costrinse l’Apostolo a lasciare la città. Oggi gli studenti vi improvvisano recite e ha ospitato un concerto di Sting. La città di marmo bianco continua a dare spettacolo della propria opulenza. Anche qui, l’impronta cristiana rischia di sfuggire e va inseguita: San Paolo vi abitò per due anni e mezzo, ma l’unico riferimento archeologico certo è il Teatro. Non c’è neanche un cartello, poi, a indicare i resti della Basilica del Concilio. Si trovano subito dopo l’ingresso della « città bassa » (o prima dell’uscita per chi entra dall’alto), prendendo il sentiero sulla destra. Si arriva in un campo e, in mezzo all’erba, stanno quelle pietre così poco sontuose ma che delimitano il luogo dove si riunirono nel 431 i « padri conciliari » e dove proclamarono il « dogma » della « Madre di Dio ». Una targa ricorda che qui pregò Paolo VI il 26 luglio del 1962. Ai turisti non interessa, dicono le guide: «Qui vengono solo i pellegrini».

25.000 chilometri di Vangelo e persecuzioni
Il primo dei tre viaggi missionari di Paolo in Anatolia risale agli anni 46-47. L’Apostolo era accompagnato da Barnaba e dal cugino di lui, Giovanni Marco. Salparono da Antiochia alla volta di Cipro, sbarcando a Salamina.
All’altro capo dell’isola, nella città di Pafo, furono testimoni della conversione del governatore romano Sergio Paolo. Da Pafo si imbarcarono di nuovo, raggiungendo Perge nei pressi dell’attuale Antalya.
Da lì si inoltrarono nell’entroterra, spingendosi nel cuore dell’Anatolia centrale, e predicarono il Vangelo ad Antiochia di Pisidia, Iconio, Listri e Derbe. Più tardi, nelle « Lettere », Paolo racconterà le fatiche e le difficoltà di questo primo viaggio, che suscitò molte conversioni ma anche frequenti persecuzioni e ostilità da parte sia degli ebrei sia dei pagani. Paolo ritornò ad Antiochia lungo la stessa strada, salpando da Attaleia (oggi Antalya).
Nel 49 l’Apostolo ripartì, accompagnato da Sila. Visitò i cristiani di Derbe, Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia. Dall’Anatolia centrale si spostò poi nella regione nord-occidentale, la Misia. Da lì passò in Macedonia e in Grecia e, sulla via del ritorno verso la « Terra Santa », si fermò per breve tempo a Efeso.
Nel terzo viaggio, tra il 53 e il 57, passò per Derbe, Listri, Iconio e Antiochia di Pisidia. Da qui si recò a Efeso, dove visse quasi tre anni. A quel periodo risalgono molte delle « Lettere » e forse un breve viaggio a Corinto. Costretto a lasciare Efeso in seguito alla rivolta degli « argentieri » – i quali si ritenevano minacciati dal diffondersi del nuovo culto, che avrebbe « soppiantato » quello della dea Artemide, della quale vendevano statuette d’oro – si recò nella Troade e da lì a Mileto. Proprio a Mileto Paolo convocò gli « anziani » della comunità cristiana di Efeso, ammonendoli a guardarsi non solo dai nemici ma anche dalle insidie interne. Durante il viaggio di ritorno, via mare, in « Terra Santa » fece tappa a Patara in Licia. Al termine del terzo viaggio missionario, l’Apostolo rientrò a Gerusalemme dove nel 59 fu arrestato e, in quanto cittadino romano che si « appellava » all’imperatore, imbarcato alla volta di Roma.

 

L’ANNO PAOLINO CONTINUA (stpauls 2009)

http://www.stpauls.it/coopera/0907cp/0907cp04.htm

L’ANNO PAOLINO CONTINUA  

(luglio agosto 2009)

L’insegnamento del Papa è una completa antologia esegetico-teologica sulla figura del « Maestro delle genti » di ogni tempo. L’Apostolo Paolo sia riconosciuto sempre più come modello di comunicazione.   Conclusa solennemente la celebrazione dell’Anno Paolino in tutta la Chiesa, ci pare di poter tuttavia scegliere come slogan, a significare la nostra accresciuta devozione verso il grande Apostolo: l’Anno Paolino continua. Forse è presto per tracciare bilanci su quanto si è fatto e vissuto quest’anno; ma è certo che le tante iniziative che si sono avute – a cominciare dalle « Catechesi » di Papa Benedetto XVI su San Paolo – sono servite ad accrescere la conoscenza e la venerazione dell’Apostolo delle genti, non mai abbastanza « fatto conoscere » al di fuori degli ambiti accademici di Scuole Bibliche e di Teologia. E c’è da credere che una nuova coscienza sia stata suscitata in tutti i cristiani, e che questa produrrà frutti abbondanti di approfondimenti e di confronti con gli insegnamenti di Paolo. Noi paolini diamo, forse, troppo per scontato, che Paolo sia conosciuto a sufficienza, fino ad averne la santa aspirazione o « pretesa » di essere Paolo vivo oggi. Scontato non lo è affatto nell’ordinaria predicazione o nel pur encomiabile esercizio di « lectio divina » sui testi paolini. Di Paolo si ha da sempre un certo timore reverenziale, quasi diffidando di poterlo capire e interiorizzare come merita. E può comunque succedere, come mi confidava di sé un noto studioso di storia medievale il prof. Franco Cardini, di « ammirare Paolo ma di non riuscire ad amarlo; e non certo per irriverenza: semmai, per timore dinanzi alla sua grandezza ».

L’Anno Paolino nel magistero del Papa Circa l’insegnamento di Papa Benedetto sull’Apostolo Paolo abbiamo più volte ricordato quest’anno su « Il Cooperatore Paolino » il ciclo di Catechesi tenute nelle Udienze generali del Mercoledì, dove il Papa si è soffermato su vari aspetti della figura e della dottrina di San Paolo. Ricordiamo ad esempio: la sua relazione con il Gesù storico, la conformità del « Vangelo di Paolo » con l’insegnamento dei Dodici, l’importanza della Cristologia paolina: preesistenza e incarnazione, la teologia della Croce, l’attesa della parusia di Gesù e l’impegno in questo mondo nelle Lettere paoline, la dimensione ecclesiologica del pensiero di Paolo, il culto spirituale in San Paolo, la vera libertà cristiana secondo Paolo, l’Apostolo Paolo modello di evangelizzazione, Paolo e le caratteristiche dell’apostolato, Paolo esempio per i consacrati di tutto il mondo, la straordinaria eredità spirituale dell’Apostolo Paolo, ecc. Una vera e completa antologia esegetico-teologica che ha educato i fedeli per tutto l’Anno Paolino ad avvicinarsi a Paolo, approfondendo l’eccezionale figura e l’insegnamento del « Maestro delle genti » di ogni tempo. Ricapitolando il senso dell’Anno Paolino celebrato, ci dobbiamo comunque rifare al magistero di Papa Benedetto XVI che, fin dall’apertura dello straordinario evento dell’Anno da lui dedicato all’Apostolo Paolo, disse nella Basilica romana di San Paolo fuori le Mura: « (San Paolo) non è una storia passata, irrevocabilmente superata, ma vuole parlare con noi oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale ‘Anno Paolino’: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, ‘la fede e la verità, in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo ». Riflettere sul « maestro delle genti » – ha affermato allora il Sommo Pontefice – apre lo sguardo « al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi ».

Tre aspetti da considerare Benedetto XVI invitava quindi a considerare tre aspetti della vita dell’Apostolo: a) il suo amore per Cristo e il suo coraggio al momento di predicare il Vangelo; b) la sua esperienza dell’unità della Chiesa con Gesù Cristo; c) la consapevolezza che la sofferenza è indissolubilmente unita all’evangelizzazione. Quanto al primo aspetto, il Papa ha riflettuto sulla confessione di fede contenuta nella lettera ai Galati, in cui Paolo mostra che « la sua fede è l’esperienza di essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui di Paolo e che, come Risorto, lo ama tuttora ». Per questo, « la fede dell’Apostolo non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore ». E questa esperienza lo spingeva attraverso le difficoltà, perché ciò che « lo motivava nel più profondo » era « l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro ». Papa Benedetto ha commentato, nella circostanza, anche la manifestazione di Cristo sulla via di Damasco, e l’espressione rivolta a Saulo dal Signore che gli è apparso: « Io sono Gesù che tu perseguiti ». « Perseguitando la Chiesa – osservava Benedetto XVI – Paolo perseguita lo stesso Gesù: ‘Tu perseguiti me!’. Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo ». Perciò, « la Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa » – ha aggiunto il Papa –; ed è questa la dottrina che Paolo trasmette nelle sue Lettere (…) ». Benedetto XVI ha quindi riflettuto sul senso della sofferenza per l’Apostolo attraverso la Lettera a Timoteo. « L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il « maestro delle genti » è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione (…) ». Sono pensieri tanto semplici quanto profondi che ci danno tutto intero il senso della grandezza dell’Apostolo delle genti e dell’importanza unica del suo insegnamento nella storia della Chiesa.

Paolo modello di comunicazione Come Paolini, non possiamo fare a meno di auspicare che la figura dell’Apostolo Paolo sia davvero riconosciuta, da ora in avanti, sempre più come quella del modello di comunicazione, lui che – come è stato detto – se fosse vissuto ai nostri giorni avrebbe sicuramente fatto il giornalista. Riportiamo in merito alcuni pensieri del giornalista e conduttore televisivo, Francesco Giorgino, apparsi sul numero del Maggio scorso della rivista « Paulus », ultima e più significativa espressione dell’impegno dei figli di Don Alberione per far conoscere al grande pubblico la figura del nostro Padre e Protettore. Giorgino, riflettendo sui modelli di trasmissione della fede utilizzati da Paolo, scrive fra l’altro: « L’attualità del messaggio di Paolo sta, anzitutto, nella natura stessa della sua esperienza di fede, nella volontà e nel coraggio che questo grande uomo di comunicazione dimostra fin dall’inizio del suo cammino di fede, scegliendo un Cristianesimo non relegato nel buio del privato né cupamente ripiegato su se stesso, ma capace di guadagnarsi la luminosità del pubblico. Un Cristianesimo in grado di osservare il contesto circostante per misurarsi realmente con esso, fino al punto di correggerne i tratti più a rischio di distorsione o più insidiosi per la dignità della persona umana (…) ». Sviluppa poi un ragionamento molto pertinente: « L’attualità del messaggio di Paolo nell’ambito più specifico della comunicazione sta nel voler essere portatori non di « una » parola, ma della Parola. Tutta la sua esistenza, del resto, è piegata a un solo imperativo: « Guai a me se non predicassi il Vangelo (…). Mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare a ogni costo qualcuno » (1Cor 9,16.22). In San Paolo tutto è posto al servizio del Vangelo. La sua comunicazione è soprattutto una partecipazione che nasce dall’ardore della testimonianza. Evangelizza con tutti gli strumenti messi dall’uomo a disposizione di se stesso per produrre una significazione della realtà coerente. Perché si sviluppi al meglio questo processo che è l’evangelizzazione (specie se praticato con la sequenzialità propria dell’agire comunicativo) c’è bisogno non solo che si stabilisca bene l’estensione della portata del messaggio, ma che si conosca di più e meglio il ricevente. Com’è possibile, altrimenti, fare del bene a chi non si conosce? Ecco, dunque, un altro importante elemento di attualità del messaggio paolino. Viviamo in un’era in cui il mass comunication viene messo a dura prova dalla tendenza sempre più marcata a privilegiare la cosiddetta personal comunication. L’unidirezionalità del modello lineare di comunicazione (nato contestualmente alla fase dei cosiddetti media power nella comunicazione di massa) lascia il passo alla bidirezionalità (…). Paolo è emittente perché apostolo di Cristo. Il messaggio è il Vangelo. Il destinatario è già compreso nell’incarico dell’enunciatore e nella definizione del contenuto da trasmettere. Insomma, il ricevente di questo processo non è solo la fase terminale (se si considera l’unidirezionalità del modello) o la ripartenza (se si considera la bidirezionalità della dinamica comunicativa), ma è la sua ragion d’essere ».

Evangelizzare la cultura E legando il tema della comunicazione a quello della cultura, Giorgino deduce quanto segue: « Torna in mente una vecchia domanda di T.S. Eliot, rilanciata da Kapuscinsky: « Abbiamo l’informazione, abbiamo la comunicazione, ma dov’è la conoscenza? ». Ecco che cosa si garantisce quando si asseconda l’approccio della comunicazione così come indicatoci dalla predicazione paolina e di chi ne ha seguito nei secoli le orme: si garantisce la conoscenza della verità. La nuova evangelizzazione, che trae fondamento dall’attualità del messaggio paolino, si colloca con forza in questo rinnovato e urgente bisogno di acquisizione della verità. La nostra identità, frutto della nostra tradizione e capacità di « protenderci in avanti », non può compiersi senza un governo a pieno dei linguaggi della comunicazione ». E conclude con una riflessione che potrebbe segnare davvero – almeno per noi Paolini – un rinnovato e più forte impegno nell’ambito del nostro carisma di apostoli dell’evangelizzazione attraverso i mass media: « Mi sono sempre chiesto se i media –i news media, soprattutto – siano o no dei luoghi teologici, come direbbe Von Balthasar. Non è facile rispondere a questa domanda. Dire se i mezzi di comunicazione parlino di Dio, significa riflettere sulla loro disponibilità a non essere soltanto un mix di tecnologie, ma anche e soprattutto un insieme di processi culturali capaci di modellare profondamente i comportamenti individuali e collettivi (…). Innanzi a noi vi sono sfide enormi, tutte connesse all’esigenza di contrastare quella deriva nichilista, specie di matrice occidentale, che Benedetto XVI – il Papa della circolarità ermeneutica tra fede e ragione – chiama « apostasia silenziosa » e che il card. Angelo Bagnasco definisce « anestesia degli spiriti ». Nell’arco di pochi decenni siamo passati dalla necessità di evangelizzare la cultura, secondo la formula di Paolo VI, all’urgenza di riportare la cultura all’interno dell’esperienza di fede. Ciò con l’intento di rendere i credenti più consapevoli della tradizione alla quale appartengono, del depositum fidei – per dirla con San Paolo – che la millenaria tradizione cristiana consegna all’uomo di oggi. Occorrono umiltà, chiarezza, precisione, semplicità e coraggio. Ecco, soprattutto coraggio, come l’Apostolo dice senza mezzi termini nella Lettera ai Tessalonicesi. Anche da questo punto di vista rappresenta un esempio imprescindibile. Un paradigma di evangelizzazione della modernità al quale non si può e non si deve rinunciare. Dio solo sa di quanto coraggio abbiamo bisogno oggi ».

Bruno Simonetto

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 27 novembre, 2013 |Pas de commentaires »

QUEL CHE RESTA DI PAOLO – ANNO PAOLINO

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ANNO PAOLINO – UN PRIMO BILANCIO

QUEL CHE RESTA DI PAOLO

DI GIUSEPPE PULCINELLI

(Jesus, 7 luglio 2007)

Durante quest’anno si sono moltiplicate le iniziative « paoline ». Uno stimolo per i cristiani affinché attingano all’esempio dell’Apostolo: non una superficiale imitazione, dunque, ma una conformazione al modello di chi ha sposato totalmente la causa di Cristo.
  È forse presto per trarre dei bilanci dall’Anno Paolino appena concluso, e tuttavia si può già tentare qualche riflessione sulle possibili prospettive che esso ha aperto.
Sicuramente ha fornito tantissime occasioni per ripensare alla figura dell’Apostolo: pellegrinaggi, catechesi, spettacoli, mostre, convegni, simposi internazionali, ma anche programmi diocesani e parrocchiali; si può dire che ogni realtà ecclesiale è stata direttamente o indirettamente coinvolta in qualche iniziativa « paolina ». E soprattutto ha stimolato molti cristiani a riprendere in mano i suoi scritti, come ha incitato a fare anche Benedetto XVI al termine delle catechesi che gli ha dedicato: «Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento della Chiesa» (4 febbraio 2009; il terzo volume che raccoglie le sue catechesi viene ora pubblicato dalla San Paolo, Paolo e il suo insegnamento).
Molti hanno detto giustamente che se anche l’Anno Paolino avesse ottenuto quest’unico scopo, avrebbe visto ampiamente giustificata la sua indizione. E accostare personalmente i suoi scritti – oltre alle occasioni offerte dalla liturgia (troppo raramente i testi paolini vengono commentati nelle omelie!) – non può mai lasciare indifferenti: la perenne freschezza e radicalità dell’Evangelo da lui predicato è davvero un grande stimolo per ripensare il nostro essere cristiani del XXI secolo. Di fatto tantissimi aspetti del suo pensiero, del suo insegnamento, trovano facile connessione con l’attualità: la ministerialità (maschile e femminile) nella Chiesa, la tensione tra carisma e autorità, la rilevanza del dono della profezia, il rischio delle fazioni-divisioni, il rapporto tra fede e morale, l’universalismo e l’inculturazione dell’Evangelo, la parresìa come stile ecclesiale… solo per nominarne alcuni.
Un aspetto che potrebbe suscitare imbarazzo se non è ben compreso, è quello della « imitazione » dell’Apostolo, di cui Paolo stesso parla in vari passaggi delle sue lettere: «Fatevi miei imitatori» (1Cor 4,16; cf. 1Ts 1,6; 2,14; Fil 3,17; 4,9; Gal 4,12; ecc.). Non è un invito da presuntuosi o esaltati, come potrebbe sembrare; è invece il segno di un rapporto intimo, profondo, da collocare nell’ottica familiare della genitorialità (cfr. 1Cor 4,14-17), in cui ci si mette in gioco con tutto sé stessi a favore di chi, entrando a far parte della Chiesa nascente, non aveva ancora antenati nella fede a cui guardare per orientarsi nella vita.
Ultimamente, in quella che viene definita una situazione di emergenza educativa, si parla molto della mancanza di modelli positivi nella formazione dei giovani, e dell’antitetico dilagare di modelli che poco o nulla hanno a che fare con la prospettiva cristiana o più in generale con i valori etici; e ci si è pure interrogati se è ancora effettivamente praticabile la metodologia pedagogica del « conformarsi al modello », per i rischi che essa potrebbe comportare, non ultimo quello della riproduzione pedissequa e tutto sommato sterile degli atteggiamenti esteriori del modello. Di fatto però l’avere dei modelli è connaturale all’essere umano; questo vale già nell’ambito familiare, con il bambino che impara imitando i genitori, e poi in quello scolastico, professionale… Ciò continua a valere nel campo religioso-ecclesiale. Ogni credente ha fatto l’esperienza di quanto siano state decisive per il proprio cammino di maturazione nella fede e nelle scelte di vita alcune figure di riferimento: genitori, maestri, sacerdoti, suore, catechisti, ecc. Volti, parole, gesti significativi che ci sono rimasti impressi, quando in certi frangenti abbiamo avuto come l’illuminazione: «Questo è il modo giusto di reagire, il modo per aderire alla realtà e coglierne la sua verità più profonda». È in questo senso che conserva tutta la sua validità la pedagogia dell’esempio, il « conformarsi al modello ». Nell’ottica paolina, l’imitazione (in greco: mìmesis) è tutt’altro che un « mimare » atteggiamenti esteriori di chi si trova in una posizione preminente come modello-testimone, e ancor meno un mitizzare la figura dell’apostolo: Paolo si oppone drasticamente a ogni minimo insorgere di qualcosa che assomigli al culto della personalità: «Che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori… Né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere… Nessuno ponga il suo vanto negli uomini!» (cfr. 1Cor 3,5.7.22).
D’altra parte si sbaglierebbe di grosso se si esaltasse – come a volte si è fatto – la figura di Paolo come quella del supereroe, dell’uomo perfetto, sempre all’altezza, che non sperimenta mai sconfitte e delusioni: non dimentichiamo che Nietzsche, alla ricerca di supporti alle sue idee sul superuomo, proprio per la mancanza di queste caratteristiche si scagliava furiosamente contro Paolo e il suo pensiero.
Paolo, al contrario, è profondamente cosciente della limitatezza, di quella propria e di coloro ai quali annuncia il Dio cristiano; la sua non è una teologia della trionfalistica onnipotenza e onniscienza, bensì quella della debolezza e stoltezza della croce, cioè la rivelazione del volto di Dio nel Cristo crocifisso: «Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27). E anzi, con una forte dose di ironia, egli stigmatizza con l’appellativo di «superapostoli» (cfr. 2Cor 11,5; 12,11) coloro che presumono di essere «ministri di giustizia» (2Cor 11,15), probabilmente dei giudaizzanti che si consideravano in perfetta coerenza con i precetti della Legge e che avevano avuto molto seguito tra quei credenti di Corinto, sviandoli dalla giusta ermeneutica dell’Evangelo.
Al contrario, di sé stesso Paolo non afferma la forza, la capacità e l’efficienza, ma la limitatezza e l’imperfezione nell’essere umile strumento della grazia: «Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione» (1Cor 2,3); e se di qualcosa bisogna vantarsi, egli si vanta unicamente della grazia che viene dalla croce di Cristo (cfr. Gal 6,14) e della propria debolezza (cfr. 2Cor 12,5), perché essa fa in modo che sia unicamente la grazia di Dio a risplendere: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la forza di Cristo… quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,9.10).
Per Paolo il discernimento non avviene in base a precetti esteriori. Il cristiano infatti per le sue scelte deve confrontarsi con quelle paradossali che Dio ha compiuto in Cristo e che continua a compiere ancora oggi: scelte di tutt’altro segno rispetto all’ottica mondana della ricerca del potere, di cui un tratto caratteristico è quello che porta a farsi deboli con i forti e forti con i deboli; prima di concludere con la celebre frase «mi sono fatto tutto a tutti per salvare a ogni costo qualcuno», Paolo scrive: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli» (1Cor 9,22); e non aggiunge, come ci si sarebbe aspettato: «Mi sono fatto forte con i forti», tanto meno «mi sono fatto forte con i deboli».
«Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1): imitare Paolo per imitare Cristo, questa è la finalità della mìmesis, arrivare ad avere lo stesso sentire di Cristo (cfr. Fil 2,5), cioè sposare la stessa causa, avere i suoi intenti, il suo stile, in particolare la sua umiltà e obbedienza (cfr. Fil 2,8); a questo serve l’imitazione di Paolo e dei suoi collaboratori.
Alla scuola di Paolo, scopriamo che essere modelli per gli altri (in un modo o nell’altro, anche se non lo scegliamo, lo siamo) non significa essere perfetti, ma essere convinti di permanere nella condizione di chi continua a imparare, anche dagli errori (Fil 3,12: «Non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù»). Non si deve temere di perdere credibilità nel rivelarsi vulnerabili e deboli: è invece un grande incoraggiamento per chi ci è affidato vedere qualcuno/a che continua a imparare; tra l’altro a livello psicologico chi è « perfetto » risulta inavvicinabile, suscita antipatia, ma soprattutto rischia moltissimo l’ipocrisia: «Quando pretendiamo di fare gli educatori con la presunzione di essere uomini arrivati che non hanno più bisogno di essere educati dalla vita, diventiamo ipocriti» (C. M. Martini).
E in questo processo, che potremmo inquadrare nell’ottica della « formazione permanente », un grande aiuto ci viene in primo luogo da chi per noi è modello di vita evangelica, ma anche da chiunque, credente o meno, è cercatore di verità e di senso, da tutti coloro che lottano per la giustizia, dai pensatori, dai poeti, dagli artisti… Da ogni persona e situazione può venirci una parola feconda per il presente. In questo Paolo ci insegna davvero a pensare in grande: «In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!» (Fil 4,8-9).

Giuseppe Pulcinelli

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 17 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO IN OCCASIONE DELL’APERTURA DELL’ANNO PAOLINO – OMELIE PAPA BENEDETTO E BARTOLOMEO I (2008)

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CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO IN OCCASIONE DELL’APERTURA DELL’ANNO PAOLINO

OMELIE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
E DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Sabato, 28 giugno 2008

OMELIA DEL SANTO PADRE

Santità e Delegati fraterni,
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle,

siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio…» (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: «Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. «Maestro delle genti» – questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale « Anno Paolino »: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, «la fede e la verità», in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’Apostolo, una speciale « Fiamma Paolina », che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della Basilica. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta « Porta Paolina », attraverso la quale sono entrato nella Basilica accompagnato dal Patriarca di Costantinopoli, dal Cardinale Arciprete e da altre Autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’ »Anno Paolino » assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. Saluto in primo luogo Sua Santità il Patriarca Bartolomeo I e i membri della Delegazione che lo accompagna, come pure il folto gruppo di laici che da varie parti del mondo sono venuti a Roma per vivere con Lui e con tutti noi questi momenti di preghiera e di riflessione. Saluto i Delegati Fraterni delle Chiese che hanno un vincolo particolare con l’apostolo Paolo – Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia – e che formano l’ambiente geografico della vita dell’Apostolo prima del suo arrivo a Roma. Saluto cordialmente i Fratelli delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente ed Occidente, insieme a tutti voi che avete voluto prendere parte a questo solenne inizio dell’ »Anno » dedicato all’Apostolo delle Genti.
Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: Chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: Chi è Paolo? Che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’ »Anno Paolino » che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: «Abbiamo avuto il coraggio … di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte … Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete» (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. in 1Jo 7 ,7-8) – ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Alla domanda: «Chi sei, o Signore?» vien data la risposta: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. «Tu perseguiti me». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». Egli ha «carne e ossa» (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. «Perché mi perseguiti?» Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re. «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.

OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I

Santità, amato Fratello in Cristo,
e voi tutti, fedeli nel Signore,

Animati da una gioia colma di solennità, ci troviamo, per la preghiera dei Vespri, in questo antico e splendido tempio di San Paolo fuori le Mura, in presenza di numerosi e devoti pellegrini venuti da tutto il mondo, per la lieta inaugurazione formale dell’Anno di San Paolo, Apostolo dei Gentili.
La radicale conversione ed il kerygma apostolico di Saulo di Tarso hanno « scosso » la storia nel senso letterale del termine ed hanno scolpito l’identità stessa della cristianità. Questo grande uomo ha esercitato un influsso profondo sui Padri classici della Chiesa, come San Giovanni Crisostomo, in Oriente, e Sant’Agostino di Ippona, in Occidente. Sebbene non avesse mai incontrato Gesù di Nazaret, San Paolo ricevette direttamente il Vangelo «per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 1112).
Questo sacro luogo fuori le Mura è senza dubbio quanto mai appropriato per commemorare e celebrare un uomo che stabilì un connubio tra lingua greca e mentalità romana del suo tempo, spogliando la cristianità, una volta per tutte, da ogni ristrettezza mentale, e forgiando per sempre il fondamento cattolico della Chiesa ecumenica.
Auspichiamo che la vita e le Lettere di San Paolo continuino ad essere per noi fonte di ispirazione «affinché tutte le genti obbediscano alla fede in Cristo» (cfr. Rom 16,27).

L’ AMORE DI DIO SI SPINGE ALLA CONVERSIONE – 2008 INAUGURAZIONE DELL’ANNO PAOLINO

http://www.qumran2.net/materiale/anteprima.php?id=13380&anchor=documento_1&ritorna=%2Findice.php%3Fparole%3D%26%2334%3Bsan+paolo%26%2334%3B%26&width=1024&height=676

L’ AMORE DI DIO SI SPINGE ALLA CONVERSIONE -   2008  INAUGURAZIONE DELL’ANNO PAOLINO

(da qumran.net, materiale pastorale, non capisco chi è l’autore…)

Mi auguro che l’intuizione del Pontefice Benedetto XVI di inaugurare lo scorso 28 giugno 2008 un Anno da dedicare all’Apostolo delle Genti san Paolo, possa costituire per tutti, nella Chiesa un’occasione di riflessione seria e attenta su argomenti formativi che esulino dalle consuetudini della devozione a volte vacua e meschina che non di rado si trasforma in devozionismo sterile, anche considerando la grande importanza che questo illustre personaggio della prima cristianità assume per la nostra fede e per il nostro spirito di devozione anche al nostro Santo Padre Fondatore, vorrei che mi concedeste la vostra attenzione su una riflessione intorno all’insegnamento dell’Apostolo, ai suoi moniti, alla sua figura, queste messe in relazione diretta con il carisma della penitenza e la conversione interiore
I riferimenti per creare un serio e certo accostamento fra il pensiero di Paolo, la teologia penitenziale, ma la prima pedagogia paolina che a questo proposito mi viene in mente la si desume in un piccolo ma molto significativo passo della Lettera ai Romani: “La benignità di Dio ci spinge alla conversione” (Rm 2, 4)
Un riferimento molto eloquente, che racchiude tutto il pensiero di questo grande apostolo intorno alla penitenza; egli infatti in questo contesto esorta al ravvedimento dalle cattive azioni, alla fuga dai giudizi illeciti e dai preconcetti, sprona al buon esempio e alla pratica della sincerità cristiana non senza però sottolineare che la motivazione fondamentale per cui valga la pena assumere un serio atteggiamento di coerenza risiede innanzitutto nell’amore di Dio: è stato Lui per primo a chiamare l’Apostolo alla comunione con sè, non già attraverso la minaccia o la costrizione, la punizione o la coazione esteriore della sua onnipotenza, ma manifestando semplicemente la sua benevolenza nei confronti dell’uomo ed è appunto nell’amore e in forza dell’amore che Dio chiama tutti a conversione. Nella pericope è eloquente la dicotomia fra l’agire dell’uomo che procede lontano dall’amore di Dio e l’intervento divino che supera la presunzione e l’indifferenza dell’uomo: Dio cerca il bene dell’uomo, esprime senza riserve la sua benevolenza e imprime la vita umana con le prerogative del suo amore, ma allo stesso tempo sottolinea che anche dall’uomo si richiede la consapevolezza che non tutto quello che egli fa è approvato da Dio, ma che l’amore deve spingerci piuttosto a cambiare vita. Dio ci chiama a sé perché ci ama e l’amore di Dio fonda la gratuità del Suo intervento nei nostri confronti perché noi possiamo cambiare e orientarci in vista di Lui. Nessun cambiamento della persona e delle intenzioni soggettive, nessun fenomeno di conversione è possibile se non in conseguenza del palesamento diretto dell’amore di Dio.

I – BREVE PROFILO DI PAOLO

Nella vita dell’Apostolo Paolo, che è possibile avere delineata nell’intero libro degli Atti degli Apostoli, si nota improvvisa ma determinante e fulminea, una radicale trasformazione di pensieri, convinzioni, intenti e azioni che scaturisce nient’altro che dall’amore di Dio che radicalmente trasforma il cuore temerario di un perfido apostolo del Giudaismo per orientare la sua stessa intraprendenza nella difesa convinta e attenta del cristianesimo. Il libro lucano degli Atti vede Paolo in un primo momento approvare la lapidazione di Stefano ed esternare tutta la sua foga contro le comunità cristiane che sono da lui visitate perché i suoi membri ne vengano trascinati fuori per essere messi in prigione (At 7, 58; 8, 1 – 3); lo zelante persecutore nonché futuro apostolo non manca di mostrare fondata e convinta efferatezza e spietatezza, mosso dallo zelo esplosivo che lo conduce ad ostracizzare e a reprimere con ogni mezzo qualsiasi cosa si opponga alla religione Giudaica, essendo questa probabilmente l’unica motivazione fontale e fondante della sua vita e del suo ministero. La deliberazione per il Giudaismo la cui tendenza religiosa e culturale scaturisce dallo stessa sua famiglia che in lui lo ha incusso sin dalla prima infanzia, lo conduce alla battaglia contro il cristianesimo con ogni mezzo e senza esclusione di colpi e ad una instancabile ed estenuante opera anticristiana per la quale sarà sempre visto con orrore e paura dai discepoli del Signore Gesù Cristo anche dopo l’avvenuta conversione.
Come osserva Rinaldo Fabris, Paolo rivendica la sua origine e appartenenza ebraica, come quando afferma di essere stato “circonciso all’ottavo giorno” secondo quelle che erano le prescrizioni della Legge del Levitico e si definisce della stirpe di Israele e della tribù di Beniamino (Rm 11, 1). Del resto la sua origine familiare lo aveva condotto ad abbracciare il Giudaismo sin dalla sua nascita, avvenuta a Tarso probabilmente intorno agli anni 5 – 10 d.C.
Gettando uno sguardo sulla sua situazione familiare, possiamo affermare che Paolo è nato a Tarso, una città florida e fiorente dell’Asia Minore, corrispondente all’attuale Turchia sud orientale; era di famiglia ebraica ma il padre, forse per un accordo o una convenzione, aveva acquistato la cittadinanza romana sia per lui che per tutta la famiglia. Nel libro degli Atti Luica dimostrerà che questa cittadinanza Paolo la aveva sin dalla nascita e che gli permetterà di appellarsi all’Imperatore e di non subire maltrattamenti (At 16, 37 – 39; 22, 25 – 29; 25, 10 – 12). Nella prima fanciullezza viene istruito sulla lingua greca, soprattutto per la lettura della Bibbia, ma la formazione sua propria era sempre stata quella del Giudaismo e della formazione ebraica, che approfondirà successivamente a Gerusalemme come allievo di Gamaliele (At 22, 3). Secondo alcuni studiosi moderni Paolo sarebbe stato sposato e poi separato dalla consorte e in seguito non avrebbe più avuto interesse a contrarre nuovo matrimonio, ma altri lo vedono celibe, specialmente nella lettura della 1 Corinzi cap. 7, dove esalta la situazione di vita singolare e celibataria in vista del Vangelo. Proprio a Gerusalemme, dove viene iniziato anche al mestiere di fabbricatore di tende che intraprenderà sempre come attività per il suo sostentamento personale nonostante i diritti che il Vangelo gli concede, si forma alla rigidità della Legge Mosaica e allo zelo rabbinico per la Scrittura ebraica secondo la scuola dei farisei, che lo porterà ad essere estremo sostenitore del giudaismo fino alla persecuzione e all’aborrimento di tutto quello che giudaico non era, specialmente della nuova fede cristiana.
Egli stesso si definirà successivamente “quanto a zelo persecutore della Chiesa” (Fil 3, 6), “Neanche degno di essere chiamato apostolo per aver perseguitato la Chiesa di Dio ( 1Cor 15, 9) e nel ricordare i tempi della sua avversione contro la comunità cristiana proverà grande emozione mista a commozione e gioia nella considerazione del primato della grazia che lo ha poi plasmato come apostolo zelantissimo. Sarà sempre cosciente del prima e del poi del suo rapporto con Cristo: “Ero prima un persecutore e un violento”(1 Tm 1, 13), perché animato dallo zelo per la tutela della sua religione ebraica e per la sua diffusione, per la quale affermerà di aver addirittura superato nel giudaismo i suoi correligionari accanito com’era nel sostenere le tradizioni dei Padri (Gal 1, 13 – 14).
Nei capitoli 22 e 26 del libro degli Atti, narrando i particolari della sua conversione a Cristo sulla via di Damasco, Paolo tratteggia con estrema limpidezza le tristezze del suo passato da avversario della Chiesa nascente in nome di una dottrina da sempre ritenuta valida e indiscutibile e per la quale era convinto che ci si dovesse battere a tutti i costi:
“Ed egli continuò: « Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. 4 Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, 5 come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii allo scopo di condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti.” (At 22, 3 – 5)
“La mia vita fin dalla mia giovinezza, vissuta tra il mio popolo e a Gerusalemme, la conoscono tutti i Giudei; 5 essi sanno pure da tempo, se vogliono renderne testimonianza, che, come fariseo, sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione. 6 Ed ora mi trovo sotto processo a causa della speranza nella promessa fatta da Dio ai nostri padri, 7 e che le nostre dodici tribù sperano di vedere compiuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. Di questa speranza, o re, sono ora incolpato dai Giudei! 8 Perché è considerato inconcepibile fra di voi che Dio risusciti i morti? 9 Anch`io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, 10 come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l`autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch`io ho votato contro di loro. 11 In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all`eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere.” (At 26, 4 – 11)

Ma come lui stesso aggiunge sempre dopo aver descritto la sua posizione di persecutore e di violento, il protagonismo della gratuità della grazia di Dio lo ha chiamato a radicale mutazione della sua persona e dei suoi intenti in vista di Cristo.
E’ stato infatti l’intervento diretto della grazia straordinaria dello stesso Cristo che ha determinato il radicale cambiamento di Paolo da persecutore a difensore della Chiesa, attraverso quella famosa apparizione del Signore Gesù Cristo che viene a visitarlo sulla via di Damasco (At 9. 1 – 19), della quale egli si riterrà talmente indegno da identificarsi ad un “aborto”.
Oltre che di conversione, questo episodio, ripetuto per ben tre volte nel libro degli Atti ( At 9, 1 – 19; 22, 6 – 16 ; 26, 12 – 18) racconta anche e soprattutto di vocazione: egli stesso anzi, si qualificherà “Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio” (Rm 1,1) o anche “per volontà di Dio” (1 Cor 1,1), soprattutto quando dovrà difendersi dalle accuse di non essere meritorio del suo ministero. Che si tratti più di vocazione che di conversione è parere anche di alcuni critici, anche perché in Paolo non cambierà sostanzialmente lo zelo per la Parola di Dio, ma questo verrà orientato in modo differente (convertirsi vuol dire infatti trasformare radicalmente se stessi) tuttavia il radicale cambiamento avvenuto nella persona dell’apostolo, i ripetuti riferimenti alla “metanoia” e il protagonismo di Dio nella sua vicenda ci autorizzano a parlare anche di conversione.
Paolo viene infatti quasi “catturato” (Fil 3. 12) dallo stesso Cristo che da lui era perseguitato e a che adesso sfrutterà il suo stesso zelo operativo a vantaggio dei suoi discepoli. Il Signore che lui riconosce in quella circostanza come tale mentre gli domanda “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti”, lo chiama ad instaurare con lui una nuova relazione di vita, un nuovo rapporto che sarà non più di tensione e di ostilità ma di fiducia e di reciproca stima.

II – DAMASCO E LA CENTRALITA’ DI CRISTO

L’incontro damasceno segna la svolta radicale della vita di Paolo e delle sue posizioni, al punto che quello che prima era per lui detestabile adesso è oggetto dei suoi interessi e del suo zelo operativo mentre quello che prima era determinate e irrinunciabile diventa invece deprezzabile, addirittura al rango di “spazzatura” per lasciare spazio al primato di Gesù Cristo che lo ha appena “afferrato”; il verbo greco di cui Fil 3, 12 è “katalambano”, che vuol dire “catturare”, “conquistare” alla stregua di qualcosa che si acquista non senza difficoltà o che si strappa con la forza esprime il protagonismo dello stesso Gesù che ha voluto intervenire radicalmente nella persona di quest’uomo per poterla trasformare secondo piani del tutto differenti e infatti Paolo non mancherà di preconizzare la centralità del mistero di Cristo come primo artefice della sua radicale trasformazione ed è in primo luogo la cristologia staurocentrica, incentrata sulla croce, quella che l’apostolo affermerà essere la rampa di lancio di tutto il suo pensiero rinnovato, anche se di fatto la croce non sussiste mai se non in vista della resurrezione perché il Cristo morto è pur sempre quello risorto che non muore più; del resto “se Cristo non è risorto è vana la nostra predicazione, vana è la nostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15, 17).
In forza di questa missione, egli rivendicherà per se stesso l’appellativo di apostolo, motiverà le sue scelte e si mostrerà “dimentico del passato e proteso verso il futuro” (Fil 3, 13)
Ma quel che conta sottolineare è come lui riscontri che Dio in Cristo abbia manifestato la suo potenza predilettiva e come lui debba molto a quell’incontro con il Risorto.
Infatti nella lettera ai Galati afferma espressamente “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei connazionali e coetanei, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal senso di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo,senza andare a Gesrusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco. “(Gal 1, 11 – 17)
Si tratta di uno dei passi più significativi nella descrizione della vocazione di Paolo nel quale si intravede la libera iniziativa di Dio che manifesta al nuovo apostolo il suo Figlio; espressioni quali “mi scelse”, “mi chiamò” e si compiacque” riferite a Cristo medesimo rafforzano il valore della gratuità della chiamata a una nuova dimensione di vita glielo rivela prima di tutto perché ne faccia egli stesso esperienza e poi perché si disponga a recarne l’annuncio a tutte le genti. Prima la familiarità con Cristo per volere di Dio, poi la missione caratterizzano questa svolta apostolica in Paolo.
La meraviglia di questo avvenimento sulla via di Damasco, infatti, è che Cristo gli si presenta come un amico che conosce bene le sue qualità, la sua tempra, il dinamismo e la tenacia che lo hanno sempre caratterizzato e che costituiscono in lui un grande patrimonio personale da sfruttare al meglio verso altre direzioni, e pertanto non esita prima di tutto a proporglisi personalmente per poi immediatamente mostrargli nel dialogo e nella mutua confidenza tutta la sua stima e la fiducia nelle sue possibilità. In verità Luca nel libro degli Atti degli Apostoli riporta un particolare ben preciso, ossia che Paolo “cade per terra” quando si trova alla presenza improvvisa di Gesù”; atto questo che è proprio della piccolezza dell’uomo di fronte alla grandezza di Dio: il cadere a terra nella Scrittura indica infatti la reazione umana di fronte alla manifestazione di Dio che era propria per esempio in Daniele (capp. 8 e 10) e anche nell’episodio Giovanneo della cattura e dell’arresto di Gesù (“Indietreggiarono e caddero a terra” Gv 18, 6). Altri elementi teofanici propri dell’Antico Testamento si riscontrano anche nel fulgore e nella luce che acceca, e pertanto Paolo rileva in Cristo la grandezza di Dio che lo sta chiamando e riconosce immediatamente che il Signore che poco prima aveva ignominiosamente perseguitato era il Dio della gloria incommensurabile rispetto all’uomo; ciò nondimeno riscontra che Gesù si identifica immediatamente con i suoi discepoli perseguitati e questo gli fa avere un concetto estensivo e significativo del Signore e contemporaneamente anche della Chiesa da lui fondata che sussiste nella persona dei battezzati e redenti.
. In più, nelle parole e nelle indicazioni pratiche di Gesù percepisce di essere oggetto di fiducia e per ciò stesso si convince del suo amore e quando arriva a Damasco, di fronte ad Anania, riapre gli occhi, non soltanto quelli fisici, alla comprensione della vanità della sua vita precedente, alla considerazione dell’inutilità di quanto stava prima operando contro i discepoli di Cristo e alla necessità di una radicale trasformazione in senso opposto della sua vita.
Come si notava poc’anzi, Luca non si limita al solo capitolo 9 del libro degli Atti per parlare dell’incontro fra Paolo e Cristo, ma riporta l’episodio anche al cap 22, 1 – 21 e 26, 12 – 19. Vale la pena stendere un raffronto fra le tre versioni:

Atti 9, 1 – 9:

Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2 e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati. 3 E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all`improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4 e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? ». 5 Rispose: « Chi sei, o Signore? ». E la voce: « Io sono Gesù, che tu perseguiti! 6 Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare ». 7 Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. 8 Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, 9 dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.

Atti 22, 6 – 21

Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all`improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; 7 caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 8 Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. 9 Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. 10 Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. 11 E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco. 12 Un certo Anania, un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei colà residenti, 13 venne da me, mi si accostò e disse: Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell`istante io guardai verso di lui e riebbi la vista. 14 Egli soggiunse: Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, 15 perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito. 16 E ora perché aspetti? Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome. 17 Dopo il mio ritorno a Gerusalemme, mentre pregavo nel tempio, fui rapito in estasi 18 e vidi Lui che mi diceva: Affrettati ed esci presto da Gerusalemme, perché non accetteranno la tua testimonianza su di me. 19 E io dissi: Signore, essi sanno che facevo imprigionare e percuotere nella sinagoga quelli che credevano in te; 20 quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anch`io ero presente e approvavo e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano. 21 Allora mi disse: Và, perché io ti manderò lontano, tra i pagani ».

Atti 26, 12 – 19

…in tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno 13 vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio. 14 Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te ricalcitrare contro il pungolo. 15 E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: Io sono Gesù, che tu perseguiti. 16 Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. 17 Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando 18 ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati.

Come afferma anche Bruno Maggioni, le differenze di racconto nei testi di Luca (anche il Vangelo) non sono casuali, ma tendono ad avallare un concetto determinato; in questo caso Luca intende sottolineare che il primato della grazia di Cristo e la familiarità con lo stesso Signore sono alla base di tutta la vita e del pensiero di colui che successivamente verrà definito l’apostolo dei pagani: al capitolo 26 infatti, a differenza che nel cap 9, sembra che sia lo stesso Cristo ad impostare la missione di Paolo d’ora in avanti, perché determina egli stesso quanto lui dovrà operare e lo fa categoricamente e in modo diretto e tassativo, quasi ricordando la chiamata a cui sono soggetti tanti profeti dell’Antico Testamento: “Su, alzati e rimettiti in piedi, ti sono apparso per costituirti ministro di quelle cose per le quali ti sono apparso e ti apparirò ancora. Ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio.” (vv 16 – 18).
Che un Giudeo radicale possa diventare apostolo presso i pagani non deve attribuirsi ad opera umana e pertanto non può che corrispondere ad un dono della chiamata di Dio che Paolo sia diventato poi apostolo dei Gentili per uno specifico progetto cristiano, pertanto Luca sottolinea che solo in forza del cambiamento operato da Cristo Paolo è potuto diventare quello che è diventato e che la grazia è un dono gratuito da accogliere e verso il quale mostrarsi riconoscenti: la salvezza viene da Dio e solo Cristo redime e salva.
Come afferma qualcuno, la trasformazione di Paolo avviene tuttavia in senso teologico e non già in senso morale. Paolo infatti, sia pure nella forma differente, continuerà a manifestare lo stesso zelo per il Signore non muterà lo spirito di dedizione e di attenzione con cui è sempre stato solito adempiere ogni lavoro; manterrà inalterata la sua veemenza, puntualità e prontezza nell’agire, confermando le prerogative dello zelo e dell’intraprendenza che lo hanno sempre caratterizzato come persona e anche il suo carattere, che parecchi studiosi descrivono come impulsivo, focoso e a volte anche irascibile e intrattabile (vedi la lite con Barnaba nello stesso libro degli Atti) resterà invariato. Ma in virtù della nuova dimensione amicale instaurata con Cristo, nella misura in cui prima orientava tutte queste caratteristiche in senso persecutorio contro la Chiesa, adesso si muoverà concitatamente in difesa della comunità cristiana e alla propagazione della salvezza voluta da Dio nello stesso Cristo. Nella misura in cui anteriormente si mostrava accanito nel difendere le tradizioni dei suoi padri superando anche i migliori fra i Giudei (Gal 1, 13 – 14) così adesso primeggerà su tutti nella propagazione del messaggio di salvezza di Cristo di cui egli stesso è stato il primo destinatario.
Una conversione insomma molto commovente e sentita che scaturisce da un processo vocazionale che attesta alla chiamata personale da parte del Signore e questa avviene sempre in forza dell’amore che Dio ha nei nostri riguardi come appunto ha mostrato nei confronti dell’Apostolo; sicchè la conversione di Paolo scaturisce in definitiva dall’amore di Dio e produce nel suo cuore le reazioni dell’amore riconoscente da parte dello stesso Paolo nei confronti di Dio. L’amore di Dio in Cristo ha avuto il sopravvento sulla malvagità e ha determinato un radicale cambiamento di vita e adesso diventa motivo di corrispondenza nella concretezza dell’amore di riconoscenza.
Come scrive Vanhoye, “La vocazione non è basata sulla nostra dignità previa: occorre piuttosto dire che la vocazione ci conferisce la nostra dignità. Dio, cioè, si è degnato per puro amore di mettersi in rapporto personale con noi e reciprocamente di metterci in relazione personale con lui.”; e infatti lo stesso Paolo riconoscerà sempre che la sua chiamata è stata espressione di un atto di gratuità divina che si giustifica solo con l’amore altrettanto gratuito e immediato che Dio ha nei confronti dell’uomo e d è pertanto l’amore di Dio il primo protagonista della vicenda della nostra storia personale nella quale nulla avviene per caso, ma è anche possibile un ribaltamento radicale della situazione, una grande svolta epocale che caratterizzi per sempre la nostra vita come per l’Apostolo ha voluto determinare il dinamismo della fede e dell’amore proprio dove esso era orientato verso l’odio e l’intolleranza. Per questo l’apostolo medesimo si definisce tale “per vocazione prescelto per annunziare il vangelo di Dio” (Rm 1, 1) e la chiamata di Dio è per lui ingiungibile dalla caratteristica missione dell’apostolo, essendo questa fondata sulla vocazione e il dato rilevante è che tale chiamata si fonda nient’altro che sull’amore di Dio, come egli stesso afferma: chiamato per Grazia (Gal 1, 1 e ss).

III – LA BENIGNITA’ DI DIO

Paolo quindi parla per esperienza personale quando afferma che “la benignità di Dio ci sprona alla conversione” (Rm 2, 4) perché riferisce nel suo insegnamento di essere stato chiamato alla conversione nient’altro che dall’amore di Dio nei suoi riguardi e che qualsiasi iniziativa di conversione divina è sempre un grande atto di amore e de benevolenza da parte dello stesso Signore che cerca l’uomo in tutti i meandri della propria perdizione; Dio mostra la sua volontà di riconciliazione con noi soprattutto attraverso la concretezza del suo amore e della sua bontà e proprio il benvolere di Dio ci è di sprone alla comunione con Lui. Anche nel nostro carisma di Minimi apportatori della “maggior penitenza” noi siamo coscienti di essere stati chiamati da Dio perché in realtà innanzitutto egli ci ha amati e ci ha considerati preziosi e insostituibili ai suoi occhi, donandoci un posto privilegiato nella salvezza e nello stesso itinerario della nostra storia.
L’esperienza stessa ci insegna che il recupero di tante persone dallo stato di depravazione morale voluto dalla droga, dal sesso, dalla violenza si è reso possibile soprattutto grazia alla vicinanza e alla bontà che è stata rivolta nei confronti di queste persone e che moltissimi bambini abbandonati si distolgono dalla strada e dal brigantaggio solamente quando avvertono che noi li amiamo e usiamo comprensione e pazienza nei loro riguardi, perché si sentono così spronati e incoraggiati a sfruttare al meglio le proprie risorse e le immancabili potenzialità; ebbene è appunto il solo amore di Dio che ci muove alla conversione imprimendo in modo convincente nella nostra vita e perseverare nell’errore nonostante la manifestazione dell’amore divino comporta rischi solo per noi stessi.
Di fronte all’amore riconciliante di Dio occorre che le nostre reazioni siano di corrispondenza e di gratitudine. Paolo nelle sue lettere non esorta né insegna mai ad amare Dio, ma i continui riferimenti alla resa di grazie e le esortazioni al sentimento di riconoscenza sottendono che l’amore verso il Signore era da lui costantemente vissuto e che amare Dio è la prima delle prerogative che si richiede a chi da questo amore è stato raggiunto.
L’amore di Dio infatti è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato (Rm 5, 5) e vuole che assuma la sua consistenza nella concretezza dell’amore verso gli altri, qualificandosi come amore di effettiva serietà nell’umiltà, nella pazienza, nel rendimento di grazie, nella benignità, nella cura di se stessi, nell’autocontrollo e nella sopportazione (1 Cor 13); l’esercizio dell’amore è la prima ed irrinunciabile prassi di riconoscenza verso Dio e ancora una volta ci troviamo a casa nostra con gli insegnamenti di Paolo perché il carisma dei Minimi cos’altro propone se non la fiducia iniziale nell’amore di Dio che ci ama Lui per primo, la convinzione di questo amore che può provenirci nient’altro che dal Lui e concretizzatosi nella morte di croce del suo Figlio che è il prezzo del nostro riscatto? A che altro può incentivarci se non alla corrispondenza grata a Dio che da parte nostra viene amato al di sopra di ogni cosa e a che altro ci sprona se non alla condivisione dell’amore di Dio nella concretezza degli atti di amore verso gli altri?
Sempre San Paolo infatti invita a gareggiare nello stimarci a vicenda, a fuggire il turpiloquio, la menzogna, la cattiveria e la maldicenza per essere “benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo (Ef 4, 29 – 32) ad avere un giusto concetto di noi stessi che non ci esalti al di sopra degli altri, e a vincere il male facendo il bene,. Ricordando che l’amore non ha mai fatto male a nessuno. La carità che è effettivo frutto della conversione vuole infatti la concretezza delle opere e toglie lo spazio ad ogni retorica e tentennamento: “La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene;
amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti.” (Rm 12, 9-18). La carità trova nell’Apostolo la sua immediata concretizzazione in opere di carità fraterna edificanti, come la raccolta delle collette a sostegno delle altre chiese (1 Cor 16) ma in ogni caso sottende l’umiltà e la sottomissione presupponendo la fede sulla quale poggia la speranza; l’amore paolino ha inoltre le caratteristiche della schiettezza e della sincerità nella mutua accettazione e nella solidarietà vicendevole che provengono solo da Colui che ci ha scelti per la causa del Regno.

IV – “LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO
.
Chiamato a conversione dall’amore di Dio, riconoscente al Signore per averlo radicalmente.
trasformato in vista della causa del Vangelo, Paolo si rende apostolo egli stesso della riconciliazione con Dio e su questo non esita a supplicare i suoi discepoli: “Dio… ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. (2 Cor 5, 18 – 20) e in questo il monito paolino è davvero concreto e non necessita di ulteriori spiegazioni: se Dio intende realizzare con noi la riconciliazione, ci si chiede la docilità esplicita a lasciarci amare da Lui in tal senso, ad accettare che Lui ci chiami a conversione e cambi radicalmente la nostra vita, e quello che è più convincente e categorico di questo monito è il fatto che Dio ha voluto darci dei ministri nella riconciliazione nella persona degli apostoli, ivi compreso lo stesso Paolo che della riconciliazione si fa ministro in prima persona per favorire tutti in tal senso verso Dio. Nella stessa lettera (vv 14 – 15) Paolo descrive che l’amore di Cristo ci avvolge tutti interamente e in prima persona perché Egli è morto per i nostri peccati e l’amore di Dio nei nostri confronti è prioritario, spontaneo e gratuito: Dio ci ama nonostante la nostra freddezza e indifferenza. L’apostolo esprime e rafforza il primato della gratuità divina affermando che “tutto questo viene da Dio”(v, 14 panta) e che anche l’iniziativa della riconciliazione è un dono di grazia che si realizza per mezzo del ministero degli apostoli ,a che tuttavia comporta la corrispondenza umana a che si lasci lo spazio a Dio affinchè ci riconcili a sé, si proceda cioè con sottomessa umiltà a lasciarci tutti riconciliare da Dio.
Paolo aggiunge che la possibilità della riconciliazione avviene “per mezzo di Cristo” e in modo particolare nell’atto in cui Dio ha lascito che il suo Figlio morisse sulla croce per pagare il prezzo del nostro riscatto; lo stesso prezzo che altrove Paolo, parlando di redenzione (apolittrosis) fa riferimento al riscatto litrov che si è costretti a pagare per riottenere una determinata cosa. Il litron di Dio per la nostra salvezza è il sangue di Cristo che lui ha volontariamente effuso per i nostri peccati affinchè fossimo salvi. Ecco perché occorre che noi consideriamo l’amore gratuito di Dio che comporti la conversione e il radicale cambiamento della nostra vita, perché lo stesso dono che Dio ha concesso a Paolo anche noi lo abbiamo già ricevuto e si aspetta solo la nostra adesione libera e consapevole in una rettitudine di vita.
Sicchè noi abbiamo l’ulteriore grazia divina dei ministri istituiti appositamente per il ministero della riconciliazione nella persona dei sacerdoti dispensatori della grazia sacramentale del perdono, nei quali è possibile riscontrare come nella concretezza di un linguaggio umano e immediato Dio si renda a nostra disposizione per comunicarci la certezza e l’efficacia del suo amore: nella confessione sacramentale, alla quale occorrerebbe sempre accostarci con fiducia e apertura di spirito, non possiamo non cogliere il dono del Signore che vuole rendersi compartecipe del nostro peccato per potercene liberare non prima di aver orientato la meglio il nostro potenziale, guidando i nostri pensieri e orientando i nostri atti, sollecitando il nostro cammino verso la perfezione evangelica e la santità, confortandoci nelle nostre angustie e donandoci nuovo slancio nelle insicurezze e nelle perplessità; e la presenza di un soggetto umano scelto indegnamente da Dio come ministro, rende tutto più semplice perché traduce in termini immediati e lineari la realizzazione di questa premura da parte di Dio. Il sacerdote è ministro dell’amore di Dio che perdona e riconcilia, uno strumento della grazia di cui Dio potrebbe fare a meno ma del quale si serve perché noi acquistiamo sempre più familiarità con la grazia del perdono di Dio ricorrendo ad un espediente accessibile nell’immediato giacchè si tratta di un soggetto umano nostro pari, peccatore come noi, anch’egli chiamato personalmente a corrispondere al dono della grazia ma intanto a disposizione di tutti per essere di questa grazia divina il dispensatore e come ravvisa l’Apostolo egli non funge altro che da ambasciatore, ossia emissario della divina predilezione riconciliante che verte a favore dell’uomo.
In questo Anno dedicato a Paolo siamo chiamati ad incrementare la nostra intraprendenza nella penitenza evangelica che il Santo Fondatore ci ha lascito in eredità come carisma, poiché nella figura dell’Apostolo Paolo siamo ulteriormente spronati a riscoprire il fascino e la convenienza della ricerca delle “cose di lassù, che sono lontane da quelle della terra. La storia della vocazione dell’apostolo alla conversione è molto avvincente e gli insegnamenti dell’apostolo non possono che attirare la nostra attenzione e favorire la speditezza nel cammino della conversione che viviamo noi stessi e che comunichiamo agli altri.
Non possiamo non riscoprire i contenuti dell’eredità spirituale del messaggio di Paolo soprattutto in questa contestualità epocale che sembra procedere in senso opposto alle aspettative del sentire religioso; in questi ultimi tempi infatti l’ostruzionismo alla religione e le animosità contro la fede vanno sempre più incrementandosi e l’avversione verso la Chiesa e il Magistero del papa sembra costituire al momento una moda alla quale tutti sono attirati.
Se la società giunge alla realizzazione e attuazione di simili fenomeni, ciò delinea la triste realtà di una mancata coerenza nella nostra scelta cristiana come pure la nostra efficacia nella comunicazione dell’amore di Dio nel mondo. E’ pertanto la qualità della nostra vita che deve costituire la vera reazione a simili atteggiamenti di stupida avversione verso la Chiesa; sono le opere degne di penitenza dell’amore, del perdono, della riconciliazione fra di noi e con gli altri che devono costituire una vera replica controbattente a tali insinuazioni di antireligiosità vacua e meschina, ragion per cui riscontriamo che proprio ai nostri giorni il carisma minimo della conversione venga chiamato in causa ulteriormente e che le urgenze della testimonianza si rendono sempre più improcrastinabili.
Il monito di Paolo è quello a considerare innanzitutto che Dio ci ama come nessuno mai potrebbe con la grandezza della sua gratuità per cui la sua grazia ci è sufficiente; ma ci sprona anche a che siffatto amore divino ci esorti alla conversione e ci indirizzi al meglio verso il primato dello stesso Signore nella nostra vita e di conseguenza al bene che siamo tenuti a concretare nei confronti del prossimo. L’amore di Dio non è mai limitativo né va considerato alla stregua di un tesoro da custodirsi gelosamente fra le mani, ma fonda un entusiasmo speciale per il quale ci sentiamo in dovere di prodigarci verso gli altri e riguarda pertanto un amore che ci spinge a conversione.

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 11 avril, 2013 |Pas de commentaires »

BATTESIMO DEL SIGNORE – sito vietnamita..non ci capisco niente

BATTESIMO DEL SIGNORE - sito vietnamita..non ci capisco niente dans ANNO PAOLINO BaptemeDeJesus-003

http://namgiaothica.com/phienbancu/NamGiao-Cam%20Nghiem/GioiThieuChua-xuoi.htm

Publié dans:ANNO PAOLINO, immagini sacre |on 13 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

Announcement to the Shepherds!

Announcement to the Shepherds! dans ANNO PAOLINO shepherds-and-angels

http://markwoodward.org/2012/12/18/preparing-your-kids-for-christmas-4th-advent-2/

Publié dans:ANNO PAOLINO |on 20 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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