(stralcio) dal sito:
http://proposta.dehoniani.it/txt/galati.html
(la legge… fu promulgata per mezzo di angeli)
La vera funzione salvifica della legge (Gal 3,19-4,7)
19Perché allora la legge? Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore. 20Ora non si dà mediatore per una sola persona e Dio è uno solo. 21La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge; 22la Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo. 23Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. 24Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. 25Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. 26Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. 28Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. 29E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo
1Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto; 2ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre. 3Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. 4Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. 6E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.
Da 3,17 sembrerebbe quasi che si possa dedurre che la legge sia una rivale della « promessa ». Ma Paolo dovrebbe rinnegare l’autorità divina della Scrittura se vedesse nella legge una potenza ostile a Dio. Per lui la legge non è né una potenza antidivina, né una concorrente della promessa. In 3,19 ss. Paolo espone dettagliatamente il suo punto di vista circa la legge e la sua vera funzione nella storia della salvezza. La promessa e la legge sono due opere dell’unico Dio.
v. 19. « Perché dunque fu aggiunta la legge? ». La legge fu aggiunta a motivo delle trasgressioni; essa ha una funzione rivelatrice: doveva manifestare il peccato come peccato e come trasgressione di un precetto. La legge rende il peccato una trasgressione consapevole (Rm 5,13). Inoltre questa funzione della legge era temporalmente limitata: « fino a che venisse il seme (Cristo) al quale fu fatta la promessa ». A questo proposito però il giudeo pensava diversamente: per lui la legge aveva una durata eterna.
« La legge fu promulgata per mezzo di angeli ».
(a questo commento aggiungo una nota tratta dalla BJ, sotto)
L’opinione di Paolo è che la legge non fu data a Mosè direttamente da Dio, ma per mezzo di angeli. Questa credenza ricorre anche in At 7,53 (discorso di Stefano): « Voi avete ricevuto la legge per disposizione di angeli, ma non l’avete osservata », e in At 7,38: « Mosè fu mediatore fra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri ». La troviamo anche in Eb 2,2: « Se infatti la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda… ». Anche Flavio Giuseppe scrive in Ant. 15,5,3 par. 136: « Il meglio delle nostre dottrine e ciò che vi è di più santo nelle nostre leggi noi lo abbiamo appreso per mezzo degli angeli di Dio ». In Gal 3,19 Paolo si appropria di tali concezioni per affermare con sicurezza l’inferiorità della legge nei confronti della promessa. « Per mano di un mediatore ». In base al contesto (430 anni dopo; cfr. At 7,38), con « mediatore » si intende Mosè e non Cristo come hanno inteso per es. Crisostomo, Girolamo, Tommaso d’Aquino, Lutero, ecc. Perché nell’argomentazione Paolo si serva del concetto di « mediatore » è chiarito dal v. seguente.
v. 20. Questo versetto presenta particolari difficoltà all’esegesi; esso costituisce veramente una crux interpretum. Quando Dio fece la promessa ad Abramo non si servì di un mediatore, ma si mise in rapporto con Abramo direttamente, da persona a persona, come riferisce la Genesi. Gli angeli invece, poiché erano molti, nel trasmettere la legge, non poterono mettersi in rapporto diretto con il partner (il popolo di Israele), ma ebbero bisogno di un mediatore, cioè di Mosè. Quindi la legge, che di fatto fu disposta con l’aiuto di un mediatore, non è superiore alla promessa, ma inferiore ad essa. Nei vv. 19-20 Paolo risolve il problema dimostrando l’inferiorità della legge rispetto alla promessa. Con ciò tuttavia continua a non essere del tutto chiaro se la legge non sia una concorrente o addirittura una controistanza rispetto alla promessa. Paolo se ne avvede, come lascia intendere la domanda formulata con il v. seguente.
v. 21. « Dunque la legge è contro la promessa di Dio? ». Paolo risponde: « Assolutamente no! ». La legge non può essere una concorrente della promessa perché non è in grado di recare la salvezza. Dio ha dato una legge ed essa doveva veramente procurare la vita a coloro che l’avessero osservata (v.12). Ma in realtà non fu in grado di farlo, non fu capace di dare la vita. Se avesse potuto farlo, « la giustizia proverrebbe davvero dalla legge », e con la giustizia la salvezza escatologica. Tuttavia accadde il contrario, come assicura subito il v. successivo.
v. 22. La legge non poteva dare la vita. « La Scrittura racchiuse tutto sotto il peccato » esprime il giudizio emesso dalla Scrittura: tutti senza eccezione sono peccatori, sia giudei che pagani. In Rm 11,32 l’enunciato è ancora più preciso: ciò che qui è attestato dalla Scrittura, lì è detto di Dio: « Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia! ». In questo versetto la Scrittura non si identifica con la legge. La Scrittura è il documento che accerta che le sacre esigenze di Dio, come sono codificate dalla legge, sono state trasgredite da tutti, e così essa constata che tutti sono caduti nel peccato. « Non c’è un giusto, neppure uno; non ce n’é uno che sia saggio, nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti assieme sono diventati inetti. Non ce n’é uno che faccia il bene, nemmeno uno solo » (Sal 14,1-3). Questa rovina generale, messa in luce dalla Scrittura, è per l’apostolo la prova che la legge effettivamente non era in grado di arrecare la vita (v.12). Tutto ciò vale anche per i Galati. Anche il loro dedicarsi alle opere della legge non procura ad essi la vita. Tuttavia questa constatazione negativa, costernante e totalmente disilludente della Scrittura sulla terribile situazione di rovina dell’umanità serve in definitiva a uno scopo di salvezza: « affinché ai credenti la promessa fosse data dalla fede in Gesù Cristo ». Con ciò il problema « promessa-legge » che già da 2,16 ha movimentato i ragionamenti dell’apostolo potrebbe dirsi chiuso. Ma Paolo non è ancora soddisfatto. Nel seguito vuole approfondire ancor più la relazione fra legge e adempimento della promessa in Cristo. In quale rapporto stanno reciprocamente la legge e il tempo della fede, già cominciato in Cristo, che comporta l’adempimento della promessa?
vv. 23-25. Paolo parla del « venire » della fede, come nel v. 19 ha parlato del « venire » del discendente di Abramo, Gesù Cristo. « Si tratta del medesimo evento » (Bonnard). Il tempo, apportatore di salvezza del Messia viene qualificato come tempo della fede, che segue il tempo della legge, anzi ne rappresenta l’antitesi. La fede di cui si parla qui è quella in Gesù Cristo, che porta con sé la salvezza e che trasmette ai credenti la benedizione della promessa. « La legge è stata il nostro pedagogo finché non venne Cristo ». Nel sistema educativo dell’antichità c’era il pedagogo, cioè uno schiavo che veniva assegnato al bambino, perché lo accompagnasse quando andava per la strada e a scuola, per proteggerlo dai pericoli, insegnargli come doveva comportarsi nelle varie circostanze ed essere di aiuto. Non era suo compito specifico quello di ammaestrare il bambino. Quando il ragazzo diventava maggiorenne, questa attività cessava. Dunque la funzione del pedagogo non consisteva in una vera e propria educazione del bimbo, ma nella sorveglianza e protezione. Per Paolo anche la legge è stata un pedagogo di questo tipo. La fede però non è frutto della legge, ma della rivelazione: essa è determinata dall’operato storico-salvifico di Dio in Cristo, mentre la legge è caratterizzata dalle opere, che non sono in grado di dare la vita. Possiamo parafrasare così il v. 24: « La legge è stata il nostro pedagogo fino alla venuta del Messia e nulla più, affinché noi ottenessimo la giustificazione non dalle opere della legge, ma dalla fede ». In Rm 3,31 Paolo scrive: « Ma allora con la fede noi annulliamo la legge? Anzi, confermiamo la legge », ossia le diamo la sua vera validità e importanza nell’ambito della storia della salvezza.
« Affinché fossimo giustificati dalla fede ». Il verbo significa essere dichiarato giusto, possedere la giustizia (3,6), la vita (3,21). Quindi la giustificazione non è puramente assoluzione dal peccato, ma nuova creazione dell’uomo, vita di Dio ricevuta per grazia. Il giusto è passato dallo stato di morte a quello di vita. Questa salvezza e trasformazione è già presente nell’uomo e consiste nell’adozione a figli di Dio (v.26). La funzione del pedagogo della legge cessò quando venne la fede in Cristo Gesù (v. 25). Dunque ora i credenti non sono più sotto la legge, ma sotto la grazia (Rm 6,14). Quali conseguenze etiche ne derivino, sarà dettagliatamente esposto da Paolo a partire da 5,13. È l’etica dell’amore e della libertà.
v. 26. Questo v. indica il motivo vero e proprio per cui nel tempo della fede: « non siamo più alle dipendenze di un pedagogo »: perché siamo diventati figli di Dio. Paolo lo dice direttamente ai Galati perché stanno per sottomettersi di nuovo alla potestà del « pedagogo ». Qui Paolo usa chiaramente il termine « figli » nel senso di figli adulti e liberi, non più sotto la tutela del pedagogo.
v. 27. La figliolanza divina dei credenti ha la base del suo essere « in Cristo Gesù » : perché tutti i battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo. Con l’espressione « battezzare in Cristo » non si vuole indicare una formula battesimale, ma primariamente l’evento salvifico che si ha nel battesimo: entrare in Cristo salvatore significa essere salvati. In che cosa più esattamente consista questo avvenimento di salvezza collegato a Cristo, in occasione del battesimo, viene spiegato meglio in Rm 6,3 ss. In Gal 3,27 egli indica solo brevemente questo evento salvifico come un « indossare Cristo ». Il Cristo risorto è diventato spirito datore di vita nel quale il battezzato è immerso e vive, è per così dire il suo nuovo abito unico e come tale rende insussistenti i segni di differenza dell’esistenza precedente, come spiega il v. seguente. Cristo è il modello unico e definitivo dell’esistenza umana.
v. 28. Poiché Cristo per il battezzato è la realtà nuova che tutto determina, non ci sono più tra i battezzati le differenze e i contrasti di prima. L’esistenza dei credenti in Cristo, che tutti i battezzati hanno indossato, trascende completamente tutte le differenze e le opposizioni. Davanti a Dio le realtà diverse dell’essere giudeo o greco, schiavo o libero, maschio o femmina, hanno perso ogni importanza per la salvezza. Nel contesto della situazione della lettera ciò significa che per i Galati non ha più senso né scopo il rivolgersi al modo giudaico di vivere la religione. Essendo essi battezzati in Cristo, vivono una realtà del tutto nuova che è Cristo, mediante il quale la legge giudaica è decaduta. La loro dedizione al « giudaismo » sarebbe un ritorno a un passato totalmente superato da Cristo. La forza unificatrice del battesimo viene motivata così: « Perché voi tutti siete uno solo in Cristo Gesù ». Poiché tutti nel battesimo hanno « indossato » il medesimo Cristo, per mezzo del battesimo sono tutti diventati « uno solo ». Il termine eis (uno solo) è l’uomo unitario escatologico, il cristiano. In Ef 2,15 Paolo scrive: « Egli fece diventare i due (il giudeo e il greco) in se stesso un unico uomo nuovo ». I credenti sono compresi in una sfera di salvezza che è Cristo e così formano un’unità tra di loro. Gesù costituisce l’ambito in cui tutti i credenti sono « un unico »: cioè l’uomo unitario escatologico vivente in Cristo, che ha superato tutte le differenze menzionate in questo versetto. Eis (uno solo) è ciò che si oppone alla serie elencata (giudeo, greco, schiavo, libero, maschio, femmina). Dunque se l’espressione: « voi tutti siete uno solo in Gesù Cristo » non comporta un’identità di Cristo e dei credenti in lui, essa però fa chiaramente capire il carattere « ontico » dell’unione dei battezzati in Cristo.
v. 29. Il v. conclude il tema che già aveva avuto inizio con 3,7. Ivi gli uomini della fede erano stati dichiarati i veri figli di Abramo. Poi si era constatato che Cristo era quel « seme » escatologico di Abramo mediante il quale e nel quale la promessa di Dio ad Abramo divenne realtà per i popoli. Il tramite, mediante il quale i popoli giungono a un reale collegamento con lui, è la via della fede e del battesimo. Chi in tal modo appartiene a Cristo, è il vero seme di Abramo e perciò anche erede della promessa di benedizione. Con il battesimo i Galati sono diventati proprietà di Cristo, appartengono onticamente a Cristo e quindi sono, in Cristo, seme di Abramo al quale si riferisce la promessa. Ecco perché una conversione dei Galati al giudaismo è superflua, anzi del tutto contraria alla promessa fatta da Dio stesso, e manifesta una comprensione totalmente errata della legge. Infatti la legge non può portare la salvezza, che dipende invece dalla benedizione; è puro dono di grazia ed è apparsa in Cristo.
vv. 4, 1-2. Paolo approfondisce l’idea della maggiore età dei Galati e del loro diritto all’eredità della salvezza in qualità di figli liberi, servendosi di un nuovo paragone tratto dall’ambito giuridico. In questo caso il termine di confronto è dato da un minorenne destinato a diventare erede. Finché dura il tempo della minor età « egli non si distingue in nulla dallo schiavo, benché sia possessore (potenziale) di tutto ». Non gli spetta il diritto di disporre del suo patrimonio, ma è soggetto « a tutori e amministratori fino al termine stabilito dal padre ».
v. 3. L’esempio desunto dal campo giuridico viene applicato alla storia della salvezza, a noi. « Noi », cioè giudei e pagani, nel tempo della nostra minore età, eravamo ridotti in schiavitù sotto « gli elementi del cosmo ». Che cosa si vuol dire con ciò? Una risposta a questa difficile e dibattuta questione la troveremo nel commento a 4,8-11, perché là il contesto offre buoni spunti a questo scopo.
vv. 4-5. Ma la precedente condizione persistente del nostro asservimento appartiene ormai al passato. Infatti nel frattempo è accaduto qualcosa di decisivo che è detto « termine stabilito dal padre ». La scadenza che segnò la fine del nostro asservimento agli elementi del mondo fu la venuta « della pienezza del tempo », in cui Dio inviò suo Figlio. La « pienezza del tempo » di cui si parla qui è il compimento dell’epoca precedente, del tempo dell’attesa, cioè del tempo della promessa e della legge. Ma poiché l’invio del Figlio è anche il compimento del tempo della promessa, qui « pienezza del tempo » significa più che una semplice scadenza da calendario; il compimento è il colmo della misura: viene introdotta direttamente nella storia l’attività salvifica di Dio; nell’avvenimento storico del Gesù terrestre Dio compie la sua azione escatologica. L’invio del Figlio da parte del Padre è un’azione unica e storica: il Figlio fu generato da una donna e sottoposto alla legge. Così Paolo sottolinea la vera e autentica umanità del Figlio. Dicendo che Cristo fu « sottoposto alla legge » e che « nacque da una donna » si vuol mettere in risalto il fatto che egli divenne uomo tra gli uomini e giudeo e, come tale, sottoposto alla legge. La sorte del Figlio aveva un preciso scopo salvifico: « affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto la legge ». Il nesso con il v.3 farebbe piuttosto attendere che si dicesse: « affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto gli elementi del cosmo ». Ora l’apostolo invece scrive « sotto la legge » per farci capire che esiste un’intima connessione tra il dominio della legge e il potere degli elementi del cosmo (cfr. 4,8-10). Il vero fine salvifico di Dio è la concessione della figliolanza, qui espressa con uiothesìa, che è propriamente un termine tecnico giuridico (adozione), ma che nella letteratura cristiana dei primi tempi si usa solo per rapporti religiosi (Rm 8,15.23; 9,4; Ef 1,5). L’ »essere ammesso nella condizione di figlio » (uiothesìa, adozione) concede i pieni diritti di figlio, benché non vi sia alcuna figliolanza fisica. Soprattutto concede il diritto di accedere all’eredità del padre. La uiothesìa è un puro dono di grazia. Se nel paragone la realtà confrontata corrispondesse perfettamente al termine di confronto si dovrebbe leggere « affinché da minorenni diventassimo maggiorenni ». Ma la maggiore età consiste proprio, concretamente, nell’idoneità ad accedere all’eredità della promessa. A questo scopo occorre essere figli; non ha importanza l’età. L’ammissione, per grazia, dei battezzati alla condizione di figli produce in loro una relazione nuova, intima e del tutto personale con Dio, come spiegherà il v.6.
v. 6. La questione se la ricezione dello Spirito da parte dei credenti sia la conseguenza della loro figliolanza o se viceversa la figliolanza sia la conseguenza della ricezione dello Spirito, deve essere risolta nel primo senso; l’ammissione alla condizione di figli, avvenuta nel battesimo, comporta anche il dono dello Spirito fatto ai figli. La figliolanza è la base della ricezione dello Spirito. Ciò che preme a Paolo è questo: constatare una equiparazione dei figli con il Figlio nella loro relazione esistenziale con Dio, la quale viene comunicata in continuità dallo Spirito del Figlio. Essi stanno in rapporto del tutto intimo-personale con Dio perché lo Spirito concesso loro nel battesimo grida a Dio nei loro cuori: « Padre! », come può fare soltanto il Figlio. Così lo Spirito dischiude e rende possibile una nuova relazione con Dio che Paolo qualifica come rapporto tra padre e figli. A che cosa pensa l’apostolo parlando del « gridare » dello Spirito? Forse a certe esperienze della Chiesa primitiva, come la glossolalia con le sue prime esclamazioni spontanee e inarticolate (1Cor 14) e alla preghiera dei cristiani in genere in quanto è suggerita dallo Spirito. Lo Spirito grida nei credenti a Dio « abbà ». Questa invocazione è espressione del rapporto dell’uomo con Dio inteso in senso del tutto personale-intimo. In essa si manifesta la relazione filiale con Dio, che ai battezzati è resa accessibile dallo Spirito. In tal modo il cristiano per mezzo dello Spirito viene incluso nella famiglia di Dio (Rm 8,15-16; Ef 2,18). Con ciò è ora definitivamente chiarito dall’apostolo quale Spirito i Galati hanno ricevuto un tempo attraverso l’accoglienza della predicazione della fede, quand’essi diventarono cristiani.
v. 7. Ora da questa figliolanza dei credenti l’apostolo trae la conseguenza per il singolo cristiano: « Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio ». L’apostolo non dice minorenne, ma schiavo, probabilmente dando uno sguardo retrospettivo al « quando eravamo schiavi degli elementi del cosmo » (v.3). Quello che era uno schiavo è diventato un figlio libero, che quindi può anche accedere alla piena eredità. Ciò oltrepassa di molto l’enunciato di 3,29. Ivi i credenti sono chiamati « seme di Abramo » ed « eredi in conformità della promessa » e vengono immessi nel contesto della promessa che risale fino ad Abramo; in 4,6-7 invece si rivela loro la figliolanza divina, e ciò che i figli di Dio ereditano è tutta la salvezza escatologica (Rm 8,17). Ciò che veramente importa a Paolo è di mostrare ai Galati che a loro, in quanto credenti battezzati, viene donata da Dio l’eredità della salvezza, e perciò un rivolgersi da parte loro al giudaismo è superfluo. Il nome di Dio si trova, accentuato, alla conclusione della pericope perché egli è l’autore di tutta l’opera della salvezza.
NOTA DELLA BJ SU GAL 3,19:
…angeli, le tradizioni giudaiche menzionano la presenza di angeli sul Sinai, quando fu data la legge.
da un sito ebraico:
http://www.morasha.it/ebraismoabc/ebraismo_abc12.html
« Secondo una leggenda talmudica, questa Legge era stata offerta a molti popoli, prima che ad Israele, ma nessuno l’aveva accettata, perché imponeva troppe restrizioni. All’offerta, Israele rispose, invece: « Faremo ed ascolteremo ». Da allora diciamo: « Beati noi, quanto è dolce la nostra eredità; beati noi che sera e mattina proclamiamo l’unità di Dio ».
« Èretz Israèl senza Torà è come un corpo senza anima ».
« Gli ebrei sapevano che avrebbero ricevuto la legge sul Monte Sinài, perché nell’episodio del « Roveto ardente » il Signore aveva detto a Mosè: « E servirete il Signore su questo monte. »
Narra il Midràsh che gli angeli si ribellarono, quando seppero che il Signore voleva dare la Torà al popolo di Israele. Essi infatti pensavano che questo splendido dono, rimasto nascosto per tanti anni prima che il mondo fosse creato, non dovesse essere consegnato all’uomo mortale. Il Signore allora mandò degli angeli da Mosè, perché li convincesse. E Mosè ragionò così con loro: « Voi angeli non avete bisogno della Torà, infatti non avete genitori da onorare, non avete possibilità di venir meno alla regole della kasherùth, non avete nessuna schiavitù in Egitto da ricordare, non avete il pericolo di adorare gli idoli ». Gli angeli ammisero che Mosé aveva ragione e che la Torà doveva essere data agli uomini, perché i suoi precetti erano proprio fatti per loro. Così Mosè portò ad Israele la Torà ».