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DIMANCHE 7 AVRIL : COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT – SECONDA LETTURA – Apocalisse 1, 9…19

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(è una traduzione Google dal francese, l’autrice del commento  interpreta le letture, per me, in modo magistrale, la traduzione non è perfetta naturalmente, ma si capisce)

DIMANCHE 7 AVRIL : COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT

SECONDA LETTURA  – Apocalisse 1, 9…19

Per sei domeniche consecutive, leggeremo la seconda lettura di brani dell’Apocalisse di San Giovanni è una possibilità che possiamo fare un po ‘di conoscenza con uno dei testi più accattivanti del libro del Nuovo Testamento difficile A prima vista, ci vuole impegno ma ci sarà presto ricompensata. Oggi, quindi, il primo contatto. L ‘ »Apocalisse » parola deriva dal greco significa « rivelazione », « svelando » il significato di « togliere il velo » è per Jean a rivelarci il mistero della storia del mondo, mistero nascosto dai nostri occhi . Perché che ci rivela ciò che i nostri occhi non possono vedere spontaneamente, il libro prende la forma di visioni, ad esempio, il verbo « vedere » è usato cinque volte nel singolo passaggio di oggi!
 La parola « apocalisse » purtroppo non è stato così fortunato: è quasi diventato uno spaventapasseri, che è la peggiore sciocchezza! Perché, a suo modo, l’Apocalisse, come tutti gli altri libri della Bibbia, Buona Novella. In tutta la Bibbia, nell’Antico Testamento è la rivelazione del mistero della « volontà di Dio » (come indicato nella Lettera agli Efesini), il progetto di amore di Dio per l’umanità. Le Apocalissi sono un particolare genere letterario, ma come tutti gli altri libri della Bibbia, non hanno altro messaggio che l’amore di Dio e la vittoria finale di amore su tutte le forme di male. Se non siamo convinti di questo, aprendo le Apocalissi, in particolare quella di Giovanni, meglio non aprire! Possiamo leggerli attraverso!
 Qual è una delle difficoltà di questo genere, è fantastico e visioni spesso difficili da decifrare, almeno per noi. C’è tutto: non è stato difficile per i destinatari, è difficile per noi che non sono più nella loro situazione. Perché parlare in forma di visioni? Perché non parlare chiaramente? Sarebbe molto più facile … non esattamente, l’Apocalisse di San Giovanni, come tutti i libri dello stesso genere (ci sono stati diversi apocalissi scritte da diversi autori tra il II secolo aC. aC e il II secolo dC.), è scritto in tempo persecuzione, abbiamo letto qui: « Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella persecuzione … Sono stato sull’isola di Patmos a causa della parola di Dio e la testimonianza di Gesù. « A Patmos, Giovanni non fa turismo, fu esiliato.
 Perché siamo in mezzo alle persecuzioni, un Apocalisse è scritta sotto il mantello che scorre verso il morale delle truppe e il tema principale è la vittoria di coloro che sono attualmente oppressi. Discorso, in fondo, è: a quanto pare si sono sconfitti, si crash, vi perseguiteranno, si elimina, e vi perseguiteranno sono fiorenti, ma non perdetevi d’animo, Cristo ha vinto il mondo: sguardo, riesce a conquistare . Egli ha vinto la morte. Le forze del male non può fare nulla contro di te, sono già sconfitti. Il vero re è Cristo, questo, Giovanni dice nella prima frase: « Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella persecuzione, regno, e la resistenza con Gesù. ‘
 Ovviamente, un tale discorso non può essere troppo esplicito, in quanto il pericolo è bello vedere lo afferrò per il persecutore, in modo da raccontare storie di un altro tempo e visioni fantasmagoriche, tutto ciò che serve a scoraggiare la lettura per chi non lo sapesse. Ad esempio, san Giovanni dice tutto il male possibile di Babilonia, che lui chiama « la grande prostituta ». Per coloro che possono leggere tra le righe, è naturalmente Roma. Ogni Apocalisse è un messaggio: le forze del male si scatena, non prevarranno!
 Questo è ciò che spiega la contraddizione triste che siamo spesso l ‘ »Apocalisse » parola perché ci sono in realtà una descrizione del male scatenato, ma c’è molto di più per l’annuncio della vittoria di Dio e coloro che sarà fedele.
 Torno l’Apocalisse di San Giovanni: dal momento che è parte del Nuovo Testamento, il suo personaggio principale è, ovviamente, Gesù Cristo è al centro di tutte le visioni.
 Nel leggere questa Domenica, la vittoria di Cristo è presentato in una grande visione: si tratta di una Domenica, troppo, questo è il giorno in cui si celebra la Resurrezione di Cristo. John rivivere la stampa come una nuova Pentecoste: una voce potente, come di tromba, il soffio dello Spirito … prima … in mezzo ai sette candelabri d’oro, un essere di luce appare a lui, un « figlio dell’uomo » nel vocabolario del Nuovo Testamento, il figlio dell’uomo è un’espressione per dire che il Messia per Jean questo non è un ombra di dubbio, questo è il Cristo. Poi, improvvisamente messo ogni uomo alla presenza di Dio, Giovanni cadde ai suoi piedi e sente « Non temere » … e sente le parole di vittoria: « Io sono » (il nome di Dio) … « Io sono il Primo e l’Ultimo … Io sono vivo … la morte vittoriosa … Tengo le chiavi della morte e sopra gli inferi. ‘
 E come sempre, questo tipo di visione è una vocazione, una missione al servizio dei suoi fratelli: « Scrivi quello che avete visto … « Presenza di incoraggerà i vostri fratelli in passato, il presente e il futuro appartiene a me: sentiamo echeggiare qui la promessa di Cristo: » Chi crede in me, anche se muore, vivrà « (Gv 11, 25).
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 Nota
1 – Gli studiosi concordano sul fatto che l’Apocalisse di Giovanni è stato scritto durante il regno dell’imperatore Domiziano (81-96). Ma l’imperatore non era impegnato in una persecuzione sistematica dei cristiani. Il clima di insicurezza in cui la comunità vive di Giovanni può provenire da una parte delle esigenze del culto imperiale promossa da Domiziano e in secondo luogo l’opposizione degli ebrei è rimasto refrattario al cristianesimo. Questo è ciò che appare dalle lettere alle sette chiese.

 Complementi
 Nell’Antico Testamento, il messaggio del libro di Daniele era una sorta di scrittura apocalittica circa 165 aC per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane, Daniel non ha attaccato direttamente il problema: ha raccontato le gesta eroiche svolte da fedeli ebrei sotto Nabucodonosor persecuzione quattrocento anni prima, era che una lezione di storia, a quanto pare, ma chi poteva leggere tra le righe, il messaggio era chiaro.
 Lo stile del testo di esempio « apocalittico » nella storia recente: il tempo della dominazione russa della Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca ha scritto e suonato molte volte nel suo paese un pezzo su Giovanna d’Arco: francamente l’ Giovanna d’Arco contrafforte gli inglesi di Francia nel XV secolo non era la preoccupazione principale di cechi e se lo script è caduto nelle mani della potenza occupante, non era troppo compromettente, ma che sapeva leggere tra le righe, il messaggio era chiaro: che la ragazza di diciannove anni è stato in grado, con l’aiuto di Dio, possiamo anche.

DOMENICA DELLE PALME, COMMENTO SULLA PRIMA LETTURA: iSAIA 50,4-7

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DIMANCHE 24 MARS : COMMENTAIRES DE MARIE NOËLLE THABUT

PREMIERE LECTURE – Isaïe 50, 4-7

(come vedete è una traduzione Google dal francese, per me è una delle migliori, come ogni traduzione ha qualche difetto, ma si comprende bene)

Per anni abbiamo letto e riletto questi testi che parte sorprendente del libro di Isaia chiama « Canti del Servo » che ci interessano soprattutto noi cristiani, per due motivi: in primo luogo, le Messaggio Isaia voluto dare se stesso in tal modo ai suoi contemporanei, quindi, perché i primi cristiani hanno chiesto a Gesù Cristo.
Comincio con il messaggio del profeta Isaia ai suoi contemporanei: una cosa è certa, non è ovviamente pensato Isaia a Gesù Cristo quando scrisse questo, probabilmente nel VI secolo aC, durante l’esilio babilonese. Dato che i suoi abitanti sono in esilio, in condizioni difficili e può anche cedere allo scoraggiamento, Isaia gli ricorda che lui è sempre il servo di Dio. Dio e fare affidamento su di lui, il suo servo (il suo popolo) per realizzare il suo piano di salvezza per l’umanità. Per il popolo di Israele è il Servo di Dio, alimentata dalla Parola ogni mattina, ma anche perseguitato per la sua fede giusta e durevole, tuttavia, a tutti gli eventi.
 In questo testo, Isaia descrive lo straordinario rapporto che unisce il Servo (Israele) al suo Dio. La sua caratteristica principale è l’ascolto della Parola di Dio, « orecchio aperto », come dice Isaia, « Play » la Parola, « lascia educare » da esso, significa vivere nella fiducia. « Dio, il Signore mi ha dato la lingua di un uomo che è l’insegnamento » … « La parola mi sveglio ogni mattina » … « Io ascolto come uno che lascia l’insegnamento » … « Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio. »
  »Play » è una parola che ha un significato speciale nella Bibbia significa fiducia in voi l’abitudine di opposizione tra questi due tipi di atteggiamenti che le nostre vite oscillano incessantemente la fiducia nel verso Dio, sereno abbandono alla sua volontà, perché sappiamo per esperienza che la sua volontà è solo un bene … o diffidenza, il sospetto incentrato sulle intenzioni di Dio … e disgusto per gli eventi, la rivolta ci può portare a credere che egli ci ha abbandonato o peggio che poteva trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze.
 Profeti, uno dopo l’altro, raccontare « Ascolta, Israele » o « Ora si ascolta la Parola di Dio …? « E in bocca la loro raccomandazione » Listen « significa sempre » fiducia in Dio, non importa quello che succede « , e san Paolo vi dirò perché: perché » Dio non contribuiscono al bene di coloro che lo amano (v. vale a dire che si fida di lui). « (Rm 8, 28). Da ogni male, di qualsiasi difficoltà in ogni caso, dà luogo alla proprietà, l’odio, si oppone un amore più forte ancora, nella persecuzione, dà il potere del perdono, di tutti i decessi che mette in evidenza la vita Resurrezione.
 Questa è la storia di fiducia reciproca. Dio si fida il suo servo, affida una missione per restituire la Banca Depositaria accetta la missione con fiducia. Ed è questa stessa fiducia che gli dà la forza di resistere fino a quando l’opposizione che inevitabilmente incontrano. Qui la missione è di testimoniare: « . So che il mio turno lui conforta chi può » Affidando questa missione, il Signore dà forza necessaria: « dare » il linguaggio necessario: « Dio, il Signore mi ha dato la lingua di un uomo che è l’insegnamento » … E ancora meglio, essa si nutre la fiducia che è la fonte di tutti l’audacia di servizio agli altri: « Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio », che significa che l’ascolto (nel senso biblico trust) è di per sé un dono di Dio. Tutto è un dono: la missione e anche la forza e la rende anche la fiducia incrollabile. E ‘proprio la caratteristica di ogni credente accetta come un dono di Dio.
 E coloro che vivono in questo dono permanente della potenza di Dio in grado di affrontare: « Non sono ribelle, io non ho rubato … « La fedeltà alla missione affidata comporta inevitabilmente la persecuzione dei veri profeti, vale a dire coloro che effettivamente pronunciare il nome di Dio, sono raramente apprezzate nella loro vita. In particolare, Isaia disse ai suoi contemporanei valide, il Signore non ti ha abbandonato, però, siete in una missione per lui. Quindi non essere sorpreso di essere abusati.
 Perché? Dato che il servo che « ascolta » veramente la Parola di Dio, vale a dire, che mette in pratica diventa rapidamente molto inquietante. Chiamato sua conversione alla conversione altri. Alcuni sentono la chiamata per attivare … altri rifiutano, e per conto dei loro motivi, Servant perseguitano. E ogni mattina, il servo deve ricaricarsi da Colui che può affrontare qualsiasi cosa: « La parola mi sveglio ogni mattina, ogni mattina si sveglia … Il Signore Dio è venuto in mio soccorso, è per questo che non sono influenzati dagli insulti … « E Isaias utilizza un’espressione in francese un po ‘curioso, ma al solito in ebraico: » Ho la mia faccia dura come pietra « 1: esprime la volontà e il coraggio, in francese viene talvolta chiamato » il volto hanno sconfitto « Beh qui il servo dice: » non mi vedrete viso smunto, non mi schiacciare, mi correggerà qualunque cosa accada « non è orgoglio o pretesa, c ‘ la fiducia è puro perché sa dove la sua forza viene: « Il Signore Dio è venuto in mio soccorso, è per questo che non sono interessate dalle violenze. ‘
 Ho detto all’inizio che il profeta Isaia ha parlato al suo popolo perseguitato, umiliato nel suo esilio a Babilonia, ma, naturalmente, quando si legge la Passione di Cristo, è evidente che Cristo è esattamente ciò che questo ritratto del servo di Dio. L’ascolto della Parola, la fiducia e la certezza quindi inalterabile di vittoria, anche all’interno della persecuzione, tutte caratterizzate Gesù al momento preciso della folla applausi Palm firmato e si precipitò la sua perdita.
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 * Luca ha preso esattamente questa frase quando si parla di Gesù, disse: « Gesù indurisce il viso di prendere la strada verso Gerusalemme » (Lc 9, 51, ma le nostre traduzioni dire « Gesù risolutamente preso la strada per Gerusalemme »)

ROMANI 10,8-13

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Romani%2010,8-13

BRANO BIBLICO SCELTO

ROMANI 10,8-13

Fratelli, 8 che dice la Scrittura? « Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore »: cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.
10 Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11 Dice infatti la Scrittura: « Chiunque crede in lui non sarà deluso ». 12 Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. 13 Infatti: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato ».

COMMENTO A ROMANI 10,8-13

Nei cc. 9-11 della sua lettera ai Romani Paolo si pone un problema che doveva interessare direttamente i cristiani provenienti dal giudaismo: come si può dire che Cristo abbia portato la salvezza definitiva se proprio i giudei, ai quali per primi era stata promessa, l’hanno rifiutata. Nel c. 10, riprendendo uno spunto già presente nel capitolo precedente, egli afferma che Israele non ha raggiunto quella giustizia di cui era il primo destinatario perché non ha capito che proprio secondo la Scrittura essa si acquista esclusivamente mediante la fede. Questo malinteso non è frutto di ignoranza, ma di un rifiuto colpevole, che già i profeti avevano preannunziato.
Di questa argomentazione la liturgia riprende solo il brano in cui si parla dell’efficacia della fede. Per capirlo correttamente bisogna ricordare che Paolo, in contrapposizione con la giustizia che proviene dalla legge, descrive qui la giustizia che viene dalla fede. A questo proposito egli utilizza anzitutto nei vv. 6-7 un brano del Deuteronomio, riletto alla luce della traduzione aramaica (Targum) che a sua volta si ispira al Sal 107,26: in esso si dice che il comando del Signore «non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal  mare(Tg: nel profondo del grande abisso), perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare (Tg: chi scenderà nel grande abisso) per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,11-14). In questo testo si vuole esprimere la sintonia della legge con le intime aspirazioni del cuore umano. Secondo Paolo invece la giustizia (personificata) che viene dalla fede esorta a non usare le espressioni «chi salirà al cielo» oppure «chi discenderà nell’abisso» perché esse significano rispettivamente la venuta di Cristo e la sua risurrezione (vv. 6-7), due eventi che si sono già realizzati.
Inizia qui il testo liturgico in cui Paolo si pone la domanda: «Che dice dunque?» e risponde: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (v. 8). In questa risposta egli fa uso di Dt 30,14, riprendendo però solo la prima parte («Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore»), mentre sostituisce la seconda («perché tu la metta in pratica»). La vera giustizia si limita a dire, con le parole della Scrittura, che la parola di Dio è una realtà non lontana dal credente, ma molto vicina a lui, sulla sua bocca e nel suo cuore. Ma la parola di cui parla il testo biblico non è altro che la «parola della fede» (rêma tês pisteôs) che Paolo predica. Nella sua rilettura dunque il testo biblico non indica più, come nel contesto originale, la legge che il credente è invitato a praticare, ma la predicazione apostolica, il cui compito non è altro che quello di annunziare la venuta di Cristo e la sua risurrezione al fine di suscitare la fede in lui.
L’apostolo poi prosegue: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (v. 9). Con queste parole egli commenta Dt 30,14 così come è stato da lui citato. Da esso egli ricava il principio secondo cui, facendo con la bocca l’antica professione di fede cristiana («Gesù è il Signore») e credendo con il cuore che egli è stato risuscitato dai morti, si ottiene la salvezza. Le due parti di questo versetto sono strettamente parallele: professione con la bocca e fede del cuore sono due modi diversi per dire la stessa cosa, cioè la piena adesione al Cristo risuscitato. E aggiunge, sempre facendo ricorso al parallelismo: «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (v. 10). In altre parole, la fede nella risurrezione di Cristo, professata con sincerità dalla comunità cristiana, produce la giustificazione che è il primo passo verso la salvezza finale.
A sostegno di questa affermazione egli riporta un altro testo biblico: «Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso» (v. 11). Questo testo, già citato nel capitolo precedente, viene ricavato dal libro di Isaia, dove si afferma: «Chiunque crede in lui non sarà deluso» (Is 28,16). Dal testo di Isaia Paolo deduce poi questa conclusione: «Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano» (v. 12). Il fatto che sia proprio la fede, coltivata nel cuore e proclamata con la bocca, a procurare la giustificazione e la salvezza, è prova e garanzia che questa è accessibile a tutti coloro che lo invocano, siano essi giudei o gentili: poiché è il Signore di tutti, Dio fa a tutti i suoi doni.
E di nuovo Paolo fa appello a un testo biblico che conferma questa conclusione: «Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (v. 13). Questo testo è ricavato da Gioele, il quale dice: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Gl 3,5). Il «Signore» è Gesù, che viene così identificato con il Signore (JHWH),. L’invocazione del suo nome coincide con l’espressione della fede in lui, che diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità.

Linee interpretative
In questo brano Paolo vuole anzitutto sottolineare come la giustizia provenga esclusivamente dalla fede in Cristo, come appare, secondo lui, da un testo riguardante la vicinanza della parola di Dio e la sua sintonia con il cuore del credente. Secondo lui il messaggio evangelico della giustificazione mediante la fede in Gesù Cristo è stato predicato al popolo giudaico in modo adeguato, mediante messaggeri inviatigli ufficialmente da Dio. Il rifiuto di Cristo da parte dei giudei è dunque frutto di una scelta deliberata e colpevole: non si tratta quindi di un evento tale da mettere in discussione la fedeltà di Dio, ma di una decisione sbagliata, la cui responsabilità ricade sul popolo stesso. D’altronde il comportamento di questo popolo nei confronti di Cristo corrisponde all’immagine che ne danno proprio le Scritture che esso riconosce come sacre.
A sostegno della sua tesi, l’apostolo porta una serie di brani biblici che, in quanto parola di Dio, ritiene più convincenti di qualsiasi rilievo oggettivo, citandoli però al di fuori del loro contesto e dando loro un significato abbastanza diverso da quello che avevano originariamente. Egli dunque interpreta le Scritture con una notevole libertà, della quale d’altronde anche i dottori del suo tempo si avvalevano senza eccessivi scrupoli. Ispirandosi ad alcuni testi biblici molto noti egli attribuisce alla fede, che per lui ha come oggetto la morte e la risurrezione di Cristo, il posto centrale nel processo che porta alla giustificazione e alla salvezza. Egli può fare ciò perché ha presente in modo globale la predicazione dei profeti, i quali pronunziano una dura condanna nei confronti di Israele, considerato come un popolo che per sua natura è infedele a JHWH.
In tal modo egli può dimostrare che Dio vuole la salvezza di tutti, senza legarsi alla tradizionale divisione dell’umanità in giudei e gentili. Il passaggio dell’annunzio evangelico ai gentili non rappresenta dunque una sconfessione o un rifiuto dei giudei da parte di Dio, ma piuttosto l’attuazione del suo progetto originario, in quanto esso aveva lo scopo di far sì che mediante i giudei la salvezza giungesse a tutta l’umanità.
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commento a 1 Tessalonicesi 3, 12 – 4, 2 – di Marie Noëlle Thabut

http://www.eglise.catholique.fr/foi-et-vie-chretienne/commentaires-de-marie-noelle-thabut.html

(traduzione  Google dal francese)

Domenica 2 dicembre: Marie Noëlle Thabut

SECONDA LETTURA – 1 Tessalonicesi 3, 12 – 4, 2

Paolo arrivò a Tessalonica probabilmente nell’anno 50, vale a dire, circa vent’anni dopo la morte e risurrezione di Cristo, è stato un porto commerciale molto importante e la capitale della provincia di Macedonia, occupata dai Romani. Molti stranieri che vivono lì, tra cui un grande insediamento ebraico. Con gli Atti degli Apostoli, sappiamo che Paolo ha fatto quello che ha fatto ogni volta che è venuto a una nuova città: ha cominciato andando alla sinagoga il Sabato mattina per l’Ufficio del sabato, questa volta Era accompagnato da Sila e Timoteo e gli Atti ci dicono che sono andati alla sinagoga in tre sabati. La sua predicazione avuto un certo successo, come il libro degli Atti ci dice: « Da le Scritture, spiegando e ha stabilito che il Messia deve soffrire, risuscitate i morti, e il Messia, ha detto, è quello che Gesù ti dico. Alcuni ebrei sono convinti e sono state vinte da Paolo e Sila, e una moltitudine di fedeli greci di Dio e molte donne dell’alta società. « (Atti 17: 3-4).
 Inoltre convertì i pagani che, fino a quel momento, erano adoratori di idoli, come in questa lettera Paolo disse loro: « Vi siete convertiti dagli idoli a Dio è lontano per servire il Dio vivo e vero » (1 Tessalonicesi 1 9). Ma questo successo ha sollevato la rabbia degli ebrei ostili a Gesù. Hanno denunciato Paolo ei suoi amici alle autorità come nemici dell’Imperatore. E sembrava più prudente a fuggire. Paul è lasciato per Berea, non lontano da Salonicco e ad Atene e infine a Corinto. Non sappiamo esattamente quanto tempo ha trascorso a Salonicco, ma è chiaro che ha lasciato una nuova comunità cristiana, marchio per il quale si occupava lui. Così qualche mese dopo, « non poteva più » (parole sue), mandò Timoteo a Tessalonica per vedere questa comunità e di sostegno nella fede.
 Capitolo 3 di questa lettera si legge qui inizia con queste parole: « Inoltre, non ha più, abbiamo pensato che fosse meglio rimanere ad Atene e abbiamo inviato Timoteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nella predicazione del vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, in modo che nessuno si è mosso da queste prove attuali, perché sapete che siamo destinati. Quando eravamo presso di voi, vi avvisiamo che dovrebbero essere sottoposti a test, e questo è quello che è successo, lo sai. Per questo motivo, non è più, ho inviato alle notizie della vostra fede, per timore che il tentatore aveva tentato di fare e che il nostro dolore è perduto. « Gli eventi di cui egli parla è la persecuzione continua dagli ebrei. Ma Timothy è tornato con una grande notizia: « Ora Timothy è appena venuto a voi e portarci buone notizie della vostra fede e il vostro amore, e mi ha detto di conservare un buon ricordo di noi, e si desidera vederci quanto vogliamo vedere di nuovo. E fratelli, ti abbiamo trovato in tutta comodità attraverso la vostra fede in mezzo a tutte le nostre paure e le nostre prove, e ora ci fa rivivere, come si rimanete saldi nel Signore. ‘
 I versi che abbiamo letto questa Domenica sono in qualche modo reagire a caldo Paolo spostato tutte queste una grande notizia. Cosa c’è di meglio? I Tessalonicesi sono sulla strada giusta, e lui era contento, ha detto qualcosa di simile devi solo perseverare. Perseverare fino a quando? Fino a quando il ritorno di Cristo è il piano di Dio che dà senso alla nostra vita, ci rimane una sfida al buon senso, come Geremia nella prima lettura in un mondo che non sa dove è la « sfida » cristiana è di vivere la sua vita « in prospettiva ». Tutti del pensiero di Paolo è dominato dall’attesa della venuta di Cristo nella gloria nell’ultimo giorno. E questo è il testo chiave che viene qui proposto: esso invita i cristiani a mettere tutta la loro vita in prospettiva questo « giorno in cui il nostro Signore Gesù verrà con tutti i santi. » La preghiera si dice nelle nostre celebrazioni liturgiche, il Padre nostro ci orienta verso questo obiettivo e, « Venga il tuo regno, la tua volontà sia fatta, sia santificato il tuo nome … « I cristiani non sono rivolti al passato ma al futuro, e sappiamo cosa scrivere » A-COMING « in due parole: è questo » A-coming « che dà senso alla nostra vita di oggi, questo è esattamente quello che Paolo dice qui: « Il Signore stabilire irreprensibili nella santità, davanti a Dio e Padre, per il giorno in cui nostro Signore Gesù viene fornito con tutti i santi. » Questo è anche il significato della preghiera dopo il Padre Nostro nella liturgia eucaristica: « ci rassicurano prima degli eventi in questa vita che ci auguriamo vi prometto e la felicità (vale a dire) l’avvento Gesù Cristo, nostro Salvatore. ‘
 In particolare, mettere la nostra vita « in prospettiva », è già vivo e concentrarsi solo sui valori del regno, e questo è il secondo aspetto della « sfida cristiano » sempre e solo concentrarsi sull’amore. Quando Paolo scrive, si è visto, la vita non è oggi più rosa. Questo è il motivo per cui è davvero una sfida … Questa è anche una sfida in modo che non possiamo farlo da soli! E ‘un dono di Dio, Paolo dice: « Dio ti dà, e l’utente in relazione a tutti gli uomini amano più intenso e traboccante … ‘
 Questo è quello di essere santi: non c’è altra santità, come è ben noto, che l’amore … poiché « Dio è amore », come san Giovanni … « Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio » (1 Giovanni 1). Questo è ciò che spiega il legame tra le due frasi di Paolo: « Dio ti dà, e l’utente in relazione a tutti gli uomini amano più intenso e traboccante » … « E così sarà fermamente stabilire irreprensibili nella santità … « Allora possiamo » piacere a Dio « , come Paolo dice anche: » Avete appreso da noi come si dovrebbe effettuare gradito a Dio « , che è semplicemente quello di realizzare la nostra vocazione figlio, l’immagine del Figlio prediletto, nel quale Egli « delizie ».

Sh’ma Yisrael Adonai Elohenu Adonai Echad

http://www.nostreradici.it/Kopciowski_shema.htm

Sh’ma Yisrael Adonai Elohenu Adonai Echad

Ascolta Israele Il Signore è il nostro Dio Il Signore è Uno

di Rav Elia Kopciowski

« ASCOLTA ISRAELE »
Lo Shema‘ (« Ascolta ») è la preghiera ebraica forse più conosciuta. Essa è costituita da tre sezioni bibliche (Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41) (Testo ebraico) precedute e seguite dalla recita di alcune benedizioni, e sono appunto queste ultime a rendere l’ « Ascolta Israele », una vera e propria preghiera (cioè un modo con cui l’uomo si rivolge a Dio). Lo Shema‘ è recitato con profonda riverenza ed è soprattutto necessario soffermarsi sul primo versetto: « Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è Uno ».
Da un commento, non sappiamo se tutt’ora inedito, allo Shema’ di Rav Elia Kopciowski – già rabbino capo di Milano e infaticabile, sapiente espositore dell’ebraismo per ebrei e non ebrei – traiamo queste suggestive e profonde considerazioni su alcuni versi della prima sezione biblica. 

« Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno.
Benedetto il nome del Suo glorioso regno per sempre, eternamente.
E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue facoltà.
Siano queste parole che Io ti comando oggi, impresse nel tuo cuore. Le inculcherai ai tuoi figli, parlerai di esse stando in casa e andando per la via, coricandoti e alzandoti.
Le legherai come segno sulla tua mano, e siano sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. Le scriverai sugli stipiti della porta della tua casa e della tua città » (Dt 6,4-9).
Ogni suo versetto, ogni parola, perfino ogni lettera ha dato ai nostri Maestri la possibilità di approfondire il significato dello Shema‘, ha fornito loro i mezzi per trarre sempre nuovi insegnamenti per guidare l’ebreo, e non soltanto l’ebreo ma, in definitiva, ogni credente, a meglio intendere lo scopo divino nell’appello ad ascoltare.
Già il primo versetto è stato una fonte di insegnamenti e di consigli, oltre a una guida che permette al credente di comprendere come il riconoscimento del Dio unico abbia mutato il corso della storia morale e spirituale dell’Umanità, abbia inciso nell’animo dell’ebreo la fiducia, la sicurezza che l’Umanità intera avrebbe rigettato le falsità dell’idolatria e riconosciuto l’Uno, l’Unico: « Ascolta Israele, il Signore è Dio nostro, il Signore è Uno! ».
Ma una domanda sorge spontanea: perché ripetere il Nome tetragrammato? Non sarebbe stato sufficiente affermare: « Il Signore nostro Dio è Uno? ». La spiegazione del Rashì (1040-1105), nella sua concisione, è molto significativa: « Ascolta Israele, il Signore che ora è riconosciuto come Dio soltanto da noi, sarà in futuro riconosciuto come l’Essere supremo da tutte le creature! ». Ma sarà riconosciuto non solo come l’Essere supremo, bensì come l’Uno e l’Unico! Uno, perché non vi sono, né vi possono essere, altre divinità; Unico perché le sue qualità sono esclusive e nessun altro essere ha, né può avere, le qualità divine. E ancora, rilevano i nostri Maestri, sono soltanto sei, nel testo ebraico, le parole che traduciamo « Ascolta Israele… « . Di queste sei parole ben tre esprimono le caratteristiche fondamentali dell’Uno e Unico.
Due volte, abbiamo visto, è citato il Tetragramma e una volta la parola « Elohim ». Fa notare lo Hirsch (1808-1888): la ripetizione del Tetragramma, attirando la nostra attenzione, ci richiama a riconoscere e a proclamare che tutto ciò che è contenuto nel mondo e nell’universo è sotto il dominio dell’Unico Dio. Inoltre, secondo la tradizione giudaica, il Tetragramma, qui reso con « Signore » o « Eterno », indica la Middath ha-rachamim, la qualità divina della misericordia, mentre Elohim indica la Middath ha-din, la giustizia divina. Giustizia e misericordia, viene quindi messo in risalto fin dall’inizio della proclamazione di fede del giudaismo, costituiscono per il pensiero ebraico le due qualità precipue della Maestà divina!
Questo Essere Uno e Unico è Colui che detiene il potere della giustizia e della misericordia. Ed è molto significativo che la qualità della misericordia sia espressa due volte, mentre quella della giustizia soltanto una volta; in tal modo l’Eterno stesso mette in rilievo che la misericordia deve superare le esigenze della giustizia.
È proprio questa misericordia che l’ebreo, testimone dell’Eterno sia per se stesso, sia per l’umanità, è chiamato a ricordare e a dimostrare, con la ‘ain con cui termina la parola Shema‘ e la dalet di echad scritte in caratteri più grandi in modo da formare la parola, ‘ed, « testimonio ». Ma, fa notare lo Hirsch, possiamo aggiungere ancora qualcosa: non è sufficiente che l’ebreo sia « testimonio » soltanto per aver ascoltato!: la lettera ‘ain, la prima della parola ‘ed, « testimonio », significa « occhio ».
L’occhio che vede, unito all’orecchio che ascolta, rendono il verso assai più denso di significato: tutte le nostre facoltà devono essere chiamate a testimoniare della « Unità e Unicità di Dio », così come si è espresso Davide: « O Signore, tutte le mie membra proclamano: ‘O Eterno, chi è come te?’ »(Sal 35,10). Il « fedele » diverrà così non un semplice testimonio, bensì un « testimonio oculare ». L’osservazione dello Hirsch si basa sul fatto che nessuna frase, nessuna parola, nessuna lettera, nel testo divino sono superflue; ognuna di esse vuole insegnarci qualcosa. […]
La ripetizione del Nome tetragrammato nel primo versetto ha logicamente attirato l’attenzione di molti commentatori, e varie sono state le spiegazioni suggerite. Abbiamo già citato il Rashi, che interpreta tale ripetizione come un auspicio e una speranza: « Dio, che ora è soltanto il nostro Dio e non degli idolatri, sarà un giorno il Dio di tutti gli uomini ». Si tratta di una interpretazione basata sulle affermazioni di due profeti: « Poiché allora Io muterò in labbra pure le labbra dei popoli, affinché tutti invochino il Nome dell’Eterno, per servirlo di pari consentimento » (Sof 3,9), e « In quel giorno l’Eterno sarà unico e uno sarà il suo Nome » (Zc 14,9).
Se ogni parola ci mette in condizione di aggiungere qualche cosa di nuovo alla nostra conoscenza e di permetterci una migliore comprensione della parola divina, un’apparente irregolarità grammaticale, così come ogni altrettanto apparente imprecisione di linguaggio, sarà certamente fonte di nuovi insegnamenti. È stato notato, per esempio, che nel primo versetto dello Shema’ si usa il plurale: « L’Eterno è nostro Dio », mentre nel resto del brano troviamo sempre il singolare: « e amerai…, e ripeterai … ».
Questo anomalo passaggio dal plurale al singolare ha suggerito al Nachmanide (1194-1270) una istruttiva risposta: Dio ha compiuto per mezzo di Mosè opere grandiose e prodigi tali da rendere il nome del protoprofeta glorioso e indimenticabile; ma i miracoli e i prodigi erano stati compiuti per tutto il popolo e non unicamente per Mosè. Perciò, afferma il Nachmanide, se Mosè avesse detto « Il Signore vostro Dio », avrebbe escluso se stesso dalla collettività; ma se avesse detto « Il Signore mio Dio », avrebbe escluso il popolo! Con le parole « Il Signore nostro Dio » ha voluto invece sottolineare che il Signore aveva operato i miracoli sia per lui, sia per il popolo perché sia l’uno, sia gli altri, erano chiamati a divenire i suoi fedeli servitori, coloro che avrebbero diffuso la Parola e la Legge.
E ne possiamo dedurre chiaramente la morale: quando rimaniamo colpiti dalle azioni prodigiose operate dall’Eterno, ricordiamoci di non pretendere di averne trovato la giusta, l’unica interpretazione; la nostra comprensione è troppo limitata! Oltre a quella che ci sembra la spiegazione immediata, non dobbiamo dimenticare che lo scopo delle azioni divine è molto al di là di quello che noi valutiamo a prima vista. Ecco perché i nostri Maestri si sono soffermati in particolare sulle parole « Ascolta Israele… »: per ampliare la comprensione del parola divina.
Ma, si chiede il Midrash, soltanto a Israele come popolo sono rivolte le parole divine? No, risponde lo stesso Midrash: per « Israele » si intende qui anche il patriarca Giacobbe che meritò per il proprio valore il titolo appunto di « Israele », cioè: « Campione di Dio »! L’ebreo devoto perciò, secondo il Midrash, si rivolge al suo antico padre per confermargli, generazione dopo generazione, che ha mantenuto la sua fede totale nel Dio unico.
Abudarham (XIV sec.) aggiunge che, con questo appello, ogni ebreo si rivolge anche al suo fratello di fede, per ricordargli l’impegno e il compito; lo richiama quindi all’attività comune per raggiungere lo scopo divino; lo richiama al dovere della solidarietà e gli ricorda la responsabilità collettiva, che è una realtà innegabile che riguarda l’umanità intera, ma che è vitale per la sopravvivenza del popolo d’Israele, come è chiaramente affermato: kol Israel ‘arevim ze la-ze, « Tutti i figli d’Israele sono responsabili l’uno dell’altro ».
Un’interpretazione chassidica della parola « Israele » ci sembra particolarmente mistica e coinvolgente. Dov Baer di Lubawitch, nel suo Kunteros ha-Itpa ’aluth, sostiene che con questo solenne appello ogni ebreo si rivolge a se stesso, si rivolge cioè alla propria anima, che è la parte migliore di sé; a quell’ »Israele Campione di Dio » che è componente spirituale della sua essenza, come deve esserlo di ogni essere umano.
Lo Hirsch si sofferma ancora sulla parola Echad, « Uno », che termina con la lettera dalet (d)scritta, con un carattere più grande, per distinguerla in modo chiaro dalla lettera resh (r)e osserva: le due lettere si rassomigliano, ma la resh ha l’angolo superiore arrotondato, mentre la dalet lo ha sporgente e spigoloso. E non senza ragione, sostiene, si è voluto attirare su queste due lettere l’attenzione di colui che prega; se infatti alla dalet della parola echad, « Uno », sostituiamo la resh, leggiamo una parola di significato completamente diverso: non più echad, « Uno, Unico », bensì acher, « altro », che potrebbe essere inteso come « altra divinità »!
In pratica se sostituissimo la lettera dalet con la lettera resh, non pregheremmo l’ »Unico », ma l’ »altro », e contravverremmo al Comandamento che ci ordina di non prestar culto a qualsiasi « altra divinità ». La sostituzione della dalet con la resh, continua lo Hirsch, ci impartisce un altro valido insegnamento: se noi consideriamo la parola acher, come abbiamo visto, come termine per indicare « altri dèi », con un chiaro riferimento al politeismo, viene messo in evidenza il fatto che l’ideologia politeistica, come la resh dall’angolo smussato, ha una morale smussata, facile da seguire, perché non impone doveri morali e richiede ben pochi sforzi o impegni. La dalet spigolosa, conclude lo Hirsch, è un severo richiamo alla concezione ebraica, concezione ardua ed estremamente impegnativa, difficile da seguire perché impone una rigida disciplina morale. In altre parole, egli conclude, se tentiamo di ‘smussare’ il nostro comportamento rinunciando a quell’impegno spesso faticoso che ha per scopo l’attuazione di una società, di una umanità migliore, e che è simboleggiato appunto dall’angolosità della dalet, perdiamo la nostra caratteristica di popolo del Dio unico, e diveniamo seguaci di un ‘altro’ credo, indubbiamente più facile, ma totalmente vano.
Dopo la solenne dichiarazione dell’unità e dell’unicità di Dio, è scritto: « E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità ».
Cosa dobbiamo intendere con amare Dio « con tutto il cuore e con tutta l’anima » e che cosa significa « con tutte le possibilità »? […]
Il comando di amare Dio è possibile solo dopo l’affermazione solenne e ripetuta non soltanto dell’unità di Dio, ma anche della Sua misericordia e della Sua giustizia. Ed effettivamente, come abbiamo rilevato, la dichiarazione « Ascolta Israele l’Eterno è Dio nostro, l’Eterno è Unico », ci ricorda sempre la ‘misericordia’ divina (menzionata, ripetiamo, due volte nel nome tetragrammato) oltre che la ‘giustizia’ divina (menzionata con la parola « Elohim »). Solo attraverso la convinzione della misericordia e della giustizia divina, può nascere la serenità ispirata dalla coscienza di aver seguito una precisa legge di comportamento che all’amore e alla giustizia di Dio si ispira, e può nascere il conforto, la sicurezza e l’amore verso Colui che non lascia spazio a sorprese e a casualità di giudizio, e che infonde in noi tranquillità di coscienza, serenità e, di conseguenza amore: amore per l’Eterno e amore per il prossimo. […]
L’insegnamento della Torà è assolutamente innovativo, rivoluzionario: esso afferma che ‘amore’ e ‘timore’ per il Dio di verità, non sono in contrasto. E il ‘timore’, sia ben chiaro, non va confuso con la ‘paura’; va inteso come ‘rispetto reverenziale’ per Colui che riconosciamo immensamente al di sopra della nostra esistenza. Il timore di Dio inteso nel suo senso più comune di paura, si manifesta solo quando si è male operato contravvenendo alla Legge; quando invece agisce il concetto insito nel nome tetragrammato che indica l’attributo divino della misericordia, il termine è usato nel senso di rispetto reverenziale.
Ma quel che è importante e innovativo nei confronti dell’idolatria, è che Dio opera per la giustizia e, se è vero che infligge punizioni, che possono suscitare timore, il concetto di punizione è ben lontano da quello di vendetta così comunemente attribuito agli idoli. I concetti di giustizia e punizione si riferiscono sempre e soltanto a un solo Essere, che è bontà e amore, e in cui la giustizia, dalla quale deriva una meritata punizione, è sempre temperata dalla misericordia.
È evidentemente dovere di ogni uomo, da Dio creato con il suo soffio divino e che da Dio ha ricevuto il dono dell’intelligenza, dedicarsi al Signore con tutto il suo essere, e l’amore per il Signore deve venir esercitato e concretizzato « con tutto il cuore ». Ma, si sono chiesti molti commentatori: « Come può l’amore, che non è sotto il controllo della nostra volontà, essere l’oggetto di un ordine così perentorio? »
Il Maimonide (1138-1204) tratta l’argomento sia nel suo Sefer ha-mitzwot, sia nelle Hilkhoth Jesodè Torà (122,2), e pone il precetto dell’amore di Dio in posizione preminente, immediatamente dopo il Decalogo. Egli sostiene, come razionalista, che anche l’amore per il Signore è il risultato di una riflessione intellettuale; quindi rientra in ciò che è sotto il nostro controllo. « Dobbiamo soffermarci » egli afferma « a esaminare i Suoi precetti, le Sue parole, le Sue azioni; arriveremo così a conoscerLo e a comprenderLo. E questa conoscenza ci permetterà di raggiungere la gioia assoluta che costituisce quell’ »amore per il Signore » comandatoci dalla Torà; ed è questo il motivo per cui, nel testo, il precetto « amerai il Signore tuo Dio », è seguito dall’ordine « e queste parole che Io ti comando oggi saranno sul tuo cuore ». Questo Dio glorioso e potente, ci comandò di amarLo e di temerLo, come è scritto (Dt 6,4): ‘E amerai…’; e pochi versetti più avanti: « Il Signore tuo Dio temerai, [Lo servirai e giurerai per il Suo nome] » (Dt 6,13).
Ma quale strada si deve seguire per giungere veramente ad ‘amare’ e a ‘temere’ il Signore? Risponde ancora il Maimonide: « Volgiamo un occhio vigile e attento al mondo che ci circonda e pensiamo a Dio: riflettiamo sulle Sue azioni, sulle Sue creature e sulle Sue creazioni così prodigiose e grandi. I nostri occhi e i nostri cuori allora saranno pieni di ammirazione per Lui; potremo così comprenderLo e riconoscere la Sua saggezza infinite. Di fronte alla grandezza delle Sue creazioni, ci renderemo conto di quanto insignificante è il nostro valore e la nostra importanza, e a Lui ci inchineremo. La conseguenza immediata sarà che noi Lo ameremo, Lo loderemo e Lo glorificheremo. E il nostro animo desidererà ardentemente di conoscere il Suo nome grande. È così infatti che il Sifrè interpreta quanto ha detto Davide: « La mia anima è assetata di Dio, dell’Iddio vivente » (Sal 42,3).
Nel precetto « E tu amerai… », è implicito anche il dovere di diffondere presso tutti i popoli il concetto dell’amore di Dio. E il Maimonide, proprio per far penetrare nell’animo dell’uomo l’importanza di questo dovere, prende l’esempio dalla vita di tutti i giorni: « Come quando si ama e si ammira qualcuno con tutto il cuore, viene spontaneo narrare le sue lodi, diffondersi in esse e rivolgere anche ad altri il nostro appello ad amarlo, così pure tu mostrerai il vero amore per Lui chiamando lo stolto e l’ignorante a conoscere quella verità che tu hai già acquisito. Seguirai così, rileva il Sifrè, la strada tracciata da Abramo che, al momento di ubbidire all’appello divino di recarsi nella Terra da Dio promessa a lui e alla sua discendenza, portò con sé « tutte le anime che aveva fatto in Haran » (Gen 12,5), tutti coloro, cioè, che attraverso le sue parole avevano imparato ad amare Dio » (Sefer ha-mitzwot).
Sembra quasi che il Maimonide abbia previsto le obiezioni che, in una società come quella attuale fondata in misura così preponderante sui valori materiali, avrebbero sollevato i sedicenti realisti, coloro che si proclamano atei, e che considerano inutile, se non addirittura assurda, la possibilità di diffondere la conoscenza di un Dio per loro inesistente!
Ebbene, replica il Maimonide, prendiamo l’esempio da Abramo che, pur vivendo in una società assolutamente priva di qualsiasi scintilla di conoscenza di Dio, era riuscito a far conoscere e a diffondere l’amore di Dio! Era questa la qualità superiore di Abramo nostro padre, che il Signore ha chiamato « amico mio » (Is 41,8), poiché lo ha servito solo per amore. Quando l’uomo ama il Signore del giusto amore, ne eseguirà tutti i precetti ‘solo per amore’.
Bachjà ibn Paquda (XI sec.) in Chovot ha-levavot (Sha‘ar ahavà 10,1), affronta l’argomento da un punto di vista totalmente differente: « Che cos’è l’amore di Dio? » si chiede. « È l’aspirazione dell’anima verso il Creatore e la sua inclinazione a essere congiunta alla Sua eccelsa luce… Quando comprenderà la Sua grandezza essa si prostrerà e si inchinerà a Lui: non avrà altra preoccupazione che servirLo e non avrà altro pensiero che non sia il pensiero di Dio benedetto. Se Dio la beneficherà, ella Lo ringrazierà, se l’affliggerà, ella soffrirà pazientemente e continuerà ad amarLo: « Tu mi hai fatto soffrire la fame, mi hai lasciato senza vestito, mi hai fatto abitare nell’oscurità della notte… Se Tu mi brucerai col fuoco, continuerò ad amarTi e a gioire in Te! ».
Affermazione, questa, simile a quanto disse Giobbe: « Se Egli mi volesse uccidere spererei comunque in Lui » (Gb 13,15). A ciò alludeva anche il saggio Salomone quando disse: « Il mio amico è per me come un sacchetto di mirra che tengo sempre sul mio cuore » (Ct 1,13), frase che i nostri Maestri spiegano: per quanto Egli mi angusti e amareggi, continuerò ad amarLo. E questo è ancora quanto intende il protoprofeta Mosè con: « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze ».
Quanto diversi da quella del Maimonide possono apparire a prima vista l’interpretazione e il sentimento di Bachjà ibn Paquda! Per quest’ultimo non è la visione delle meraviglie della natura, della perfezione dell’Universo, a condurre l’uomo ad amare Dio, creatore di ogni cosa, è al contrario la capacità di elevare se stessi al disopra della materialità della natura e di tutto ciò che ci circonda che ci deve far sentire partecipi dell’essenza divina, e rendere più intenso il nostro amore per Dio. Un amore che già si trova radicato nel nostro cuore, in quello spirito divino che è in noi e che è parte della divinità: dobbiamo soltanto evitare gli ostacoli che si trovano sulla sua strada e tutto ciò che può farlo deviare verso interessi estranei, per permettergli di essere illuminato, riempito dalla luce celeste.
Questi due approcci all’amore di Dio, apparentemente in contrasto, sono al contrario complementari. Il giudaismo fonda il suo credo, la sua dottrina, il suo insegnamento, sia sui principi razionali, sia su quelli spirituali: ambedue sono di origine divina anche se gli esseri umani sono portati poi a sviluppare in modo diverso le loro tendenze. La raccomandazione di « amare il Signore » non può quindi esaurirsi in un ragionamento intellettuale, ma abbraccia tutte le inclinazioni, tutte le aspirazioni dell’uomo. Riallacciandoci alle sofferenze di Giobbe, ne traiamo l’insegnamento che non ci si può limitare ad amare Dio soltanto quando ci elargisce il bene, ma lo si deve fare anche quando gli avvenimenti che paiono accanirsi contro di noi, ci indurrebbero a reazioni negative. Bisogna amarLo perché è nostro ‘Padre’, e perché il volere dell’Eterno è imperscrutabile e non sempre compreso dall’uomo, ma sempre rivolto al bene.
E con questa affermazione non soltanto innovativa, ma addirittura rivoluzionaria, viene completamente capovolto il concetto del dio padrone e tiranno, per introdurre quello del Dio ‘padre’ di tutte le sue creature, Creatore di un mondo e di un universo non abbandonati al caso, ma da Lui seguiti con amorosa, paterna attenzione. Un Dio che merita il nostro amore per la Sua continua vicinanza e assistenza.
Secondo i nostri Maestri, in una interpretazione che può apparire paradossale, amare Dio « con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima, con tutte le possibilità » significa amarlo « sia con l’istinto buono sia con quello cattivo! ». Osserva tra gli altri lo Hirsch: « Gli stimoli che ciò che è cattivo, spregevole, bassamente materiale e sensuale suscitano in noi, e dai quali deriva l’istinto cattivo, ci sono stati dati proprio dal medesimo Creatore, uno e unico, che ci ha dotato di quegli stimoli che ci spingono al bene, all’amore, alla giustizia, alla morale, dai quali deriva l’istinto buono. Se non esistessero cattivi istinti, o se essi causassero nella nostra natura un istintivo senso di rifiuto e di ripugnanza mentre, al contrario, fossimo fortemente, naturalmente attratti da tutto ciò che è buono e morale, ben poco merito avremmo nello scegliere il bene! E se il bene e il male non fossero legati e intrecciati così strettamente fra di loro da renderci spesso tanto difficile distinguerli, cosicché solo con un attento studio e una profonda riflessione possiamo fare una giusta scelta e imporci sia un continuo autocontrollo, sia dolorose rinunce, certamente non commetteremmo il male. « Ma neanche il bene! » . Ci limiteremmo a seguire una via già tracciata e senza possibilità di deviazioni, che non ci porterebbe alcun merito in quanto nessuna azione potrebbe essere considerata una scelta compiuta dall’uomo in piena libertà morale.
Con l’eliminazione dell’istinto cattivo tutto il nostro comportamento morale sarebbe privo di valore. O, per essere più precisi, non esisterebbe un comportamento morale. Amare il Signore con l’istinto buono e con l’istinto cattivo significa quindi consacrare, dedicare tutti i nostri pensieri, tutte le nostre tendenze, tutte le nostre capacità e aspirazioni, allo scopo di adempiere alla volontà dell’Eterno. Ogni nostra azione, anche la più insignificante, deve esprimere la nostra dedizione, il nostro desiderio di servire l’Eterno, affinché, dominando tutti i nostri istinti con una precisa e decisa volontà, ci avviciniamo sempre più a Dio.
Con il comando « e amerai… con tutto il tuo cuore », diamo un senso alla nostra vita dimostrando di essere pronti in ogni momento a combattere le nostre cattive inclinazioni e a rinunciare ai desideri, a volte profondamente intensi, per esaudire la volontà dell’Eterno.
Un ulteriore insegnamento di fondamentale importanza deduciamo dalle parole dello Shema’: l’amore per Dio non può e non deve rimanere un concetto puramente astratto, né può esaurirsi con la sola preghiera: esso deve essere concretizzato e attuato con un’azione a cui partecipa tutta la nostra persona: il sentimento e l’azione, le nostre forze spirituali e quelle fisiche, i nostri beni materiali e il sacrificio di ciò che noi consideriamo il nostro benessere, tutto deve essere consacrato all’amore per l’Eterno.
« Amerai Dio con tutta la tua anima », afferma il Talmud, significa amerai il tuo Dio « perfino se prende la tua anima » (b. Berakhot 54a). Perché la nostra anima è dono di Dio e, come ci è stato insegnato, « dobbiamo essere pronti a restituirla a chi ce l’ha donata in qualsiasi momento Egli ce la richieda » (ivi, 61b). Vi è qui un chiaro riferimento anche al sacrificio e al martirio « per la santificazione del nome del Signore » (‘al qiddush ha-Shem) e per la realizzazione dei suoi ideali di bontà e di giustizia. Per l’amore di Dio si può, si deve essere pronti a offrire anche il sacrificio supremo: la perdita della vita […].
Il verso « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue possibilità » ci pone di fronte a uno strano interrogativo: che cosa può essere per l’uomo più importante, più caro della propria vita? Ma, per quanto assurdo ciò possa sembrare, c’è chi considera il denaro, la ricchezza materiale, il possesso persino più importanti della propria vita. Ebbene, in questo caso è bene che essi sappiano che c’è qualcosa che supera di gran lunga il valore dell’avere: la fedeltà a Dio e l’amore per Lui. Con il comando « con tutte le tue possibilità », afferma il Talmud (ivi 54a), lo Shema’ ci insegna che non dobbiamo limitarci ad amare Dio solo con lo spirito, ma anche materialmente: ciò significa con le nostre azioni e con i nostri averi; in altre parole anche con tutto ciò che possediamo materialmente, usando i nostri beni a favore di chi ne ha bisogno, o per scopi culturali e religiosi, o per la diffusione della fede.

Elia Kopciowski

Domenica 14 ottobre – commento di Marie Noëlle Thabut sulla prima lettura: Sap 7, 7-11

http://www.eglise.catholique.fr/accueil.html #

(Traduzione Google dal francese)

Domenica 14 ottobre: – commento di Marie Noëlle Thabut

PRIMA LETTURA: Sapienza 7, 7-11

Dal libro della Sapienza

Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.

Ogni parte del testo che abbiamo ascoltato potrebbe essere firmato da un non credente filosofo greco. « Ho preferito troni e scettri Sapienza, accanto a lei (Saggezza sempre) ho voluto nulla alla ricchezza, non ho messo a confronto con pietre preziose tutto l’oro con il mondo è un po ‘di sabbia, e prima di lei, l’argento è considerato come il fango. ‘
 Naturalmente, non c’è bisogno di avere la fede per dire queste cose. L’umanità non ha aspettato la Bibbia e la religione del Dio di Israele, per scoprire la ricchezza di intelligenza e soprattutto il cuore è meglio di tutto l’oro e gioielli in tutto il mondo.
 Ma l’interesse di questo lavoro è altrove. Questa non è una lezione di galateo dato a noi qui, anche se non ci possono ripetere esso. Perché ci sono un messaggio da leggere tra le righe: mi spiego: il libro della Sapienza ritratto di Re Salomone, ed è lui che dovrebbe parlare qui. Per capire che cosa ci dirà Salomone, dobbiamo ricordare un episodio molto famoso della sua vita (1 Re 3): Siamo proprio all’inizio del suo regno, dopo intrighi di corte spaventose e degli altri insediamenti di conti, Salomone quindi installato sul trono, tutti i suoi nemici politici eliminati. Ben presto ha costruito il Tempio di Gerusalemme, ma per ora, questo è in Gàbaon dodici chilometri a nord di Gerusalemme, ha organizzato il primo grande evento del suo regno. Solomon prevede di offrire il sacrificio a Gabaon migliaio di animali, che ovviamente richiedere un certo tempo, e dobbiamo credere che dormiva lì, perché è durante la notte ebbe un sogno che è rimasto famoso Dio gli apparve e disse: « Chiedimi quello che vuoi. » Salomone rispose: « Io sono un uomo giovane, non mi comporto bene … Io sono in mezzo al popolo che tu hai scelto tu, un grande popolo, tanti non si può contare su … Dammi, ti prego, un cuore pieno di giudizio per discernere tra il bene e il male. Per chi potrebbe governare il tuo popolo è così grande? ‘
 Il racconto biblico prosegue: « Questa richiesta piacque al Signore. Dio gli disse: Perché hai domandato questo e non hai chiesto per te lunga vita, che non hai chiesto per te stesso la ricchezza, non hanno chiesto la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto regola discernimento con la giustizia, ecco, io agisco secondo le tue parole: ti do un cuore saggio e intelligente, in modo che non vi era nessuno come te prima di te, fino a quando tu, non ci sarà nessuno come te. E anche quello che non hai chiesto, io ti do: e la ricchezza e la gloria, in modo che tutta la tua vita, non ci sarà nessuno come te tra i re. « (1 R 3, 4-13, 2 Ch 1, 7-13)
 Se il libro della Sapienza, quindi (nel nostro lettura di oggi), nove anni dopo, si ricordi questa storia non è quello di dare una lezione di storia di Salomone è che ha qualcosa di molto importante da dire ai suoi contemporanei che dedica diversi capitoli, quando cita Salomone dicendo: « Ho pregato, e lo spirito di sapienza è venuto da me, » vi è certamente un punto contro il leader mondiali: tutti i politici di tutti i tempi hanno sempre la tendenza a credere di avere la saggezza innata … e anche loro hanno il monopolio! Questo testo ha da dire: si dice che anche tra i re, la saggezza non è congenita … Deve chiedere umilmente nella preghiera. Anche il grande re Salomone, noto per la sua saggezza, sapeva che egli era Dio e ha avuto l’umiltà di chiedere.
 Siamo in grado di andare oltre un punto contro l’orgoglio delle politiche, vi è una vera rivelazione qui, ancora una volta, vediamo come la Bibbia sia letterature, come vicini di casa e, allo stesso tempo s ‘si differenzia in assoluto: ed è in questo vuoto che è la Rivelazione, in altre nazioni, e in Egitto in particolare, secondo una consolidata credenza, il re era un essere eccezionale, dotato dalla nascita di un sapienza divina. (Ovviamente, tutta la corte rituali fatto di tutto per sostenere questa convinzione!)
 La Bibbia, però, presenta qui un re molto famoso, che nessuno contesta la grandezza, successo, ricchezza e che, lui stesso, riconosce che si tratta semplicemente di un uomo, in il prossimo capitolo dello stesso libro della Sapienza, Salomone dice: « Ero certamente un ben neonato … ma ancora, sapevo che non avrei avuto la saggezza con mezzi diversi un dono di Dio « (Sap 8, 21). Anche il re Salomone dice: « Anch’io sono un uomo mortale, uguale per tutti, discendente del primo che è stato modellato dalla terra. Nel ventre di una madre che è stata scolpita in carne … Anche a me, fin dalla mia nascita, ho succhiato l’aria che noi condividiamo, e caddi a terra, dove si soffre simile: come per tutti, il mio primo grido stava piangendo. Sono cresciuto in fasce, in mezzo a preoccupazioni. Nessun re iniziato altrimenti in esistenza. Per tutti, c’è solo un modo per entrare nella vita come fuori. « (7, 1-6). E continua: « Per questo pregai e mi fu elargita la … « E il risultato è il nostro testo di oggi.
 Così la prima lezione di questo testo, i re sono semplici mortali, non sono diversi dagli altri uomini. Dio solo è Dio, il re non è né dio né semidio. E seconda lezione ogni sapienza viene da Dio, è un dono di Dio. Nessuno al mondo può pretendere di avere la stessa saggezza. Il libro della Sapienza va anche oltre, ed è già implicito in ciò che leggiamo oggi nei versi che seguono, dice che il tesoro della sapienza, accessibile a re che sono solo come gli uomini, può anche essere dato a tutti i comuni mortali, basta chiedere in preghiera. Come si è detto ancora la fine di questo capitolo: « Nel corso dei secoli, passa nelle anime sante per formare amici di Dio e profeti. « (Sap 7, 27).
 Questo significa che tutta l’umanità è destinata a condividere la saggezza di Salomone.

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