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L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

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L’ATTIVITÀ DI PIETRO SECONDO GLI ATTI DEGLI APOSTOLI

tratto da: Paolo BREZZI, Il Papato, Studium, Roma 1967, p. 17-23.

Il gruppo dei superstiti discepoli di Gesù si ritrovò a Gerusalemme dopo le turbinose vicende della Pasqua e dei quaranta giorni successivi; resi forti dall’infusione dello Spirito, questi uomini, che fino a quel momento non avevano ancor dimostrato di comprendere appieno quale fosse il loro compito, incominciarono a svolgere opera di apostolato. Pietro ne dirigeva i movimenti.
Una narrazione storica, gli Atti degli Apostoli, ci permette di seguire da vicino l’attività di Pietro almeno fino all’anno 50 d.C.; gravi dubbi vennero elevati da esegeti razionalisti sulla validità di quella fonte, ma ormai anche queste difficoltà sono state quasi completamente superate da una sana critica storica e l’attendibilità delle informazioni degli Atti è sicura. Gli episodi principali della vita di Pietro qui registrati sono: l’iniziativa del completamento del collegio dei dodici (anteriore alla discesa dello Spirito Santo); il grande discorso dopo la Pentecoste ed altri tenuti in varie occasioni e davanti a pubblici diversi per razza e per preparazione; numerosi miracoli; la difesa davanti al Sinedrio; la condanna di Anania e Saffira, che erano dei fedeli che avevano tentato di ingannare gli Apostoli sul ricavato della vendita di un loro podere; la prigionia e la liberazione miracolosa; la scelta dei diaconi; la missione insieme a Giovanni nella Samaria e le severe parole rivolte ad un Simone che aveva tentato di comprar con denaro le virtù carismatiche degli Apostoli; i primi contatti con il neo convertito Paolo; altre missioni a Lidda e a Joppe con miracoli e conversioni; l’accoglienza nella comunità del centurione Cornelio e le vivaci polemiche che ne seguirono sull’opportunità o meno di estendere anche ai Gentili la predicazione della parola di Dio; una nuova prigionia per opera del re Erode Agrippa ed una nuova miracolosa liberazione.
A questo punto gli Atti, dopo aver detto che Pietro «partitosi andò altrove», incominciano a seguire Paolo nelle sue peregrinazioni e nominano ancora l’altro apostolo soltanto in occasione del concilio di Gerusalemme, di cui riparleremo; di conseguenza è possibile fissare soltanto pochi punti della successiva biografia di Pietro sulla base di altre fonti o di indicazioni indirette, ma, prima di proseguire, è necessario ritornare sul già detto, per sottolineare l’importanza di alcuni atteggiamenti da lui assunti in quei primi anni, decisivi per tutto l’ulteriore orientamento della vita della a chiesa».
[...]
è noto che alcuni studiosi hanno imbastito un vero romanzo storico sull’ipotetico contrasto di tendenze tra i giudaizzanti e gli ellenizzanti in seno alla primitiva comunità ed hanno considerato Pietro come uno degli esponenti della prima corrente.
Le cose sono più semplici, anche se non meno interessanti; già in Gesù vi è una predicazione a carattere universalistico, ma tra i suoi discepoli vi furono quelli che pretesero una iniziazione al Giudaismo come premessa indispensabile per diventar cristiani e continuarono a conservare l’antico sospetto che era nutrito dai membri del «popolo eletto» verso i Gentili. Pietro, avendo visto per chiari segni divini che tutti potevano essere chiamati alla penitenza ed alla nuova vita (Atti, II, 18), accettò senz’altro la conversione dei Gentili, ma più tardi ritenne più opportuno seguire la prassi normale, facendo precedere la circoncisione al battesimo, ed infine, dopo uno scambio di vedute con Paolo, che non fu privo di momenti drammatici, ritornò al suo primo modo d’agire facendolo sanzionare ufficialmente da un solenne consesso. Si tratta di alternative naturali, data la delicatezza della decisione da prendere, né queste oscillazioni rendono meno simpatico il loro protagonista, anzi lo avvicinano a noi, lo presentano in tutto il suo aspetto umano senza intaccare, con questo, le sue prerogative, non essendo egli mai caduto in errore né avendo insegnato il falso.
Tra Pietro e Paolo, anche quando più vivo fu il contrasto, non si trattò mai di radicale diversità di dottrina, ma di differente attitudine, di divergenze tattiche; Paolo non aveva torto a rimproverare al confratello le contraddizioni della sua condotta pratica, ma non pensò mai, per questo, di contestare la legittimità della posizione di primo piano goduta dall’altro; anzi, anche questo episodio conferma l’importanza di Pietro, il peso da lui rappresentato nella vita della comunità, le conseguenze derivanti da ogni suo gesto, il valore attribuito alle sue decisioni. Ma quest’autorità eccezionale, che tutti gli riconoscevano, doveva derivare da qualche ragione profonda; il prestigio goduto era effetto di una prerogativa speciale, e questa non poteva essere fondata che sulla scelta fatta da Gesù, sul mandato affidatogli personalmente dal Maestro e ben presente nel cuore di tutti i discepoli.
Poiché si è già fatto incidentalmente più volte riferimento a Paolo, è doveroso ricordare la cura particolare da lui posta nel mantenere i contatti con Cefa (è questo il nome aramaico grecizzato che ricorre nelle lettere paoline, che furono scritte anteriormente al Vangelo di Matteo e possono quindi costituire una riprova dell’autenticità dei passi di questo sopra esaminati); in quella specie di autodifesa premessa all’epistola ai Galati, l’apostolo delle genti dichiara infatti che dopo la sua conversione ed il ritiro di preparazione «tre anni dopo andai a Gerusalemme per visitare Pietro e stetti presso di lui quindici giorni: non vidi alcun altro degli Apostoli, ma solo Giacomo fratello del Signore» (Gal., I, 18).
Dove andò Pietro allorché dovette allontanarsi da Gerusalemme per motivi prudenziali? Più volte è stata ripresa dagli storici l’ipotesi che egli si sia diretto a Roma e, sulla base di scarne notizie di S. Girolamo e di Eusebio, si è dissertato a lungo circa un primo soggiorno romano dell’Apostolo. Sia permesso di lasciare molto in forse la cosa limitando la menzione ai dati più certi; così, ad esempio, è indubbia la permanenza ad Antiochia di Siria ed è più che probabile che Pietro si sia spinto nelle regioni del Ponto, della Galazia e della Cappadocia perché in caso contrario non si comprenderebbe la ragione che lo mosse più tardi ad indirizzare «agli eletti stranieri della diaspora» di quelle sole terre una lettera; anche il tono di questa fa pensare che l’autore fosse già noto ai corrispondenti. Forse Pietro fu pure a Corinto, dato che in questa città si era formato un partito di Cefa, come attesta Paolo, benché potrebbe trattarsi solamente di immigrati che, giungendo colà, si stupirono del grande ascendente goduto a Corinto da quest’ultimo e si richiamarono invece all’autorità dell’altro apostolo.
Intorno all’anno 50 Pietro era di nuovo in Palestina, e presiedette quello che fu chiamato il concilio di Gerusalemme, convocato per risolvere la questione dell’obbligatorietà dell’osservanza delle leggi mosaiche; il suo discorso è molto esplicito e non privo di durezza contro i rigidi: «Dio non fece differenza alcuna tra loro (Gentili) e noi, purificando con la fede — cioè non con i riti giudaici — i loro cuori. Perché tentate voi Dio per imporre sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare?». Ma gli effetti furono immediati e decisivi: «tutta la moltitudine si tacque» ed anche Giacomo aderì, salvo qualche riserva, all’indirizzo fissato «di non imporre altro peso fuori delle cose necessarie», come aveva appunto suggerito Pietro. Si tratta di una riunione importante, che non dovette essere priva pure di una certa solennità, vedendo raccolti tutti gli esponenti più autorevoli della nuova società cristiana; era in gioco l’interpretazione di tutto il messaggio di Gesù e non si poteva tardar oltre ad imboccare la via giusta. Anche in questo caso Pietro agì con franchezza ed audacia, dimostrandosi autorizzato a risolvere le questioni più delicate che insorgevano nella vita delle comunità, pur mantenendo una forma collegiale all’esercizio dei poteri, per tenere conto dei privilegi spettanti anche agli altri apostoli; ciò dimostra che esisteva un doppio ordine di giurisdizioni, quella primaziale, che il Maestro aveva conferito individualmente a Pietro, e quella pastorale, che era propria di tutto il collegio apostolico. Non ebbe torto il protestante Heiler a dire che in tutto questo vi è già «il cattolicesimo in divenire» nel senso che embrionalmente si scoprono qui presenti i vari elementi caratteristici della costituzione cattolica quale apparirà in piena luce dopo aver raggiunto la sua completa efficienza nel corso dei secoli.

UNA SPERANZA IMPOSSIBILE? – LA VISIONE DELLE OSSA ARIDE: EZECHIELE 36

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UNA SPERANZA IMPOSSIBILE?

LA VISIONE DELLE OSSA ARIDE: EZECHIELE 37

di p. Attilio Franco Fabris

Messaggio centrale

Durante l’esilio di Babilonia il popolo di Israele vive l’esperienza angosciosa della disperazione e del proprio fallimento. E’ un’esperienza di “morte” che conduce ad un “vuoto di speranza”, ad una rassegnazione che allontana dal Dio della Promessa. Il profeta Ezechiele è inviato ad annunciare una “buona notizia” umanamente impossibile: Dio può suscitare vita e futuro dove l’uomo non sperimenta che disperazione e morte.
Nel 597, dopo una ribellione del re di Giuda Ioakim, l’esercito di Babilonia marciò su Gerusalemme e assediò la città. Questa dovette arrendersi. Il re di Giuda venne fatto prigioniero e deportato a Babilonia con parte delle classi dominanti, dell’esercito e degli artigiani. Tra questi deportati c’era pure Ezechiele, che attorno al 593 in esilio venne chiamato alla profezia. Sedecia, l’ultimo re di Giuda (597-586), dopo alcuni anni di tregua tentò nuovamente di conquistare l’indipendenza. Non si voleva assolutamente credere alla fine del regno di Giuda. Geremia ed Ezechiele combatterono questa speranza, ma le loro parole restarono senza un’eco sensibile. Il sogno di una restaurazione politica e di un avvenire di salvezza si infranse improvvisamente quando le truppe babilonesi occuparono il territorio di Giuda e assediarono la città. La città venne affamata e cadde nell’estate del 586. Con la caduta di Gerusalemme erano crollate definitivamente anche le attese di salvezza degli esiliati del 597. Rassegnazione e disperazione dilagarono. Si diffuse una crisi di fede: Dio aveva ripudiato il suo popolo? Valeva ancora la spesa sperare o era meglio rassegnarsi alla fine? È in questo contesto di “di-sperazione” che Ezechiele è raggiunto dalla profezia narrata nel cap. 37.
La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite.
La pianura piena di ossa è una metafora, che si riferisce alla situazione storica concreta alla quale il profeta è mandato: è la realtà dell’esilio di Babilonia. La cosa risulta chiara dalla seguente affermazione: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti», qui viene detto esplicitamente che cosa sono le ossa dei morti, esse rappresentano la fine irrevocabile di Israele! Prende voce la consapevolezza degli esuli di essere ormai in una situazione senza via di uscita. Si insinua in essi una piatta rassegnazione, un terribile vuoto di speranza segno di morte. Essi continuano a vivere sì fisicamente, ma non vale più per essi il «dum spiro spero», «fin che c’è vita c’è speranza». Una possibilità di speranza appare impossibile. Ma sarà proprio una speranza “impossibile” l’oggetto della profezia di Ezechiele.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore».
Il profeta si vede interrogato da Dio stesso circa la situazione degli esiliati: la loro prospettiva di disperazione e di morte è l’unica? Effettivamente secondo i criteri umani di giudizio la realtà appare già decisa (cfr v.11). Tuttavia Ezechiele non ha il coraggio di esprimere una decisione definitiva. Egli conosce l’impotenza umana, ma sa anche che essa non esaurisce le possibilità sul versante di Dio. Egli saggiamente affida la risposta alla potenza del Signore: «Signore Dio, tu lo sai» (v. 3). E’ una risposta che riconosce sì l’impotenza umana ma nello stesso tempo riconosce l’onnipotenza divina: in essa prendono voce a un tempo la rassegnazione umana e l’apertura a Dio. Ezechiele non decide sul futuro degli esiliati che credono di non avere più futuro ma lo mette nelle mani di Dio.
Alla risposta di Ezechiele risponde ancora Dio stesso – e come potrebbe essere altrimenti? Lo fa mediante la visione che renderà il profeta atto ad annunciare in maniera credibile e sicura una speranza impossibile (vv. 12-14).
Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.
Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano».
Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.
Riscontriamo in questo passo importanti paralleli col racconto della creazione (Gn 2). Anche lì la creazione dell’uomo avviene in due fasi. Come il respiro di Dio, il suo soffio vitale, fa dell’uomo-Adamo ancora forma inerte di terra plasmata un essere vivente (cfr Gn 2,7), così anche in Ezechiele: “ma non c’era spirito in loro…lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi” (vv.8-10). Al Dio che all’origine ha infuso la vita al non vivente è possibile anche una nuova creazione: ciò che egli ha fatto all’origine può ripeterlo ora!
Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la gente d’Israele. Ecco, essi vanno dicendo: Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti. Perciò profetizza e annunzia loro: Dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.
Ma vi è un aspetto importante da prendere in considerazione. Al v. 14 si dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete”. In queste parole lo spirito inviato viene chiamato espressamente «il mio spirito». Ora lo “spirito di Dio” a cui qui si fa riferimento non si identifica con il soffio vitale dato a tutto ciò che vive sulla faccia della terra: animali e piante. E’ un dono più alto, ovvero quello dello “Spirito-soffio vitale” stesso di Dio che rende l’uomo partecipe della sua stessa vita divina. Questo dono straordinario crea un uomo nuovo capace di accogliere finalmente il dono dell’Alleanza con Dio rimanendovi fedele, e questo proprio in virtù della presenza dello “Spirito di Dio” che dimora in lui (cfr Rm 7,6; 8,2).
Dio per bocca di Ezechiele non preannuncia dunque unicamente una rianimazione esterna del suo popolo, ma mediante l’effusione del “suo spirito”, JHWH vuole operare soprattutto un cambiamento profondo e interiore. Senza questo cambiamento, il popolo presto o tardi ricadrebbe nel peccato, e si ripeterebbe l’esperienza della perdizione che lo ha condotto all’esilio.
Viene fatto anche accenno alla presenza di sepolcri: “Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nel paese d’Israele”. Questa nuova immagine esprime quanto ampia e definitiva sarà l’azione di Dio: essa spezzerà anche la prigionia del sepolcro, luogo emblematico che esprime la definitività della morte, e risveglierà a nuova vita anche quelli che sono irrimediabilmente “perduti” (cfr. v. 11).
Ma quale la ragione di questo straordinario intervento divino? La ragione è che Israele deve imparare a “conoscere” il suo Dio: “Riconoscerete che io sono il Signore”. Il Signore si dimostrerà fedele e la sua azione salvifica sarà la sua stessa manifestazione: Israele conoscerà chi è veramente il suo Dio! Israele non ha certamente meritato né di rivivere in una seconda creazione né di essere interiormente trasformato e abilitato dal dono dello stesso “Spirito di Dio” ad essere il popolo dell’Alleanza. Tutto è dono di Dio che solo rimane fedele a se stesso, e che per la propria gloria e per amore del suo popolo agirà restituendo speranza e vita.
La visione termina con la più assoluta garanzia che ciò che è stato annunciato avverrà: «Io sono il Signore: l’ho detto e lo farò». Dio offre come garanzia unicamente la sua Parola che non mente.
Nella visione di Ezechiele il Signore appare come colui che può infrangere le catene della morte, come un Dio a cui nulla è impossibile.
Nella morte e resurrezione di Cristo Gesù la promessa ha trovato il suo compimento inatteso e definitivo. Dal sepolcro sigillato del venerdì santo è rifiorita la speranza e la vita. Dopo la risurrezione di Gesù non c’è più alcun capolinea dell’attesa umana della vita. La passione, la morte e la resurrezione di Gesù mostrano che il fallimento non è ancora la fine. Dio è potente; egli è in grado di suscitare vita dove l’uomo non vede che morte.
Per noi che ascoltiamo, alla luce del mistero della morte e resurrezione di Gesù di Nazaret, si prospetta una domanda: c’è allora un vuoto umano di speranza che non possa sentirsi espresso nell’immagine delle ossa dei morti di Ezechiele? Sui nostri campi di morte non giacciono infatti soltanto le speranze, i desideri, le attese e le promesse degli esiliati a Babilonia ma anche tutte le nostre. Ogni nostro vuoto di speranza, ogni nostra rassegnazione e disperazione trovano qui la loro immagine, e possono legittimamente riferirsi ad essa. Il messaggio di Ezechiele parla anche al nostro tempo così bisognoso di speranza!

Per la riflessione
La nostra epoca fa sì che spesso sperimentiamo“vuoti di speranza” nei quali tutto sembra perduto, dove tutto sembra non aver più significato e futuro. In queste situazioni la profezia di Ezechiele, alla luce del mistero pasquale, si fa riudire in tutta la sua potenza capace di riaprire nel nostro cuore le porte ad una speranza impossibile.
In quale misura la speranza è virtù ancora tipicamente cristiana? Possiamo affermare di testimoniarla avendo fatta nostra, mediante l’ascolto della Parola, la Buona Notizia della Morte e Resurrezione del Signore Gesù?

Preghiera conclusiva
Signore, tu sei la mia vita,
senza di te il vivere non è vivere.
Con te, Signore, oltre le cose,
noi vediamo la vita,
anzi, la sorgente della vita.
Tu sarai la nostra vita anche nella morte;
con te la vita è già in noi per sempre:
tu sei per noi sorgente
che zampilla nella vita eterna.
Signore, tu sei la mia verità,
sei la verità dell’uomo.
Tu, o Padre del Cristo,
ti sei fatto la mia verità
e nello Spirito, ogni giorno,
sei verità in me.
Se tu vieni meno, se tu ti allontani,
io non sono neppure uomo,
sono come un relitto,
come un naufrago che cerca salvezza e non la trova,
un naufrago vicino alla morte.
Signore, la tua grazia,
la tua verità,
la tua luce mi fanno uomo,
e sono la mia grazia,
la mia verità e la mia luce.

(Card. C.M. Martini)

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

http://www.ortodoxia.it/La%20Trasfigurazione.htm

LA TRASFIGURAZIONE DI N. S. GESÙ CRISTO (CHIESA ORTODOSSA)

La Sacra Scrittura ci dice che l’uomo non può vedere Dio e continuare a vivere. Sappiamo già con quale amore e con quali precauzioni Dio si è manifestato a Mosè e ad Elia per non annientarli. Quando Dio passa davanti a Mosè nella spaccatura della roccia, lo protegge con la sua mano. Quando Elia se ne sta davanti all’apertura della roccia, Dio non viene nel vento fortissimo per travolgere, né nel terremoto per distruggere, né nel fuoco per bruciare, bensì nel lieve sussurro, ed Elia è salvo.
Dio ci prepara e ci insegna ad incontrarlo quando il suo Figlio si è incarnato, si è fatto Figlio dell’uomo. Egli non si è mostrato nella sua Gloria, perché gli uomini non sarebbero stati capaci di sopportarlo. Si è fatto simile a loro, a noi, ha assunto la condizione umana, la condizione di schiavo sino alle estreme conseguenze. Niente lasciava trasparire la divinità di Gesù. Nella sua vita ci sono stati soltanto due momenti nei quali si è manifestato come Dio: il momento del Battesimo ed il momento della Trasfigurazione.
Il Battesimo nel Giordano ha rivelato che Gesù è il Figlio di Dio, la seconda persona della Trinità. Giovanni Battista l’ha visto e ne ha reso testimonianza. Alla Trasfigurazione, sul monte Tabor, i tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, hanno visto Gesù risplendere nella sua Gloria divina. Accanto a Lui c’erano due grandi testimoni che avevano visto questa stessa Gloria durante l’Antica Alleanza. Nel giorno della Trasfigurazione essi compaiono per attestare che si tratta di quella stessa Luce, di quello stesso Dio.
Mosè ed Elia stanno lassù, sul monte, come ce lo rappresenta l’icona della festa, e riescono a sostenere la Luce di Dio che mai tramonta, perché durante la vita terrena sono stati, insieme ad Isaia, le uniche persone a cui Dio, dopo la caduta, abbia concesso di vederlo. Elia è sceso dal cielo sul monte Tabor per contemplare Dio fattosi uomo, mentre Mosè, riunitosi con la morte ai suoi antenati, rappresenta coloro che aspettano la venuta di Cristo negli Inferi. Mosè personifica la legge. Con lui Elia viene in nome dei profeti a rendere testimonianza alla divinità di Cristo che è il compimento della Legge e dei Profeti. Al contrario, i tre apostoli riversi per terra fanno parte dell’umanità ancora viva. Nonostante il loro sbigottimento, alla vista del Cristo glorioso si sentono colmi di gioia e vorrebbero fermare questo istante, ma questo non era possibile perché era troppo presto e non erano ancora pronti per l’eternità. Dovevano passare con Cristo attraverso la morte per rivederlo glorioso dopo la Risurrezione.
L’ultimo versetto del racconto evangelico parla di una nuvola luminosa che avvolge gli apostoli, e dalla quale essi sentono una voce proclamare: “Questo è il Figlio mio, che io amo. Ascoltatelo!”. E’ la voce del Padre, la voce che aveva sentito S. Giovanni Battista al momento del battesimo di Gesù nel Giordano. La nuvola luminosa è lo Spirito Santo che avvolge e protegge gli apostoli, perché senza la presenza e l’illuminazione dello Spirito Santo l’uomo non può contemplare la Gloria di Dio. La trasfigurazione è una Teofania come il Battesimo di Cristo. Come San Giovanni anche gli apostoli hanno avuto la rivelazione dell’unico Dio in tre persone.
Il significato generale di questa sublime festa è riassunta in un breve versetto, tratto dall’esperinòs: “In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò”. La semplicità di queste poche parole, come quelle del racconto evangelico, hanno una profondità straordinaria. Come in ogni avvenimento della vita del Cristo e come in ogni festa, qui si ha un compimento e, insieme, una prefigurazione. Questi due elementi appaiono con altrettanta evidenza e forza anche a Pasqua. La Trasfigurazione di nostro Signore Gesù Cristo trasferisce l’esistenza umana nella dimensione gloriosa, mostrando ai tre apostoli vivi dinanzi ai due profeti defunti l’attualità illuminata del passato e dell’avvenire. La Trasfigurazione rivela così il senso intimo del cristianesimo: Il Dio-uomo mostra loro l’uomo divinizzato.

padre Atanasio Marcacci

SI È FATTO POVERO PER ARRICCHIRCI CON LA SUA POVERTÀ ( 2 COR 8,9)

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9 MARZO 2014| 1A DOMENICA A – QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

SI È FATTO POVERO PER ARRICCHIRCI CON LA SUA POVERTÀ ( 2 COR 8,9)

All’inizio del nostro cammino quaresimale ci è utile ascoltare, almeno in parte, la parola che Papa Francesco ha inviato nel suo Messaggio.
Cari fratelli e sorelle,
in occasione della Quaresima, vi offro alcune riflessioni, perché possano servire al cammino personale e comunitario di conversione.
Prendo lo spunto dall’espressione di san Paolo: « Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor8,9). L’Apostolo si rivolge ai cristiani di Corinto per incoraggiarli ad essere generosi nell’aiutare i fedeli di Gerusalemme che si trovano nel bisogno. Che cosa dicono a noi, cristiani di oggi, queste parole di san Paolo? Che cosa dice oggi a noi l’invito alla povertà, a una vita povera in senso evangelico?

la grazia di cristo
Anzitutto ci dicono qual è lo stile di Dio. Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà: « Da ricco che era, si è fatto povero per voi … ». Cristo, il Figlio eterno di Dio, uguale in potenza e gloria con il Padre, si è fatto povero; è sceso in mezzo a noi, si è fatto vicino ad ognuno di noi; si è spogliato, « svuotato », per rendersi in tutto simile a noi (cfr Fil 2,7; Eb 4,15). È un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità, e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. La carità, l’amore è condividere in tutto la sorte dell’amato.
L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto questo con noi. Gesù, infatti, « ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato » (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 22).
Lo scopo del farsi povero di Gesù non è la povertà in se stessa, ma – dice san Paolo – « …perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà ». Non si tratta di un gioco di parole, di un’espressione ad effetto! E’ invece una sintesi della logica di Dio, la logica dell’amore, la logica dell’Incarnazione e della Croce.
Dio non ha fatto cadere su di noi la salvezza dall’alto, come l’elemosina di chi dà parte del proprio superfluo con pietismo filantropico. Non è questo l’amore di Cristo! Quando Gesù scende nelle acque del Giordano e si fa battezzare da Giovanni il Battista, non lo fa perché ha bisogno di penitenza, di conversione; lo fa per mettersi in mezzo alla gente, bisognosa di perdono, in mezzo a noi peccatori, e caricarsi del peso dei nostri peccati. E’ questa la via che ha scelto per consolarci, salvarci, liberarci dalla nostra miseria.
Ci colpisce che l’Apostolo dica che siamo stati liberati non per mezzo della ricchezza di Cristo, ma per mezzo della sua povertà. Eppure san Paolo conosce bene le « impenetrabili ricchezze di Cristo » (Ef3,8), « erede di tutte le cose » (Eb 1,2).
Che cos’è allora questa povertà con cui Gesù ci libera e ci rende ricchi? È proprio il suo modo di amarci, il suo farsi prossimo a noi come il Buon Samaritano che si avvicina a quell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada (cfr Lc 10,25ss). Ciò che ci dà vera libertà, vera salvezza e vera felicità è il suo amore di compassione, di tenerezza e di condivisione.
La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio…
La nostra testimonianza
Ad imitazione del nostro Maestro, noi cristiani siamo chiamati a guardare le miserie dei fratelli, a toccarle, a farcene carico e a operare concretamente per alleviarle… Possiamo distinguere tre tipi di miseria: la miseria materiale, la miseria morale e la miseria spirituale.
La miseria materiale è quella che comunemente viene chiamata povertà e tocca quanti vivono in una condizione non degna della persona umana: privati dei diritti fondamentali e dei beni di prima necessità… Nei poveri e negli ultimi noi vediamo il volto di Cristo; amando e aiutando i poveri amiamo e serviamo Cristo… Pertanto, è necessario che le coscienze si convertano alla giustizia, all’uguaglianza, alla sobrietà e alla condivisione.
Non meno preoccupante è la miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Quante famiglie sono nell’angoscia perché qualcuno dei membri – spesso giovane – è soggiogato dall’alcol, dalla droga, dal gioco, dalla pornografia! Quante persone hanno smarrito il senso della vita, sono prive di prospettive sul futuro e hanno perso la speranza!… Questa forma di miseria, che è anche causa di rovina economica, si collega sempre alla miseria spirituale, che ci colpisce quando ci allontaniamo da Dio e rifiutiamo il suo amore…
Il Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale: il cristiano è chiamato a portare in ogni ambiente l’annuncio liberante che esiste il perdono del male commesso, che Dio è più grande del nostro peccato e ci ama gratuitamente… Il Signore ci invita ad essere annunciatori gioiosi di questo messaggio di misericordia e di speranza!
È bello sperimentare la gioia di diffondere questa buona notizia, di condividere il tesoro a noi affidato, per consolare i cuori affranti e dare speranza a tanti fratelli e sorelle avvolti dal buio. Si tratta di seguire e imitare Gesù, che è andato verso i poveri e i peccatori come il pastore verso la pecora perduta, e ci è andato pieno d’amore. Uniti a Lui possiamo aprire con coraggio nuove strade di evangelizzazione e promozione umana.
Cari fratelli e sorelle, questo tempo di Quaresima trovi la Chiesa intera disposta e sollecita nel testimoniare a quanti vivono nella miseria materiale, morale e spirituale il messaggio evangelico, che si riassume nell’annuncio dell’amore del Padre misericordioso, pronto ad abbracciare in Cristo ogni persona…
La Quaresima è un tempo adatto per la spogliazione; e ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà…
Lo Spirito Santo, grazie al quale « [siamo] come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto » (2 Cor 6,10), sostenga questi nostri propositi e rafforzi in noi l’attenzione e la responsabilità verso la miseria umana, per diventare misericordiosi e operatori di misericordia.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.

Mario MORRA SDB |

Dal libro del Profeta Isaia 42,1-4.6-7 – commento alla Prima Lettura

http://www.agosti.191.it/laparola/HTML%20PAROLE%20DI%20VITA/ANNO%20A/A04%20-%20DOMENICHE%20DEL%20TEMPO%20ORDINARIO/A01%20-%20BATTESIMO%20DEL%20SIGNORE.htm

PRIMA LETTURA COMMENTO

Dal libro del Profeta Isaia 42,1-4.6-7

Così dice il Signore: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta. Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finche non avrà stabilito il diritto sulla terra; e per la sua dottrina saranno in attesa le isole. Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre».

La prima lettura che la Liturgia propone in questa Domenica dedicata al Battesimo di Gesù, è compresa in uno dei quattro poemi che costituiscono il “libretto del Servo” del profeta Isaia. Gli studiosi esprimono opinioni diverse, a volte contrastanti, nell’identificazione di questo “Servo di JHWH”, e la sua immagine resta controversa; se questi canti non si leggono isolati, ma si interpretano nel loro insieme costituito dai capitoli 40-55, si intuisce che per Isaia il “Servo” è lo stesso Israele, come è precisato anche nella Bibbia greca detta “dei Settanta”, dove il primo versetto della presente lettura è tradotto “Ecco Giacobbe, il mio servo…, Israele, il mio eletto…”. Resta comunque indicativo il titolo di “Servo” usato dal Profeta, perché rileva una completa ubbidienza e sottomissione; un servo, infatti, può fare solo quello che il suo padrone gli comanda e quindi, nel contesto della lettura, può fare solo la volontà di Dio.
Nelle parole di Isaia, l’incarico affidato al “Servo” è una missione di giudizio (…porterà il diritto alle nazioni …) sottolineata dall’espressione (Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta); una frase che ricorda la dura pratica giudiziaria usata nell’antica Israele, secondo la quale, quando era emessa una sentenza, un araldo percorreva le vie della città con una canna e una lanterna, fino alla casa dell’imputato dove, se la sentenza era di condanna (a morte) spegneva la lanterna e spezzava la canna. Il Servo, invece, è incaricato di annunciare a tutte le nazioni un giudizio di salvezza, e il suo ruolo (il ruolo di Israele) è quello di manifestare l’amore e il perdono di Dio per tutti i popoli, amore e perdono che, secondo quanto rivelerà il quarto canto, saranno invece la causa della morte del Servo stesso.
Al Servo è affidata anche una seconda missione, strettamente legata alla prima: essere alleanza di un popolo. In questa parte della lettura si intuisce come l’Autore sacro giochi sull’espressione “popolo dell’alleanza”, rovesciandola per indicare in Israele l’alleanza di un popolo, che diventa così l’umanità intera, come attestano le parole “luce delle nazioni” dello stesso versetto; quindi la stessa alleanza tra Dio e Israele è ora esercitata dal Servo (Israele) nel rapporto tra Dio e l’intera umanità. È la realizzazione della rivelazione del Sinai, dove Dio aveva stipulato l’alleanza con Israele manifestandogli il suo giudizio misericordioso e che ora, nel Servo, allarga a tutti i popoli della terra, rivelando loro il suo giudizio di salvezza e la sua più intima giustizia. Ma tutto questo può avvenire solo tramite il Servo unto dallo Spirito (Ho posto il mio spirito su di lui …), ed è proprio in questa citazione dello Spirito, tanto evocata da Isaia, che già il Targum (traduzione aramaica in parte parafrasata del testo ebraico dell’Antico Testamento, utilizzata nella Sinagoga durante le cerimonie liturgiche) vedeva nel Servo annunciato il futuro Messia. Le parole iniziali del carme sono riprese, quasi integralmente, anche nel Vangelo di Matteo, ma alla luce del mistero pasquale dove il “Servo” diventa “Figlio”; un’interpretazione della “Parola” del grande profeta rigorosamente esatta, poiché l’espressione greca “páis” della vecchia versione, detta “dei Settanta”, può significare sia “servo”, sia “figlio”. Con il termine “Figlio”, Matteo e gli altri Sinottici hanno voluto evidenziare il rapporto “unico” ed esclusivo di Gesù con il Padre.

SECONDA LETTURA – ROMANI 1, 1-7 – DOMENICA 22 DICEMBRE: MARIE NOËLLE COMMENTA THABUT

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SECONDA LETTURA – ROMANI 1, 1-7 – DOMENICA 22 DICEMBRE: MARIE NOËLLE COMMENTA THABUT

(traduzione dal francese, gadget di Chrome)

Queste sono le prime parole che Paolo rivolgeva ai Romani, in poche righe, abbiamo già la sintesi della fede cristiana: le promesse di Dio nella Scrittura, il mistero di Cristo, la sua nascita e resurrezione , libere elezioni popolo santo, e la missione della Apostoli ai Gentili. Ho semplicemente vi offro una lettura successiva.

Parlando ad una comunità cristiana che non ha mai incontrato, Paolo presenta: il titolo è duplice « servo di Gesù Cristo » e  » apostolo « vuol dire in qualche modo mandato, si atti unico servizio ordinato: questa è la fonte di tutta la sua audacia.

Per inciso, si noti il ??titolo dato a Gesù « Cristo », da sola, è una professione di fede. Noi diciamo « Gesù » o diciamo « Cristo » è la stessa cosa, dopo duemila anni di fede cristiana, questo è normale, ma i suoi contemporanei erano la differenza, « Gesù » è un nome che significa che qualcuno, « Cristo » è un titolo dal « Cristo » significa  » Messia « è semplicemente la traduzione greca della parola ebraica » Messia « . Dire Gesù Cristo è già dire tutto della fede cristiana: Gesù di Nazareth è il Messia .

Paolo continua: « Fatta eccezione per la Buona Novella » di fare bene, sarebbe invertire la formula: la Buona Novella è di annunciare che il nuovo è buono! Annunciare che è il piano di Dio, il piano di Dio è benevolo, vorrei dire « il proposito di Dio è che benevolo », essere cristiano è semplicemente quello di annunciare due cose: in primo luogo che l’ Il piano di Dio è soltanto benevolo e in secondo luogo si è fatto in Gesù Cristo. Questo è esattamente ciò che Paolo fa in queste poche righe.

Lasciate che il testo: « Questa buona notizia, Dio aveva già promesso dai suoi profeti nelle Sacre Scritture: « Credo fermamente che nulla può capire il Vangelo e tutto il Nuovo Testamento se don ‘ è intrisa con l’Antico Testamento: i due sono indissolubilmente associati; piano di Dio è previsto fin dagli albori del mondo, e sta gradualmente Dio rivelato al suo popolo per bocca del suo profeti .

« E questo vangelo riguardo al Figlio suo, » ha detto Paul significa la parola « merito » in un senso molto più forte che impiega oggi. Per Paolo, Gesù Cristo è sempre stata al centro del progetto di Dio quando parla dello scopo benevolo nella sua lettera agli Efesini, dice che « Dio ha deciso in anticipo se stesso a svolgere il loro tempo compimento « , vale a dire, sempre e fin dall’inizio del mondo, Dio ha il suo disegno di radunare tutti gli uomini uniti in Gesù Cristo.

« Secondo la carne, è nato dalla stirpe di Davide »: è un uomo, un membro del popolo eletto, un discendente di Davide, egli soddisfa le condizioni per essere il Messia . « Nello Spirito che santifica, è stato stabilito in suo potere per il Figlio di Dio con la sua risurrezione dai morti « tradizionalmente il titolo di Figlio di Dio è stata data a ciascun giorno il re della sua incoronazione, per Gesù Cristo è il giorno della sua resurrezione che Dio ha incoronato come re della nuova umanità. Per Paolo, la risurrezione di Cristo è veramente l’evento che sconvolge il mondo intero.

Curiosamente, Paolo non parla della morte di Cristo, ma solo della sua risurrezione : sappiamo che è per lui il primo articolo di fede. « Se Gesù Cristo non è risorto, la nostra fede è vuota », ha detto ai Corinzi (1 Cor 15, 14). Questa è la risurrezione di Cristo, che Paolo annuncerà ovunque « Per il nome di Gesù Cristo essere onorato », come dice lui. Qui troviamo la bella forma della lettera ai Filippesi: « Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome », anche sentire il nome del Signore che è stato riservato a Dio e, ora è attribuito a Gesù stesso.

E ‘ »per portare l’obbedienza della fede tutti i Gentili ». Formula Curious oggi per il nostro sfavorevole a qualcosa di simile obbedienza mentalità. Ma per Paolo, impregnata con l’Antico Testamento e scoperte progressive, che ha reso gli uomini della Bibbia , la parola « obbedienza » non è servilismo, abbassando, significa che l’audizione fiducioso di chi sa sicuro e può quindi seguire il consiglio dato a lui, è la filiale atteggiamento per eccellenza. « Portare l’obbedienza della fede tutti i Gentili » è il loro buona novella: quando hanno capito che la buona notizia è che si può tranquillamente mettere l’orecchio a questa parola d’amore del Padre .

Paolo conclude con un desiderio molto comune in lui, questo è il meglio che possiamo fare a qualcuno augurio: « Che la grazia e la pace sia con tutti voi, da Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro Signore « . Come sempre sappiamo che questi desideri del congiuntivo (la grazia e la pace sia con voi) non si assumono che Dio non ci ha potuto dare la sua grazia e la pace attraverso la pace e siamo sempre disponibili da Dio, ma siamo liberi non ammessi: congiuntivo detto la nostra libertà.

Paul si limita a ripetere qui la bella formula Libro dei Numeri (No. 6, 24-26): « Che il Signore ti benedica e ti protegga, che fa splendere il suo volto su di te, l’Eterno, il suo volto, che si prende in con te e ti conceda pace « .

PAOLO A FILEMONE: LA PIÙ BREVE E… LA PIÙ IMPORTANTE?

http://raivaticano.blog.rai.it/2009/07/08/paolo-a-filemone-la-piu-breve-e-la-piu-importante/

PAOLO A FILEMONE: LA PIÙ BREVE E… LA PIÙ IMPORTANTE?

BY RAI VATICANO | LUGLIO 8, 2009

(nel blog ci sono due commenti se li volete leggere)

Strano, ma vero: la più breve lettera dell’apostolo Paolo (25 versetti appena) è uno degli scritti più importanti di tutto il Nuovo Testamento, per certi versi il più importante. La sua importanza è stata colta dalla Chiesa antica, la quale non ha esitato a includerlo nel Nuovo Testamento (per essendo solo un biglietto privato su una questione privata), rendendolo così “canonico”, cioè normativo per la fede e la vita della Chiesa di tutti i tempi. Questo è accaduto certamente in primo luogo per l’autorità apostolica del suo autore, Paolo, ma anche – non c’è dubbio – per il suo contenuto: questo biglietto, infatti, oltre che un capolavoro di azione pastorale (di Paolo nei confronti di Filemone) e un modello di teologia politica o, meglio, sociale, è uno specchio nel quale si riflettono con eccezionale chiarezza la vita interna della neonata comunità cristiana e la qualità dei rapporti al suo interno: qui si vede meglio che altrove come la fede in Cristo cambi le relazioni umane e si vede anche in che cosa consista l’autorità apostolica esercitata da Paolo, che si definì «il minimo degli apostoli» (1Cor 15,9), mentre in realtà fu il maggiore di tutti, il più fedele interprete e seguace di Gesù, pur non appartenendo al gruppo dei Dodici. Ecco alcuni spunti suggeriti da questo straordinario biglietto.
1. Colpisce il titolo col quale Paolo si presenta all’inizio della Lettera – la sua firma, diremmo oggi – che non è quello abituale di «apostolo» ma è «prigioniero di Gesù Cristo», nei due significati di questa espressione: prigioniero perché Cristo lo aveva vinto e arruolato al suo servizio, e perché era arrestato per la sua attività missionaria. Ma questa doppia prigionia non toglie nulla alla sua autorità di apostolo, anzi la manifesta, perché è proprio in quelle che egli chiama le sue «debolezze» (cioè carcerazioni, oltraggi, percosse, pericoli di ogni genere, persecuzioni, angosce e altri patimenti) che appare l’autenticità del suo ministero (2Cor 11,23-29; 12,7-10): la croce di Cristo si riverbera in quella del suo apostolo e lo qualifica e accredita in maniera inconfondibile. Ma Paolo come usa la sua autorità di apostolo? Non per comandare (come avrebbe il diritto di fare) imponendo la sua volontà a quella di Filemone, ma al contrario per «pregare» Filemone (v. 10) appellandosi al suo amore («in nome dell’amore» v. 9), affinché il bene che Filemone farà «non sia come forzato, ma volontario» (v. 14). L’autorità apostolica si fa valere non attraverso leggi e imposizioni, ma attraverso la dolce persuasione dello Spirito, senza mai violare o forzare le coscienze, ma liberandole all’amore.
Ma oltre a non comandare nulla a Filemone, Paolo manifesta la sua libertà e autorità di apostolo identificandosi con lo schiavo Onesimo e assumendo su di sé il suo destino di uomo, dopo averlo «generato» alla fede (v. 10): «Ricevilo come se ricevessi me» (v. 19), lui «che è come dire le mie viscere» (v. 12), cioè la parte di me stesso in cui albergano gli affetti più cari. E «pagherò» per lui gli eventuali debiti che ha con te. Ecco un altro aspetto della libertà e autorità apostolica: non starsene appartati, fuori dalla mischia, ma prendere il posto dell’ultimo dei fratelli, com’era Onesimo, per di più colpevole e a rischio anche della vita. Identificandosi con lui, Paolo mette a repentaglio la sua autorità: potrebbe perderla (gli basta di essere considerato da Filemone «come partner» v. 17), e invece la guadagna. C’è vera autorità dove ci sono condivisione e partecipazione, un’autorità solidale, non autoritaria, vissuta nella fraternità e nella partnership missionaria.
Infine, c’è da rilevare l’aspetto collegiale dell’autorità apostolica e la fraternità come caratteristica fondamentale della Chiesa. La collegialità è qui in particolare evidenza sia perché Paolo si affianca Timoteo come mittente, benché la Lettera sia solo sua, sia perché chiama lo stesso Filemone suo «collaboratore» (v. 1) e Archippo «nostro compagno d’armi» (v. 2). La missione cristiana è impresa comune: molti vi partecipano a vario titolo. Quanto alla fraternità è la nota spirituale dominante della Lettera e si rivela come la struttura portante della comunità cristiana. La «chiesa domestica» (v. 2) che si raduna in casa di Filemone è strutturata come una comunità di fratelli e sorelle creati dalla comune paternità divina. L’apostolo si sente qui inserito in una rete di rapporti fraterni, nella quale l’esercizio dell’autorità e della libertà non dà luogo a nessuna ombra né di gerarchia né di anarchia.
2. È proprio la fraternità in Cristo l’argomento teologico centrale che guida Paolo nel suo «appello» a Filemone. Onesimo è scappato come schiavo, e ora Paolo glielo rimanda come «libero in Cristo» e quindi come «fratello nel Signore» (v. 16), cioè in una veste e in una condizione completamente diversa da prima. È un nuovo Onesimo quello che Paolo gli rimanda. Filemone lo aveva perduto per qualche tempo (il tempo della fuga), ma ora lo ricupera «per sempre» (v. 15), perché la fraternità dura per sempre, oltre la morte, nell’eternità di Dio. Ma la domanda cruciale per Onesimo anzitutto, e anche per noi, è questa: alla fine dei conti e delle parole, Onesimo è ancora schiavo, sì o no? La risposta è: sì e no. Sì, perché Paolo lo rimanda al legittimo padrone, come imponevano le leggi allora vigenti. No, perché Paolo lo rimanda «non più come schiavo, ma come fratello carissimo» (v. 18). Se Paolo avesse detto: «Te lo rimando sempre come schiavo e, in più, come fratello carissimo», la portata del suo discorso sarebbe stata completamente diversa. Ma Paolo dice: «Non più come schiavo». Toccherà dunque a Filemone liberare Onesimo, cioè prendere sul serio la sua libertà in Cristo, che è uguale a quella di cui, come cristiano, gode lui, Filemone. Onesimo, ora, non è meno libero di Filemone. E come con la conversione Onesimo da schiavo è diventato libero, così ora anche Filemone deve diventare, con una seconda conversione, libero dalla teoria e pratica della schiavitù. La conversione dello schiavo deve, a sua volta, generare quella del padrone, in modo che la loro fraternità in Cristo, spezzando le catene mentali e sociali, trasformi anche la loro condizione civile, rendendoli non solo fratelli nella comunità cristiana, ma anche «fratelli», cioè uguali nei diritti e nei doveri, nella società civile. Che cosa significa tutto ciò? Significa che l’Evangelo della libertà in Cristo, pur non essendo di per sé un proclama di rivoluzione sociale, è però un messaggio che pone le premesse per un’effettiva rivoluzione dei rapporti umani anche in campo civile e sociale. Ma la rivoluzione che Paolo propone a Filemone (di vedere e trattare Onesimo «non più come schiavo») dovrà avvenire non contro Filemone o senza di lui, ma con lui, cioè, come si è detto, con una sua seconda conversione. E se Filemone non ci starà, cioè se continuerà a vedere Onesimo come schiavo, anche dopo che è diventato «fratello in Cristo»? A questa domanda il Nuovo Testamento non risponde. La Chiesa, nella sua storia, ha risposto, ma purtroppo male: non è lei che in Occidente ha abolito la schiavitù (anche se alcuni singoli cristiani si sono dati da fare – molto tardi – in questo senso).
3. Per concludere, un bel pensiero di Lutero: «Paolo si spoglia del suo diritto, costringendo così anche Filemone a rinunciare al suo. Proprio come Cristo ha fatto per noi nei confronti di Dio Padre, così fa san Paolo per Onesimo nei confronti di Filemone. Infatti, Cristo si è spogliato dei suoi diritti e ha vinto il Padre con l’amore e l’umiltà, in modo che questi ha dovuto abbandonare collera e diritti, prendendoci in grazia per amore di Cristo, che ci rappresenta [davanti a Dio] così bene e ci accoglie così cordialmente. Infatti, noi tutti siamo i suoi Onesimi, se lo crediamo».
Paolo Ricca

Facoltà Teologica Valdese di Roma
Da “Paulus” n. 9, pag. 179-180

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