Archive pour octobre, 2020

GIOVANNI PAOLO II – UDIENZA GENERALE 6 ottobre 1999 – Chi ama ha conosciuto Dio, perché Dio è amore

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GIOVANNI PAOLO II – UDIENZA GENERALE 6 ottobre 1999 – Chi ama ha conosciuto Dio, perché Dio è amore

1. La conversione, di cui abbiamo trattato nelle precedenti catechesi, è orientata alla pratica del comandamento dell’amore. È particolarmente opportuno, in questo anno del Padre, mettere in risalto la virtù teologale della carità, secondo l’indicazione della Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente (cfr n. 50).
Raccomanda l’apostolo Giovanni: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4, 7-8).
Queste parole sublimi, mentre ci rivelano l’essenza stessa di Dio come mistero d’infinita carità, gettano anche le basi su cui poggia l’etica cristiana, tutta concentrata nel comandamento dell’amore. L’uomo è chiamato ad amare Dio con un impegno totale e a rapportarsi ai fratelli con un atteggiamento di amore ispirato all’amore stesso di Dio. Convertirsi significa convertirsi all’amore.
Già nell’Antico Testamento si può cogliere la dinamica profonda di questo comandamento, nel rapporto di alleanza instaurato da Dio con Israele: da una parte c’è l’iniziativa di amore di Dio, dall’altra la risposta di amore che egli si aspetta. Ecco ad esempio come è presentata l’iniziativa divina nel libro del Deuteronomio: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama” (Dt 7, 7-8). A questo amore di predilezione, totalmente gratuito, corrisponde il comandamento fondamentale, che orienta tutta la religiosità di Israele: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Ivi 6, 5).
2. Il Dio che ama è un Dio che non se ne resta lontano, ma interviene nella storia. Quando a Mosè rivela il proprio nome, lo fa per garantire la sua assistenza amorevole nell’evento salvifico dell’Esodo, un’assistenza che durerà per sempre (cfr Es 3, 15). Attraverso le parole dei profeti, egli ricorderà continuamente al suo popolo questo suo gesto d’amore. Leggiamo ad esempio in Geremia: «Così dice il Signore: ‘Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora’. Da lontano gli è apparso il Signore: ‘Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà’» (Ger 31, 2-3).
È un amore che assume i toni di un’immensa tenerezza (cfr Os 11, 8s.; Ger 31, 20) e che normalmente si avvale dell’immagine paterna, ma si esprime talvolta anche con la metafora nuziale: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore” (Os 2, 21, cfr vv. 18-25).
Anche dopo aver registrato nel suo popolo una ripetuta infedeltà all’alleanza, questo Dio è disposto ancora ad offrire il proprio amore, creando nell’uomo un cuore nuovo, che lo mette in grado di accogliere senza riserva la legge che gli viene data, come leggiamo nel profeta Geremia: “Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore” (Ger 31, 33). Analogamente si legge in Ezechiele: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne” (Ez 36, 26).
3. Il Nuovo Testamento ci presenta questa dinamica dell’amore incentrata in Gesù, Figlio amato dal Padre (cfr Gv 3, 35; 5, 20; 10, 17), il quale si manifesta mediante lui. Gli uomini partecipano a questo amore conoscendo il Figlio, ossia accogliendo il suo insegnamento e la sua opera redentrice.
Non è possibile accedere all’amore del Padre se non imitando il Figlio nell’osservanza dei comandamenti del Padre: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore” (Ivi 15, 9-10). Si diviene in tal modo partecipi anche della conoscenza che il Figlio ha del Padre: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Ivi v.15).
4. L’amore ci fa entrare pienamente nella vita filiale di Gesù, rendendoci figli nel Figlio: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3, 1). L’amore trasforma la vita ed illumina anche la nostra conoscenza di Dio, fino a raggiungere quella conoscenza perfetta di cui parla san Paolo: “Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor 13, 12).
Occorre sottolineare il rapporto tra conoscenza e amore. La conversione intima che il cristianesimo propone è un’autentica esperienza di Dio, nel senso indicato da Gesù, durante l’ultima Cena, nella preghiera sacerdotale: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Certamente la conoscenza di Dio ha anche una dimensione di ordine intellettuale (cfr Rm 1, 19-20). Ma l’esperienza viva del Padre e del Figlio avviene nell’amore, cioè, in ultima analisi, nello Spirito Santo, poiché “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5, 5).
Il Paraclito è Colui grazie al quale facciamo l’esperienza dell’amore paterno di Dio. E l’effetto più consolante della sua presenza in noi è appunto la certezza che questo amore perenne e smisurato con cui Dio ci ha amato per primo, non ci abbandonerà mai: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?… Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Ivi 8, 35.38-39). Il cuore nuovo, che ama e conosce, batte in sintonia con Dio che ama di perenne amore.

San Paolo, le splendide lettere

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Publié dans:immagini sacre |on 21 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

QUASI UNO SCANDALO (LA BELLEZZA)

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QUASI UNO SCANDALO (LA BELLEZZA)

La bellezza, il fascino di ciò che è difficile: vogliamo imparare a cogliere le sfumature belle della nostra quotidianità.
Nicoletta Dentico

“In questi tempi di miserie onnipresenti, violenze cieche, catastrofi naturali o ecologiche, parlare di bellezza può sembrare incongruo, sconveniente e persino provocatorio. Quasi uno
scandalo. Ma proprio per questo, si vede come, all’opposto del male, la bellezza si colloca agli antipodi di una realtà con la quale dobbiamo fare i conti. Dobbiamo concentrare l’attenzione su questi due misteri che costituiscono i poli estremi dell’universo vivente: da una parte il male, dall’altra la bellezza” (François Cheng).
Come il fotografo americano Robert Mapplethorpe, diciamo subito che siamo ossessionati dalla bellezza, e il senso della sua lontananza ci rende molto insoddisfatti. Diciamo anche che vogliamo vedere la bellezza finalmente re-integrata come orizzonte operante della polis, categoria fondativa della visione di società che aspiriamo a costruire, nell’interesse delle generazioni future. Da questa esigenza civile, prima ancora che culturale, trae origine il tentativo che qui presentiamo di declinare alcune delle significanze a nostro avviso più accattivanti che il concetto di bellezza porta con sé. Lo facciamo con consapevole intento provocatorio, appunto per collocarci agli antipodi della realtà che si muove intorno a noi.
La globalizzazione ha una sua dimensione oscura e minacciosa che oggi si manifesta con gli allarmi economici ed ecologici, la crescita delle disuguaglianze, con il terrorismo, la violenza di guerre sempre più sofisticate, eppure destinate a non avere fine, con la mercificazione dei beni e dei diritti. Questo assalto alla diligenza è stato ovunque aggravato dalle manovre di smontaggio dello Stato e di svendita dei beni comuni. In Italia, il livello di degrado del senso civile e della buona amministrazione è stato accelerato dalla protezione – se non addirittura promozione – dell’evasione fiscale, dalla corruzione della vita pubblica, dai reiterati attacchi alla Costituzione e alla legalità, dal progressivo svuotamento delle istituzioni a fronte dello spazio di manovra politica ed economica deliberatamente consegnato alle mafie. Crescita e sviluppo sono le parole che tornano con più insistenza nel permanente teatrino della politica italiana, ma sono appunto retorica semantica, perché a parte la crescita che non c’è e non ci sarà per i prossimi anni, lo sviluppo nei decenni passati è stato spesso rendita parassitaria e sottrazione di fondi pubblici, svendita del territorio per grandi opere e cementificazioni, condoni edilizi, morte dell’agricoltura e discariche nelle zone più fertili del Bel Paese. Insomma, un catalogo di stordimenti e di patologie che hanno profondamente mutato gli italiani, e da cui occorre guarire se vogliamo riprendere in mano il destino della nostra comunità.
Siamo convinti che sia indispensabile parlare della bellezza per ragioni di cura. Scavare tra le pieghe delle molteplici forme di bellezza che nella quotidianità si aprono, perseguendo ciò che il poeta Yeats chiamava il fascino di ciò che è difficile. Perché il tema della bellezza è difficile, perciò forse non sufficientemente abitato. In questo dossier ci facciamo guidare da chi, per ricerca personale e professionale, propone letture sulle dimensioni della bellezza: nella costruzione di un’agenda sociale, nel linguaggio, nel corpo, nell’idea del paesaggio, nelle parole della Parola, nel paradosso di una vita che incarna la bellezza e la racconta, a partire da un percorso di personale redenzione.
Ci auguriamo che il percorso lungo i sentieri della bellezza non si fermi qui, ma prosegua nel dialogo con i lettori, nell’incontro con le persone oltre la rivista. Come scriveva il poeta inglese John Keats: “Bellezza è Verità, Verità è Bellezza”, che è tutto quanto sappiamo e dobbiamo sapere, sulla terra.

Publié dans:BELLEZZA (LA) |on 21 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 16 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (18/10/2020)

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XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (18/10/2020)

Date a Dio di essere Dio
don Luca Garbinetto

L’adagio ormai conosciuto “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (v. 21) ci sollecita se non altro a essere buoni cittadini. Con i tempi che corrono, nei quali la vita civile, sociale, economica e politica è caratterizzata sempre di più da logiche di interesse personale e da chiusure individualiste e nazionaliste, appare più che mai necessario richiamarci alla responsabilità per il bene comune. Non si tratta, ovviamente, soltanto di pagare le tasse dovute (anche se alcune sono davvero ingiuste ed esagerate), ma anche – o almeno – di fare bene ognuno il proprio dovere con senso di rispetto per le leggi e soprattutto per gli altri. Basterebbe cominciare dal linguaggio e dai modi con cui ci si relaziona, negli ambienti pubblici come in quelli istituzionali, fino all’intimità delle proprie case e delle amicizie. Insomma, il solo sguardo alla realtà sociale ci provoca a uno scatto urgente di responsabilità gli uni verso gli altri, nella logica della fratellanza ribadita con autorevolezza da papa Francesco (non sarà certo un caso, purtroppo, se proprio da alcuni ambiti cattolici sono piovute critiche pesanti e addirittura offensive al nostro caro papa, per aver parlato troppo di fratellanza!).
Tuttavia, la luce penetrante del vangelo non può lasciarci soddisfatti con un’esortazione morale o semplicemente pragmatica a comportarci bene. La buona notizia, infatti, scava con lo stile della pedagogia divina, e ci provoca a scrutare le motivazioni, non solamente i comportamenti e i gesti. Sarebbe quindi un errore risolvere la questione di questo controverso episodio distinguendo l’area delle faccende cosiddette umane dagli spazi interessati a Dio o che interessano a Dio.
Di fatto, soltanto se si riconosce che vi è qualcuno più grande di Cesare, e di riflesso quindi più grande di me, di ciascuno di noi, si trovano sufficienti energie per operare per il bene comune anche quando questo valore è disatteso, ignorato, calpestato, addirittura vilipeso. Dio infatti abbraccia, anzi entra e penetra intimamente ogni realtà umana, con la Sua presenza rispettosa e promovente della libertà e della responsabilità dell’uomo. È grazie al Dio di Gesù Cristo che ogni creatura è vista nella sua intrinseca bontà, e che la più buona fra tutte le creature (l’essere umano) ha scoperto di avere come compito e come possibilità la custodia del creato. È la relazione costitutiva con il Padre di Gesù che ogni persona riconosce la propria indistruttibile dignità di figlia e si alza, a fronte alta, per esercitare il fraterno “dominio” (cfr. Gen 1,28) sugli esseri viventi, secondo lo stesso cuore amorevole del Creatore.
A Dio, dunque, non va dato qualcosa, una parte di sé o alcuni tempi e luoghi della propria vita. Va dato tutto se stesso. Con una peculiarità piuttosto curiosa: dare a Dio significa in realtà disporsi a ricevere. Si tratta, paradossalmente, di dare a Lui la possibilità di…dare a noi. E vi sono due cose che solo Dio può darci: il senso e il perdono!
Il senso, cioè il significato, la direzione, l’orientamento della nostra esistenza, è rivelazione solo di Dio. Il che vuol dire molto, se si pensa che la domanda sul senso nasce spontanea nel cuore dell’uomo, di ogni uomo, ed è ciò che più ci caratterizza come creature umane. I sassi, i pini, gli animali non si interrogano sul senso della vita. E non lo fanno nemmeno i robot, non lo potranno fare mai. È questione di desiderio, non solo di bisogno. Domandarsi sul senso dell’esistere, infatti, è un’esperienza globale, che coinvolge mente, affetto e volontà, che intreccia angoscia a curiosità, fiducia a paura e incertezza. Suscita percorsi e pensieri, indirizza ricerche e invenzioni. Ma la risposta definitiva, totale e totalizzante, che squarcia la nube del dubbio e dell’assurdo sta solo nel movimento divino del venirci incontro e di donarsi a noi. Nel Suo darsi sta il compimento, la scoperta del tesoro e della perla preziosa. Dare a Dio se stessi è quindi in realtà l’apertura a farsi compagni di viaggio con Lui, che si dona a noi.
E poi il perdono, esperienza bruciante che sconvolge la personale comprensione di sé come esseri ambiziosi e presuntuosi, ma costitutivamente erranti e capaci di errori. Sbagliamo, tanto, come limitati e peccatori, e non siamo in grado di accoglierci da soli come tali, nonostante i narcisistici tentativi di autogiustificazione. Perdonare è azione prettamente altruistica, che viene quindi da un altro. Ed è peculiarità di Dio. Il perdono è, in altri termini, salvezza, redenzione, riconciliazione. Parole difficili, che divengono familiari a chi, avendo il coraggio di fare i conti con la propria debolezza anche morale, non fugge e si apre ad accogliere il gesto eterno di gratuita misericordia che il Padre ha compiuto nel Figlio e rinnova continuamente per noi. Gesù ha pagato tutto il prezzo del nostro riscatto dall’insidia originale della superbia. Dare a Dio quello che è suo, allora, vuol dire cedere le armi delle nostre inutili battaglie di eroi solitari senza trionfo, e abbandonarci all’abbraccio senza misure di merito che la Croce ha reso vittorioso per sempre.
Davvero, in Dio non c’è moneta che valga la controparte traboccante di grazia che si riceve!

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 16 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

gli invitati alle nozze

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 9 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (11/10/2020)

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XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (11/10/2020)

L’abito nuziale è quello di chi è contento
padre Paul Devreux

“In quel tempo, Gesù riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio.”
Siamo passati dal tema della vigna a quello della festa per eccellenza: la festa di nozze tra Dio e il suo popolo.
“Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.”
Si ripete la stessa scena della settimana scorsa: i servi sono i profeti e tutti quelli che provano ad annunciare il Vangelo, che è la buona notizia che nasce dalla proposta di un mondo giusto e bello. Purtroppo spesso questa proposta non è accolta.
“Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.”
Matteo ha assistito alla distruzione di Gerusalemme negli anni 70, e lo vede come un castigo di Dio, ma sappiamo che Dio non viene per castigare ma per salvarci. Possiamo solo dire che questa distruzione è stato il frutto di scelte sbagliate, che hanno fatto soffrire molti innocenti e cristiani. Questa però è un’ occasione per ricordarci una cosa molto importante: Non bisogna leggere il vangelo estrapolando una frase di qua o di là, perché si rischia di fargli dire cose che sono opposte al messaggio globale.
“Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.”
Questa è la festa che Dio vuole: aperta a tutti e gratuita, senza nessuna discriminazione o differenze sociali. E’ il bello della comunità ecclesiale.
“Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale.
L’abito nuziale veniva offerto a tutti gli invitati, quindi non ha scuse. Ma a cosa possiamo paragonarlo oggi?
L’abito dice chi voglio essere e cosa sto vivendo. Quello nuziale manifesta la mia adesione a fare festa, festa che è possibile se ognuno fa la sua parte. Posso pregare perché tutti stiano bene, fare un servizio come leggere, sistemare la chiesa, i fiori, raccattare l’elemosina, cantare, ascoltare. Sono tante le cose che posso fare, ma l’importante è manifestare questo mio entusiasmo per la festa, e se la festa dura tutta la vita, l’impegno che manifesta la mia adesione, sarà quello di garantire giustizia e pace per tutti.
In altre parole, mettere l’abito nuziale, è come rivestirsi di Cristo, come dice San Paolo.
Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
E’ come quando vado a messa per assolvere ad un obbligo religioso, per tradizione, per abitudine, per fare contento qualcuno, per paura di qualche conseguenza nefasta, ma non vado volentieri. Lo vedo dal fatto che non ascolto, perché la mia testa è altrove, e spero che finisca presto.
E così è nella vita, che non è mai una festa, perché rimpiango il passato o sogno un futuro migliore, senza accorgermi che l’invito è adesso, e che ho tanta gente intorno, pronta a fare festa con me.
Chi ha le mani legate è Dio, e l’unica cosa che può provare a fare è mettermi fuori legato mani e piedi, nelle tenebre, sperando che così mi renda conto che questa è la mia condizione. A volte è necessario stare nelle tenebre per riuscire a vedere la Luce.
Il Signore invita tutti, ma non tutti aderiscono, perché non colgono la bellezza di quest’invito.

San Francesco diceva: »Fammi strumento della tua pace »…
Signore facci strumenti del tuo regno, persone entusiaste della tua proposta di vita e di fede, per tutti quelli che non l’hanno sperimentata.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 9 octobre, 2020 |Pas de commentaires »
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