XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (28/06/2020)
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XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) (28/06/2020)
Mi ami tu più di chiunque altro?
don Luca Garbinetto
“Chi ama padre e madre,…figlio e figlia più di me, non è degno di me” (v. 37). Pare un esordio disastroso, quello di Gesù, se volesse guadagnarsi la simpatia dei suoi ascoltatori. In realtà, non si tratta di esordio: nei versetti precedenti egli stesso aveva annunciato di essere venuto a portare dissensi e spada, per nulla pace in famiglia (cfr. vv. 34-36). Peggio ancora! Niente da fare: questo messia non è certo uno che rivendichi approvazione o che ricerchi compiacenza. È duro il suo parlare!
E tuttavia non va dimenticato che nei paragrafi ancora precedenti, il Maestro si era premunito di assicurare la cura fedele e perseverante del Padre, con il suo amore privilegiato per i piccoli, soprattutto se perseguitati e oppressi (cfr. vv. 19.29-30). Dunque l’orizzonte di riferimento è quello di un paterno abbraccio, di smisurata benevolenza, che non si esaurisce anche di fronte al pericolo della morte dell’anima e del corpo (cfr. v. 28b).
Ecco perché sarebbe un errore imperdonabile considerare l’affermazione drastica da cui siamo partiti come una formale espressione di competitività tra Gesù e i parenti più stretti, i propri cari ai quali si deve la gratitudine per la vita ricevuta o lo stupore per avergliela donata. Nessuna competizione: qui non si tratta di paragoni e di alternative, ma di gerarchie. Gesù non sta mettendo in discussione il bene racchiuso nell’amare i genitori e i figli, bensì l’intenzione e la modalità con cui si vive tale amore. O meglio, le maschere spesso indossate per camuffare gli scivolamenti dell’amore in possessività. Perché il criterio di valutazione, per mettere in ordine le cose, viene espresso da quanto viene dopo: è il criterio della croce, manifestazione massima dell’amore che Gesù stesso ha vissuto e portato su di sé, perché prima ce l’aveva dentro di sé.
Che cos’è la croce? Nella logica matteana, è la capacità di cedere le armi, è la sconfitta della pretesa di guadagnarsi la vita da soli. Insomma, il vero antagonismo non sta tra parenti e amici da una parte, e Gesù dall’altra. Sta piuttosto tra la centralità dell’io o la centralità di Dio. Detto con chiarezza: al primo posto, sempre e per chiunque, deve starci Dio, il Padre. E Gesù è il volto del Padre che si rivela a noi, fino alla fine, sulla croce. Rivendicando per sé, rispetto a chiunque altro, un amore ‘di più’, Gesù sta rivendicando di essere Dio. E Dio merita – sì, a onor del vero, se lo merita proprio – di stare al vertice della gerarchia dei nostri amori.
L’alternativa, dicevamo, non sono i parenti stretti, ma il proprio io, elevato alla stregua di idolo. “Chi avrà tenuto per sé la propria vita” (v. 39)…è espressione riconducibile alla presunzione del guadagno e della conquista. “Tenere per sé” è il verbo di chi raccoglie dove lui ha seminato (cfr. Gen 26,12). È l’azione di chi trattiene i frutti del proprio lavoro, come salario del sudore della fronte, come merito della propria fatica. Niente di male, verrebbe da dire, specialmente in tempi in cui si rischia di vedere troppi imbroglioni che rubano e cercano il guadagno facile (ma sarà un tratto solo dell’umanità di oggi?). Ma andando più a fondo, siamo davanti al paradosso di chi pensa di essersi procurato da solo la vita, e di non dover dire grazie nemmeno ai propri genitori, oppure di poter vantare il diritto di proprietà verso i propri figli. I “nostri cari” diventano, senza accorgersene – almeno non subito -, alla stregua di oggetti con cui compensare il bisogno di sentirsi padrona di se stessi. Così si degenera, piano piano, fino a manipolare e ad abusare della vita stessa.
Ma la vita non ci appartiene! Verità tanto evidente, quanto dura da mandar giù. E chi si attacca alla propria vita come fosse un premio ottenuto per bravura o per talento, inesorabilmente è destinato a perderla, perché semplicemente non la vive più. Attaccarsi alla vita significa trattenere i corpi e le anime dei propri congiunti solo per averne gratificazione, fosse anche da un ritorno di gratitudine e di riconoscenza. Così si perde il gusto della gratuità, e si consolidano atteggiamenti difensivi e paranoici nel disperato tentativo di difendere quello che in realtà è destinato a darsi.
Perché la vita è per definizione un dono. Come tale, rimane vita se è dono anche nell’esperienza. Si tratta quindi proprio di perderla per lasciarla essere se stessa. Nessuno può rivendicare di essersi dato la vita, nemmeno di essersela procurata da sé: c’è sempre qualcuno a cui essere debitori. Quindi la vita può essere vissuta bene solo nel continuare a farne un dono, nel rispettarne cioè l’essenza. Si vive bene se si vive da debitori.
Se poi ci si rende conto che anche coloro che sono stati strumenti perché noi avessimo la vita, in realtà ne devono dare merito a loro volta ad altri, e a un Altro, ecco la pienezza dell’amore vero. Lì si scardina l’inevitabile senso di insicurezza che invoca un atto di fiduciosa consegna. Accogliere la vita è in fatti consegnarsi, ma alla Fonte.
Sarebbe come un frutto buono che, potendo parlare, non si accontenta di ringraziare né il ramo né l’albero per essere stati strumenti della sua nascita e maturazione, ma innalza una lode alla terra e al cielo che hanno reso possibile l’esistenza di tutti. Perdere la propria vita “per causa mia” (v. 39b) è quindi invito delicato e vigoroso di Gesù per non accontentarci delle gioie di questa terra e alzare gli occhi fino al Cielo, fino alla Fonte prima della vita intera: quel Padre che ha fatto di Gesù per primo un dono totale di sé sulla croce, così da consegnare a noi la Vita in pienezza. Quella dello Spirito, oltre a quella della carne.
Siamo entrati così nella logica dell’amore divino. Un amore che diventa necessariamente famigliare e comunitario. Garantendo la gerarchia che mette ordine ed evita gli sprechi di energie. Anche nei rapporti all’interno della Chiesa, che Matteo rivela nei versetti successivi. Dagli apostoli (guide della comunità), ai profeti che insegnano la Parola, ai giusti che testimoniano una vita di santità, fino ai piccoli che sono discepoli nel loro costante contatto con il debito della vita: queste relazioni, custodite e rispettate nella loro necessità, permettono di recuperare la meraviglia degli amori terreni impregnati di Spirito di Dio.
No, Gesù non ce l’ha con la famiglia, anzi. E se prima della sua mamma, già a 12 anni ha imparato a porre la ricerca della volontà del Padre (cfr. Lc 2,29), è stato soltanto per aiutarla ad essere madre universale, in una Famiglia ancora più grande (cfr. Gv 19,27). Anche per noi è così: amare Gesù sopra ogni cosa, per divenire membri, nella Chiesa, dell’unica Famiglia dei figli di Dio. Figli e fratelli: esperti, dunque, di amore e di vita donata.
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