Archive pour janvier, 2020

III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO – Enzo Bianchi

https://combonianum.org/2020/01/21/commento-al-vangelo-della-iii-domenica-del-tempo-ordinario-a/

III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A) COMMENTO – Enzo Bianchi

Convertitevi!

Brevi note su Isaia 8,23-9,3
La prima lettura, tratta dal profeta Isaia – dai capitoli 7-12 definiti “Libro del Dio-con-noi (’Immanuel) –, ci annuncia l’azione di un uomo chiamato appunto Emmanuele, un bambino nato come dono di Dio (cf. Is 7,10-14), il quale regnerà portando liberazione e pace. La sua azione inizia proprio a partire dalle regioni più a nord della terra santa, quelle di Zabulon e di Neftali, che erano state umiliate dagli Assiri con l’invasione del 722 a.C. Proprio questa terra divenuta impura, chiamata Galilea delle genti pagane, precipitata nelle tenebre di morte, vedrà per prima la luce della liberazione. In essa, infatti, risuonerà il primo annuncio della buona notizia da parte di Gesù, come testimonia il vangelo secondo Matteo.

Matteo 4,12-23
Matteo è l’evangelista “scriba”, che costantemente mette in risalto il compimento delle Scritture dell’Antico Testamento nella vita di Gesù. Ciò che avviene nella vicenda di Gesù è compimento della parola di Dio contenuta nelle Legge, nei Profeti e nei Salmi (cf. Lc 24,44). Anche l’inizio del ministero pubblico di Gesù deve essere letto in questa prospettiva, perché non il caso, né il destino, la necessità, determinano gli eventi, ma la libera volontà di Gesù, che desidera essere obbediente al Padre in conformità alle sante Scritture.
Quando Gesù ebbe notizia che Giovanni il Battista, il maestro che egli seguiva come un discepolo (opíso mou: Mt 3,11), era stato arrestato e imprigionato da Erode, allora “si ritirò (verbo anachoréo) in Galilea”, lasciando la Giudea e soprattutto la regione tra Giordano e mar Morto dove Giovanni aveva predicato e battezzato. Questo ritirarsi, che è un allontanarsi, si ripeterà altre volte nella vita di Gesù (cf. Mt 9,24; 12,15; 14,13; 15,21), come già era avvenuto quando Giuseppe, suo padre secondo la Legge, si era ritirato in Galilea per fuggire da Archelao (cf. Mt 2,22-23). In questo caso non è però Nazaret, la borgata in cui Gesù era cresciuto, il luogo del suo ritirarsi, bensì Cafarnao, città sul lago di Tiberiade, città di frontiera, luogo di transito e tappa importante sulla via del mare che metteva in comunicazione Damasco e Cesarea, il porto sul Mediterraneo. Qui a Cafarnao Gesù sceglie una casa come dimora sua e del gruppo che lo seguirà nella sua avventura profetica.
Matteo non dimentica la promessa del profeta Isaia su questa terra periferica che era stata la prima regione umiliata e oppressa dall’invasore assiro nell’VIII secolo a.C., quando le tribù di Zabulon e di Neftali qui residenti furono vinte, deportate ed esiliate. Il profeta aveva osato guardare al futuro lontano, quando Dio avrebbe dato inizio alla redenzione e al raduno del suo popolo, a partire da questa regione diventata terra impura popolata di pagani, crocicchio delle genti. Ecco dove viene ad abitare Gesù, ecco la compagnia che sceglie, questa frontiera disprezzata dai giudei: proprio da qui Gesù inizia la sua predicazione. Questa regione vede dunque “sorgere” una grande luce, la luce di Cristo e del suo Vangelo.
Da quel momento Gesù inizia a predicare, in piena continuità con la predicazione del Battista: “Convertitevi (metanoeîte), perché il regno dei cieli si è avvicinato” (= Mt 3,2). La chiamata è alla conversione, al cambiamento di mentalità, di atteggiamento e di stile nel vivere quotidiano: non un gesto isolato, estemporaneo, ma l’assunzione di un “altro” modo di vivere, segno concreto del “ritorno” a Dio. Da un lato la conversione richiede un lasciare e un assumere, è dunque un’ora che scandisce un prima e un dopo. D’altro lato, essa diventa un’istanza continua, una dinamica da imprimere nella propria vita giorno dopo giorno, perché non si è mai convertiti una volta per sempre. Questa conversione ha un solo scopo: permettere che Dio regni, che sia l’unico Signore nella vita del credente. “Convertitevi!” è stata una parola di Giovanni, di Gesù, di Pietro (cf. At 2,38), ed è la prima parola che la chiesa deve rivolgere a quanti incontra. Il Regno avviene là dove uomini e donne permettono a Dio di regnare in loro attraverso la conversione. Per costoro il regno dei cieli (o regno di Dio, secondo Marco e Luca) si è avvicinato, può essere realtà già qui sulla terra, dove Dio regna.
Così viene sintetizzata da Matteo l’attività di Gesù in Galilea, un’attività profetica sulla scia di quella del Battista, un’attività che chiama, attira discepoli capaci di conversione. Per questo segue il racconto di due chiamate, quelle dei primi quattro discepoli. Il racconto è semplice, sobrio, non indugia su particolari e soprattutto non presta attenzione ai processi psicologici che pure devono essere stati vissuti in questo evento. Anche in questo caso il racconto è plasmato sul modello della chiamata profetica (cf. 1Re 19,19-21) e vuole essere una testimonianza esemplare per ogni lettore del vangelo. Gesù passa lungo il mare di Galilea, cioè il lago di Gennesaret, dove si trovano pescatori e barche. Gesù innanzitutto “vede”, con il suo sguardo penetrante e capace di discernimento, “due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettano le reti in mare”. Mentre sono intenti al loro lavoro e fanno il loro mestiere, sono raggiunti dalla parola di Gesù che è parola efficace, già in questo racconto è parola del Kýrios, del Signore: “Venite dietro a me (opíso mou), vi farò pescatori di uomini”.
Vi è qui indubbiamente una lettura dossologica della vocazione, un racconto che non può dimenticare il ruolo futuro di Simon Pietro: ecco perché la parola di Gesù come una promessa cambia il lavoro di Pietro, pescare pesci, in quello che sarà il suo ministero, pescare uomini, cioè radunare i destinatari del Vangelo nella rete della chiesa. A questa parola i due fratelli rispondono senza dilazione, prontamente, abbandonando la loro professione (le reti) per seguire Gesù. Certo, Luca colloca in un altro contesto la vocazione di Pietro, dopo una pesca miracolosa (cf. Lc 5,4-11) e il quarto vangelo fornisce un resoconto diverso del primo incontro tra Pietro e Gesù (cf. Gv 1,40-42); ma ciò che è essenziale in questi diversi racconti è la scelta libera, sovrana di Gesù, che chiama, e la pronta obbedienza alla sua parola da parte dei futuri discepoli. E così segue il racconto della vocazione dell’altra coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. Stessa dinamica, con l’aggiunta della precisazione che i due fratelli non lasciano solo la barca, ma anche il padre; c’è dunque una rinuncia alla professione e alla famiglia, c’è una reale rottura tra ciò che si era e ciò che si diventa alla sequela di Gesù. La risposta del chiamato (nessuna auto-candidatura al discepolato!) è incondizionata e senza dilazioni, ieri come oggi.
Ma in questi racconti dobbiamo anche percepire il “non detto” riguardo a questa sequela che è diversa dal rapporto maestro (rabbino)-discepolo ai tempi di Gesù. Normalmente era il discepolo che sceglieva il maestro, che si faceva servo del rabbino o lo retribuiva per l’insegnamento ricevuto. Gesù invece precede sempre il discepolo, eleggendolo, chiamandolo, poi si mette al suo servizio, fino a lavargli i piedi (cf. Mt 13,1-15). Gesù è davvero un rabbi paradossale!
Il nostro brano è concluso da un “sommario” che riassume tutta l’attività di Gesù:
percorreva la Galilea, in una predicazione itinerante,
insegnava nelle sinagoghe dove si radunavano i credenti di Israele,
proclamava a tutti la buona notizia del regno di Dio ormai avvicinatosi
e curava ogni sorta di malattie e di infermità in quelli che incontrava.
Subito il potere di Gesù si manifesta con la sua forza di attrazione: molti vanno da lui, peccatori sui quali regna il demonio e malati di varie infermità, mentre le folle cominciano ad ascoltarlo e a seguirlo (cf. Mt 4,24-25). Così il Regno è annunciato, anzi offerto da Gesù come una realtà che il credente può accogliere: basta che lasci regnare Dio su di sé, ed ecco che il regno di Dio è inaugurato.

 

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 24 janvier, 2020 |Pas de commentaires »

La conversione di San Paolo

pens e paolo st-paul-conversion

Publié dans:immagini sacre |on 23 janvier, 2020 |Pas de commentaires »

LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:

“Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15)
Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?
Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona.
Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo.
E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.
Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI.
Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?
Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto.
Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.
E veniamo al Papa.
Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”
Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù.
In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui.
Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza:
– la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22
– la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39
– l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11

per la giornata della memoria (27 gennaio) disegno di internati nei campi di concentramento (è terribile lo so, una così la metto solo a voi, agli altri solo disegni di Bambini, ugualmente tristi però)

shoah per paolo

RATZINGER E L’EBRAISMO – TRA CONFRONTO AUTENTICO E RAFFORZAMENTO DI LEGAMI PROFONDISSIMI

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/editorials/documents/08a_05_2009.html

RATZINGER E L’EBRAISMO – TRA CONFRONTO AUTENTICO E RAFFORZAMENTO DI LEGAMI PROFONDISSIMI

In occasione dell’inizio del viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa pubblichiamo il testo dell’articolo scritto dal nostro direttore per il numero in uscita della rivista « Vita e Pensiero ».

Nell’imminenza del viaggio in Terra Santa di Benedetto XVI bisogna riconoscere che la vicenda della revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani ha avuto effetti anche positivi. Al di là di ogni altra possibile considerazione, infatti, la bufera mediatica che si è scatenata è stata occasione per un ulteriore chiarimento del nodo storico costituito dal rapporto con l’ebraismo. In generale da parte del cristianesimo, ma più in particolare della Chiesa cattolica e, specificamente, di Benedetto XVI, anche sul piano personale. Proprio su questo punto il Papa ha reagito, con accenti di stupore quasi incredulo, nella lettera ai vescovi cattolici del 10 marzo 2009, che resterà tra i documenti più alti del suo pontificato.
Da sempre abituato alle discussioni anche difficili, e tuttavia sorpreso dal crescendo delle reazioni e dalla loro piega, tanto inaspettata quanto incredibile, Ratzinger non si è tirato indietro da un giudizio molto severo sul rovesciamento a cui è stata sottoposta la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, uno dei quali è divenuto mondialmente noto per le sue dichiarazioni negazioniste della Shoah. Queste non erano per la verità ignote, come altre convinzioni, questa volta antiamericane, dello stesso personaggio sulle responsabilità dell’attacco dell’11 settembre 2001, condivise da estremisti di segno tra loro opposto e forse per questo ritenute meno scandalose. Diffuse con un tempismo alquanto sospetto, le dichiarazioni negazioniste non sono state tuttavia segnalate al Papa. Il giorno stesso della pubblicazione del provvedimento – un gesto, a ben vedere, coerente con il Vaticano ii e infatti reso pubblico proprio in coincidenza con il cinquantesimo del suo annuncio per tentare ancora una volta di sanare lo scisma anticonciliare – con una reazione immediata e inequivocabile « L’Osservatore Romano » ha definito inaccettabili tanto le affermazioni negazioniste quanto gli atteggiamenti ostili all’ebraismo di diversi esponenti tradizionalisti. In questo stesso senso, inequivoci e netti sono stati i successivi importanti interventi dello stesso Benedetto XVI, anche attraverso la sua Segreteria di Stato. Fino appunto alla lettera ai vescovi cattolici, un testo scritto per contribuire alla pace nella Chiesa e davvero senza precedenti, che per la franchezza e i toni ha richiamato la lettera di san Paolo ai Galati, non a caso citata dal Papa.
Il gesto di misericordia verso i lefebvriani si è così trasformato – ha dunque sottolineato il vescovo di Roma – « nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico ». L’affermazione di Ratzinger è insomma una vera e propria rivendicazione, dai toni pacati ma fermi, del suo intero itinerario spirituale, intellettuale e teologico, tanto limpido quanto coerente. Che sin dai suoi primi passi è radicato nella tradizione cristiana e cattolica, e proprio per questo non può prescindere dalle radici ebraiche.
Non è certo possibile ricostruire qui la visione del teologo Ratzinger – disseminata nei numerosissimi scritti – sul rapporto della Chiesa con l’ebraismo, e converrà dunque riprenderne solo i punti principali sintetizzati dall’allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede alcuni anni prima della sua elezione al pontificato. Molto chiare sono soprattutto le affermazioni del futuro Papa nei colloqui con il giornalista tedesco Peter Seewald confluiti nei due libri Salz der Erde (« Sale della terra », 1996) e Gott und die Welt (« Dio e il mondo », 2000). Secondo Ratzinger bisogna senz’altro vivere e pensare in modo nuovo il rapporto con l’ebraismo, anche se questo porterà a una coscienza forse anche maggiore delle differenze; queste però devono essere assunte nel rispetto vicendevole e sempre guardando alle affinità interiori.
Le Scritture Sacre e la figura di Gesù sono naturalmente patrimonio comune, e per questo controverso, tra cristiani ed ebrei. Sfondo sempre presente nella storia (sia cristiana che ebraica), questi due temi di capitale importanza tra loro inestricabilmente connessi sono stati negli ultimi anni ripresi da Ratzinger: nel 2001 nella breve introduzione al documento della Pontificia commissione biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana; quindi, a partire dal 2003, nel Gesù di Nazaret, la cui prima parte è stata ultimata e pubblicata dall’autore quando ormai da quasi due anni era divenuto Benedetto XVI, mentre alla seconda parte il Papa sta lavorando in « tutti i momenti liberi », come lui stesso ha confessato nella premessa.
Alla domanda ebraica ai cristiani su cosa abbia portato il loro messia nel mondo rimasto da quasi venti secoli senza pace, nel Gesù di Nazaret – dove rilevante è la valorizzazione della tradizione ebraica, dal giudaismo ellenistico ai testi di Qumran e fino a Martin Buber – è possibile leggere una risposta che anche dal punto di vista unicamente storico è innegabile: « Egli ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo », dando in questo modo « alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (p. 144). Le divergenze non sono per questo superate, come lo stesso Benedetto XVI sottolinea in dialogo con il rabbino Jacob Neusner, ma certo il confronto può e deve proseguire. Affrontando nodi cruciali per il cristianesimo, ma forse importanti per lo stesso ebraismo, come la valutazione e l’interpretazione delle Scritture ebraiche. A partire dal giudaismo ellenistico e dal suo rapporto con la cultura greca – su questioni come la lettura allegorica, la critica filologica e la stabilizzazione del canone dei testi sacri – fino a giungere al problema costituito dall’eretico Marcione, che nella prima metà del ii secolo esprime il rifiuto più radicale del giudaismo e delle sue Scritture, e alla posizione di Adolf von Harnack, che non a caso lo studiò a fondo nella sua classica monografia, apparsa in prima edizione nel 1920, vero e proprio luogo obbligato per lo sviluppo della teologia non solo protestante. E non sono temi soltanto per eruditi o specialisti, perché si tratta dei fondamenti della lettura cristiana dell’Antico (o Primo) Testamento come si sviluppa già nei primissimi decenni cristiani e, ovviamente, delle ineliminabili radici ebraiche del Nuovo Testamento.
Sui rapporti tra cristiani ed ebrei – caratterizzati da una lunghissima storia di vicinanza, contiguità, contrasti, vessazioni – si è poi stesa l’ombra cupa e spaventosa della Shoah, originata dalla criminale ideologia, pagana e anzi esplicitamente anticristiana, del nazionalsocialismo e dei suoi sostenitori, che della persecuzione e dello sterminio degli ebrei europei furono gli unici responsabili, ma in Paesi di tradizione cristiana dove erano presenti alcuni motivi del secolare antigiudaismo religioso. E proprio la tragedia della Shoah impose un ripensamento radicale dei rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. Dapprima in ambito protestante tedesco, dove minori erano state le resistenze al totalitarismo hitleriano e dove dunque questo ripensamento era più urgente, e quindi da parte della Chiesa cattolica, che soprattutto dopo il Vaticano ii è la più impegnata nel confronto e nell’amicizia con il mondo ebraico.
La scelta di avviare nuovi rapporti con gli ebrei, maturata nella prima metà del Novecento, deve molto ai gesti del cuore di Giovanni XXIII, alle decisioni (in genere misconosciute) di Paolo VI e soprattutto al pontificato di Giovanni Paolo II, che in questo senso ha compiuto passi decisivi, dettati da una straordinaria passione. Questa linea è stata confermata da Benedetto XVI – che di Wojtyla è stato il consigliere più vicino – sin dall’inizio del pontificato, già quando durante l’omelia nella messa inaugurale salutò i « fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio ». E nella lettera ai vescovi cattolici molto significativo in questo senso è il riferimento, tra le priorità del pontificato, all’esigenza di « rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Giovanni, 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto ».
In questi primi quattro anni di pontificato il confronto autentico e il rafforzamento dei legami con gli ebrei sono stati continuamente e ripetutamente ribaditi e ricercati dal Papa, nei diversi incontri con personalità ed esponenti dell’ebraismo, e più ancora in numerosissimi interventi: basti per esempio riandare al piccolo corpus dei discorsi durante il viaggio in Francia, dove proprio il rapporto con l’ebraismo costituisce uno dei fili conduttori, o alla novità costituita dal primo intervento di un ebreo durante l’assemblea sinodale sulla Parola di Dio. Vi sono certo difficoltà e ostacoli, non di rado frapposti da chi è ostile a questo avvicinamento. Come si è visto più volte a proposito di Pio XII, sul quale invece si sta stabilizzando un nuovo e più equanime consenso storiografico, che non solo ha demolito la « leggenda nera » ma sta correggendo anche la riduzione del pontificato agli anni tragici della guerra. E come è stato ora confermato dalla burrasca innescata dal negazionismo di uno dei quattro vescovi a cui si è tesa la mano. Ma Benedetto XVI, anche su questo, non indietreggia.

g.m.v.

(© L’Osservatore Romano 08/05/2009)

Predicazione di Gesù

la mia e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 20 janvier, 2020 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – L’autorità non è comando ma coerenza e testimonianza – 14 gennaio 2020

http://www.vatican.va/content/francesco/it/cotidie/2020/documents/papa-francesco-cotidie_20200114_autorita-come-coerenza.html

PAPA FRANCESCO – L’autorità non è comando ma coerenza e testimonianza – 14 gennaio 2020

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Quanto male fanno i cristiani «incoerenti» e i pastori «schizofrenici» che non danno testimonianza allontanandosi così dallo stile del Signore, dalla sua autentica «autorità». Ruota intorno a queste parole chiave l’omelia del Papa nella messa di martedì mattina, 14 gennaio, a Casa Santa Marta, rivolta al popolo di Dio, un popolo «mite» e «saggio» che tollera ma sa distinguere.
«Gesù insegnava come uno che ha autorità». Il Vangelo di Marco (1,21b-28) ci narra di Gesù che insegna al tempio e della reazione che tra la gente suscita il suo modo di agire con «autorità», diversamente dagli scribi. È da questa comparazione che il Papa ha preso spunto subito per spiegare la differenza che esiste tra «avere autorità», «autorità interiore» come Gesù appunto, e «esercitare l’autorità senza averla, come gli scribi», i quali pur essendo specialisti nell’insegnamento della legge e ascoltati dal popolo, non erano creduti.
«Qual è l’autorità che ha Gesù?» si è interrogato Francesco, e ha spiegato: «È quello stile del Signore, quella “signoria” — diciamo così — con la quale il Signore si muoveva, insegnava, guariva, ascoltava». E ha aggiunto: «questo stile signorile — che è una cosa che viene da dentro — fa vedere… Cosa fa vedere? Coerenza. Gesù aveva autorità perché era coerente tra quello che insegnava e quello che faceva, [cioè] come viveva. Quella coerenza è quello che dà l’espressione di una persona che ha autorità: “Questo ha autorità, questa ha autorità, perché è coerente”, cioè dà testimonianza. L’autorità si fa vedere in questo: coerenza e testimonianza».
Perché «con questo atteggiamento — ha rimarcato — sono caduti in una schizofrenia pastorale: dicono una cosa e ne fanno un’altra». E accade in diversi episodi del Vangelo che il Papa accenna: a volte Gesù reagisce — ha detto — mettendoli all’angolo, a volte non dando loro alcuna risposta e altre volte ancora, “qualificandoli”». E qui il Papa si è soffermato: «E la parola che usa Gesù per qualificare questa incoerenza, questa schizofrenia, è “ipocrisia”. È un rosario di qualificativi!». Quindi, facendo riferimento al capitolo ventitreesimo di Matteo, ha ricordato quando Gesù li qualifica «ipocriti» e ha chiarito: «L’ipocrisia è il modo di agire di coloro che hanno responsabilità sulla gente — in questo caso responsabilità pastorale — ma non sono coerenti, non sono signori, non hanno autorità. E il popolo di Dio è mite e tollera; tollera tanti pastori ipocriti, tanti pastori schizofrenici che dicono e non fanno, senza coerenza».
Ma il popolo di Dio — ha aggiunto ancora Francesco ha fatto riferimento alla prima Lettura della liturgia, in cui l’anziano Eli «aveva perso tutta l’autorità» e «soltanto gli rimaneva la grazia dell’unzione e con quella grazia» — ha spiegato — «benedice e fa il miracolo» ad Anna che affranta dal dolore sta pregando per essere madre. Da qui nasce la considerazione finale del Papa sul popolo di Dio, sui cristiani e sui pastori: «Il popolo di Dio — ha affermato — distingue bene fra l’autorità di una persona e la grazia dell’unzione. “Ma tu vai a confessarti da quello, che è questo, e questo e questo…?” — “Ma per me quello è Dio. Punto. Quello è Gesù”. E questa è la saggezza del nostro popolo che tollera tante volte, tanti pastori incoerenti, pastori come gli scribi, e anche cristiani? — che vanno a messa tutte le domeniche e poi vivono come pagani. E la gente dice: “Questo è uno scandalo, un’incoerenza”. Quanto male fanno i cristiani incoerenti che non danno testimonianza e i pastori incoerenti, schizofrenici che non danno testimonianza!».
L’occasione che offre dunque questa riflessione è la preghiera che il Papa ha elevato al Signore, a conclusione dell’omelia, perché tutti i battezzati abbiano «l’autorità», «che non consiste in comandare e farsi sentire, ma nell’essere coerente, essere testimone e per questo, essere compagni di strada nella via del Signore».

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