IL Dio dei viventi, non dei morti

https://combonianum.org/2019/11/04/vangelo-della-domenica-della-xxxii-domenica-tempo-ordinario-c/
XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (C) COMMENTO
Un Dio dei viventi, non dei morti!
Enzo Bianchi
Giunti quasi al termine della lectio cursiva del vangelo secondo Luca prevista dall’annata liturgica C, oggi ascoltiamo un brano evangelico che riguarda la morte, tema decisivo e inevitabile per tutti gli umani, quindi anche per i discepoli di Gesù.
Gesù è ormai entrato nella città santa di Gerusalemme (cf. Lc 19,28-38) e nei suoi ultimi giorni durante la sua predicazione è interrogato da quelli che lo ascoltano. Nel nostro testo è il caso di alcuni appartenenti al movimento dei sadducei, una porzione del popolo di Israele essenzialmente clericale, legata al sacerdozio. Profondamente conservatori e tradizionalisti, essi praticavano una lettura fondamentalista delle Scritture sante, tra le quali privilegiavano la Torah (il Pentateuco), mentre non consideravano rivelativi i profeti e gli scritti sapienziali. E proprio perché nella Torah, mediante una sua interpretazione letterale, non si trova la resurrezione dei morti quale verità da credere, i sadducei la rigettavano, a differenza dei farisei e degli esseni, che invece la professavano come destino ultimo dei giusti.
Per mostrare l’assurdità di tale fede nella resurrezione del corpo dalla morte, questi sadducei pongono a Gesù un esempio ridicolo e assurdo, che pare demolire la convinzione che anche Gesù e i suoi discepoli condividevano con gli altri figli di Israele. Essi fanno ricorso alla legge del levirato, presente nella Torah (cf. Dt 25,5-10), che autorizzava un uomo a sposare la cognata rimasta vedova e senza figli. Lo scopo di questa normativa è evidente: ai figli che nasceranno sarà imposto il nome della famiglia del padre, sicché la discendenza sarà assicurata al fratello defunto. In base a tale legge – dicono i sadducei – una donna diventa moglie di sette fratelli, perché questi muoiono uno dopo l’altro. “Da ultimo” – concludono – “morì anche la donna. Alla resurrezione, dunque, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”.
È buona cosa sapere che al tempo di Gesù era dominante una concezione materiale del Regno messianico e delle realtà a esso connesse, perciò si credeva che la resurrezione avrebbe permesso ai morti del passato di prendere parte al Regno per essere giudicati e ritrovare nella beatitudine una fecondità straordinaria. Affermava, per esempio, rabbi Gamaliele: “Verrà un tempo in cui la donna partorirà ogni giorno una volta”. La resurrezione era pensata come rianimazione del cadavere, ritorno alla vita corporea precedente: una concezione a dir poco enigmatica, che aprirebbe numerosi problemi…
Gesù invece risponde con autorevolezza, interpretando diversamente l’idea della resurrezione: egli rivela che questo mondo passa e che la novità del regno dei cieli non conterrà più la necessità inscritta nella vita biologica di uomini e donne. Per Gesù, tra questo mondo e il mondo che viene c’è un contrasto radicale, non perché questa terra e questo cielo debbano essere distrutti e tornare al nulla, ma nel senso che l’assetto e la necessitas inscritti in essi non saranno più presenti. Il mondo che viene è una realtà altra da quella che conosciamo: vi entreranno quanti, in base al giudizio universale da parte di Dio (cf. Mt 25,31-46), saranno ritenuti degni, i “benedetti dal Padre” (Mt 25,34). Il giudizio provocherà una crisi e una cernita: quelli che sulla terra hanno vissuto secondo la volontà di Dio – la conoscessero o meno –, prenderanno parte al Regno. Su quelli che invece hanno contraddetto questa volontà che è l’amore, nient’altro che l’amore verso gli altri, ovvero sui “maledetti” (Mt 25,41), non c’è alcuna parola nel vangelo secondo Luca: su di loro un silenzio totale, come se non fossero degni di essere rialzati dal nulla della morte… Ecco come Gesù alza il velo sulla realtà dell’altro mondo, nella quale vi sarà una ri-creazione inimmaginabile, una trasfigurazione radicale che possiamo solo intravedere pensando agli angeli, ai messaggeri di Dio, creature non mortali, non corruttibili. Gesù aggiunge inoltre che nel Regno cesserà ogni attività di prosecuzione della specie, dunque ogni attività sessuale, perché non si morirà più.
Confessiamo onestamente che su questa realtà che non conosciamo e che ci è annunciata in modo allusivo non sappiamo dire, non sappiamo immaginare. A noi dovrebbe bastare l’essere convinti che la realtà dopo la resurrezione della carne sarà comunione con Dio e con tutti gli umani e che in questa comunione nulla andrà perduto dell’amore che abbiamo vissuto, amando e accettando di essere amati. Questo ci dovrebbe bastare: un’eterna comunione d’amore, una condizione in cui non ci saranno più il pianto, il lutto, la separazione, il dolore, la morte (cf. Is 25,16; Ap 7,17; 21,4), perché saremo “figli di Dio”.
Quanto alle parole di Gesù: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito, ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito”, non possiamo dimenticare che per secoli sono state lette come un invito a vivere già qui il celibato per il Regno. Né dimentichiamo che, proprio a partire da quest’affermazione, i monaci hanno parlato del proprio stato come della “vita angelica”. Oggi invece leggiamo tali parole con un’ermeneutica diversa, non ritenendole più un fondamento alla condizione del celibato per il Regno. Sappiamo infatti che Gesù si serviva delle immagini della sua cultura, comprensibili al suo uditorio, per porre l’accento sull’annuncio della resurrezione della carne quale speranza per i suoi discepoli.
Ma a mio avviso il punto teologico e rivelativo culminante di questa discussione con i sadducei sta in un’affermazione di Gesù contenuta nel brano parallelo di Marco e di Matteo: “Voi vi ingannate, perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio” (Mc 12,24; Mt 22,29), quella dýnamis che può operare, creare e ri-creare… Accusa terribile, rivolta a quei sacerdoti ai quali competeva dare al popolo la conoscenza di Dio (cf. Os 4,6)! Ed ecco, nelle parole conclusive di Gesù, la correzione di questa non-conoscenza: “Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: ‘Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe’ (Es 3,6). Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché in lui tutti vivono”. L’alleanza tra Dio e il suo popolo, tra Dio e gli umani tutti, è tale che nulla e nessuno potrà romperla: non certo la morte, perché egli è fedele e nella morte si presenta a noi con le braccia aperte, in attesa di prenderci con sé come figli e figlie amati per sempre.
Ecco l’ignoranza dei sadducei, la loro incapacità di leggere le parole dette da Dio a Mosè, dunque la loro non fede nella potenza di Dio. I credenti invece sono convinti che, essendo in alleanza con Dio, quando muoiono vivono per Dio e in Dio, perché Dio è fedele e non viene mai meno alla sua promessa e alla sua alleanza. Siamo posti di fronte al grande mistero dell’esodo pasquale: moriamo a questo mondo per essere rialzati mediante una trasfigurazione della nostra intera persona, spirito e corpo, alla vita in Cristo, nel Regno eterno dell’amore.
http://www.monasterodibose.it
https://www.famigliacristiana.it/articolo/enzo-bianchi-riscopriamo-il-valore-della-preghiera.aspx
ENZO BIANCHI: PREGARE SIGNIFICA ENTRARE NEL CUORE DELLA STORIA
03/09/2014 «Intercedere significa fare un passo in mezzo, entrare nel vivo delle situazioni», dice il priore di Bose.
Davvero un bel rebus la preghiera. San Paolo, scrivendo ai cristiani di Roma, lo dice chiaro e tondo: «Noi nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8, 26-27), assicurando, però, il “soccorso” dello Spirito Santo. Agostino, invece, sosteneva che non servono le parole: «Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi».
Padre André Louf, monaco trappista francese morto nel 2010 e grande maestro di spiritualità, sosteneva che «la preghiera più contemplativa e l’azione più impegnata sono praticamente identiche». Per un laico inquieto come Cesare Pavese la preghiera è nient’altro che «lo sfogo come con un amico».
Forse, però, bisogna chiedersi se per l’uomo secolarizzato e iperattivo di oggi sia ancora possibile pregare. A tutte queste questioni, Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, ha dedicato un libro. Il titolo, eloquente, va dritto al punto: Perché pregare, come pregare, che verrà allegato al numero di Famiglia Cristiana in edicola dall’11 settembre.
Partiamo proprio da qui. Oggi pregare non rischia di essere un lusso?
«È vero, è un momento di crisi per la preghiera e questo appannamento si avverte in tutto il cosiddetto mondo occidentale, che corrisponde al mondo dell’abbondanza, dell’opulenza. La preghiera viene a mancare perché l’uomo confida talmente in sé stesso, nella scienza e nella tecnica che gli sembra di non aver più bisogno di Dio. Per questo dobbiamo fare un atto di discernimento e chiederci anzitutto che cos’è esattamente la preghiera cristiana senza confonderla con la preghiera tout court».
Qual è lo specifico del pregare cristiano?
«È vero che la preghiera è un’espressione universale dell’umano ma la preghiera cristiana ha una sua peculiarità. Essa consiste anzitutto nell’ascoltare Dio prima ancora di parlargli, chi prega si mette in ascolto prima di chiedere a Dio qualcosa. Questo significa che la preghiera deve trasformarsi, rifiorire: dobbiamo ridarle il primato cristiano dell’ascolto. Oggi, invece, accade sempre più spesso che la preghiera venga presentata come una pratica che genericamente “fa bene”, che “giova alla buona salute del corpo”, oppure come un’attività di igiene mentale, come un antidepressivo. Il senso autentico della preghiera cristiana non è questo».
Dunque pregare finisce per passare in secondo piano?
«Un tempo si discuteva molto di certe modalità di pregare: le devozioni, la pietà popolare. Le scuole di spiritualità hanno sperimentato e proposto tante forme di preghiera, che rappresentano anche un rinnovamento spirituale. Pensiamo alla preghiera contemplativa che ci ha insegnato la scuola di Charles de Foucauld alla fine del secolo scorso. Oggi, però, la domanda è più radicale: non è tanto come pregare ma perché pregare. La preghiera, per il cristiano, non è un atto automatico o scontato, per farlo bisogna avere la fede o ritrovarla. Uno prega se ha fede, se nutre la fiducia di ottenere risposta, se è sorretto dalla speranza di essere in una relazione, se è fiducioso di poter ascoltare un Altro e di poter essere a sua volta ascoltato. Oggi la contestazione alla preghiera è molto più radicale in Occidente rispetto ad altre parti del mondo, dall’Africa all’America latina, dove pure ci sono forme profonde di preghiera, perché qui da noi si è smarrito il senso stesso del pregare».
La fede è fondamentale, quindi…
«Certamente. Anzi, direi che il problema della preghiera è un problema di fede, la preghiera è l’eloquenza della fede, se non c’è l’una non c’è neanche l’altra».
Non c’è il rischio che anche il cristiano avverta la preghiera come inutile o comunque poco concreta? «Il cristiano deve saper leggere la storia e vedere che nella storia una componente costante è proprio la preghiera: ce lo dicono tutti i libri della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. In realtà, quando preghiamo non facciamo un’attività intellettuale o di pensiero ma ci predisponiamo a entrare in una situazione, in un contesto di relazione. L’intercessione, pregare per la pace, per i migranti morti nel Mediterraneo o i cristiani perseguitati e uccisi, non è inutile perché ci prepara a essere responsabili nei confronti di questi fratelli. Intercessione significa, letteralmente, fare un passo in mezzo, entrare nel vivo delle situazioni della storia. La preghiera non è evasiva. È significativo che papa Francesco chieda insistentemente di pregare per lui, per la Chiesa, per tante situazioni difficili. È come dire: cari fratelli, vi chiedo corresponsabilità, vi chiedo di operare insieme, in comunione, questo è il senso autentico e profondo del pregare insieme. Senza la preghiera non si prepara nulla di quella che è un’azione all’interno della storia».
Si potrebbe obiettare che oggi manca il tempo per pregare.
«È un problema concreto ma anche falso. In realtà, quel che è difficile per noi non è tanto pregare quanto fermarsi, stare da soli, restare in silenzio. Chi afferma di non avere tempo è un alienato del tempo, che non domina e ordina il tempo e la sua vita ma ne è inghiottito»
CONCELEBRAZIONE PER LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI
NEL CIMITERO ROMANO DEL CAMPO VERANO – PAPA GIOVANNI PAOLO II – 1992
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
1. “Del Signore è la terra” (Sal 24, 1). Il Salmo responsoriale, che poc’anzi abbiamo proclamato, canta la gloria del Creatore. Sua è la terra “e quanto contiene”. Nella concezione del salmista la terra costituisce il fulcro della creazione, ma oggi noi sappiamo che essa non si trova al centro del cosmo. Al Signore appartiene quindi non solo il sistema al cui centro sta il sole e di cui la terra è uno dei pianeti, ma la molteplicità delle galassie che formano l’intero universo.
2. “Del Signore . . . è l’universo e i suoi abitanti” (Sal 24, 1). Anche se la terra non è il centro del cosmo, essa si distingue dagli altri pianeti per il fatto che è diventata la dimora dell’uomo: il luogo della sua nascita, della sua vita e della sua morte. Essa è, pertanto, il suo “universo”. Questo “universo”, che è “l’universo” dell’uomo, appartiene in modo particolare al Signore, perché a Lui appartiene l’uomo che in esso abita. In quale modo l’uomo è di Dio?
3. A questa domanda risponde il salmo insieme con tutta la liturgia dell’odierna solennità. L’uomo è di Dio in quanto è sua immagine; creato a immagine e somiglianza di Dio. L’uomo, dunque, è di Dio in maniera diversa rispetto a tutte le altre creature visibili. Egli è colui che “sale il monte del Signore” (cf. Sal 24, 3). È chiamato, nella stessa profondità del suo essere spirituale, a “cercare Dio”: a “cercare il suo volto” (cf. Sal 24, 6). È chiamato a “stare nel luogo santo del suo Signore” (cf. Sal 24, 3) in ragione della stessa profondità dell’“immagine e somiglianza divina”. L’uomo si inserisce in un processo dinamico e vitale mediante il quale matura passando attraverso le “mani innocenti” e “il cuore puro” (cf. Sal 24, 4), riportando la vittoria sul peccato e su chiunque “pronunzia menzogna e giura a danno del suo prossimo” (cf. Ivi.). In tal modo l’uomo è di Dio. Tra tutte le creature, egli è il destinatario di una particolare benedizione del Creatore.
4. Questa divina benedizione ha raggiunto la sua pienezza in Cristo; in Lui l’uomo appartiene a Dio come a un Padre. Il Verbo eterno, consustanziale con il Padre, diventando uomo, innesta nei cuori degli “uomini-creature” il mistero dell’adozione a figli. “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1 Gv 3, 1). Gesù Cristo – Colui che solo è Santo – apre nella storia dell’uomo il cammino verso la comunione dei santi: “Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1 Gv 3, 3). Il cammino verso la santità, quell’itinerario, cioè, che conduce alla comunità dei santi che vivono in Dio e partecipano della sua stessa Vita, passa attraverso il Vangelo delle Otto Beatitudini.
5. Oggi, la Chiesa è chiamata a sostare contemplando questo grande mistero nell’immensità della creazione. Lo contempla nella storia della terra in quanto dimora delle generazioni umane, di coloro cioè che “cercano il volto di Dio”. Leggiamo nel libro dell’Apocalisse: “Apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti . . . all’Agnello” (Ap 7, 9). Anche noi ci poniamo in piedi davanti all’Agnello. Questo antico cimitero del Verano è uno dei tanti luoghi dove riposano i corpi dei morti. Domani questi luoghi, i cimiteri, saranno meta di un ininterrotto pellegrinaggio dei vivi alle tombe dei morti. Ma quanti di questi luoghi sono ancora sconosciuti! Quanti morti – venuti meno spesso tra terribili sofferenze – non hanno trovato e continuano a non trovare il loro cimitero, il luogo per i funerali e la tomba per l’incontro con le persone care! L’intera storia dell’uomo verrà riassunta, come ogni anno, nella commemorazione di tutti i Fedeli Defunti, che celebreremo domani.
6. Però già oggi, partecipando alla liturgia eucaristica dell’Agnello che toglie i peccati del mondo, desideriamo dire: “Signore mio, tu lo sai”. “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14).
Signore mio, tu lo sai.
Essi appartengono tutti a Te!
Tutti appartengono a Te.
Consegnali tu al Padre.
Amen!