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Sant’Antonio da Padova

paolo e en

Publié dans:immagini sacre |on 13 juin, 2019 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Sant’Antonio di Padova – 10.2.2010

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20100210.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Sant’Antonio di Padova – 10.2.2010

Aula Paolo VI

Mercoledì, 10 febbraio 2010

Cari fratelli e sorelle,

due settimane fa ho presentato la figura di san Francesco di Assisi. Questa mattina vorrei parlare di un altro santo appartenente alla prima generazione dei Frati Minori: Antonio di Padova o, come viene anche chiamato, da Lisbona, riferendosi alla sua città natale. Si tratta di uno dei santi più popolari in tutta la Chiesa Cattolica, venerato non solo a Padova, dove è stata innalzata una splendida Basilica che raccoglie le sue spoglie mortali, ma in tutto il mondo. Sono care ai fedeli le immagini e le statue che lo rappresentano con il giglio, simbolo della sua purezza, o con il Bambino Gesù tra le braccia, a ricordo di una miracolosa apparizione menzionata da alcune fonti letterarie.
Antonio ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della spiritualità francescana, con le sue spiccate doti di intelligenza, di equilibrio, di zelo apostolico e, principalmente, di fervore mistico.
Nacque a Lisbona da una nobile famiglia, intorno al 1195, e fu battezzato con il nome di Fernando. Entrò fra i Canonici che seguivano la regola monastica di sant’Agostino, dapprima nel monastero di San Vincenzo a Lisbona e, successivamente, in quello della Santa Croce a Coimbra, rinomato centro culturale del Portogallo. Si dedicò con interesse e sollecitudine allo studio della Bibbia e dei Padri della Chiesa, acquisendo quella scienza teologica che mise a frutto nell’attività di insegnamento e di predicazione. A Coimbra avvenne l’episodio che impresse una svolta decisiva nella sua vita: qui, nel 1220 furono esposte le reliquie dei primi cinque missionari francescani, che si erano recati in Marocco, dove avevano incontrato il martirio. La loro vicenda fece nascere nel giovane Fernando il desiderio di imitarli e di avanzare nel cammino della perfezione cristiana: egli chiese allora di lasciare i Canonici agostiniani e di diventare Frate Minore. La sua domanda fu accolta e, preso il nome di Antonio, anch’egli partì per il Marocco, ma la Provvidenza divina dispose altrimenti. In seguito a una malattia, fu costretto a rientrare in Italia e, nel 1221, partecipò al famoso “Capitolo delle stuoie” ad Assisi, dove incontrò anche san Francesco. Successivamente, visse per qualche tempo nel totale nascondimento in un convento presso Forlì, nel nord dell’Italia, dove il Signore lo chiamò a un’altra missione. Invitato, per circostanze del tutto casuali, a predicare in occasione di un’ordinazione sacerdotale, mostrò di essere dotato di tale scienza ed eloquenza, che i Superiori lo destinarono alla predicazione. Iniziò così in Italia e in Francia, un’attività apostolica tanto intensa ed efficace da indurre non poche persone che si erano staccate dalla Chiesa a ritornare sui propri passi. Antonio fu anche tra i primi maestri di teologia dei Frati Minori, se non proprio il primo. Iniziò il suo insegnamento a Bologna, con la benedizione di san Francesco, il quale, riconoscendo le virtù di Antonio, gli inviò una breve lettera, che si apriva con queste parole: “Mi piace che insegni teologia ai frati”. Antonio pose le basi della teologia francescana che, coltivata da altre insigni figure di pensatori, avrebbe conosciuto il suo apice con san Bonaventura da Bagnoregio e il beato Duns Scoto.
Diventato Superiore provinciale dei Frati Minori dell’Italia settentrionale, continuò il ministero della predicazione, alternandolo con le mansioni di governo. Concluso l’incarico di Provinciale, si ritirò vicino a Padova, dove già altre volte si era recato. Dopo appena un anno, morì alle porte della Città, il 13 giugno 1231. Padova, che lo aveva accolto con affetto e venerazione in vita, gli tributò per sempre onore e devozione. Lo stesso Papa Gregorio IX, che dopo averlo ascoltato predicare lo aveva definito “Arca del Testamento”, lo canonizzò solo un anno dopo la morte nel 1232, anche in seguito ai miracoli avvenuti per la sua intercessione.
Nell’ultimo periodo di vita, Antonio mise per iscritto due cicli di “Sermoni”, intitolati rispettivamente “Sermoni domenicali” e “Sermoni sui Santi”, destinati ai predicatori e agli insegnanti degli studi teologici dell’Ordine francescano. In questi Sermoni egli commenta i testi della Scrittura presentati dalla Liturgia, utilizzando l’interpretazione patristico-medievale dei quattro sensi, quello letterale o storico, quello allegorico o cristologico, quello tropologico o morale, e quello anagogico, che orienta verso la vita eterna. Oggi si riscopre che questi sensi sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura e che è giusto interpretare la Sacra Scrittura cercando le quattro dimensioni della sua parola. Questi Sermoni di sant’Antonio sono testi teologico-omiletici, che riecheggiano la predicazione viva, in cui Antonio propone un vero e proprio itinerario di vita cristiana. È tanta la ricchezza di insegnamenti spirituali contenuta nei “Sermoni”, che il Venerabile Papa Pio XII, nel 1946, proclamò Antonio Dottore della Chiesa, attribuendogli il titolo di “Dottore evangelico”, perché da tali scritti emerge la freschezza e la bellezza del Vangelo; ancora oggi li possiamo leggere con grande profitto spirituale.
In questi Sermoni sant’Antonio parla della preghiera come di un rapporto di amore, che spinge l’uomo a colloquiare dolcemente con il Signore, creando una gioia ineffabile, che soavemente avvolge l’anima in orazione. Antonio ci ricorda che la preghiera ha bisogno di un’atmosfera di silenzio che non coincide con il distacco dal rumore esterno, ma è esperienza interiore, che mira a rimuovere le distrazioni provocate dalle preoccupazioni dell’anima, creando il silenzio nell’anima stessa. Secondo l’insegnamento di questo insigne Dottore francescano, la preghiera è articolata in quattro atteggiamenti, indispensabili, che, nel latino di Antonio, sono definiti così: obsecratio, oratio, postulatio, gratiarum actio. Potremmo tradurli nel modo seguente: aprire fiduciosamente il proprio cuore a Dio; questo è il primo passo del pregare, non semplicemente cogliere una parola, ma aprire il cuore alla presenza di Dio; poi colloquiare affettuosamente con Lui, vedendolo presente con me; e poi – cosa molto naturale – presentargli i nostri bisogni; infine lodarlo e ringraziarlo.
In questo insegnamento di sant’Antonio sulla preghiera cogliamo uno dei tratti specifici della teologia francescana, di cui egli è stato l’iniziatore, cioè il ruolo assegnato all’amore divino, che entra nella sfera degli affetti, della volontà, del cuore, e che è anche la sorgente da cui sgorga una conoscenza spirituale, che sorpassa ogni conoscenza. Infatti, amando, conosciamo.
Scrive ancora Antonio: “La carità è l’anima della fede, la rende viva; senza l’amore, la fede muore” (Sermones Dominicales et Festivi II, Messaggero, Padova 1979, p. 37).
Soltanto un’anima che prega può compiere progressi nella vita spirituale: è questo l’oggetto privilegiato della predicazione di sant’Antonio. Egli conosce bene i difetti della natura umana, la nostra tendenza a cadere nel peccato, per cui esorta continuamente a combattere l’inclinazione all’avidità, all’orgoglio, all’impurità, e a praticare invece le virtù della povertà e della generosità, dell’umiltà e dell’obbedienza, della castità e della purezza. Agli inizi del XIII secolo, nel contesto della rinascita delle città e del fiorire del commercio, cresceva il numero di persone insensibili alle necessità dei poveri. Per tale motivo, Antonio più volte invita i fedeli a pensare alla vera ricchezza, quella del cuore, che rendendo buoni e misericordiosi, fa accumulare tesori per il Cielo. “O ricchi – così egli esorta – fatevi amici… i poveri, accoglieteli nelle vostre case: saranno poi essi, i poveri, ad accogliervi negli eterni tabernacoli, dove c’è la bellezza della pace, la fiducia della sicurezza, e l’opulenta quiete dell’eterna sazietà” (Ibid., p. 29).
Non è forse questo, cari amici, un insegnamento molto importante anche oggi, quando la crisi finanziaria e i gravi squilibri economici impoveriscono non poche persone, e creano condizioni di miseria? Nella mia Enciclica Caritas in veritate ricordo: “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona” (n. 45).
Antonio, alla scuola di Francesco, mette sempre Cristo al centro della vita e del pensiero, dell’azione e della predicazione. È questo un altro tratto tipico della teologia francescana: il cristocentrismo. Volentieri essa contempla, e invita a contemplare, i misteri dell’umanità del Signore, l’uomo Gesù, in modo particolare, il mistero della Natività, Dio che si è fatto Bambino, si è dato nelle nostre mani: un mistero che suscita sentimenti di amore e di gratitudine verso la bontà divina.
Da una parte la Natività, un punto centrale dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche la visione del Crocifisso ispira ad Antonio pensieri di riconoscenza verso Dio e di stima per la dignità della persona umana, così che tutti, credenti e non credenti, possano trovare nel Crocifisso e nella sua immagine un significato che arricchisce la vita. Scrive sant’Antonio: “Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore… In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce” (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214).
Meditando queste parole possiamo capire meglio l’importanza dell’immagine del Crocifisso per la nostra cultura, per il nostro umanesimo nato dalla fede cristiana. Proprio guardando il Crocifisso vediamo, come dice sant’Antonio, quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo. In nessun altro punto si può capire quanto valga l’uomo, proprio perché Dio ci rende così importanti, ci vede così importanti, da essere, per Lui, degni della sua sofferenza; così tutta la dignità umana appare nello specchio del Crocifisso e lo sguardo verso di Lui è sempre fonte del riconoscimento della dignità umana.
Cari amici, possa Antonio di Padova, tanto venerato dai fedeli, intercedere per la Chiesa intera, e soprattutto per coloro che si dedicano alla predicazione; preghiamo il Signore affinché ci aiuti ad imparare un poco di questa arte da sant’Antonio. I predicatori, traendo ispirazione dal suo esempio, abbiano cura di unire solida e sana dottrina, pietà sincera e fervorosa, incisività nella comunicazione. In quest’anno sacerdotale, preghiamo perché i sacerdoti e i diaconi svolgano con sollecitudine questo ministero di annuncio e di attualizzazione della Parola di Dio ai fedeli, soprattutto attraverso le omelie liturgiche. Siano esse una presentazione efficace dell’eterna bellezza di Cristo, proprio come Antonio raccomandava: “Se predichi Gesù, egli scioglie i cuori duri; se lo invochi, addolcisci le amare tentazioni; se lo pensi, ti illumina il cuore; se lo leggi, egli ti sazia la mente” (Sermones Dominicales et Festivi III, p. 59).

 

Pentecoste

paolo

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CAMMINARE CON CRISTO NELLA STORIA / 2: IN ATTESA DELLO SPIRITO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/1-In_attesa_dello_Spirito.html

(scusate se non ho messo niente finora sulla Pentecoste sono stata Male)

CAMMINARE CON CRISTO NELLA STORIA / 2: IN ATTESA DELLO SPIRITO

Iniziamo le nostre meditazioni sugli Atti, tenendo presente che Luca non perde mai di vista Gesù. gli sa che la vita cristiana e quella comunitaria sono essenzialmente una vita di relazione con il Signore-Risorto, che trasforma con il suo Spirito e rende Suoi testimoni. L’azione dello Spirito, tuttavia ha una premessa. Gli Apostoli come si sono preparati a ricevere l’investitura dello Spirito? Gli Atti raccontano che essi dopo che Gesù fu assunto in cielo, “ritornarono a Gerusalemme dal monte degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato” (At 1,11-12). Il verbo “ritornare” già dice che sono in atteggiamento di ubbidienza a Gesù che ha loro detto di “non allontanarsi dalla città fino a quando non saranno rivestiti di forza dall’alto”, mentre la ripetizione del nome della città dice quanto sia importante che la loro missione inizi dove Gesù ha concluso la sua, mediante il Mistero della sua morte e Risurrezione.
Ma c’è qualcosa di più nel testo citato. Solo da questo testo, infatti, conosciamo il luogo dell’ultimo incontro con Gesù: è il monte degli Ulivi, una località assai evocativa. È qui, infatti, secondo Ez 11,23, che si posa la “gloria del Signore” che lascia Gerusalemme per recarsi tra i deportati ed essere “un santuario in mezzo a loro” (Ez 11,16); ed è ancora su questo monte che il Signore poserà i suoi piedi alla fine dei tempi (Zac 14,4). Anche Gesù un giorno ritornerà. Il fatto poi che si affermi che la distanza tra il monte degli Ulivi e Gerusalemme sia “il cammino permesso in un sabato”, vuole certamente indicarci che la prima comunità era composta da persone che osservavano la Legge di Mosè e, forse, che quel giorno era sabato. Però non è solo questo che la qualifica. La prima comunità, infatti, è…
Una comunità-comunione (1,12-14)
È un tema assai caro a Luca che ora caratterizza la comunità dicendo: “erano tutti perseveranti e concordi nella preghiera” (1,14). Si tratta di una preghiera compiuta nella più perfetta intimità e di un modo di vivere che non tiene conto né dei vincoli di parentela né dei ruoli sociali o qualifiche culturali. Ciò che conta è l’adesione a Gesù e al suo progetto di vita. Questo è il vero e unico fondamento di una comunità-comunione. Ed è solo questo che ancora oggi deve caratterizzare ogni comunità cristiana. Ma perché gli Apostoli sono in preghiera? Per imitare Gesù! Ecco un’altra caratteristica della vita cristiana, anzi la più importante. Per questo non si può mai perdere di vista Gesù. La situazione concreta che la comunità sta vivendo è di attesa del dono dello Spirito Santo. Perciò si comporta come Gesù, che dopo essere stato battezzato, con semplice acqua, da Giovanni, si raccolse in preghiera e su di Lui scese lo Spirito Santo che lo qualificò, come uomo, per la sua missione messianica. Per questo, anche la prima comunità è ora in preghiera, perché come ha loro detto Gesù “fra non molti giorni sarete battezzati in Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni, iniziando da Gerusalemme”.
Ma chi sono questi testimoni? Innanzitutto gli Apostoli: “Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota, Giuda di Giacomo e …” (1,13). È la seconda volta che Luca offre la lista degli Apostoli, dei testimoni oculari della vita di Gesù. La prima volta (Lc 6,14-15) però erano “Dodici”, ora invece come indicano i puntini finali, ne manca uno: sono solo “Undici”, c’è un posto vuoto, manca il nome di Giuda, di colui che tradì il Maestro. Può forse rimanere vuoto il suo posto? No! Perché, secondo Gesù, sono Dodici quelli che debbono sedere in trono nel suo regno “per giudicare le dodici tribù d’Israele” (Lc 22,36). Il posto vuoto suscita quindi un problema che sarà presto risolto.
Gli Apostoli non erano soli: con loro c’era “Maria, la madre di Gesù”. E non poteva mancare perché è colei che, “adombrata dallo Spirito Santo, dalla Potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35) ha dato alla luce il Messia; è colei che è “beata perché ha creduto…”, come disse Elisabetta (Lc 1,45): per questo ora siede tra i credenti; è colei che nel Magnificat ha cantato le grandi opere di Dio, come faranno tra poco i discepoli (At 2,11). Perciò, Essa, esperta di Spirito Santo, non poteva mancare nella prima comunità: è la madre di Gesù. Poi ci sono alcune donne, forse quelle che hanno accompagnato Gesù fin dalla Galilea (Lc 8,1-3); e infine i “fratelli”, cioè quelli della parentela di Gesù, una volta increduli (Gv 7,5), ora credenti.

C’èra un posto vuoto (1,15-26)
Non poteva rimanere vuoto, ma come colmarlo? Luca ne approfitta per continuare il tema “comunità”. Quando una comunità cristiana o un cristiano è di fronte a un problema cruciale, deve raccogliersi nell’ascolto della Parola di Dio e nella preghiera. Qui l’iniziativa dell’ascolto la prende Pietro che, alzatosi in mezzo ai “fratelli” (tali sono i cristiani), dice: “È necessario che si compia ciò che fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda che fece da guida a quelli che arrestarono Gesù”.
Ci si aspetterebbe subito la citazione della Scrittura e invece ecco Pietro che aiuta i “fratelli” a riflettere, quasi a farsi un esame di coscienza pensando a Giuda: “Era uno dei nostri e ha avuto la sua parte nel nostro servizio”. Cioè: era uno dei Dodici che ha fatto arrestare Gesù; uno di noi che ha tradito Gesù. Forse pensa al pericolo in cui tutti si sono trovati “durante la Passione”: la tentazione di abbandonare il Maestro è stata forte.
La meditazione continua con la mano di Luca che parla della triste fine di Giuda. Lo fa citando una leggenda “nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme”, ma ce n’erano molte assai diverse. Luca ne sceglie una e non gli interessa che sia vero o no quello che racconta; a lui interessa infondere nel lettore un senso di orrore in modo che senta quanto sia orribile la sorte di un traditore, di un uomo iniquo, di uno che abbandonò il ruolo che Gesù gli aveva affidato nella sua Chiesa: non ha più voluto essere uno dei “Dodici”.
Ebbene è questo evento che realizza quanto dice lo Spirito Santo nella Scrittura: “La sua dimora diventi deserta” (Sal 69,25). Il salmo dice : “la loro dimora”, perché parla di tutti gli iniqui; ora però lo Spirito Santo intende riferirsi al solo Giuda e perciò dice “la sua dimora”. Solo che ha lasciato vuoto un posto importante nella comunità, un posto che non può rimanere vuoto e perciò, citando un altro salmo, si dice (traduciamo con più aderenza il testo): “Un altro subentri nel suo incarico di supervisore”; traslitterando: “nell’episcopato”.
“Un altro”, ma chi può assumersi un tale compito? Pietro ne enuncia con chiarezza i criteri: dev’essere uno che “è stato con Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu tolto a noi ed elevato in cielo”. Cioè, solo un testimone oculare della vita terrena di Gesù e di Gesù-Risorto può diventare testimone della sua Risurrezione. Tra i presenti (circa 120) ce n’erano due: “Giuseppe, soprannominato Giusto, e Mattia”. La parola “Giusto” direbbe: è questo che dev’essere scelto! Ma i discepoli non se la sentono di essere loro a scegliere. Essi, gli Undici, sono stati scelti dal Signore; è quindi logico che anche il “Dodicesimo” lo sia. Perciò eccoli affidarsi alla preghiera: “Tu, Signore, mostraci quale di questi due hai scelto”. Gettarono la sorte e questa cadde su Mattia che subito fu aggregato agli Undici.

Pentecoste (2,1-13)
“Finalmente giunse al suo compimento il cinquantesimo (= pentecoste) giorno”. Lasciateci tradurre così, e anche dire: “Finalmente giunse quel giorno”. C’è forse un modo migliore per esprimere che la parola “compimento” implica il senso di un’intensa attesa? Di una lunga attesa, iniziata con il profeta Ezechiele (36,27)? E per i discepoli di un’imminente attesa? Sono ancora lì, tutti riuniti insieme e ora sentono che è giunto il giorno promesso da Gesù, il giorno in cui saranno battezzati in Spirito Santo, il giorno che li renderà suoi testimoni e che darà loro la possibilità di confrontarsi con le “dodici tribù d’Israele”. È il giorno in cui ha inizio la Chiesa.
Se la Pentecoste ebraica ricordava a Israele il giorno in cui fu data la legge (Es 19,16-19; 20,1-17), la Pentecoste cristiana ricorda il giorno in cui viene data la “legge dello Spirito”, della “Nuova Alleanza” (Ger 31,31). Per questo i cristiani continuano a vivere la loro esistenza facendo memoria di questo inizio storico e rileggendo con gioia quello che avvenne quel giorno: “Si trovavano tutti insieme quando all’improvviso venne dal cielo un rombo come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.
La terminologia riecheggia la teofania del Sinai (Es 19,8.16-18). Là e qui si afferma che erano tutti insieme, cioè uniti e concordi senza discriminazioni o esclusivismi, tutti affascinati e sbigottiti dall’azione sovrana e potente di Dio che si visibilizza loro con i simboli del vento e del fuoco. Il vento rappresenta la forza dello Spirito che soffia dove vuole (Gv 3,8); il fuoco indica la forza trasformante dello Spirito che si visibilizza in tante lingue di fuoco. Lingue diversificate perché lo Spirito abilita gli apostoli a parlare “altre lingue”, le lingue dei popoli a cui si deve annunciare la salvezza. Una cosa simile avvenne anche al Sinai. Secondo la tradizione giudaica, però, non ci fu solo un “tuono” (= voce di Dio), ma dei “tuoni” perché la voce di Dio si divise in più lingue, 70, in modo che tutte le nazioni potessero comprendere.
Meditando ci accorgiamo che un senso di universalità pervade tutto il testo, subito confermato dalla lunga lista dei popoli appartenenti a “ogni nazione che è sotto il cielo” (v. 5). C’era gente di ogni nazione quel giorno a Gerusalemme e tutti, appena udirono il fragore del vento, si radunarono e furono sbigottiti perché ciascuno sentiva gli apostoli parlare nella propria lingua e annunziare nel suo dialetto “le grandi opere di Dio”. Chi legge sente che il racconto sprigiona un entusiasmo indescrivibile e forse è così perché Luca a cinquant’anni di distanza sente che quel giorno “il seme della Parola di salvezza” è stato seminato nei cuori di tanti che poi l’hanno portato lontano e l’hanno fatto fruttificare, riunendo gente di ogni nazione in Cristo e in comunione tra loro. La parola dell’annuncio, infatti, si adatta e si incultura in ogni popolo e annulla per sempre quanto è avvenuto a Babele. Anche oggi, alcuni vogliono standardizzare la vita dei popoli, e annullare ogni diversità. Lo Spirito invece è una forza unificatrice e rispettosa di ogni cultura e di ogni differenza.
Significativo è il fatto che i popoli siano indicati con il nome del loro territorio, con una variante: “visitatori di Roma che risiedono qui, sia giudei sia convertiti al giudaismo”. Con questa espressione Luca vuole indicare che il cristianesimo, forse, è giunto a Roma prima ancora che arrivasse un Apostolo, grazie a questi romani presenti a Gerusalemme.
Ma osserviamo attentamente l’atteggiamento dei presenti. Il testo dice che “tutti udivano gli Apostoli annunciare le grandi opere di Dio”. Ma come reagiscono all’annuncio? Alcuni dicendo: “Che significa questo?”, altri invece ridendo, esclamano: “Sono pieni di vino dolce”, cioè: sono cose incomprensibili. Ebbene queste espressioni dicono che non basta l’annuncio: è necessaria la catechesi. Ed è quello che Pietro sta per fare e che noi continueremo a costatare negli Atti e che possiamo costatare nella storia della Chiesa: il bisogno di una catechesi che evidenzi l’azione dello Spirito distruttore di ogni “Babele” e creatore di comunione in ogni comunità e tra i popoli.

Preghiamo
O Padre, che hai effuso l’amore nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo, fa’ che io sappia ogni giorno unirmi alla preghiera della Chiesa che in ogni Eucaristia invoca la pienezza dello Spirito Santo perché formiamo un solo corpo e un solo spirito. Concedi che questa preghiera crei in noi l’impegno ad essere nella società portatori di riconciliazione e di pace. Aiutaci a collaborare con lo Spirito Santo che vuole formare di tutti i popoli una sola famiglia nel rispetto di ogni persona e cultura. Amen!

Mario Galizzi SDB

Publié dans:PENTECOSTE |on 12 juin, 2019 |Pas de commentaires »

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paolo

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BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Il grande canto della « Legge » Salmo 119 (118)

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BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Il grande canto della « Legge » Salmo 119 (118)

Piazza San Pietro

Mercoledì, 9 novembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle passate catechesi abbiamo meditato su alcuni Salmi che sono esempi dei generi tipici della preghiera: lamento, fiducia, lode. Nella catechesi di oggi vorrei soffermarmi sul Salmo 119 secondo la tradizione ebraica, 118 secondo quella greco-latina: un Salmo molto particolare, unico nel suo genere. Anzitutto lo è per la sua lunghezza: è composto infatti da 176 versetti divisi in 22 strofe di otto versetti ciascuna. Poi ha la peculiarità di essere un “acrostico alfabetico”: è costruito, cioè, secondo l’alfabeto ebraico, che è composto di 22 lettere. Ogni strofa corrisponde ad una lettera di quell’alfabeto, e con tale lettera inizia la prima parola degli otto versetti della strofa. Si tratta di una costruzione letteraria originale e molto impegnativa, in cui l’autore del Salmo ha dovuto dispiegare tutta la sua bravura.
Ma ciò che per noi è più importante è la tematica centrale di questo Salmo: si tratta infatti di un imponente e solenne canto sulla Torah del Signore, cioè sulla sua Legge, termine che, nella sua accezione più ampia e completa, va compreso come insegnamento, istruzione, direttiva di vita; la Torah è rivelazione, è Parola di Dio che interpella l’uomo e ne provoca la risposta di obbedienza fiduciosa e di amore generoso. E di amore per la Parola di Dio è tutto pervaso questo Salmo, che ne celebra la bellezza, la forza salvifica, la capacità di donare gioia e vita. Perché la Legge divina non è giogo pesante di schiavitù, ma dono di grazia che fa liberi e porta alla felicità. «Nei tuoi decreti è la mia delizia, non dimenticherò la tua parola», afferma il Salmista (v. 16); e poi: «Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, perché in essi è la mia felicità» (v. 35); e ancora: «Quanto amo la tua legge! La medito tutto il giorno» (v. 97). La Legge del Signore, la sua Parola, è il centro della vita dell’orante; in essa egli trova consolazione, ne fa oggetto di meditazione, la conserva nel suo cuore: «Ripongo nel cuore la tua promessa per non peccare contro di te» (v. 11), è questo il segreto della felicità del Salmista; e poi ancora: «Gli orgogliosi mi hanno coperto di menzogne, ma io con tutto il cuore custodisco i tuoi precetti» (v. 69).
La fedeltà del Salmista nasce dall’ascolto della Parola, da custodire nell’intimo, meditandola e amandola, proprio come Maria, che «custodiva, meditandole nel suo cuore» le parole che le erano state rivolte e gli eventi meravigliosi in cui Dio si rivelava, chiedendo il suo assenso di fede (cfr Lc 2,19.51). E se il nostro Salmo inizia nei primi versetti proclamando “beato” «chi cammina nella Legge del Signore» (v. 1b) e «chi custodisce i suoi insegnamenti» (v. 2a), è ancora la Vergine Maria che porta a compimento la perfetta figura del credente descritto dal Salmista. E’ Lei, infatti, la vera “beata”, proclamata tale da Elisabetta perché «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45), ed è a Lei e alla sua fede che Gesù stesso dà testimonianza quando, alla donna che aveva gridato «Beato il grembo che ti ha portato», risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Certo, Maria è beata perché il suo grembo ha portato il Salvatore, ma soprattutto perché ha accolto l’annuncio di Dio, perché è stata attenta e amorosa custode della sua Parola.
Il Salmo 119 è dunque tutto intessuto intorno a questa Parola di vita e di beatitudine. Se il suo tema centrale è la “Parola” e la “Legge” del Signore, accanto a questi termini ricorrono in quasi tutti i versetti dei sinonimi come “precetti”, “decreti”, “comandi”, “insegnamenti”, “promessa”, “giudizi”; e poi tanti verbi ad essi correlati come osservare, custodire, comprendere, conoscere, amare, meditare, vivere. Tutto l’alfabeto si snoda attraverso le 22 strofe di questo Salmo, e anche tutto il vocabolario del rapporto fiducioso del credente con Dio; vi troviamo la lode, il ringraziamento, la fiducia, ma anche la supplica e il lamento, sempre però pervasi dalla certezza della grazia divina e della potenza della Parola di Dio. Anche i versetti maggiormente segnati dal dolore e dal senso di buio rimangono aperti alla speranza e sono permeati di fede. «La mia vita è incollata alla polvere: fammi vivere secondo la tua parola» (v. 25), prega fiducioso il Salmista; «Io sono come un otre esposto al fumo, non dimentico i tuoi decreti» (v. 83), è il grido di credente. La sua fedeltà, anche se messa alla prova, trova forza nella Parola del Signore: «A chi mi insulta darò una risposta, perché ho fiducia nella tua parola» (v. 42), egli afferma con fermezza; e anche davanti alla prospettiva angosciante della morte, i comandi del Signore sono il suo punto di riferimento e la sua speranza di vittoria: «Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra, ma io non ho abbandonato i tuoi precetti» (v. 87).
La legge divina, oggetto dell’amore appassionato del Salmista e di ogni credente, è fonte di vita. Il desiderio di comprenderla, di osservarla, di orientare ad essa tutto il proprio essere è la caratteristica dell’uomo giusto e fedele al Signore, che la «medita giorno e notte», come recita il Salmo 1 (v. 2); è una legge, quella di Dio, da tenere «sul cuore», come dice il ben noto testo dello Shema nel Deuteronomio:
Ascolta, Israele … Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai (6,4.6-7).
Centro dell’esistenza, la Legge di Dio chiede l’ascolto del cuore, un ascolto fatto di obbedienza non servile, ma filiale, fiduciosa, consapevole. L’ascolto della Parola è incontro personale con il Signore della vita, un incontro che deve tradursi in scelte concrete e diventare cammino e sequela. Quando gli viene chiesto cosa fare per avere la vita eterna, Gesù addita la strada dell’osservanza della Legge, ma indicando come fare per portarla a completezza: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21 e par.). Il compimento della Legge è seguire Gesù, andare sulla strada di Gesù, in compagnia di Gesù.
Il Salmo 119 ci porta dunque all’incontro con il Signore e ci orienta verso il Vangelo. C’è in esso un versetto su cui vorrei ora soffermarmi: è il v. 57: «La mia parte è il Signore; ho deciso di osservare le tue parole». Anche in altri Salmi l’orante afferma che il Signore è la sua “parte”, la sua eredità: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice», recita il Salmo 16 (v. 5a), «Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre» è la proclamazione del fedele nel Salmo 73 (v. 23 b), e ancora, nel Salmo 142, il Salmista grida al Signore: «Sei tu il mio rifugio, sei tu la mia eredità nella terra dei viventi» (v. 6b).
Questo termine “parte” evoca l’evento della ripartizione della terra promessa tra le tribù d’Israele, quando ai Leviti non venne assegnata alcuna porzione del territorio, perché la loro “parte” era il Signore stesso. Due testi del Pentateuco sono espliciti a tale riguardo, utilizzando il termine in questione: «Il Signore disse ad Aronne: “Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti”», così dichiara il Libro dei Numeri (18,20), e il Deuteronomio ribadisce: «Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come gli aveva detto il Signore, tuo Dio» (Dt 10,9; cfr. Dt 18,2; Gs 13,33; Ez 44,28).
I sacerdoti, appartenenti alla tribù di Levi, non possono essere proprietari di terre nel Paese che Dio donava in eredità al suo popolo portando a compimento la promessa fatta ad Abramo (cfr. Gen 12,1-7). Il possesso della terra, elemento fondamentale di stabilità e di possibilità di sopravvivenza, era segno di benedizione, perché implicava la possibilità di costruire una casa, di crescervi dei figli, di coltivare i campi e di vivere dei frutti del suolo. Ebbene i Leviti, mediatori del sacro e della benedizione divina, non possono possedere, come gli altri israeliti, questo segno esteriore della benedizione e questa fonte di sussistenza. Interamente donati al Signore, devono vivere di Lui solo, abbandonati al suo amore provvidente e alla generosità dei fratelli, senza avere eredità perché Dio è la loro parte di eredità, Dio è la loro terra, che li fa vivere in pienezza.
E ora, l’orante del Salmo 119 applica a sé questa realtà: «La mia parte è il Signore». Il suo amore per Dio e per la sua Parola lo porta alla scelta radicale di avere il Signore come unico bene e anche di custodire le sue parole come dono prezioso, più pregiato di ogni eredità, e di ogni possesso terreno. Il nostro versetto infatti ha la possibilità di una doppia traduzione e potrebbe essere reso pure nel modo seguente: «La mia parte, Signore, io ho detto, è di custodire le tue parole». Le due traduzioni non si contraddicono, ma anzi si completano a vicenda: il Salmista sta affermando che la sua parte è il Signore ma che anche custodire le parole divine è la sua eredità, come dirà poi nel v. 111: «Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, perché sono essi la gioia del mio cuore». È questa la felicità del Salmista: a lui, come ai Leviti, è stata data come porzione di eredità la Parola di Dio.
Carissimi fratelli e sorelle, questi versetti sono di grande importanza anche oggi per tutti noi. Innanzitutto per i sacerdoti, chiamati a vivere solo del Signore e della sua Parola, senza altre sicurezze, avendo Lui come unico bene e unica fonte di vera vita. In questa luce si comprende la libera scelta del celibato per il Regno dei cieli da riscoprire nella sua bellezza e forza. Ma questi versetti sono importanti anche per tutti i fedeli, popolo di Dio appartenente a Lui solo, “regno di sacerdoti” per il Signore (cfr. 1Pt 2,9; Ap 1,6; 5,10), chiamati alla radicalità del Vangelo, testimoni della vita portata dal Cristo, nuovo e definitivo “Sommo Sacerdote” che si è offerto in sacrificio per la salvezza del mondo (cfr. Ebr 2,17; 4,14-16; 5,5-10; 9,11ss). Il Signore e la sua Parola: questi sono la nostra “terra”, in cui vivere nella comunione e nella gioia.
Lasciamo dunque che il Signore ci metta nel cuore questo amore per la sua Parola, e ci doni di avere sempre al centro della nostra esistenza Lui e la sua santa volontà. Chiediamo che la nostra preghiera e tutta la nostra vita siano illuminate dalla Parola di Dio, lampada per i nostri passi e luce per il nostro cammino, come dice il Salmo 119 (cfr v. 105), così che il nostro andare sia sicuro, nella terra degli uomini. E Maria, che ha accolto e generato la Parola, ci sia di guida e di conforto, stella polare che indica la via della felicità.
Allora anche noi potremo gioire nella nostra preghiera, come l’orante del Salmo 16, dei doni inaspettati del Signore e dell’immeritata eredità che ci è toccata in sorte:

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice …
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi:
la mia eredità è stupenda (Sal 16,5.6).

 

SS Trinità

paolo ss trinità bizantina

Publié dans:immagini sacre |on 5 juin, 2019 |Pas de commentaires »
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