IL MANTELLO DI ELÌA – BRANO BIBLICO: 1RE 19,16.19-21 (è una Omelia)
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IL MANTELLO DI ELÌA – BRANO BIBLICO: 1RE 19,16.19-21 (è una Omelia)
don Marco Pratesi
XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (01/07/2007)
La missione di Elia, che si svolge nel regno di Israele (il regno del nord) nel IX sec. a. C., è ricondurre Israele al Signore distogliendolo dal culto degl’idoli. Duramente perseguitato, la sua attività riprende slancio dopo una forte esperienza di Dio sul monte Oreb (1Re 19,9-14). Tra le altre cose, Dio gli mostra chi dovrà continuare la sua missione: Eliseo.
Questi è un agricoltore benestante, ara « con dodici paia di buoi ». In questo particolare è probabilmente da ravvisare un messaggio. Egli ara, prepara la terra a ricevere il seme: la sua nuova missione consisterà nell’arare una nuova terra, che è Israele, disponendola a ricevere un nuovo seme, che è la Parola. È come se Elia gli dicesse: « seguimi, ti farò aratore del popolo ». Le dodici paia di buoi esprimono la sua condizione di abbondanza, ma probabilmente alludono anche alla ricchezza della sua futura azione profetica.
La sua chiamata non avviene mediante visioni o teofanie, passa attraverso il semplice ma potente gesto di Elia, che gli butta addosso il mantello.
Con questo mantello Elia si era coperto il volto al passaggio del Signore sull’Oreb (1Re 19,13). Con esso Elia avrebbe più tardi aperto le acque del Giordano (2Re 2,8). Giunto il momento della sua misteriosa ascensione al cielo, lo lascia ad Eliseo, che a sua volta ripeterà subito dopo il prodigio del passaggio del fiume (2Re 2,13-14). Il mantello simboleggia dunque il ruolo, la missione e la forza di Elia, che diventano di Eliseo. Gettandogli addosso il mantello, Elia investe Eliseo della propria missione. In effetti non si parla qui di « unzione », come invece voleva il comando divino del v. 16: questo gesto ne tiene il posto. Per una qualche analogia, si può pensare al gesto profetico col quale Paolo VI nel 1972, durante una visita a Venezia, impose la propria stola sulle spalle del patriarca Luciani, il futuro Giovanni Paolo I.
Mentre Elia getta il mantello non si ferma nemmeno, quasi a sottolineare l’urgenza della sequela. Eliseo risponde prontamente correndo dietro a Elia, lo rincorre, chiedendogli solo di potersi congedare dai suoi.
La risposta di Elia non è del tutto chiara; ribadisce comunque l’importanza della chiamata e accorda il permesso.
Oramai Eliseo è pienamente volto verso la sua nuova strada, taglia i ponti, non arerà più, seguirà Elia: due buoi e l’aratro servono per la festa del congedo. Quello che era la sua vita è offerto a Dio (si tratta probabilmente di un sacrificio) e diventa per gli altri: è la sua nuova vita.
Il racconto è scarno ma dice molte cose. La chiamata (che il vangelo di oggi ci invita a leggere come chiamata al discepolato) vi appare come un essere rivestiti di un nuovo abito, assumere una nuova identità. Ma Eliseo non va nel guardaroba a scegliere: non solo non sceglie lui cosa indossare, ma mette addirittura il vestito di un altro. Non sembra una spersonalizzazione alienante? Eppure la struttura della vita cristiana (e ancor prima della vita umana) è questa. La scelta di essere discepoli è primariamente di Dio, la nostra scelta viene solo in seconda battuta, è una risposta: « non voi avete scelto me, io ho scelto voi » (Gv 15,16). Noi siamo « eletti da Dio » (1Ts 1,4). Del resto, questo vale anche per il semplice fatto di esistere: non ci siamo chiamati all’esistenza da soli, la nostra risposta alla vita viene dopo.
Noi non stabiliamo neanche che cosa questo discepolato debba essere, non siamo noi a deciderne la struttura e le leggi. Esso è qualcosa che è dato, e che dobbiamo semplicemente assumere, accogliere, di cui dobbiamo rivestirci. Anche qui, la cosa vale per la semplice esistenza umana, che non possiamo strutturare a nostro arbitrio: non è vero che « il mondo è quello che uno pensa che sia », come oggi si pretende.
Qui, però, emerge una differenza tra il discepolo di Elia e quello di Cristo. Eliseo indosserà il mantello del suo maestro, il cristiano indosserà il suo stesso maestro (Gal 3,27). La sequela cristiana è cioè adesione piena alla persona del maestro, e non solo alla sua missione o al suo insegnamento, secondo quella pretesa scandalizzante che è caratteristica del Cristo: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,6); per cui alla fine il discepolo ben riuscito potrà dire: « non vivo più io, ma Cristo in me » (Gal 2,20).
È questa alienazione, mortificazione della propria identità, avvilimento della persona umana, follia? Non sono in pochi a pensarlo. Eppure l’uomo non può vivere che così, centrato non su se stesso, ma su un Altro: « Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri » (Rm 13,14). È questa la via della vita.
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