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LA VITA È IL MANTELLO DI DIO (è un omelia non di questo tempo liturgico)

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LA VITA È IL MANTELLO DI DIO

XIII Domenica del Tempo Ordinario, 27 giugno 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 25 giugno 2010 (ZENIT.org).- “Partito di lì, Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro ad Elia, dicendogli: “Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò”. Elia disse: “Va’ e torna, poiché sai che cosa ho fatto per te”. Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio” (1Re 19,16b.19-21).
“Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri.(…) Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,1.13-18).
“(…) Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,51-62).
La liturgia di questa XIII Domenica del T. O. ci fa subito incontrare una parola alquanto comune, una parola chiave, un filo conduttore con cui lo Spirito Santo ha ricamato il tessuto dei testi proposti: la parola “mantello” (1Re 19,19). Il suo significato biblico è illustrato dal racconto della vocazione di Eliseo, nella prima Lettura.
La storia di Eliseo, infatti, comincia con un mantello gettato a sorpresa su di lui da parte del profeta Elia, in cammino lungo la strada che costeggia il campo che egli sta arando con ben ventiquattro buoi (il numero esagerato indica che Eliseo è un contadino benestante).
Quello di Elia è un gesto simbolico che sta a significare l’irreversibile chiamata di Dio:“Il mantello è simbolo del carisma profetico; esso è gettato sulle spalle dell’eletto in una specie di investitura divina” (G. Ravasi).
Ha così inizio la nuova vita di Eliseo al servizio del Signore e del profeta Elia.
Salutati parenti ed amici con un banchetto d’addio, Eliseo segue fedelmente Elia fino al giorno della sua misteriosa dipartita da questa vita, quando sarà trasportato in alto da un carro di fuoco. A questo punto, caduto per terra dal carro, ricompare il mantello, che Eliseo raccoglie subito gridando “Padre mio, padre mio..” (2Re 2,11-13). Lo spirito del Maestro prende allora definitivo possesso del discepolo, come da padre a figlio primogenito.
La brusca investitura profetica di Eliseo è così commentata dal card. Martini: “nessuna parola, nessun tentativo di convinzione, ma solo un gesto violento dal significato chiarissimo. Il mantello è simbolo della persona e, in qualche modo, anche dei suoi diritti. Gettare il mantello su qualcuno costituisce un segno di acquisto, di desiderio di alleanza” (C.M.M., “Il Dio vivente, riflessioni sul profeta Elia”, p.118).
Simbolo della persona, il mantello fa pensare anche al dono-chiamata della vita, che ognuno riceve da Dio senza venire interpellato. Ciò non toglie che, come il mantello di Elia, anche la vita sia un dono fatto alla libertà dell’uomo, un dono “gettato” su di lui per essere accolto e custodito come il più prezioso di tutti i doni ed il più necessario ed impegnativo dei compiti, se davvero l’uomo vuole vivere felice e realizzare se stesso nell’amore. E’ quanto suggerisce oggi Paolo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri.(…) Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” (Gal 5,13).
L’ironia fin troppo realistica di Paolo non suona esagerata, se pensiamo non solo alla nostra situazione sociale e politica, ma anche alle tristissime incomprensioni e divisioni tra coloro che un unico carisma o una comune vocazione (un solo mantello!) ha costituito fratelli ed operai del regno di Dio. Occorre precisare che nel vocabolario dell’Apostolo, “carne” significa genericamente ogni comportamento dettato da un sentire egocentrico e disordinato. Atteggiamento, questo, che non scaturisce da quella vera libertà che è la capacità di amare nella verità al modo di uno stile di accoglienza, di ascolto senza pregiudizi e nel dominio di sè.
Un esempio “carnale” di essere e di agire, lo da’ oggi la reazione istintiva di Giacomo e Giovanni, contrariati dal rifiuto opposto a Gesù dai Samaritani: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). I due discepoli avevano oggettivamente ragione, ma Gesù “si voltò e li rimproverò” (Lc 9,55).
La ricetta di Paolo per discernere e dominare ogni genere di passione disordinata, è semplice ed efficace: “Vi dico, dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. (…) Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge” (Gal 5,16.18).
“La forza del peccato è la Legge”, scrive altrove Paolo (1Cor 15,56); ed egli per primo sperimenta quanto doloroso sia il peccato di divisione dai suoi fratelli ebrei, tanto zelanti per l’osservanza della Legge da voler uccidere lui che ne va proclamando il compimento in Gesù Cristo.
Ma che significa camminare “secondo lo Spirito”? Vuol dire “al passo” dello Spirito, seguendo umilmente il cammino e gli esempi del Signore per entrare nello spazio immenso della sua dolce e trasformante amicizia. Una chiamata assoluta, tanto affascinante quanto esigente, a giudicare dalle parole di Gesù a colui che chiedeva solo di congedarsi da quelli di casa propria: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,60).
Una simile radicalità non è disumana, ma intrinseca e necessaria alla missione profetica. Questa, per altro, gode della legge pedagogica della gradualità, come fa intendere la vicenda stessa di Eliseo con la dinamica misteriosa del mantello, in un primo tempo gettatogli sulle spalle da Elia, ma poi “recuperato” a terra dallo stesso Eliseo nel momento del congedo definitivo da lui, come se in precedenza glielo avesse restituito.
Infatti, “si ha l’impressione, pur se il testo non lo dice, che Eliseo abbia ridato il mantello al grande maestro, per indicare che deve prima imparare, deve prima assimilare i suoi insegnamenti di vita. Di fatto, questo mantello sarà consegnato definitivamente ad Eliseo nel momento del rapimento in cielo di Elia.” (C.M.M., id., p. 120).
E’ quest’ultima spiegazione pedagogica che ci consente di tornare al mantello come simbolo della persona e della vita, per osservare che la pienezza della verità sulla vita umana, da comunicare gradualmente al passo di chi ascolta, è comunque e per tutti solo quella rivelata dalla Parola di Gesù. Ne farà esperienza certa chiunque voglia avvicinarsi a Lui con la fede umile ed audace di quella donna malata, che “udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” (Mc 5,25-29).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Re Davide

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 22 avril, 2019 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – UDIENZA – SALM0 143, 1-8 (2006)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20060111.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA – SALM0 143, 1-8 (2006)

UDIENZA GENERALE

Aula – Paolo VI
Mercoledì, 11 gennaio 2006

Salmo 143,1-8
Preghiera del Re per la vittoria e per la pace
Vespri – Giovedì 4a settimana

1. Il nostro itinerario nel Salterio usato dalla Liturgia dei Vespri giunge ora a un inno regale, il Salmo 143, del quale è stata proclamata la prima parte: la Liturgia, infatti, propone questo canto suddividendolo in due momenti.
La prima parte (cfr vv. 1-8) rivela in modo netto la caratteristica letteraria di questa composizione: il Salmista ricorre a citazioni di altri testi salmici articolandoli in un nuovo progetto di canto e di preghiera.
Proprio perché il Salmo è di epoca successiva, è facile pensare che il re che viene esaltato abbia ormai i contorni non più del sovrano davidico, essendo la regalità ebraica conclusa con l’esilio babilonese del VI secolo a.C., bensì egli rappresenti la figura luminosa e gloriosa del Messia, la cui vittoria non è più un evento bellico-politico, ma un intervento di liberazione contro il male. Al « messia » – vocabolo ebraico che indica il « consacrato », come lo era il sovrano – subentra, così, il « Messia » per eccellenza, che, nella rilettura cristiana, ha il volto di Gesù Cristo, « figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1, 1).
2. L’inno si apre con una benedizione, ossia con un’esclamazione di lode rivolta al Signore, celebrato con una piccola litania di titoli salvifici: egli è la roccia sicura e stabile, è la grazia amorosa, è la fortezza protetta, il rifugio difensivo, la liberazione, lo scudo che tiene lontano ogni assalto del male (cfr Sal 143, 1-2). C’è anche l’immagine marziale del Dio che addestra alla lotta il suo fedele così che sappia affrontare le ostilità dell’ambiente, le potenze oscure del mondo.
Davanti al Signore onnipotente l’orante, pur nella sua dignità regale, si sente debole e fragile. Egli emette, allora, una professione di umiltà che è formulata, come si diceva, con le parole dei Salmi 8 e 38. Egli, sente, infatti, di essere « come un soffio », simile a un’ombra passeggera, esile e inconsistente, immerso nel flusso del tempo che scorre, segnato dal limite che è proprio della creatura (cfr Sal 143, 4).
3. Ecco, allora, la domanda: perché Dio si cura e si dà pensiero di questa creatura così misera e caduca? A questo interrogativo (cfr v. 3) risponde la grandiosa irruzione divina, la cosiddetta teofania che è accompagnata da un corteo di elementi cosmici e di eventi storici, orientati a celebrare la trascendenza del Re supremo dell’essere, dell’universo e della storia.
Ecco monti che fumano in eruzioni vulcaniche (cfr v. 5), folgori che sono simili a saette che disperdono i malvagi (cfr v. 6), ecco le « grandi acque » oceaniche che sono simbolo del caos dal quale è però salvato il re ad opera della stessa mano divina (cfr v. 7). Sullo sfondo rimangono gli empi che dicono « menzogne » e « giurano il falso » (cfr vv. 7-8), una raffigurazione concreta, secondo lo stile semitico, dell’idolatria, della perversione morale, del male che veramente si oppone a Dio e al suo fedele.
4. Noi ora, per la nostra meditazione, ci soffermeremo inizialmente sulla professione di umiltà che il Salmista compie e ci affideremo alle parole di Origene, il cui commento al nostro testo è giunto a noi nella versione latina di san Girolamo. « Il Salmista parla della fragilità del corpo e della condizione umana », perché « quanto alla condizione umana, l’uomo è un nulla. « Vanità delle vanità, tutto è vanità », disse l’Ecclesiaste ». Ma torna allora la domanda stupita e riconoscente: «  »Signore, che cos’è l’uomo per esserti manifestato a lui? »… Grande felicità per l’uomo, conoscere il proprio Creatore. In questo noi ci differenziamo dalle fiere e dagli altri animali, perché sappiamo di avere il nostro Creatore, mentre essi non lo sanno ». Vale la pena meditare un po’ queste parole di Origene, che vede la differenza fondamentale tra l’uomo e gli altri animali nel fatto che l’uomo è capace di conoscere Dio, il suo Creatore, che l’uomo è capace della verità, capace di una conoscenza che diventa relazione, amicizia. È importante, nel nostro tempo, che noi non dimentichiamo Dio, insieme con tutte le altre conoscenze che abbiamo acquisito nel frattempo, e sono tante! Esse diventano tutte problematiche, a volte pericolose, se manca la conoscenza fondamentale che dà senso e orientamento a tutto: la conoscenza di Dio Creatore.
Ritorniamo a Origene. Egli dice: « Non potrai salvare questa miseria che è l’uomo, se tu stesso non la prendi su di te. « Signore, piega il tuo cielo e scendi ». La tua pecora sbandata non potrà guarire se non sarà messa sulle tue spalle… Queste parole sono rivolte al Figlio: « Signore, piega il tuo cielo e scendi »… Sei disceso, hai abbassato i cieli e hai steso la tua mano dall’alto, e ti sei degnato di prendere su di te la carne dell’uomo, e molti credettero in te » (Origene – Gerolamo, 74 omelie sul libro dei Salmi, Milano 1993, pp. 512-515). Per noi cristiani Dio non è più, come nella filosofia precedente il cristianesimo, una ipotesi ma è una realtà, perché Dio « ha piegato il cielo ed è sceso ». Il cielo è Egli stesso, ed è sceso in mezzo a noi. Giustamente Origene vede nella parabola della pecorella smarrita, che il pastore prende sulle sue spalle, la parabola dell’Incarnazione di Dio. Sì, nell’Incarnazione Egli è sceso e ha preso sulle sue spalle la nostra carne, noi stessi. Così la conoscenza di Dio è divenuta realtà, è divenuta amicizia, comunione. Ringraziamo il Signore perché « ha piegato il suo cielo ed è sceso », ha preso sulle sue spalle la nostra carne e ci porta sulle strade della nostra vita.
Il Salmo, partito dalla nostra scoperta di essere deboli e lontani dallo splendore divino, giunge alla fine a questa grande sorpresa dell’azione divina: accanto a noi c’è Dio-Emmanuele, che per il cristiano ha il volto amoroso di Gesù Cristo, Dio fatto uomo, fattosi uno di noi.

 

SIEGER KÖDER. Sofferenza e simbolo – via crucis

http://www.libertaepersona.org/wordpress/2016/11/sieger-koder-sofferenza-e-simbolo/

SIEGER KÖDER. Sofferenza e simbolo

Pubblicato 4 novembre 2016 | Da Marcello Giuliano

Un Sacerdote pittore

SIEGER KÖDER. Sofferenza e simbolo - via crucis dans VIA CRUCIS Ges%C3%B9-cade

Sieger Köder come è giunto a dipingere opere, come questa Via Crucis, dalla suggestione così intensa; opere sempre più note negli ambienti spirituali cattolici?

La sua biografia ha fortemente influito sul genere della sua pittura. K. nacque il 3 gennaio 1925 a Wasseralfingen († 9. Februar 2015 in Ellwangen), in  Germania. Durante la seconda guerra mondiale, combatté e patì la prigionia. Tornato, frequentò l’Accademia d’Arte a Stoccarda fino al 1951. Studiò filologia inglese all’università di Tubinga.  Dopo  12   anni  d’insegnamento  di  arte  e  di  produzione  artistica,  Köder  si preparò al  sacerdozio,  venendo ordinato nel  1971.

Nel suo ministero sacerdotale c’è reciproco influsso fra il sacerdote e l’artista. Usa le sue pitture come Gesù usava le sue parabole. “Rivela” la profondità  del messaggio  cristiano  attraverso  le  metafore,  spargendo  luce  e  colore  sulla  vita  e  sulla storia  umana.

La sua arte  è  pregna del dramma personale della guerra e dell’orrore dell’Olocausto. Il tema dell’Arlecchino, una delle sue più note figure,   simbolizza  l’irrazionalità,  la  poesia,  la  libertà,  il  divertimento, nonostante l’atroce realtà esteriore. È l’artista, che, sempre, supera il dato sensibile. Egli dice che “siamo tutti dei matti”. Anche Dio all’uomo razionale può apparire stravagante.

Una pittura simbolica

Köder, che vuole parlare all’uomo razionale, come ad ogni uomo comune, si esprime con una pittura simbolica.

Come ogni pittura simbolica, la sua non descrive effettivamente le cose come apparentemente si vedono, ma allude senza esplicitamente dire.

Il suo simbolismo non è di tipo ieratico, come nell’arte medioevale, ovvero fino allo scisma delle chiese di Oriente e, nemmeno, è simile a quello dell’iconologia orientale successiva. È un simbolismo esistenziale. Da un lato, esaspera il segno, dall’altro ne fa una caricatura, ove la forma dell’uomo è disfatta, anche quando esprime tenerezza. Non si tratta certamente di simboli di bellezza, anche se capaci di fissare l’attenzione nel mistero.

Dionigi-lAreopagita dans VIA CRUCIS

Lo Pseudo Dionigi Areopagita, mistico del VI secolo, ci fa capire in che senso anche questo genere di arte possa dirsi simbolica. Nel suo Corpus Dionysiacum, e in altre opere a noi non pervenute, e che l’autore cita, si tratta della teologia affermativa e della teologia simbolica. La prima trasmette gli insegnamenti su Dio, su chi Egli sia, mentre, la seconda tratta della sua presenza nel mondo sensibile. A proposito dei simboli, egli distingue tra simboli elevati, simboli mediani e simboli inferiori, a seconda delle realtà visibili da cui si ricavano, oppure tra simboli simili e simboli dissimili, a seconda che rivelano Dio in quanto danno una pallida idea della sua bellezza, oppure, ne fanno intravvedere, per contrasto, la sua infinita trascendenza. Questo duplice modo di rivelarsi è in rapporto sia con l’opera educativa di Dio, che insegna attraverso i simboli, nascondendo per spingere a cercare, sia con la struttura dell’uomo.

Il simbolismo esistenziale di Köder, cogliendo l’uomo in situazioni estreme, solitamente di dolore, prende a prestito alcuni tratti dell’uomo ormai irriconoscibile (simboli inferiori o simboli dissimili), in quanto tali segni di per sé sarebbero lontanissimi da Dio, sottolineando la sua apparente distanza. Ma le Tre persone si rivelano nella incarnazione anche dove essa sembra assente. Essa rivela la Trinità, benché, pur incarnandosi solo il Figlio, tutte e Tre le Persone partecipano, con la loro comune decisione, alle vicende dell’Uomo dei dolori. Il Verbo, per dissomiglianza è nella gloria anche nell’ Incarnazione in passione«Disprezzato  e  reietto  dagli  uomini,  uomo  dei dolori  che  ben  conosce  il  patire,  come  uno  davanti  al  quale  ci  si  copre  la  faccia; …  eppure  egli  si  è  caricato   delle  nostre  sofferenze,  si  è  addossato i nostri dolori » (Is  53,3a.4a) e nel Salmo 22, 7:  «Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo».

 

L’Uomo dei dolori

Crocifissione

Il verme diviene simbolo dell’uomo dei dolori che non ha disprezzato il patire e la tanta bellezza di Dio qui si nasconde e nella passione di Croce invita a cercare, nonostante tutto, il volto di Dio. Il simbolo della sua sofferenza rimanda alla trasformazione dell’uomo in Dio attraverso il patire.

Di questa sofferenza l’artista non lascia cadere una goccia. Per questo si deve osservare il presente quadro non in sé stesso, isolato dagli altri, fermandosi ad un significato puramente didascalico,  Gesù che cade; bisogna rivederlo e meditarlo alla luce degli altri, in particolare della scena della crocifissione; ricollegarlo all’ultima cena. Allora il simbolo esistenziale e teologico si riveleranno più chiaramente.

 

L’Ultima cena

Ultima-cena

Nell’Ultima Cena, come  in ogni momento della vita del Maestro, la passione di Cristo, come ombra, si profila: Cena del banchetto e del sacrificio, ad un tempo.  Ultima  cena,   perché  segnata  dalla  croce, dalla condanna che ogni uomo si dà, credendo di non poter superare il male. In questo male Gesù sprofonda, come sembra di vedere nel quadro in cui viene inchiodato. Qui Gesù sperimenta cosa voglia dire quella antica frase di Plauto lupus est homo homini, (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495), ripresa in varie forme da successivi pensatori.

 

La Crocifissione

Crocifissori

Gesù  è  a  terra.  Non  vediamo  la  crocifissione  dal  nostro  punto  di  vista,  ma  da quello di Gesù, che è sdraiato a terra. Vediamo ciò che Lui vede in quel momento e da quel punto di osservazione. Gesù  guarda  fisso  verso  il  cielo, ove campeggia  un  sole  diventato  nero,  come  un  buco,  come  un  vuoto. Lo sguardo di Dio, e della Creazione, che, da  lassù, addolorata, osserva muta questa incomprensibile crocifissione dell’amore.

Intorno, in cerchio, si vedono tanti volti umani,  con tutte le espressioni possibili. C’è il dolore sincero,  misto  ad  impotenza,  di chi si copre il volto, ma  anche  durezza, oppure perplessità, come nell’uomo coperto di un mantello verde, che porta la mano al mento, quasi a pensare.

Il soldato è visto dall’alto, non se ne conosce il volto. Sembra di sentire il rumore dei colpi, contro le mani e i piedi; il cuore di chi ha camminato,  accarezzato  solo  per  amore. Il soldato compie il lavoro sporco. Egli è a-nonimo.  Infatti,  non  esiste  un  colpevole solo, per un abominio collettivo che si propaga nei secoli. Anche qui, come nella stazione della Veronica, e nell’Ultima Cena, si vede in modo indiretto, attraverso il simbolo e non nella realtà, poiché tutto, sulla terra, è simbolo di altro e dell’Altro.

La Veronica

La-Veronica

Nella Veronica, Gesù è l’unico che non mostra il viso. Il volto di Dio vuole imprimersi nel cuore, non cerca somiglianze fisiche.

Così, nella caduta sotto la croce, di Gesù vediamo, sì, un profilo, ma, soprattutto, la tensione necessaria per supportare e sopportare il peso della massa umana. Una massa scura, grigia. I volti tumefatti sono irriconoscibili. Volti dagli occhi stravolti, dagli occhi chiusi come i morti, che mirano il calice della perdizione e si protendono come un incubo sul braccio della croce. Unica luce, il braccio della stessa croce, il cui colore, vagamente dorato, ricorda il non colore oro, la luce divina.

Mentre gli Angeli vedono Dio direttamente e, pur se vicini all’uomo in passione, Lo contemplano Verbo in Cielo, gli uomini vedono il Verbo fatto carne nella varietà dei simboli, cioè, la Scrittura, i riti della Chiesa, che pure sono i simboli più eterei, ma ordinariamente lo devono intravvedere in segni all’apparenza inidonei, irriconoscibili, come il Suo volto, tumefatto, che è sfatto; reso tale dall’abbrutimento dell’umanità.

Al contrario, il Cristo non smarrisce il volto dell’uomo, anche quando irriconoscibile all’uomo stesso. Mi vengono in mente i lamenti, penso sinceri e non ideologici, di chi ritiene che una vita di dolore estremo, come quella di un malato terminale o tetraplegico, non sia degna di essere vissuta. Non smarrisce la sua immagine e somiglianzacon Lui e annuncia all’uomo di fare altrettanto.

 

La Pasqua di Cristo, amore viscerale di Dio

Noi sappiamo che i Vangeli sono l’icona di Dio, chino sulle ferite umane. Nella stessa parabola del Padre misericordioso (cfr. Lc 15,11-32) è narrata la storia dell’umanità tutta, e di ciascuno, dove Dio offre ad ogni uomo, che voglia entrarvi, viscere  di amore smisurato.

Negli eventi del venerdì santo, del sabato e della domenica di resurrezione, avviene la piena manifestazione del Dio. Colui che era nel seno del Padre (cfr. Gv 1,18), nelle sue viscere, nella parte più profonda di sé, è dato agli uomini.

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Il venerdì è il giorno nel quale Gesù non trova misericordia né sulla terra, né nei Cieli. Si rivolge al Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata — proprio a lui — la tremenda sofferenza della morte in croce». Gesù vuole, sceglie, -condotto a ciò dagli stessi uomini-, di sperimentare quella solitudine che gli uomini provano nelle più gravi sofferenze. Egli vuole dare occhi nuovi sulla sofferenza. Essi sono gli occhi della misericordia.

Sulla croce accade il dialogo del Figlio e del Padre: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Qui, dove ci aspetteremmo la ribellione del figlio, davanti ad un’ingiustizia degli uomini, Gesù è in piena comunione con il Padre. Allora, l’abbandono del Padre –come lo chiama l’uomo- ha un significato veramente diverso al quale l’Uomo Gesù si apre, Lui che sa riconoscere il disegno che gli uomini ignorano.

Nella sofferenza della croce è ristabilita la giustizia come misericordia. Una misericordia che va fino agli inferi, un luogo dal quale, una volta in esso discesi, non si può risalire, ma solo restare in attesa della liberazione.

Il Figlio, seppellito nelle viscere della terra, vivo in spirito, andrà ad annunziare la liberazione a coloro che erano negli inferi e aspettavano la liberazione. Nella reale sepoltura di Gesù, vi è contenuto il mistero della terra, che si apre e dalle sue viscere restituisce i morti.

Realmente, il sabato del silenzio, il Sabato Santo, è accaduto che, per la discesa di Cristo agli inferi, narra L’Apocalisse, «il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi» (Ap 20,13).

La morte, che per il primo Adamo era segno estremo di solitudine e di impotenza, si è, così, trasformata nel supremo atto d’amore e di libertà del nuovo Adamo.

Sepolcro-vuoto

E, infine, solo con l’alba di risurrezione si rendono comprensibili le paradossali parole della lettera agli Ebrei: «proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Eb 5,7). La Lettera agli Ebrei, infatti, è il libro del Sacerdozio, del Pontefice, che unisce Cielo e terra, della trasformazione.

 

Publié dans:VIA CRUCIS |on 18 avril, 2019 |Pas de commentaires »

Gesù prega nell’orto degli ulivi

en e paolo - Copia

Publié dans:immagini sacre |on 17 avril, 2019 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – Lo Spirito e l’«abbà» dei credenti (Gal 4, 6-7; Rm 8, 14-17) Udienza 23.5.2012

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120523.html

BENEDETTO XVI – Lo Spirito e l’«abbà» dei credenti (Gal 4, 6-7; Rm 8, 14-17) Udienza 23.5.2012

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 23 maggio 2012

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso ho mostrato come san Paolo dice che lo Spirito Santo è il grande maestro della preghiera e ci insegna a rivolgerci a Dio con i termini affettuosi dei figli, chiamandolo «Abbà, Padre». Così ha fatto Gesù; anche nel momento più drammatico della sua vita terrena, Egli non ha mai perso la fiducia nel Padre e lo ha sempre invocato con l’intimità del Figlio amato. Al Getsemani, quando sente l’angoscia della morte, la sua preghiera è: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).
Sin dai primi passi del suo cammino, la Chiesa ha accolto questa invocazione e l’ha fatta propria, soprattutto nella preghiera del Padre nostro, in cui diciamo quotidianamente: «Padre… sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,9-10). Nelle Lettere di san Paolo la ritroviamo due volte. L’Apostolo, lo abbiamo sentito ora, si rivolge ai Galati con queste parole: «E che voi siete figli lo prova che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida in noi: Abbà! Padre!» (Gal 4,6). E al centro di quel canto allo Spirito che è il capitolo ottavo della Lettera ai Romani, san Paolo afferma: «E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (Rm 8,15). Il cristianesimo non è una religione della paura, ma della fiducia e dell’amore al Padre che ci ama. Queste due dense affermazioni ci parlano dell’invio e dell’accoglienza dello Spirito Santo, il dono del Risorto, che ci rende figli in Cristo, il Figlio Unigenito, e ci colloca in una relazione filiale con Dio, relazione di profonda fiducia, come quella dei bambini; una relazione filiale analoga a quella di Gesù, anche se diversa è l’origine e diverso è lo spessore: Gesù è il Figlio eterno di Dio che si è fatto carne, noi invece diventiamo figli in Lui, nel tempo, mediante la fede e i Sacramenti del Battesimo e della Cresima; grazie a questi due sacramenti siamo immersi nel Mistero pasquale di Cristo. Lo Spirito Santo è il dono prezioso e necessario che ci rende figli di Dio, che realizza quella adozione filiale a cui sono chiamati tutti gli esseri umani perché, come precisa la benedizione divina della Lettera agli Efesini, Dio, in Cristo, «ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo» (Ef 1,4).
Forse l’uomo d’oggi non percepisce la bellezza, la grandezza e la consolazione profonda contenute nella parola «padre» con cui possiamo rivolgerci a Dio nella preghiera, perché la figura paterna spesso oggi non è sufficientemente presente, anche spesso non è sufficientemente positiva nella vita quotidiana. L’assenza del padre, il problema di un padre non presente nella vita del bambino è un grande problema del nostro tempo, perciò diventa difficile capire nella sua profondità che cosa vuol dire che Dio è Padre per noi. Da Gesù stesso, dal suo rapporto filiale con Dio, possiamo imparare che cosa significhi propriamente «padre», quale sia la vera natura del Padre che è nei cieli. Critici della religione hanno detto che parlare del «Padre», di Dio, sarebbe una proiezione dei nostri padri al cielo. Ma è vero il contrario: nel Vangelo, Cristo ci mostra chi è padre e come è un vero padre, così che possiamo intuire la vera paternità, imparare anche la vera paternità. Pensiamo alla parola di Gesù nel sermone della montagna dove dice: «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,44-45). È proprio l’amore di Gesù, il Figlio Unigenito – che giunge al dono di se stesso sulla croce – che ci rivela la vera natura del Padre: Egli è l’Amore, e anche noi, nella nostra preghiera di figli, entriamo in questo circuito di amore, amore di Dio che purifica i nostri desideri, i nostri atteggiamenti segnati dalla chiusura, dall’autosufficienza, dall’egoismo tipici dell’uomo vecchio.
Potremmo quindi dire che in Dio l’essere Padre ha due dimensioni. Anzitutto, Dio è nostro Padre, perché è nostro Creatore. Ognuno di noi, ogni uomo e ogni donna è un miracolo di Dio, è voluto da Lui ed è conosciuto personalmente da Lui. Quando nel Libro della Genesi si dice che l’essere umano è creato a immagine di Dio (cfr 1,27), si vuole esprimere proprio questa realtà: Dio è il nostro padre, per Lui non siamo esseri anonimi, impersonali, ma abbiamo un nome. E una parola nei Salmi mi tocca sempre quando la prego: «Le tue mani mi hanno plasmato», dice il salmista (Sal 119,73). Ognuno di noi può dire, in questa bella immagine, la relazione personale con Dio: «Le tue mani mi hanno plasmato. Tu mi hai pensato e creato e voluto». Ma questo non basta ancora. Lo Spirito di Cristo ci apre ad una seconda dimensione della paternità di Dio, oltre la creazione, poiché Gesù è il «Figlio» in senso pieno, «della stessa sostanza del Padre», come professiamo nel Credo. Diventando un essere umano come noi, con l’Incarnazione, la Morte e la Risurrezione, Gesù a sua volta ci accoglie nella sua umanità e nel suo stesso essere Figlio, così anche noi possiamo entrare nella sua specifica appartenenza a Dio. Certo il nostro essere figli di Dio non ha la pienezza di Gesù: noi dobbiamo diventarlo sempre di più, lungo il cammino di tutta la nostra esistenza cristiana, crescendo nella sequela di Cristo, nella comunione con Lui per entrare sempre più intimamente nella relazione di amore con Dio Padre, che sostiene la nostra vita. E’ questa realtà fondamentale che ci viene dischiusa quando ci apriamo allo Spirito Santo ed Egli ci fa rivolgere a Dio dicendogli «Abbà!», Padre. Siamo realmente entrati oltre la creazione nella adozione con Gesù; uniti, siamo realmente in Dio e figli in un nuovo modo, in una dimensione nuova.
Ma vorrei adesso ritornare ai due brani di san Paolo che stiamo considerando circa questa azione dello Spirito Santo nella nostra preghiera; anche qui sono due passi che si corrispondono, ma contengono una diversa sfumatura. Nella Lettera ai Galati, infatti, l’Apostolo afferma che lo Spirito grida in noi «Abbà! Padre!»; nella Lettera ai Romani dice che siamo noi a gridare «Abbà! Padre!». E San Paolo vuole farci comprendere che la preghiera cristiana non è mai, non avviene mai in senso unico da noi a Dio, non è solo un «agire nostro», ma è espressione di una relazione reciproca in cui Dio agisce per primo: è lo Spirito Santo che grida in noi, e noi possiamo gridare perché l’impulso viene dallo Spirito Santo. Noi non potremmo pregare se non fosse iscritto nella profondità del nostro cuore il desiderio di Dio, l’essere figli di Dio. Da quando esiste, l’homo sapiens è sempre in ricerca di Dio, cerca di parlare con Dio, perché Dio ha iscritto se stesso nei nostri cuori. Quindi la prima iniziativa viene da Dio, e con il Battesimo, di nuovo Dio agisce in noi, lo Spirito Santo agisce in noi; è il primo iniziatore della preghiera perché possiamo poi realmente parlare con Dio e dire “Abbà” a Dio. Quindi la sua presenza apre la nostra preghiera e la nostra vita, apre agli orizzonti della Trinità e della Chiesa.
Inoltre comprendiamo, questo è il secondo punto, che la preghiera dello Spirito di Cristo in noi e la nostra in Lui, non è solo un atto individuale, ma un atto dell’intera Chiesa. Nel pregare si apre il nostro cuore, entriamo in comunione non solo con Dio, ma proprio con tutti i figli di Dio, perché siamo una cosa sola. Quando ci rivolgiamo al Padre nella nostra stanza interiore, nel silenzio e nel raccoglimento, non siamo mai soli. Chi parla con Dio non è solo. Siamo nella grande preghiera della Chiesa, siamo parte di una grande sinfonia che la comunità cristiana sparsa in ogni parte della terra e in ogni tempo eleva a Dio; certo i musicisti e gli strumenti sono diversi – e questo è un elemento di ricchezza -, ma la melodia di lode è unica e in armonia. Ogni volta, allora, che gridiamo e diciamo: «Abbà! Padre!» è la Chiesa, tutta la comunione degli uomini in preghiera che sostiene la nostra invocazione e la nostra invocazione è invocazione della Chiesa. Questo si riflette anche nella ricchezza dei carismi, dei ministeri, dei compiti, che svolgiamo nella comunità. San Paolo scrive ai cristiani di Corinto: «Ci sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; ci sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; ci sono diverse attività, ma uno solo è Dio che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6). La preghiera guidata dallo Spirito Santo, che ci fa dire «Abbà! Padre!» con Cristo e in Cristo, ci inserisce nell’unico grande mosaico della famiglia di Dio in cui ognuno ha un posto e un ruolo importante, in profonda unità con il tutto.
Un’ultima annotazione: noi impariamo a gridare «Abba!, Padre!» anche con Maria, la Madre del Figlio di Dio. Il compimento della pienezza del tempo, del quale parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr 4,4), avviene al momento del «sì» di Maria, della sua adesione piena alla volontà di Dio: «ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38).
Cari fratelli e sorelle, impariamo a gustare nella nostra preghiera la bellezza di essere amici, anzi figli di Dio, di poterlo invocare con la confidenza e la fiducia che ha un bambino verso i genitori che lo amano. Apriamo la nostra preghiera all’azione dello Spirito Santo perché in noi gridi a Dio «Abbà! Padre!» e perché la nostra preghiera cambi, converta costantemente il nostro pensare, il nostro agire per renderlo sempre più conforme a quello del Figlio Unigenito, Gesù Cristo. Grazie.

 

Publié dans:SETTIMANA SANTA |on 17 avril, 2019 |Pas de commentaires »

L’ultima cena del Signore

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Publié dans:immagini sacre |on 16 avril, 2019 |Pas de commentaires »
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