Archive pour mars, 2019

III DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) (24/03/2019)

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III DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) (24/03/2019)

Tagliare gli alberi improduttivi della casa di Dio
padre Antonio Rungi

La parola di Dio di questa terza domenica di Quaresima ci impone una seria riflessione sulla nostra capacità di portare frutti abbondanti nella vigna del Signore con il nostro modo di agire ed operare per il bene nostro e degli altri. La nostra resistenza alla grazia di Dio all’invito alla conversione che il Signore ci rivolge continuamente mediante tanti segnali e circostanza, cade frequentemente nel vuoto al punto tale che non cambiamo mai e facciamo sempre le stesse cose. Gesù, nel brano del Vangelo di Luca, nel quale porta l’esempio di un albero improduttivo, invita a reciderlo se effettivamente sta li solo a fruttare il terreno senza dare segni di vitalità e produttività materiale. Spostando il ragionamento a livello spirituale ed ecclesiale ne viene da se la conclusione che chi in ambito spirituale ed ecclesiale non dice nulla e non produce nulla, è bene per lui che si faccia da parte e dopo un sincero e autentico ripensamento della propria vita, riprendere un cammino positivo e propositivo, uscendo dalle secche dell’aridità ed improduttività spirituale. Gesù mette in guardia chi come al suo tempo, ma anche quanti del nostro tempo, si ritengono più giusti degli altri per una sorta di osservanza esteriore della legge di Dio, che non dà garanzia e protezione alla longevità della vita, all’assenza di sofferenza o al rischio di una morte improvvisa e violenta. Non si può collegare, è questo il chiaro messaggio che viene dal vangelo, la morte, il dolore e la malattia come una punizione di Dio, perché si è più peccatori o meno degli altri, che non subiscono la morte improvvisa o violenta come è ricordato nel brano del vangelo in riferimento al fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici o quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise. Gesù risponde senza mezzi termini, precisando la questione nella sua sostanza e affermando che non bisogna credere al fatto che queste persone, secondo una falsa interpretazione della morte violenta, fossero più colpevole di tutti gli abitanti di Gerusalemme. Questi drammi dell’umanità sono inviti espliciti alla conversione, perché se non ci convertiamo periremo tutti allo stesso modo, cioè moriremo in peccato e lontani da Dio. Chi non li recepisce e soprattutto non li mette in atto e come l’albero che non produce frutto, anche aspettando più anni. Va reciso, perché non sfrutti il terreno inutilmente.
Su questa lunghezza d’onda spirituale e di rinnovamento si pone la prima lettura, dove è raccontata la visione del roveto ardente da parte di Mosè. Il Signore, nel brano di oggi del libro dell’Esodo si rivolge a Mosè dal Roveto, con queste parole di invito a conversione lui e il popolo al quale lo invia, perché scoprano qual è il vero nome di Dio e chi è il loro vero Dio: Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio. Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele». Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Accogliere Dio nella vita è il primo atto di fede e di conversione che va attuato nella nostra vita. Spesso crediamo di credere, ma non crediamo affatto, perché la nostra fede è senza contenuti, è scialba e senza ossatura. La nostra cultura e il mondo di oggi ci distrae da Dio, ci porta lontano con la mente ed il cuore da Lui. La nostra conversione riparte dall’avvicinarsi al fuoco dell’amore di Dio, per attingere da esso la forza interiore per cambiare noi e il mondo in cui siamo.
Su questo tema ci fa riflettere anche Paolo Apostolo nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla sua prima lettera ai corinzi nella quale cita l’esperienza negativa dei padri d’Israele che con il loro modo di agire non furono graditi a Dio, al punto tale che la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono”. Considerato il cattivo esempio dei loro antenati, Paolo raccomanda di non mormorare, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Ed aggiunge che tutte queste cose accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”. In poche parole, bisogna fortificarsi nella fede per non cadere sotto il peso dei peccati e delle proprie debolezze umane che allontano da Dio e ci fanno diventare nemici della croce di Cristo.
Chiediamo al Signore, in questa santa quaresima, in fase inoltrata, che converta il nostro cuore e diciamoGli dal profondo del nostro cuore: “Dio misericordioso, fonte di ogni bene, tu ci hai proposto a rimedio del peccato il digiuno, la preghiera e le opere di carità fraterna; guarda a noi che riconosciamo la nostra miseria e, poiché ci opprime il peso delle nostre colpe, ci sollevi la tua misericordia.

 

Salterio, liturgia

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 21 mars, 2019 |Pas de commentaires »

ANCHE A GERUSALEMME LA DUREZZA DELLA STORIA SALMI 123 – 124

 

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ANCHE A GERUSALEMME LA DUREZZA DELLA STORIA SALMI 123 – 124

La città delude

Il pellegrino ha contemplato e benedetto la città. Ora essa è a portata di mano. C’è un’ultima valle da scendere e risalire e, mentre sta risalendo lungo la china, guarda verso Gerusalemme e si accorge che ormai può toccarla. Allora alza lo sguardo ed è come se esso non si fermasse più ad osservare la meta tanto desiderata.
Il v. 1 di questo Salmo è brevissimo, ma densissimo. Precisa che lo sguardo del pellegrino è orientato verso colui che abita nei cieli. Eppure alla fine del Salmo precedente lodava Gerusalemme perché in essa è la casa del Signore! Tra i due brani si nota un salto. È come se il contatto con Gerusalemme disturbasse il nostro viandante. Ora che è così vicino da poterla toccare, un senso di ripulsa lo assale. Non per questo si arresta o perde l’orientamento, ma il suo gesto – gesto di chi distoglie lo sguardo – ha un senso di amaro disincanto. La meta diventa motivo di sofferenza, addirittura di scandalo.
Oltre tutto succede quello che è normale in ogni luogo di pellegrinaggio: chi viene da lontano, povero e devoto, è subito trattato come un cliente da imbrogliare.. con la massima devozione! Nel caso migliore viene deriso e ci si approfitta di lui.
Così il pellegrino si accorge subito che il contesto non è in sintonia con l’intensa partecipazione interiore, con la preparazione affettuosa e devota che ha caratterizzato il suo lungo viaggio. Si accorge di trovarsi in un contesto dove egli è considerato uno straniero e che Gerusalemme è occupata.
Anche questo non è in sé una novità sorprendente. La storia della salvezza parla spesso della città invasa da culti idolatrici e stranieri. Gerusalemme, la Bella, l’Eletta, la Benedetta, è inquinata.

SALMO 123

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.

A te levo i miei occhi,
a te che abiti nei cieli.

2 Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni;
come gli occhi della schiava,
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.

3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
già troppo ci hanno colmato di scherni,

4 noi siamo troppo sazi
degli scherni dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Devozione a Dio, sospetto e solidarietà
Dopo il v. 1, con il valore introduttivo di una dichiarazione così esplicita di desiderio di Colui che rimane Puro, Libero e Splendente nella Santità, il v. 2 contiene uno svolgimento meditativo. Di nuovo il pellegrino, con prudenza, guarda Gerusalemme, la sua realtà che si impone.
Ripensa e prende posizione. Dice quello che succede; e si descrive in rapporto alla città che vede: un servo che rimane vigilante in attesa di quel gesto con cui il padrone gli comunicherà il da fare. È atteggiamento di grande devozione e affetto, accompagnato da un tono di allarme, da un brivido di sospetto. C’è una tensione che cancella la nota di letizia che aveva accompagnato l’ultimo tratto del viaggio. Gli occhi sono fissi, calamitati. Solo un gesto del padrone e quest’uomo sfodererà gli artigli come un cane fedele in difesa dell’amato.
Così egli guarda al Signore, e non solo lui!
Nel v. 1 si esprimeva in prima persona singolare, nel v. 2 parla in prima persona plurale. Questo passaggio dal singolare al plurale non è indifferente. Non è solo, ci sono altri con lui. È confermata quell’esperienza di comunione che il Salmo precedente ha illustrato ed esaltato, anche se lo è sul versante del sospetto, dell’allarme e della tensione. Comunque il pellegrino anche così si riconosce parte di una realtà comunitaria.
Insieme si noti l’ultimo rigo del v. 2: «finché abbia pietà di noi…». La pietà di cui si parla è l’atto del chinarsi. Dio si piegherà su di noi per occuparsi di noi e sollevarci. Quella tensione che si esprimeva – generata da fervore e intransigente coerenza – si stempera in modo da trasformarsi in una vera e propria invocazione che esprime uno stato di miseria e debolezza estrema. Se il Signore non si piega sulla nostra bassezza nulla sarà possibile ancora per questi pellegrini stranieri in casa e per questo solidali. Si aspettavano pace e solidarietà dalla intera comunità di Israele.
Sono delusi e consolati solo dalla presenza di altri simili a loro. In questo uso del «noi» si percepisce la convinzione profonda che esiste una solidarietà anche nei confronti di coloro che accolgono male o imbrogliano i pellegrini. Questi sono ignari dei raggiri che li coinvolgono, li scoprono quando sono danneggiati e derisi. Allora dicono «noi», si riconoscono tra loro, sfortunati e poveri. Eppure in questo «noi» non sono del tutto assenti anche coloro che fanno da avversari e forestieri.
Il nostro pellegrino incontra a Gerusalemme gente che fa finta di essere straniera in quel luogo. Allora egli si rivolge al Signore e si dichiara totalmente fiducioso, per tutti, nella pietà che viene da Lui.
Un grido
Così gli ultimi due versetti del Salmo riportano un grido. È come se a nome di tutti il pellegrino dicesse: «Basta! Non ne posso più!».
Il Salmo si era aperto con il levare lo sguardo al Signore, ora il pellegrino lo implora di chinarsi su persecutori e perseguitati. La sua sazietà – il non poterne più – è relativa agli scherni subiti, ma anche a quelli restituiti, perché il testo originale – su questo il nostro testo non ci aiuta a capire – fa comprendere che coloro che approfittano di Gerusalemme per i loro bassi interessi non sono le sole fonti di disgusto. Il pellegrino dice anche: «Noi siamo troppo sazi… del disprezzo» per i «superbi» (v. 4): il disprezzo con il quale noi rispondiamo loro. È sazi età per una infame violenza reciproca, di cui ci si ingozza fino alla nausea. In ogni caso il Salmo si conclude con questa semplice e perentoria dichiarazione: « Basta!».
A sua volta anche Gesù dirà «Basta!. (Lc 22,38) a chi lo invita alla violenza.
Siamo così al Salmo 124.

SALMO 124

1 Canto delle ascensioni. Di Davide.

Se il Signore non fosse stato con noi, .
- lo dica Israele -

2 se il Signore non fosse stato con noi,
quando uomini ci assalirono,

3 ci avrebbero inghiottiti vivi,
nel furore della loro ira.

4 Le acque ci avrebbero travolti;
un torrente ci avrebbe sommersi,

5 ci avrebbero travolti
acque impetuose.

6 Sia benedetto il Signore,
che non ci ha lasciati,
in preda ai loro denti.

7 Noi siamo stati liberati come un uccello
dal laccio dei cacciatori:
il laccio si è spezzato
e noi siamo scampati.

8 Il nostro aiuto è nel nome del Signore
che ha fatto cielo e terra.

Un orizzonte di grazia per ogni cammino
Il testo suppone l’intervento di un solista e del coro. « Se il Signore non fosse stato con noi» – dice il solista – e il coro ripete il ritornello «lo dica Israele se il Signore non fosse stato con noi…».
Questa ricostruzione liturgica rinvia a un contesto vivo nel quale si fa udire la voce di un personaggio in una assemblea. Immaginiamo di ricostruirlo così: siamo alla sera di quell’importante giorno dell’arrivo alla città. L’ingresso vero e proprio non è ancora avvenuto. Al bivacco ciascuno dei convenuti racconta le proprie avventure davanti al fuoco, a turno. Anche il nostro pellegrino racconta le sue.
Ora è possibile trovare degli interlocutori attenti o almeno gentili. Ciascuno si apre e un coro commenta, sommesso: « Se il Signore non fosse stato con noi non saremmo qui… ».
I racconti sono diversi: ciascuno ha percorso una sua strada e le situazioni sono originali, eppure il ritornello ricapitola e fonde in un orizzonte di grazia ciascuna vicenda. Così esse si re interpretano l’una con l’altra: « Tutti siamo qui perché il Signore è stato con noi!».
L’aneddotica personale e di gruppo, le barzellette, le fantasie, i racconti che ingigantiscono avventure… tutto serve a dire che si è lì ed è possibile raccontarsi e ascoltarsi perché «il Signore è stato con noi». In contatto con le mura di Gerusalemme ci si ritrova tutti condotti alla meta.
Si noti l’espressione alla prima persona plurale: «con noi». Si potrebbe anche tradurre diversamente: «Se il Signore non fosse stato per noi» oppure «in noi» (così il testo greco e la Vulgata: «in nobis»). Non solo il Signore è colui che ha accompagnato con il suo intervento prodigioso il viaggio. Egli era presente nei viandanti.
In questa direzione suggerivano di pensare anche i Salmi 121 e 122, che abbiamo già letto. Ora è possibile dichiararlo espressamente: era Lui che sosteneva i passi, che gestiva il quotidiano della fatica; Lui rendeva prodigiosa la piatta realtà di ogni momento. Se non fosse stato così non si sarebbe arrivati. Non c’è nessun momento – neppure il più trascurabile e non raccontato – che non sia stato pieno di valore impagabile, perché il Signore ne ha pagato il prezzo.
La liberazione dagli inferi genera benedizione
La prima sezione del Salmo, fino al v. 5 dice come il nostro pellegrino racconta di sé. La seconda sezione si sviluppa in forma di preghiera e di benedizione.
Noi che abbiamo letto il Salmo 121 possiamo pensare che il suo viaggio non sia stato ricco di quegli incontri spaventosi di cui parla adesso. Può darsi anche che tenda a ingigantire le cose, ma importa poco: anche se non fosse successo niente, la ragione per cui il viaggio si è compiuto è intrinsecamente straordinaria. È una ragione che non ha una consistenza autonoma indipendentemente dal fatto che il Signore vi si è impegnato e manifestato. Lui ha riempito, in modo gratuito, di senso e di valore quell’itinerario grigio che si era intrapreso.
Dice allora che «uomini ci assalirono» con la «loro ira…». Racconta un’aggressione, in due immagini: una belva feroce digrigna i denti e una massa d’acqua esce dal proprio alveo. Sono immagini anche contraddittorie: la furia della fiamma dell’ira e una marea travolgente. Sono entrambe immagini infernali, comunque.
L’inferno della vita avrebbe racchiuso in sé il viandante, lo avrebbe bloccato, insabbiato e intrappolato. Gli uomini sono da esso ridotti a misurarsi come protagonisti di una sua iniziativa fallita. Il Signore strappa da questo inferno; un inferno sperimentato e ricordato con pena. Il Signore non ha permesso che fosse questa l’esperienza disperante e definitiva.
Allora «Sia benedetto il Signore…». Egli ci ha liberati. Queste sono le cose grandi del Signore, eppure tanto semplici. Le scene invocate sono quasi infantili: un uccellino liberato, un frullio d’ali e non c’è più. Le grandi cose sono semplici: «non ci ha lasciati, in preda ai loro denti.. .».
Tutti concludono come nel Salmo 121. Si passa ancora da «Il mio aiuto viene dal Signore» (Sal 121,2) al «nostro aiuto». Lui ha condotto tutti in uno spazio libero, per volar via. Lui fa di questa piccola storia mia una storia raccontabile. Essa diventa parte della storia comune, commento alla storia degli altri e comprensibile solo con la loro, davanti allo sguardo di Dio. Tutti sono così al termine di un viaggio che si è compiuto solo perché «il Signore è stato con noi».

San Giuseppe

paolo

Publié dans:immagini sacre |on 18 mars, 2019 |Pas de commentaires »

OMELIA DI PAOLO VI – FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE (1965)

http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1965/documents/hf_p-vi_hom_19650319.html

OMELIA DI PAOLO VI – FESTIVITÀ DI SAN GIUSEPPE (1965)

Venerdì, 19 marzo 1965

Dopo il Vangelo, il Santo Padre desidera dire una parola in onore di San Giuseppe, Sposo purissimo di Maria Vergine, e Patrono della Chiesa Universale.
Non intende tessere il panegirico, come si suole in onore dei santi, e ricordare le cose grandi che si possono ammirare in questi uomini superiori, tante volte favoriti dalla natura e sempre favoriti dalla Grazia; ma piuttosto guardare a una fondamentale caratteristica, alla piccolezza, alla paradossale, minima statura che di San Giuseppe offre la narrazione evangelica.
Che cosa di più umile, di più semplice, di più silenzioso, di più nascosto ci poteva offrire il Vangelo da mettere accanto a Maria e a Gesù? La figura di Giuseppe è proprio delineata nei tratti della modestia la più popolare, la più comune, la più – si direbbe, usando il metro dei valori umani – insignificante, giacché non troviamo in lui alcun aspetto che ci possa dare ragione della sua reale grandezza e della straordinaria missione che la Provvidenza gli ha affidato, e che forma, a buon diritto, il tema di tante considerazioni, anzi di tanti panegirici in onore di San Giuseppe.
Guardandolo nello specchio del racconto evangelico, Giuseppe ci si presenta con i tratti più salienti di estrema umiltà: un modesto e povero, oscuro, piccolo, primitivo operaio che nulla ha di singolare, che non lascia, nel Vangelo stesso, verun accento della sua voce. Nessuna parola di lui ci è ricordata: vi si parla unicamente del suo contegno, della sua condotta, di quanto ha fatto: e tutto in silenzioso nascondimento e in obbedienza perfetta.
Era il Padre putativo di Cristo; lo Sposo della Vergine Immacolata; colui che ha dato stato civile in terra a Nostro Signore; che gli ha tributato l’assistenza più devota e necessaria, quella di cui hanno bisogno i pargoli, i fanciulli, gli adolescenti; quella di cui necessitano anche coloro che lavorano ed incominciano a sperimentare le angustie della vita e quel ch’è inerente alla grave fatica e al quotidiano sudore della fronte.
Giuseppe è stato, in ogni momento ed in maniera esemplare, insuperabile custode, assistente, maestro. È stato quindi, in tale sua completa, sommessa dedizione, di una grandezza sovrumana che incanta. Fermiamo, perciò, il nostro sguardo, nella odierna ricorrenza, su questa sua umiltà. Come ci pare fraterna, e, si direbbe, vicina a tante nostre stature fragili, mediocri, trascurabili, peccatrici! Come si fa presto a entrare in confidenza con un Santo che non sa dare soggezione, che non vanta nessuna distanza da noi; anzi, con una degnazione che ci confonde, quasi quasi si mette ai nostri piedi per dire: vedi il livello che è stato a me assegnato! Ebbene, proprio a tale livello, a questa inesprimibile sottomissione, il Signore del Cielo e della terra si è curvato, ed ha voluto rendere onore; facendone oggetto della sua scelta, e preferendola a tutti gli altri valori umani.
Gesù ha eletto Giuseppe. Ci chiediamo perché Cristo, che aveva libertà di scelta, e, più ancora, aveva possibilità di crearsi un piedistallo di grandezza, nobiltà, potenza, splendore per dominare il mondo e così predicare, e salvare l’umanità, ha invece voluto, come esempio e come tipo a Lui gradito, un santo così piccolo e così umile?
A noi sembra che ciò sia per due ragioni. La prima, che è documentabile con molte citazioni della Sacra Scrittura, potrebbe riferirsi, per così dire, a una certa gelosia di Dio. Il Signore è venuto decidendo la cooperazione umana. È venuto a salvarci mediante un sistema composto di due attività: la sua e la nostra. Ha quindi stabilito che la sua infinita potenza, la sua trascendente grandezza, la sua misericordia incommensurabile, venendo in contatto con l’attività umana, non fossero diminuite, o quasi confuse, o anche paragonate alla nostra capacità di bene, alla nostra potenzialità di salute. Ha voluto essere solo, pur accogliendo la nostra collaborazione; ha voluto far emergere tanto di più la sua maestà, la sua provvidenza, da farci ben comprendere che Egli solo è la causa della nostra salvezza. Perciò ha prescelto quale collaboratore lo strumento più umile e più semplice che dimostrava, in un certo senso, questa sua esclusiva onnipotenza di redenzione.
La seconda ragione sembra debba riconnettersi proprio ad un atto di affabile condiscendenza e gentilezza verso di noi; ad una cortesia verso la maggior parte, possiamo pur dire la totalità, del genere umano. Poiché Iddio scende dal Cielo e si fa uomo, noi, ancor prima di sentire l’attrattiva verso di Lui, se abbiamo fede, quasi avvertiamo un sentimento di fuga, un bisogno di ritirarci: «Exi a me, quia homo peccator sum»: Allontanati da me, o Signore, perché io sono uomo peccatore. Chi è consapevole della divina presenza, avverte l’impulso ad allontanarsi da Dio prima ancora che l’attrattiva di avvicinarsi a Lui. Come mai? Perché la trascendenza di Dio, resa vicina ed accessibile a noi, resta sempre infinita superiorità e annienta, si può dire, la nostra miseria e la nostra sproporzione. Il Signore, invece, per venire a colloquio con noi, ed essere davvero nostro fratello; per non intimorirci ma chiamarci; per darci confidenza ed aprire con noi il dialogo di tutte le più intime, profonde, salutari confidenze, si è fatto immensamente piccolo. «Humilis Deus», continua a ripetere S. Agostino. Il grande Dottore, tutte le volte che illustra il mistero dell’Incarnazione, non lascia di considerare tale aspetto dominante: un Dio che si abbassa, e lo fa per avvicinarsi e togliere quel senso di lontananza, di estraneità che sarebbe troppo naturale in noi, i quali riconosciamo chi Egli è, pur se desideroso di divenire nostro collega, socio, collocutore.
Il Signore è disceso all’ultimo gradino della scala sociale. Come divengono gioiosi gli umili, i poveri, i peccatori, i diseredati; quelli che hanno la piena coscienza della miseria umana – e dovremmo essere tutti -; come esultano d’essere introdotti a Cristo da un Custode, da un Patrocinatore qual è San Giuseppe!
Egli, proprio con la sua umiltà – che sembra un invito a noi rivolto nelle espressioni: venite, perché tutti vi chiamo; venite, ché il Signore vi aspetta -, documenta, nell’intera sua vita, il grido, che dovremmo sempre sentire come uno dei più forti ed espressivi del Santo Vangelo, e che riassume la tenerezza amorosa di Cristo per noi: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e addolorati, e io vi consolerò».

 

Publié dans:SAN GIIUSEPPE |on 18 mars, 2019 |Pas de commentaires »

Trasfigurazione

paolo Andrey-Ivanovich-Ivanov-Trasfigurazione-1807 (1)

Publié dans:immagini sacre |on 15 mars, 2019 |Pas de commentaires »

II DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) (17/03/2019)

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II DOMENICA DI QUARESIMA (ANNO C) (17/03/2019)

Il volto « altro » di Dio
don Luciano Cantini

Salì sul monte a pregare
Il taglio liturgico della lettura del vangelo ha omesso una indicazione di Luca che, se facciamo il confronto con i testi paralleli di Matteo (17,1) e Marco (9,2), ci offe una chiave di lettura dell’intero episodio. Gli altri due sinottici, infatti, parlano di “sei” giorni facendo riferimento al giorno della creazione dell’uomo (Gen 1,26-31) che Dio fece a sua immagine; Luca, invece, parla di otto giorni dopo, facendo riferimento al primo giorno dopo il sabato, il giorno della resurrezione, anticipando così l’evento pasquale.
Pietro, Giovanni e Giacomo sono portati in disparte, mentre Gesù si ritira a pregare; anche questo fatto anticipa il Getsemani: ora come allora gli apostoli sono gravati dal sonno (Lc 22,45) che non riescono a vincere.
Nel vangelo di Luca, la preghiera di Gesù è tema ritornante, un mistero a cui l’evangelista si accosta nel tentativo di coglierne il senso; appare talmente particolare e alternativa rispetto alle abitudini religiose che i discepoli chiedono: « insegnaci a pregare » (Lc. 11,1-4).
Mentre pregava
Nella preghiera esprimiamo la “lode”, il “ringraziamento”, la “intercessione”, la “richiesta”, la “contemplazione”, ci mettiamo in “comunicazione” con Dio; quello che Gesù sembra esprimere nella preghiera è la profonda “comunione” col Padre. È nella comunione col Padre che il suo volto cambiò d’aspetto – letteralmente diventò “altro” [èteron] – cosa questo significhi è difficile immaginarlo ma possiamo intuirlo dalla veste di Gesù che divenne candida e sfolgorante; anche Mosè e Elìa apparsi nella gloria sono una indicazione preziosa.
Nella comunione con il Padre il volto di Gesù diventò “altro” così da mostrare l’alterità di Dio. Luca non parla come i sinottici di metamorfosi, ma sicuramente ha in mente la gloria di Dio che traspare dal volto di Cristo e non trova parola migliore che “altro”. Dio è “altro” e Gesù rivela così il volto “altro” di Dio.
È un invito semplice quello che questa espressione del vangelo rivolge a noi: scoprire oggi quel volto “altro” di cui parla Luca. Non per essere riduttivi, né per estraniarsi dall’evento pasquale, neppure dalla preghiera che ci permettono, allora come oggi, la rivelazione dell’alterità di Dio, ma non possiamo esimerci dal cercare nel volto “altro” dell’uomo, in quello che meno ci rassomiglia, nel diverso da me quel volto “altro” di Dio… non lo troveremo sul monte, non sarà contornato dalla gloria di Mosè e Elìa, non avrà una veste Zcandida e sfolgorante ma assomiglierà di più al volto del povero, del sofferente o dello straniero.
“Nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’«epifania» del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto” (Emmanuel Lèvinas).
Erano oppressi dal sonno
Su questo monte, come nel Getsemani, Pietro, Giovanni e Giacomo sono invitati a pregare con il Signore ma erano oppressi dal sonno. Anche nel Getsemani i discepoli « dormivano per la tristezza » (Lc 22,45) e mentre Gesù pregava, il suo volto cambiò d’aspetto: il suo sudore diventò come gocce di sangue (22,44).
Il sonno fa’ chiudere gli occhi; per vedere occorre fare la fatica del vegliare; nella loro fragilità umana Pietro e gli altri fanno fatica a condividere quella preghiera così coinvolgente, impegnativa e trasformante che solo Gesù affronta in pienezza così che davanti a lui l’orizzonte si allarga per entrare nella dimensione “altra” di Dio

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