I tre Re Magi

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EPIFANIA DEL SIGNORE (06/01/2019)
Rivestiamoci tutti della luce di Cristo
padre Antonio Rungi
“Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce”, inizia con queste consolanti parole del profeta Isaia la prima lettura di questa solennità dell’Epifania del Signore, che quest’anno 2019, capita nella prima domenica del nuovo appena da pochi giorni iniziato. Migliore auspicio per tutti non può essere che questo invito da accogliere e da mettere in pratica.
L’invito a rialzarsi è rivolto a tutti gli uomini di buona volontà che desiderano ardentemente costruire un mondo migliore, partendo proprio dal messaggio del Redentore, in quella grotta di Betlemme a cui fa riferimento il profeta, tanti secoli prima della venuta di Cristo sulla terra. Il rialzarsi è quello della condizione di chi vive nell’errore e nel peccato o è scoraggiato dalla vita, per una molteplicità di motivi, compresi quelli del dolore, della malattia, della delusione, della depressione.
La ragione profonda di questa urgente ripresa che tutti dobbiamo attuare è il fatto che viene a noi la luce di Cristo e la gloria del Signore incomincia a brillare sopra di noi. Gesù la nostra speranza, apre nuovi orizzonti di vita spirituale, umana, sociale e mondiale, in quanto le genti cammineranno alla luce della buona notizia della venuta del salvatore e le tenebre scompariranno dal mondo, per tutti i popoli vedranno la gloria di Dio.
Chiaro riferimento alla manifestazione di Cristo, quale Salvatore, a tutta l’umanità con l’arrivo dei Magi, di cui oggi la chiesa fa memoria nella liturgia dell’Epifania.
A raccontarci lo storico avvenimento dell’arrivo dei Magi, prima e Gerusalemme e poi a Betlemme è l’evangelista Matteo che nel brano del Vangelo di oggi ci informa che al tempo del re Erode, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme per conoscere il re dei Giudei. Questi scienziati e scrutatori del cielo avevano, infatti, visto spuntare la stella del nuovo Re, cosicché si avviarono dal lontano Oriente verso la città santa, guidati dalla stella cometa. Cosa che avvenne regolarmente, non senza aver superato l’ostacolo del Re Erode, che voleva eliminare il bambino appena nato.
I Magi saggiamente non diedero informazioni al Re, una volta che ebbero la possibilità di seguire il tracciato del cielo per andare dritto al luogo prescelto dal Figlio di Dio per venire alla luce: quel villaggio di Betlemme, sconosciuto fino allora e divenuto famoso per la nascita di Gesù e per la diffusione della notizia che gli stessi Magi portarono nel loro viaggio di ritorno.
L’evangelista Matteo, mette in evidenza che i Magi, dopo un tempo di oscuramento della stella, provocato dal contatto con un Re assassino e criminale, videro di nuovo la stella, che avevano visto spuntare. Questa luce nel cielo li precedeva li accompagnava nel cammino e li illuminava nella notte, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino.
Di fronte a questa indicazione sicura che il cielo inviava loro, i Magi al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Per cui non si fermarono, ma proseguirono oltre, per giungere esattamente ne posto dove il Signore li stava indirizzando e chiamando, in quella grotta in cui li aveva attesi. Essi, quindi, entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. L’atto di devozione e di ossequio viene espletato in tutte le modalità e formalità, trovandosi loro davanti al Re e come tale Gesù viene adorato. Gli stessi doni portati dai Magi esprimevano questo significato della regalità di Cristo sulla terra della Palestina e del resto del mondo.
L’incontro con Gesù Bambino permise a questi scienziati e astrologi di ritornare direttamente al loro paese senza dare informazione ad Erode che attendeva una risposta. Infatti, avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Scelta saggia e intelligente per evitare ogni compromesso con il male e il potere distruttivo della politica del tempo.
Ecco perché san Paolo nella seconda lettura di oggi, tratta dalla sua lettera agli Efesini sottolinea l’importanza della sua missione tra le genti pagane, alle quali si rivolge per far conoscere il mistero della salvezza operata di Cristo. Tale mistero che non era stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni viene rivelato in questo preciso tempo della venuta di Gesù sulla terra.
E questo mistero consiste essenzialmente nel fatto che tutte le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo. Nessuno quindi è escluso dalla salvezza divina, ma tutti sono chiamati a salvarsi allontanandosi dal male, dalle temere del peccato, per seguire la luce radiosa del Cristo Redentore.
Non a caso nel prefazione dell’Epifania ci rivolgiamo a Dio con queste parole: Oggi in Cristo luce del mondo tu o Dio hai rivelato ai popoli il mistero della salvezza e in Lui, apparso nella nostra carne mortale, ci hai rinnovati con la gloria dell’immortalità divina. In fondo, la missione di Cristo è quella di portare a salvezza eterna tutti i suoi figli, tutti gli esseri umani, perché nessuno di esso vada perduto, allontanandosi dall’amore redentivo e misericordioso di Dio, fattosi bambino nel grembo purissimo della Beata Vergine Maria.
http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2012/documents/hf_ben-xvi_aud_20120627.html
BENEDETTO XVI – LETTERA AI FILIPPESI – UDIENZA 27.6.2012
UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VI
Mercoledì, 27 Giugno 2012
Cari fratelli e sorelle,
La nostra preghiera è fatta, come abbiamo visto nei mercoledì passati, di silenzi e di parola, di canto e di gesti che coinvolgono l’intera persona: dalla bocca alla mente, dal cuore all’intero corpo. E’ una caratteristica che ritroviamo nella preghiera ebraica, specialmente nei Salmi. Oggi vorrei parlare di uno dei canti o inni più antichi della tradizione cristiana, che san Paolo ci presenta in quello che è, in certo modo, il suo testamento spirituale: la Lettera ai Filippesi. Si tratta, infatti, di una Lettera che l’Apostolo detta mentre è in prigione, forse a Roma. Egli sente prossima la morte perché afferma che la sua vita sarà offerta in libagione (cfr Fil 2,17).
Nonostante questa situazione di grave pericolo per la sua incolumità fisica, san Paolo, in tutto lo scritto, esprime la gioia di essere discepolo di Cristo, di potergli andare incontro, fino al punto di vedere il morire non come una perdita, ma come guadagno. Nell’ultimo capitolo della Lettera c’è un forte invito alla gioia, caratteristica fondamentale dell’essere cristiani e del nostro pregare. San Paolo scrive: «Siate sempre lieti nel Signore; ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). Ma come si può gioire di fronte a una condanna a morte ormai imminente? Da dove o meglio da chi san Paolo trae la serenità, la forza, il coraggio di andare incontro al martirio e all’effusione del sangue?
Troviamo la risposta al centro della Lettera ai Filippesi, in quello che la tradizione cristiana denomina carmen Christo, il canto per Cristo, o più comunemente «inno cristologico»; un canto in cui tutta l’attenzione è centrata sui «sentimenti» di Cristo, cioè sul suo modo di pensare e sul suo atteggiamento concreto e vissuto. Questa preghiera inizia con un’esortazione: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Questi sentimenti vengono presentati nei versetti successivi: l’amore, la generosità, l’umiltà, l’obbedienza a Dio, il dono di sé. Si tratta non solo e non semplicemente di seguire l’esempio di Gesù, come una cosa morale, ma di coinvolgere tutta l’esistenza nel suo modo di pensare e di agire. La preghiera deve condurre ad una conoscenza e ad un’unione nell’amore sempre più profonde con il Signore, per poter pensare, agire e amare come Lui, in Lui e per Lui. Esercitare questo, imparare i sentimenti di Gesù, è la via della vita cristiana.
Ora vorrei soffermarmi brevemente su alcuni elementi di questo denso canto, che riassume tutto l’itinerario divino e umano del Figlio di Dio e ingloba tutta la storia umana: dall’essere nella condizione di Dio, all’incarnazione, alla morte di croce e all’esaltazione nella gloria del Padre è implicito anche il comportamento di Adamo, dell’uomo dall’inizio. Questo inno a Cristo parte dal suo essere «en morphe tou Theou», dice il testo greco, cioè dall’essere «nella forma di Dio», o meglio nella condizione di Dio. Gesù, vero Dio e vero uomo, non vive il suo «essere come Dio» per trionfare o per imporre la sua supremazia, non lo considera un possesso, un privilegio, un tesoro geloso. Anzi, «spogliò», svuotò se stesso assumendo, dice il testo greco, la «morphe doulos», la «forma di schiavo», la realtà umana segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dalla morte; si è assimilato pienamente agli uomini, tranne che nel peccato, così da comportarsi come servo completamente dedito al servizio degli altri. Al riguardo, Eusebio di Cesarea – IV secolo – afferma: «Ha preso su se stesso le fatiche delle membra che soffrono. Ha fatto sue le nostre umili malattie. Ha sofferto e tribolato per causa nostra: questo in conformità con il suo grande amore per l’umanità» (La dimostrazione evangelica, 10, 1, 22). San Paolo continua delineando il quadro «storico» in cui si è realizzato questo abbassamento di Gesù: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Il Figlio di Dio è diventato veramente uomo e ha compiuto un cammino nella completa obbedienza e fedeltà alla volontà del Padre fino al sacrificio supremo della propria vita. Ancora di più, l’Apostolo specifica «fino alla morte, e a una morte di croce». Sulla croce Gesù Cristo ha raggiunto il massimo grado dell’umiliazione, perché la crocifissione era la pena riservata agli schiavi e non alle persone libere: «mors turpissima crucis», scrive Cicerone (cfr In Verrem, V, 64, 165).
Nella Croce di Cristo l’uomo viene redento e l’esperienza di Adamo è rovesciata: Adamo, creato a immagine e somiglianza di Dio, pretese di essere come Dio con le proprie forze, di mettersi al posto di Dio, e così perse la dignità originaria che gli era stata data. Gesù, invece, era «nella condizione di Dio», ma si è abbassato, si è immerso nella condizione umana, nella totale fedeltà al Padre, per redimere l’Adamo che è in noi e ridare all’uomo la dignità che aveva perduto. I Padri sottolineano che Egli si è fatto obbediente, restituendo alla natura umana, attraverso la sua umanità e obbedienza, quello che era stato perduto per la disobbedienza di Adamo.
Nella preghiera, nel rapporto con Dio, noi apriamo la mente, il cuore, la volontà all’azione dello Spirito Santo per entrare in quella stessa dinamica di vita, come afferma san Cirillo di Alessandria, la cui festa celebriamo oggi: «L’opera dello Spirito cerca di trasformarci per mezzo della grazia nella copia perfetta della sua umiliazione» (Lettera Festale 10, 4). La logica umana, invece, ricerca spesso la realizzazione di se stessi nel potere, nel dominio, nei mezzi potenti. L’uomo continua a voler costruire con le proprie forze la torre di Babele per raggiungere da se stesso l’altezza di Dio, per essere come Dio. L’Incarnazione e la Croce ci ricordano che la piena realizzazione sta nel conformare la propria volontà umana a quella del Padre, nello svuotarsi dal proprio egoismo, per riempirsi dell’amore, della carità di Dio e così diventare veramente capaci di amare gli altri. L’uomo non trova se stesso rimanendo chiuso in sé, affermando se stesso. L’uomo si ritrova solo uscendo da se stesso; solo se usciamo da noi stessi ci ritroviamo. E se Adamo voleva imitare Dio, questo di per sé non è male, ma ha sbagliato nell’idea di Dio. Dio non è uno che vuole solo grandezza. Dio è amore che si dona già nella Trinità, e poi nella creazione. E imitare Dio vuol dire uscire da se stesso, darsi nell’amore.
Nella seconda parte di questo «inno cristologico» della Lettera ai Filippesi, il soggetto cambia; non è più Cristo, ma è Dio Padre. San Paolo sottolinea che è proprio per l’obbedienza alla volontà del Padre che «Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9). Colui che si è profondamente abbassato prendendo la condizione di schiavo, viene esaltato, innalzato sopra ogni cosa dal Padre, che gli dà il nome di «Kyrios», «Signore», la suprema dignità e signoria. Di fronte a questo nome nuovo, infatti, che è il nome stesso di Dio nell’Antico Testamento, «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore”, a gloria di Dio Padre» (vv. 10-11). Il Gesù che viene esaltato è quello dell’Ultima Cena, che depone le vesti, si cinge di un asciugamano, si china a lavare i piedi agli Apostoli e chiede loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,12-14). Questo è importante ricordare sempre nella nostra preghiera e nella nostra vita: «l’ascesa a Dio avviene proprio nella discesa dell’umile servizio, nella discesa dell’amore, che è l’essenza di Dio e quindi la forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e di vedere Dio» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 120).
L’inno della Lettera ai Filippesi ci offre qui due indicazioni importanti per la nostra preghiera. La prima è l’invocazione «Signore» rivolta a Gesù Cristo, seduto alla destra del Padre: è Lui l’unico Signore della nostra vita, in mezzo ai tanti «dominatori» che la vogliono indirizzare e guidare. Per questo, è necessario avere una scala di valori in cui il primato spetta a Dio, per affermare con san Paolo: «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (Fil 3,8). L’incontro con il Risorto gli ha fatto comprendere che è Lui l’unico tesoro per il quale vale la pena spendere la propria esistenza.
La seconda indicazione è la prostrazione, il «piegarsi di ogni ginocchio» nella terra e nei cieli, che richiama un’espressione del Profeta Isaia, dove indica l’adorazione che tutte le creature devono a Dio (cfr 45,23). La genuflessione davanti al Santissimo Sacramento o il mettersi in ginocchio nella preghiera esprimono proprio l’atteggiamento di adorazione di fronte a Dio, anche con il corpo. Da qui l’importanza di compiere questo gesto non per abitudine e in fretta, ma con profonda consapevolezza. Quando ci inginocchiamo davanti al Signore noi confessiamo la nostra fede in Lui, riconosciamo che è Lui l’unico Signore della nostra vita.
Cari fratelli e sorelle, nella nostra preghiera fissiamo il nostro sguardo sul Crocifisso, sostiamo in adorazione più spesso davanti all’Eucaristia, per far entrare la nostra vita nell’amore di Dio, che si è abbassato con umiltà per elevarci fino a Lui. All’inizio della catechesi ci siamo chiesti come san Paolo potesse gioire di fronte al rischio imminente del martirio e della sua effusione del sangue. Questo è possibile soltanto perché l’Apostolo non ha mai allontanato il suo sguardo da Cristo sino a diventargli conforme nella morte, «nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,11). Come san Francesco davanti al crocifisso, diciamo anche noi: Altissimo, glorioso Dio, illumina le tenebre del mio cuore. Dammi una fede retta, speranza certa e carità perfetta, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen (cfr Preghiera davanti al Crocifisso: FF [276]).