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PAPA FRANCESCO – La Casa sulla roccia – 6 dicembre 2018

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PAPA FRANCESCO – La Casa sulla roccia – 6 dicembre 2018

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.279, 7/12/2018)

Fondare la propria vita «sulla roccia di Dio» e sulla «concretezza» dell’agire e del donarsi, piuttosto che «sulle apparenze o sulla vanità» o sulla cultura corrotta delle «raccomandazioni». È l’indicazione che Papa Francesco ha suggerito — durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 6 dicembre — per vivere coerentemente il cammino dell’Avvento.
Linee guida semplici e impegnative al tempo stesso, che il Pontefice ha ricavato dalle letture del giorno, nelle quali s’incontrano tre significativi gruppi di parole contrapposte: «dire e fare», «sabbia e roccia», «alto e basso».
Riguardo al primo gruppo — «dire e fare» — il Pontefice ha richiamato immediatamente le parole del Vangelo di Matteo (7, 21): «Non chiunque mi dica “Signore, Signore” entrerà nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre». E ha spiegato: «Si entra nel regno dei cieli, si matura spiritualmente, si va avanti nella vita cristiana con il fare, non con il dire». Infatti «il dire è un modo di credere, ma a volte molto superficiale, a metà cammino»: come quando «io dico che sono cristiano ma non faccio le cose del cristiano». È una sorta di «truccarsi», perché «dire soltanto, è un trucco», è «dire senza fare».
Invece «la proposta di Gesù è concretezza». E così, «quando qualcuno si avvicinava e chiedeva consiglio», lui proponeva «sempre cose concrete». Del resto, ha aggiunto il Papa, «le opere di misericordia sono concrete». E ancora: «Gesù non ha detto: “Ma vai a casa tua e pensa ai poveri, pensa ai carcerati, pensa agli ammalati”: no. Vai: visitali».
Ecco la contrapposizione tra il fare e il dire. Necessaria da evidenziare perché «tante volte noi scivoliamo, non solo personalmente ma socialmente, sulla cultura del dire». A tale riguardo Francesco ha indicato una pratica purtroppo diffusa, quella legata alla «cultura delle raccomandazioni». Accade, per esempio, che per un concorso all’università venga scelto «uno che non ha quasi meriti» rispetto a tanti bravi professori; «e se si domanda: “Ma perché questo? E questi altri bravi..?” – “Perché questo è stato raccomandato da un cardinale, lei sa… i pesci grossi…”». Questo il commento del Papa: «Io non voglio pensare male, ma sotto il tavolo di una raccomandazione sempre c’è una busta». Si tratta solo di un esempio del prevalere del “dire”: «non sono i meriti, non è il fare quello che ti fa andare avanti, no: è il dire. Truccarsi la vita». Ed è proprio «una delle contraddizioni che la liturgia di oggi ci insegna: fare, non dire». Addirittura, ha spiegato il Papa chiudendo questa prima parte della riflessione, «Gesù consiglia» di «fare senza dire: quando dai l’elemosina, quando preghi… di nascosto, senza dirlo. Fare, non dire».
Il secondo confronto rimanda a un’immagine usata da Gesù nel Vangelo: «un uomo saggio costruisce la sua casa sulla roccia, non sulla sabbia». La parabola ha una sua evidenza: «La sabbia non è solida. E una tempesta, i venti, i fiumi, tante cose, la pioggia fanno cadere una casa costruita sulla sabbia. La sabbia è una concretezza debole». Ha spiegato il Pontefice: «La sabbia è conseguenza del dire: io mi trucco, come cristiano, mi costruisco una vita ma senza fondamenti. La vanità, la vanità è dire tante cose, o farmi vedere senza fondamento, sulla sabbia». Bisogna invece «costruire sulla roccia». A tale riguardo il Papa ha invitato a cogliere la bellezza della prima lettura del giorno, tratta da Isaia (26, 1-6), dove si legge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna».
È una contrapposizione strettamente legata a quella tra il dire e il fare, perché «tante volte, chi confida nel Signore non appare, non ha successo, è nascosto… ma è saldo. Non ha la sua speranza nel dire, nella vanità, nell’orgoglio, negli effimeri poteri della vita», ma si affida al Signore, «la roccia». Ha spiegato Francesco: «La concretezza della vita cristiana ci fa andare avanti e costruire su quella roccia che è Dio, che è Gesù; sul solido della divinità. Non sulle apparenze o sulla vanità, l’orgoglio, le raccomandazioni… No. La verità».
Infine il «terzo gruppo», dove si fronteggiano i concetti di «alto e basso». È ancora il brano di Isaia a guidare la meditazione: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo. I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un passo, ha fatto notare il Pontefice, che ricorda il «canto della Madonna, del Magnificat: il Signore alza gli umili, quelli che sono nella concretezza di ogni giorno, e abbatte i superbi, quelli che hanno costruito la loro vita sulla vanità, l’orgoglio… questi non durano». E l’espressione, ha sottolineato Francesco, «è molto forte, anche nel Magnificat si usa “ha rovesciato”, e anche più forte: quella grande città bella è calpestata. Da chi? Dai piedi degli oppressi e dai passi dei poveri». Cioè, il Signore «esalta i poveri, esalta gli umili».
La categoria di «alto e basso», ha aggiunto il Papa a commento, viene usata anche da Gesù, ad esempio, quando «parla di satana: “Io ho visto satana cadere dall’alto del cielo». Ed è l’espressione di un «giudizio definitivo sugli orgogliosi, sui vanitosi, su quelli che si vantano di essere qualcosa ma sono pura aria».
Concludendo l’omelia, Francesco ha invitato ad accompagnare il tempo di Avvento con la riflessione su «questi tre gruppi di parole che contrastano una con l’altra. Dire o fare? Io sono cristiano del dire o del fare? Sabbia e roccia: io costruisco la mia vita sulla roccia di Dio o sulla sabbia della mondanità, della vanità? Alto e basso: io sono umile, cerco di andare sempre dal basso, senza orgoglio, e così servire il Signore?». Sarà di aiuto rispondere a tali domande; e, ha aggiunto, anche prendere il Vangelo di Luca e pregare «con il canto della Madonna, con il Magnificat, che è un riassunto di questo messaggio di oggi».

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Lc 3,1-6

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II Domenica di Avvento (Anno C) (09/12/2018)

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II Domenica di Avvento (Anno C) (09/12/2018)

mons. Roberto Brunelli

L’esordio del vangelo di oggi (Luca 3,1-6) ha il tono solenne degli annunci ufficiali: « Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto ».
Dunque, in un preciso anno da quando Tiberio era divenuto imperatore di Roma, in quella parte del suo impero di cui si elencano le « province » con i rispettivi governanti e le supreme autorità religiose, Giovanni Battista proclama l’imminente arrivo del Messia atteso da secoli. Di lui e della sua opera, l’evangelista Luca dà le coordinate storico-geografiche, precisando quando e dove egli si è manifestato: un modo per affermare che la figura del Messia – o, per dirlo con la più nota parola greca corrispondente, il Cristo – non è stato un frutto della fantasia, un mito: egli è venuto in un tempo e in un luogo precisi, a fare qualcosa di preciso che il seguito del vangelo si cura di esporre. Ma l’esordio dice anche altro: le autorità ricordate sono quasi tutte relative alla regione abitata dal popolo che del Cristo era in attesa; tuttavia, la citazione dell’imperatore di Roma e del suo rappresentante locale Ponzio Pilato colloca l’evento in un contesto più ampio, lo inserisce nella grande storia universale.
Gli ebrei ritenevano che il Messia sarebbe venuto solo per loro; il Battista afferma subito che non è così, e lo fa citando proprio uno dei protagonisti della storia ebraica, il profeta Isaia: « Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio ». Ogni uomo, non solo gli ebrei; ogni uomo, senza distinzione di razza, cultura, posizione nella scala sociale eccetera. Si afferma così subito, sin dagli inizi della vita pubblica di Gesù, il valore universale di quello che egli è venuto a compiere. Il suo avvento, in un luogo e un tempo precisi, ridonda a beneficio di tutti gli appartenenti alla specie umana, di ogni luogo e di ogni tempo. Ridonda, ma non come il sole o la pioggia che riguardano tutti, lo vogliano o no: i benefici della salvezza operata da Gesù non sono imposti, ma offerti, e dunque, per essere efficaci, ne richiedono l’accettazione, l’accoglienza. Dio rispetta la libertà che egli stesso ha conferito agli uomini, persino la libertà di rifiutarlo.
Quando qualcuno porta un regalo a un altro, se il destinatario non lo rifiuta deve almeno tendere le mani a riceverlo. Se l’ospite che si annuncia è gradito, quanto meno lo si accoglie in una casa pulita. Le mani tese a ricevere il dono di Dio, la pulizia della « casa » in cui accoglierlo sono espresse con una metafora desunta dall’ambiente palestinese. Riprendendo le parole del profeta Isaia, Giovanni Battista proclama: « Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! »
Il deserto che comincia appena fuori Gerusalemme e scende sino a Gerico e al Mar Morto è costituito da colline rocciose, che impongono a chi lo attraversa continue salite e discese e giravolte. Ebbene, quel deserto è la mente, è il cuore, è l’anima di chi vive senza Dio: per accoglierlo, occorre spianargli la strada. E per farlo, prosegue il sacro testo, occorre riempire i burroni (quali sono ad esempio i vuoti, le tante carenze della nostra umanità), abbassare monti e colli (la nostra superbia, ad esempio, o l’illusione di bastare a noi stessi, di potere far senza di lui), raddrizzare le vie tortuose (gli imbrogli, le menzogne, il ricorso a metodi subdoli per raggiungere i nostri scopi). Abbiamo imparato a costruire autostrade, diritte e veloci, con i ponti a « colmare » le valli e le gallerie a « spianare » i monti. Specie in questo tempo di Avvento, dedicato a ricordare che il Signore viene, Isaia e il Battista invitano a costruire autostrade anche dentro e intorno a noi.

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Immacolata Concezione

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LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA – 3. L’IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA

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LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA – 3. L’IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA

La solennità dell’Immacolata Concezione di Maria che si celebra l’8 dicembre è l’evoluzione della festa sempre dell’Immacolata Concezione di Maria, la quale a sua volta affonda le radici nell’oriente cristiano, dove fin dal secolo VIII si celebra la festa della “Concezione di s. Anna” (9 dicembre), derivante dal protovangelo di Giacomo. Solo nel IX secolo questa festa la troviamo presente in Occidente prima nell’Italia Meridionale e poi in Inghilterra dove viene celebrata l’8 dicembre con il nome di “Concezione della s. Vergine Maria”.
Questa nuova denominazione non celebra tuttavia l’immacolata concezione, ciò avverrà tre secoli più tardi, come viene precisato in alcuni testi inglesi e come si trova scritto nel De conceptione beatae Mariae di Eadmero, colui che si può definire il primo teologo dell’immacolata concezione. Verso il 1130 questa festa si diffonde in Normandia e in Francia, nonostante l’opposizione di s. Bernardo di Chiaravalle, come attesta la celebre lettera che lo stesso invia ai canonici di Lione, che già la celebravano.
Nel secolo XIII invece di un’ulteriore sviluppo essa subisce un declino e viene cancellata da molti calendari liturgici (nel secolo XII si era arrivati ad una quindicina di Offici della Concezione di Maria), ciò probabilmente è dovuto all’influenza di alcuni grandi teologi che non ammettevano il privilegio mariano e non tolleravano nemmeno la celebrazione liturgica di esso, nel senso di “santificazione di Maria”. Tuttavia nonostante il rifiuto dei più grandi teologi nel secolo XIV si assiste ad una ripresa, grazie anche ai primi interventi del magistero della Chiesa, infatti per autorità del concilio di Basilea (1438) Giovanni di Segovia compone un nuovo officio; qualche anno più tardi (1477) papa Sisto IV con la costituzione Cum praeexcelsa approva sia la messa sia l’officio della Concezione di Maria, composti da Leonardo di Nogarole, e con il breve Libenter ad ea (del 1408) quelli composti da Bernardino di Busto.
Ma è solo nel 1708, ad opera di Clemente XI che la festa della “Concezione della b. vergine Maria immacolata” (così si chiamava) diventa di precetto, festa che nel 1863 Pio IX doterà di un nuovo officio e di una nuova messa. Quello che possediamo attualmente è frutto della liturgia romana restaurata da Paolo VI a partire dall’anno 1969. Esso risulta essere «un composito di vecchio e di nuovo: infatti i due canti dell’ingresso e della comunione e le tre orazioni proprie provengono dalla messa approvata da Pio IX dopo la definizione dogmatica, mentre del tutto nuovo è il testo del prefazio, che utilizza Ef 5, 27 e si ispira alla LG e alla SC. Così vengono proposti insieme temi tradizionali in perfetta continuità dottrinale con il passato e temi nuovi in perfetta aderenza agli sviluppi teologici del nostro tempo: i primi si possono identificare nella descrizione del “privilegio” di Maria in rapporto a Cristo i secondi nella sottolineatura delle implicanze antropologiche ed ecclesiologiche del mistero celebrato» .
Questo l’iter, anche se descritto in modo sintetico, percorso dalla solennità dell’Immacolata Concezione di Maria per arrivare alla celebrazione che oggi conosciamo, tuttavia questo non è stato un semplice susseguirsi di eventi, ma ha comportato vere e proprie diatribe a volte anche di non facile e breve risoluzione. Ma vediamo meglio questo sviluppo.
Influsso prioritario della fede popolare
Ciò che emerge chiaramente è che la solennità dell’Immacolata Concezione, come pure il suo corrispondente dogma non nasce dalla riflessione teologica, bensì dalla pietà dei fedeli, esso usando il linguaggio teologico è frutto del “sensus fidelium”. È questo “sensus” cristiano popolare che intuitivamente ha preceduto la teologia che per anni o meglio per secoli, ha ondeggiato pro o contro di esso, fino alla definizione dogmatica del magistero del 1854. Dire quando la fede popolare abbia iniziato a manifestarsi anche attraverso scritti o con attività e iniziative di ordine cultuale o artistico è difficile, si è in possesso solo di testimonianze indirette offerteci dagli stessi teologi che si dichiaravano pro o contro a queste interpretazioni popolari.
La prima indicazione circa l’origine straordinaria e santa di Maria la troviamo presente nel protovangelo di Giacomo, uno scritto apocrifo del II secolo, nel quale si legge che Anna ha concepito Maria senza l’intervento di uomo, perché Gioacchino si trovava nel deserto. Il testo, probabilmente scritto in Egitto con un genere letterario popolare e molto fantasioso, non da un dato storico attendibile, in quanto l’autore non conosce bene la tradizione ebraica, e per questo criticato prima da san Epifanio e poi da san Bernardo circa la concezione verginale di Maria da parte di Anna. Tuttavia tale racconto, sorto in ambiente popolare, contiene certamente delle istanze teologiche e, pur non specificando l’assenza di peccato originale in Maria, rappresenta «una prima presa di coscienza intuitiva e mitica della santità perfetta e originale di Maria nella sua stessa concezione» .
Inoltre, non va dimenticato che fino al concilio di Nicea (325) non si hanno particolari riflessioni che descrivano l’assenza del peccato ab initio in Maria, tuttavia i padri nei loro abbondano nell’esaltare la figura della Tuttasanta usando parole ridondanti, questo conferma l’alta idea che il popolo si era fatto di lei. Nella controversia pelagiana la perfezione e la dignità di Maria divengono presupposto su cui Pelagio († 422 ca) e Giuliano di Eclano († 454) e che Agostino, in lotta contro il pensiero pelagiano, non solo condivide ma lo fa conoscere: «la pietà impone di riconoscere Maria senza peccato», specificando nella disputa con questi due assertori dell’immacolata concezione, che tuttavia non la proponevano in un contesto di privilegio né di dipendenza da Cristo, che per l’onore del Signore Maria non deve assolutamente entrare in questione quando si parla del peccato.
D’altra parte è vero per Agostino, che il suo pensiero circa il traducianesimo e il giusto pensiero circa la necessità della redenzione, gli impediscono di ammettere un’eccezione per Maria. Egli stesso si giustifica dall’accusa di assoggettare Maria al diavolo, ciò che chiaramente ripugnava la coscienza cristiana, ricorrendo alla grazia della rigenerazione, scrivendo in un’espressione divenuta famosa ma non priva di ambiguità: «Non ascriviamo al diavolo Maria in forza della sua nascita, ma proprio perché tale condizione è sciolta dalla grazia della rinascita» . In questa affermazione di Agostino negativa per motivi teologici all’immacolata concezione, ma attenta alla pietà popolare emerge chiaro il contrasto, che si farà sempre più forte, tra la teologia e l’amore del popolo verso Maria, amore che alla fine (come vedremo) prevarrà.
Ed è proprio per questo amore che alcuni teologi a partire dal secolo XI sono spinti ad approfondire questo tema mariano e il loro contributo non si ferma ai soli “Trattati” ma da il proprio contributo anche alla pietà liturgica. Profonda è la convinzione che Maria sia senza peccato che quando verrà abolita la festa della Concezione, che già celebrava, perché viene negato il privilegio mariano, dapprima si scandalizza, poi arriverà a reagire anche in modo violento contro gli assertori del peccato originale in Maria.
Il benedettino inglese Eadmero, nel suo Trattato sulla concezione della b. Maria vergine, rileva il contrasto tra la «pura semplice e l’umile devozione» del popolo che celebrava con gioia la festa della Concezione della madre di Dio e la «scienza superione e disquisizione valente» dei sapienti ecclesiastici o secolari, che avevano abolito la festa dichiarandola priva di fondamento. E in questo confronto il monaco benedettino, discepolo di sant’Anselmo, opta per il popolo perché Dio come attesta Gesù si rivela ai semplici e non ai superbi (cf. Mt 11, 25; Lc 10, 21) e scrive nel suo Trattato: «Mosso dall’affetto della pietà e sincera devozione per la madre di Dio» si schiera con coloro che condividono la concezione di Maria libera da ogni peccato.
Qualche secolo più tardi, il canonico Giovanni di Romiroy, presente al concilio di Basilea (1435), afferma che la devozione popolare deve essere considerata il primo valido motivo che deve indurre i padri conciliari a porre fine alla controversia “dell’immacolata concezione”. Operando in questo modo si toglierebbe anche lo scandalo che si perpreta contro il popolo cristiano quando si afferma che Maria è stata macchiata dal peccato originale .
Nel corso dei secoli successivi la fede popolare circa questo dogma va sempre più confermandosi, nonostante una parte della dotta teologia continui ad opporsi. Basti pensare che nel XVI secolo il domenicano Melchior Cano, uno tra i più insigni teologi del suo tempo, rivendica ad essi che sono saggi e competenti e non al volgo la facoltà di discernere la verità o la falsità delle proposizioni in materia di fede; fa questa affermazione perché deve riconoscere che se questo compito appartenesse al popolo la polemica relativa all’immacolata concezione sarebbe già risolta, perché il popolo non appena sente affermare che la beata Vergine Maria ha contratto il peccato originale, subito si sente turbato e offeso, quasi torturato. In Spagna addirittura diventa impossibile sostenere tale posizione dal pulpito, poiché il popolo reagisce con mormorii, clamore e perfino violenze, contro quei predicatori che tanto osano.
Se Dionigi il Certosino nel 1400 poteva pronunciare la parola “orrore” dinanzi all’attribuzione del peccato originale a Maria, il Vasquez nel 1600 può riconoscere che la credenza nell’immacolata concezione è divenuta un fatto universale profondamente radicato, affermando che: «Essa è talmente cresciuta e inveterata con i secoli, da far sì che nessun uomo possa esserne staccato o smosso» . Il popolo esprime questa sua fede a partire dal secolo XVII istituendo varie confraternite con il titolo dell’“Immacolata Concezione”, con nuove preghiere come l’aggiunta in qualche litania l’invocazione “sancta Virgo praeservata” (Parigi, 1586), con la dedica di cappelle o altari all’Immacolata, anche le varie espressioni artistiche non ne sono esente, basti ricordare le 25 tele del Murrillo.
Nel XVII secolo nasce nelle università un movimento di tipo promozionale, senza analogia con quello popolare. Tale movimento arriva ad includere il “votum sanguinis”, cioè un giuramento di difendere l’immacolata concezione fino all’effusione del sangue. La prima università ad emettere questo voto fu quella di Siviglia nei primi anni del 1600, seguita da varie università sia spagnole sia italiane. Tale gesto influirà anche ordini religiosi, santi, confraternite e i fedeli, provocando pure una lunga controversia, iniziata con l’opposizione di L. A. Muratori al “voto sanguinario”.
Il celebre erudito in altre opere scritte sotto pseudonimo tornerà ad attaccare il voto bollandolo come imprudente, gravemente colpevole e ispirato da falsa pietà certamente non illuminata. Perché non è lecito esporre la propria vita per un’opinione qual è quella relativa all’immacolata concezione, non approvata dal magistero. Tuttavia questa tesi fu duramente contestata in varie parti d’Europa, e tra gli oppositori si annovera sant’Alfonso M. de Liguori, il quale in una celebre apologia contesta l’affermazione di opinabilità a riguardo dell’immacolata concezione, perché esistono due motivi che garantiscono per certa tale dottrina: il consenso dei fedeli e la celebrazione universale della festa dell’Immacolata Concezione.
Da quanto fin qui si è potuto riscontrare grande è l’influsso del senso dei fedeli in relazione all’Immacolata Concezione, e molti sono i fattori che hanno concorso a fomentarli, tra i quali la predicazione popolare, soprattutto quella ad opera dei francescani che dal 1621 giurarono di difendere l’immacolata concezione, fra essi si ricorda san Leonardo da Porto Maurizio, anche i catechismi di san Pietro Canisio, di san Roberto Bellarmino e del Bossuet portarono il loro contributo, nemmeno vanno dimenticati alcuni eventi straordinari come la visione dell’abate inglese Helsin (salvato dal naufragio purché celebrasse l’Immacolata Concezione – 1070 ca –), le Rivelazioni di s. Brigida e le apparizioni di Rue du Bac (1830). Ma ciò che ha contribuito a radicare nel popolo la credenza nell’immacolata concezione fu la festa liturgica la prima delle quali, come già abbiamo visto, fu introdotta dall’oriente in Italia meridionale nel secolo IX (a Napoli un calendario liturgico inciso su marmo porta scritto al 9 dicembre “Conceptio sanctae Mariae Virginis”), seguita dall’Inghilterra nell’XI secolo, fino a diventare nel 1708 per volere di Clemente XI festa della chiesa universale.
Il ruolo illuminante della teologia
Se il luogo originario dell’immacolata concezione non è nella teologia, perché come abbiamo brevemente visto importante e fondamentale è stato l’intuito popolare, tuttavia ha teologia ha svolto lo stesso un ruolo importante nell’enucleazione della verità mariana sia mediante la formulazione chiara della fede popolare, sia riuscendo ad armonizzarla con l’insieme dei dati rivelati, sia sciogliendo i nodi di ordine teologico e culturale, sia fondandola su argomenti convincenti.
La patristica è la teologia che ha saputo preparare il terreno per lo sbocciare della fede immacolista, infatti lungo i primi secoli della Chiesa i padri hanno saputo elaborare la figura morale di Maria dandole dei connotati di grande santità ed esenzione dal peccato. Nonostante qualche esitazione (Tertulliano, Origene, Basilio), i padri e gli altri antichi scrittori partono dalla vocazione iniziale di Maria, essere madre di Dio per arrivare a concludere ad una conveniente preparazione morale di Maria. Se Origene, Ippolito, Epifanio, Eusebio, Agostino, Girolamo, chiamano “santa” Maria, altri padri come Teodoto d’Ancira, Efrem il Siro e altri omileti del VI-IX secolo, dichiarano Maria “senza macchia, immacolata, integra, innocente”, tuttavia non va dimenticato che si è ancora nel campo dell’esenzione dai peccati personali, solo in Proco di Costantinopoli, Theoteknos di Livia e Andrea di Creta la condizione di immacolatezza di Maria viene estesa fino al momento della sua venuta all’esistenza.
Maria è «il santuario dell’impeccabilità, il tempio santificato da Dio… il paradiso verdeggiante e incorruttibile», così Proco di Costantinopoli, mentre per Theoteknos di Livia Maria è: «tutta bella, pura e senza macchia… Nasce come i cherubini colei che è fata di argilla pura e immacolata» , mentre per Andrea di Creta «il corpo della Vergine è una terra che Dio ha lavorato, la primizia della massa adamitica che è stata divinizzata nel Cristo, l’immagine del tutto somigliante della bellezza divina, l’argilla modellata dalle mani dell’artista divino» . Ed è questa dottrina che trova codificazione liturgica nella festa della Concezione di Maria, che sorge in oriente tra il VII e VIII secolo e che passa in Italia nel IX aprendo una lunga discussione che già la controversia pelagiana aveva abbozzato.
In ambito occidentale grazie a Pelagio si inizia a esplicitare la dottrina sull’Immacolata, questi l’affermava partendo dalla santità di Maria e dall’onore del Signore, tesi ripresa dal suo discepolo Giuliano d’Eclano. Tuttavia questa era una conclusione teologica unilaterale, non armonizzata con altri dati di fede. Nella controversia con Pelagio prima e Giuliano poi Agostino riconoscendo «che Maria va tenuta lontano da ogni forma di peccato, riconduce questa sua santità nell’alveo della condizione umana inficiata dalla colpa originale e bisognosa della redenzione di Cristo» , afferma che «Maria sarebbe sottoposta al peccato d’origine solo per esserne subito liberata con la grazia della rigenerazione» .
È questo un concetto che complica e ritarda lo sviluppo della verità sull’immacolata concezione, già emersa chiaramente nel discorso plagiano, ma allo stesso tempo la inserisce nell’orbita della salvezza. D’ora in poi questa verità mariana si affermerà non come caso di autosalvezza, frutto della natura umana lasciata a se stessa per confrontarsi con l’opera salvifica dell’unico mediatore (Pelagio e Giuliano), ma chiaro esempio della grazia redentiva di Cristo salvatore.
Certamente rispetto all’oriente in occidente l’idea dell’immacolata concezione trova un contesto irto di difficoltà, essa andava a cozzare sia con il concetto universale di salvezza sia con le conoscenze di ordine biologico che distinguevano la concezione attiva e passiva (a sua volta completa o incompleta), sia con il traducianesimo, dottrina che pensava il peccato originale si trasmettesse tramite l’atto generativo. Tutti questi presupposti hanno portato i grandi teologi del XIII secolo, quali Alberto di Hales, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura, e prima ancora Anselmo di Canterbury e Bernardo di Chiaravalle, ad affermare che Maria venne concepita nel peccato originale e in seguito purificata. Affermazione che solo attraverso la riflessione attiva di altri teologi fu piano piano rimossa spianando la strada all’affermazione dell’immacolata concezione della Vergine Maria quale effetto dell’azione salvifica di Cristo.
Pascasio Radberto, movendo dall’oggetto proprio della festa liturgica, afferma senza indugi che Maria «è stata esente da ogni peccato originale» . Anche Anselmo di Canterbury contribuisce alla causa immacolista, infatti, pur negandone la sostanza, mediante il concetto della “pre-redenzione” annovera Maria tra quelli che Cristo redime prima di nascere.
Tuttavia, come già dicevo, il primo teologo dell’immacolata concezione resta Eadmero, il quale nel suo trattato non solo difende l’intuizione de popolo, ma dimostra la possibilità di questa dottrina distinguendo la concezione attiva (nel peccato) da quella passiva (senza peccato) nel celebre esempio della castagna che esce indenne dal proprio guscio spinoso: «Non poteva forse (Dio) conferire a un corpo umano… di restare libero da ogni puntura di spine, anche se fosse stato concepito in mezzo ai pungiglioni del peccato? È chiaro che lo poteva e voleva; se lo ha voluto l’ha fatto». Inoltre elabora l’argomento di convenienza che si fonda sull’unione esistente tra Maria in quanto madre e Cristo in quanto figlio, e sull’armonia esistente tra la condizione glorificata della Vergine e la sua entrata nell’esistenza, condizione non meno perfetta di quella degli angeli, e sulla finalità salvifica di colei che è il «singolare propiziatorio di tutto il mondo».
Nonostante conosca la posizione redentiva anticipata di sant’Anselmo, Eadmero non giunge alla redenzione preservativa, questa sarà fatta propria da alcuni teologi della scuola francescana come il Bonaventura e l’Olivi, che però in seguito la rigettano, e dallo Scoto, che ne farà il fulcro della propria argomentazione a conferma della tesi immacolista, tesi che presenta con circospezione per non essere accusato di eresia, infatti se ad Oxford afferma di ritenere l’immacolato concepimento di Maria probabile, a Parigi affermerà che questo è possibile. Nonostante questo porsi con cautela a Duns Scoto va riconosciuto il merito di aver slegato la questione teologica dai condizionamenti culturali circa la generazione ponendo la persona come soggetto di colpa o santità, ma anche ha elaborato definitivamente il concetto della redenzione preservativa, della quale l’immacolata concezione non è un’eccezione alla redenzione operata da Cristo, ma un caso di perfetta e più efficace azione salvifica dell’unico mediatore.
Così ragiona lo Scoto: «Cristo esercitò il più perfetto grado possibile di mediazione relativamente a una persona per la quale era mediatore. Ora per nessuna persona esercitò un grado più eccellente che per Maria… Ma ciò non sarebbe avvenuto se non avesse meritato di preservarla dal peccato originale» . È questo un intervento decisivo nello sviluppo della dottrina dell’immacolata concezione, la quale sarà difesa soprattutto dai francescani e diverrà via via comune a tutti i teologi, le stesse università cominceranno ad accettarla e si impegneranno con giuramento a difenderla.
In questa lunga e controversa diatriba non va dimenticato il magistero dei pontefici che a partire da papa Sisto IV cominciano a codificare liturgicamente questo privilegio mariano, approvando i vari offici che nascono, fino ad arrivare a Pio IX che nel 1854 sancì dogmaticamente questo privilegio mariano.

P. Gino Alberto Faccioli, ISSR « Santa Maria di Monte Berico »

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Sant’Ambrogio

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7 DICEMBRE: SANT’AMBROGIO, VESCOVO DI MILANO (340-397) – CRISTO PER NOI E’ TUTTO

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7 DICEMBRE: SANT’AMBROGIO, VESCOVO DI MILANO (340-397) – CRISTO PER NOI E’ TUTTO

Milano 374. In una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, presbiteri e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani stavano discutendo animatamente sul nome del successore del vescovo Assenzio (ariano) morto di recente. Era un po’ di tempo ormai che le due fazioni si affrontavano animatamente anche per le strade, con qualche pericolo per l’ordine pubblico. Non si poteva far finta di niente.
E infatti Ambrogio, il governatore (della Lombardia, Liguria ed Emilia, con sede appunto a Milano) si recò in quella chiesa per calmare gli animi e per incoraggiare il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni, anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla popolazione essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di funzionario pubblico sembrava compiuta e con successo, quando accadde l’imprevisto che gli cambierà completamente la vita.
Qualcuno dalla folla, sembra un bambino, gridò forte: “Ambrogio vescovo” e l’intera assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi folgorati da quel grido (era un’ispirazione dall’alto?) ripeterono a loro volta “Ambrogio vescovo”. Non si diceva già allora “Vox populi, vox Dei”?.
A furor di popolo, ecco trovata la soluzione allo spinoso problema. Tutti d’accordo sul nuovo vescovo: il loro governatore, anche se era un semplice catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche. E l’interessato? Per la verità non era proprio entusiasta. Proprio lui ancora semplice catecumeno e per di più a completo digiuno di teologia (quindi senza un’adeguata preparazione ad essere vescovo)? Sembrava tutto assurdo.
Si appellò a Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico “datogli” dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore: anzi questi gli disse che si sentiva lui stesso lusingato per aver scelto un governatore “politico” (Ambrogio) che era stato ritenuto degno persino di svolgere l’ufficio episcopale (anche perché allora il vescovo di Milano aveva una specie di giurisdizione su quasi tutto il Nord Italia, quindi era un incarico molto prestigioso).
Ed Ambrogio accettò. Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda vita.
Un vescovo tutto per Dio e tutto per il popolo
Ambrogio era nato a Treviri, in Germania, da una nobile famiglia romana della Gens Aurelia. Suo padre era governatore delle Gallie, quindi un importante funzionario imperiale. Quando questi improvvisamente morì, Ambrogio con la sorella Marcellina (Santa) e la madre ritornarono a Roma. Qui continuò gli studi, imparò il greco e divenne un buon poeta e un oratore. Proseguì poi gli studi per la carriera legale ottenendo molti successi in questo campo come avvocato, finché l’imperatore Valentiniano lo nominò nel 370 governatore, con residenza a Milano. Una carriera impressionante.
Ambrogio fece il governatore solo quattro anni, ma la sua opera fu molto incisiva.
Era un uomo al di sopra delle parti e dei partiti, aveva costantemente l’occhio rivolto al bene di tutta la popolazione, non escludendo nessuno specialmente i poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò non solo la stima ma addirittura l’affetto sincero di tutta la popolazione, senza distinzione. Possiamo dire che fece così bene il governatore che il Popolo di Dio (con l’imperatore e il Vescovo di Roma Papa Damaso) lo ritennero degno di fare il vescovo. E la “promozione” non era da poco.
Fatto vescovo, decise di rompere ogni legame con la vita precedente: donò infatti le sue ricchezze ai poveri, le sue terre e altre proprietà alla Chiesa, tenendo per sé solo una piccola parte per provvedere alla sorella Marcellina, che anni prima si era consacrata Vergine nella Basilica di San Pietro durante una solenne liturgia di Natale, presente il Papa Liberio. Ambrogio ebbe sempre una grande stima per la madre, per la sorella e per la decisione presa da lei.
Consapevole della sua impreparazione culturale in campo teologico, si diede allo studio della Scrittura e alle opere dei Padri della Chiesa, in particolare Origene, Atanasio e Basilio. La sua vita era frugale e semplice, le sue giornate dense di incontri con la gente, di studio e di preghiera. Ambrogio studiava e poi faceva sostanza della sua preghiera ciò che aveva studiato, quindi, dopo aver pregato, scriveva e quindi predicava. Questo era il suo modo di porgere la Parola di Dio al popolo. Lo stesso Agostino d’Ippona ne rimase affascinato tanto da sceglierlo come maestro nella fede, proprio perché con il suo modo di fare e di predicare aveva contribuito alla sua conversione (insieme alla madre Monica, e naturalmente allo Spirito Santo).
Ogni giorno diceva la Messa per i suoi fedeli dedicandosi poi al loro servizio per ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi. Tutti potevano parlargli in qualsiasi momento. Ed è anche per questo che il popolo non solo lo ammirava ma lo amava sinceramente.
È rimasto famoso il suo comportamento quando alcuni soldati nordici avevano sequestrato, in una delle loro razzie, uomini donne e bambini. Ambrogio non esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E a coloro (gli ariani) che ebbero il coraggio di criticarlo per l’operato rispose:
“Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.
“Dove c’è Pietro, c’è la Chiesa”
La Chiesa del tempo di Ambrogio attraversava una grave turbolenza dottrinale: la presenza cioè dell’eresia ariana, originata e predicata da Ario. Questi negava la divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre, affermando che anche lui era una semplice creatura, scelta da Dio come strumento di salvezza. Come si vede un’eresia dirompente e devastante per la cristianità, che minacciava il centro stesso del Cristianesimo: Gesù Cristo, e questi Figlio di Dio.
Purtroppo ebbe molti seguaci anche nei ranghi alti delle autorità e cioè imperatori e imperatrici, governatori, ufficiali dell’esercito romano che la sostennero con il loro peso politico e militare. Ambrogio conosceva il problema già da governatore, ma dovette affrontarlo specialmente da vescovo di Milano scontrandosi addirittura con la più alta autorità: quella imperiale.
Nel 386 fu approvata una legge che autorizzava le assemblee religiose degli ariani e il possesso delle chiese, ma in realtà bandiva quelle dei cristiani cattolici. Pena di morte a chi non obbediva.
Ambrogio incurante della legge e delle conseguenze personali, si rifiutò di consegnare agli ariani anche una sola chiesa. Arrivarono le minacce contro di lui. Allora il popolo, temendo per il proprio vescovo, si barricò nella basilica insieme con lui. Le truppe imperiali circondarono e assediarono la chiesa, decisi a farli morire di fame. Ambrogio, per occupare il tempo, insegnò ai suoi fedeli salmi e cantici composti da lui stesso e raccontò al popolo tutto ciò che era accaduto tra lui e l’imperatore Valentiniano, riassumendo il tutto con la famosa frase: “L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa”.
Nel frattempo Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente, dopo aver sconfitto e giustiziato l’usurpatore Massimo che aveva invaso l’Italia, reintegrò Valentiniano (facendogli abbandonare l’arianesimo) e si fermò per un po’ di tempo a Milano.
La riconoscenza di Ambrogio all’imperatore tuttavia non gli impedì di affrontarlo in ben due occasioni, quando ritenne che il suo comportamento era riprovevole e condannabile pubblicamente. Fu specialmente dopo l’infame massacro di Tessalonica del 390, in cui morirono più di settemila persone, tra cui molte donne e bambini, in rivolta per la morte del governatore. Furono uccisi tutti senza distinzione di innocenti e colpevoli.
Ambrogio, inorridito per l’accaduto, insieme ai suoi collaboratori ritenne responsabile pubblicamente Teodosio stesso, invitandolo a pentirsi. Alla fine l’imperatore cedette e piegò la testa. Questo spiega la grande autorità morale di cui godeva il vescovo. Teodosio morì tre anni dopo e lui stesso ne fece un sincero elogio lodandone l’umiltà e il coraggio di ammettere le proprie colpe, additandone l’esempio anche agli inferiori.
Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
Nella Lettera apostolica Operosam Diem (1996) per il centenario della morte di Ambrogio, Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha messo in risalto due importanti aspetti del suo insegnamento: il convinto cristo-centrismo e la sua originale Mariologia.
Ambrogio viene considerato l’iniziatore della Mariologia latina. Giovanni Paolo II (in Operosam diem, n. 31):
“Di Maria Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto. Egli ne offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore, l’assiduità al lavoro e alla preghiera
Pur nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani. Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo vescovo di Milano esclama: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio”.
Del suo cristo-centrismo così ha scritto Giovanni Paolo II:
“Al centro della sua vita, sta Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A Lui, tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la carità che proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona… Del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l’ardore di chi è stato letteralmente afferrato da Cristo e tutto vede nella sua luce”.
Questo suo pensiero centrale può essere sintetizzato nella famosa frase del De Virginitate “Cristo per noi è tutto”.
Ambrogio visse e operò totalmente e incessantemente tutto per Cristo e tutto per la Sua Chiesa. Il suo amore a Cristo era inscindibile dal suo amore alla Chiesa. Operare per far crescere l’amore a Cristo significava per lui lavorare, soffrire, studiare, predicare, piangere, rischiare la vita davanti ai potenti del tempo per la Chiesa, popolo di Dio, perché Ambrogio era profondamente convinto che “Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine” (La Chiesa risplende non di luce propria ma di quella di Cristo), senza dimenticare mai che “Corpus Christi Ecclesia est”, (Il Corpo di Cristo è la sua Chiesa), quindi i fedeli possono benissimo dire tutti: “Nos unum corpus Christi sumus”.
E per questi fedeli, che sono la Chiesa, che è il corpo di Cristo, e per amore di Cristo presente nella Sua Chiesa, Ambrogio vescovo lavorò, studiò, rischiò la vita, pianse, pregò, predicò, viaggiò e scrisse libri fino alla fine. Questa arrivò, per la verità non inaspettata, il 4 aprile, all’alba del Sabato Santo quando correva l’anno 397.
MARIO SCUDU sdb ***

Cristo per noi è tutto
Se vuoi curare le ferite, Egli è il medico.
Se sei riarso dalla febbre,
Egli è la fontana.
Se sei oppresso dal peccato,
Egli è la santità.
Se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza.
Se temi la morte, Egli è la vita.
Se desideri il cielo, Egli è la via.
Se fuggi le tenebre, Egli è la luce.
Se cerchi il cibo, Egli è l’alimento.
Noi ti seguiamo, Signore Gesù,
ma tu chiamaci perché ti seguiamo.
Senza di te nessuno potrà salire.
Tu sei la via, la verità, la vita, il premio.
Accogli i tuoi, sei la via.
Confermali, sei la verità.
Vivificali, sei la vita.
De Virginitate 16,99

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