L’obolo della povera vedova

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XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) – UN POVERO « SOVRABBONDANTE »
don Mario Simula
L’umanità che popola il mondo della Parola di Dio in questa domenica, è racchiusa nella meravigliosa semplicità di due vedove straordinarie e luminose come una luce riflessa che non offende gli occhi.
Il Libro dei Re racconta di una vedova che si mette a disposizione del profeta Elia e impasta acqua e farina per offrirgli pane profumato e povero. E’ il cibo per il cammino del messaggero di Dio. La donna che, su quella piccola risorsa contava per sopravvivere assieme al figlio ancora per qualche giorno, si abbandona alla provvidenza del Signore. Il profeta le chiede quel pane. E lei si fida, senza paura. Con la sua generosità incondizionata e con la sua povertà dignitosa, garantisce il nutrimento a Elia e favorisce il compimento della sua missione.
L’amore non fa ragionamenti appesantiti dalla paura. Ama. E dona. Sa che donandosi trova.
Sperimenta le madie colme quando per benevolenza le svuota.
Da quell’istante, caratterizzato dall’amore incondizionato, il pane inizia a moltiplicarsi, giorno dopo giorno. E’ la riserva miracolosa che sfama tutti: Elia, la vedova e il figlio. Stiamo contemplando, con i nostri occhi, i “miracoli speciali” di Dio, che scaturiscono dalla “fede speciale” di una “povera”, la quale non possiede niente eppure dà tutto in sovrabbondanza.
Il povero di Dio è intagliato così dall’Artista Divino. E’ una creatura umile che si abbandona come l’argilla nelle mani dell’artigiano, come il tronco di olivastro nella mani di chi, dalla durezza di quel legno, sa trarre figure in sembianze umane, affascinanti e misteriose.
La vedova che incontra Elia è un’anticipatrice del “centuplo” promesso da Gesù. Tu dai tutto? Dio ti dà il centuplo. Anche la beatitudine della sua visione.
Probabilmente stiamo vivendo il tempo sbagliato per prendere alla lettera il Vangelo. Noi cerchiamo tutte le garanzie, le firme autenticate col sigillo, i tempi della restituzione. Assicuriamo prima di tutto la nostra stabilità, le nostre sicurezze.
Per essere del Vangelo, anche oggi occorre buttare via il mantello come il cieco Bartimeo, spendere la vita come Paolo, buttare la propria esistenza come Gesù che non considera la sua uguaglianza con Dio come una credenziale, come un’assicurazione ferrea e sostanziosa sulla vita.
Gesù “si spreca” nel dono di amore. Per questo Dio gli dà il centuplo della esaltazione e della gloria.
Quando il Maestro vuole coinvolgere anche noi nell’amore che si dona, nella carità che si spende, si rifà al più sublime dei modelli: un’altra vedova. Le persone insignificanti, quelle che non valgono a nulla, gli scarti diventano modelli.
Nella sua estrema povertà, questa donna “invisibile” depone nella cassetta delle offerte del Tempio, tutto quello che ha. Si tratta di pochi centesimi. Un nulla. Ma è tutto quello che possiede, la centesima parte di una pensione sociale. Al contrario di coloro che ostentano la loro irritante ricchezza e mettono, in prima pagina, l’abbondanza della loro donazione: un miserabile superfluo, per nulla compromettente nel bilancio dell’azienda di famiglia.
Gesù rimane colpito dal gesto silenzioso e impercettibile della vedova. Ed elogia la semplicità di una persona che si ritiene poco generosa e ne rimane confusa perché non può dare di più. Non evita, però, di stigmatizzare l’ipocrisia dei benestanti, considerati tali per il conto in banca senza che lo siano nel conto dell’anima. Nel conto di Dio. Quello è sempre, tragicamente in rosso.
Queste ultime domeniche del tempo ordinario ci stanno allenando ad una riflessione decisiva. La si può sintetizzare in una sola domanda: cosa conta veramente agli occhi di Dio?
La vita diventa la nostra scuola.
“Signora Carmela, non avere paura ad essere generosa nel poco. Dio guarda il molto del tuo cuore. Quello conta ai suoi occhi.
Antonio non sentirti persona di poco valore, perché consideri i dieci euro che ti sono rimasti come una benedizione del cielo, pensando che già da qualche giorno non sai come fare la spesa per sfamarti. Hai mai pensato alla predilezione di Dio che guarda il tuo cuore capace di accontentarsi di poco ma pronto a condividere quel poco perché tu lo ritieni sovrabbondante? Dio stesso ti farà pubblicità considerandoti “beato”, anche se tu arrossisci nella tua modestia.
Margherita tu non hai portamonete. A mala pena racimoli a fine settimana qualche euro che i tuoi genitori ti regalano per non farti fare brutta figura. L’altro giorno, però, ti sei esposta davanti ai tuoi amici di classe, per difendere Marcello che tutti prendevano in giro con violenza e cattiveria.
Ti sei mai chiesta quale valore immenso ha davanti a Gesù il tuo gesto?
Cosa deve dire Giuliana sempre pronta a dare tutto il suo tempo, la genialità delle sue doti, la generosità del suo cuore e nonostante questo si sente sempre giudicata dai “buoni” che di Gesù non conoscono nemmeno una sagoma nebulosa?
Giuliana sai quanto sei cara al Signore? Il suo amore è il dono più ambito per te. L’unico che resta sempre. Tutto il resto ha la vuotaggine delle cose che passano, la stupidità della presunzione, la divertente comicità di chi vuole soltanto “farsi vedere. Non si comprende da chi!”. Certo non da Dio!
Gesù, non so come leggere, oggi, la Parola di Dio. Non trova posto nelle cartelle della mia testa, non riesce a convivere nella freddezza del mio cuore, non riesco ad interpretarla nella mia vita.
Io, Signore, amo le sicurezze. Preferisco le garanzie. So stipulare assicurazioni sulla vita. Cerco gli investimenti più sicuri.
Gesù, la povertà materiale mi inorridisce, la vita austera mi sembra una stoltezza, considero la povertà di cuore un’ingenuità imperdonabile.
Ogni giorno dedico un tempo riservato e lontano dagli occhi di tutti, per fare i miei conti e centellinare i miei guadagni. Non ti riconosco quando scegli una pietra per cuscino, se la trovi.
Quando ti affidi all’ospitalità per trovare un tetto e un piatto caldo. Quando ti fai “mia carne” debole, fragile, vulnerabile, senza provare vergogna. Quando non consideri un tesoro da tenere gelosamente l’essere come Dio.
Non ti capisco, Gesù. Non condivido la tua vita. Ma se tu l’hai scelta, sei tu lo stolto o lo sono io?
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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA
Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:
“Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15)
Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?
Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona.
Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo.
E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.
Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI.
Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?
Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto.
Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.
E veniamo al Papa.
Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”
Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù.
In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui.
Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza:
– la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22
– la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39
– l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11
ALCUNE CONSEGUENZE FORTI DELL’INCONTRO CON CRISTO
– Una grande umiltà che si traduce in obbedienza a Cristo Gesù nella consapevolezza che è Lui che dà la vita, è Lui che ci sostiene, è soltanto in Lui che troviamo salvezza. L’unica cosa che noi possiamo fare per la salvezza nostra e degli altri, è lasciarci amare da Lui ed è collaborare con Lui, mettendo tutta la nostra fiducia nella potenza dello Spirito.
– La contemplazione di Cristo per rivestirci di Lui. Nel nostro ordine di valori e di realtà importanti, abbiamo tre elementi che presento secondo la loro importanza: la mistica (l’esperienza spirituale del lasciarci amare da Dio); l’etica (che indica ciò che è per la gloria di Dio e ciò che è bene per noi e per gli altri. A me piace mettere l’etica nel contesto di Mi 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare teneramente e camminare umilmente con il tuo Dio”; l’ascetica (disciplina spirituale, cammino di vita nello Spirito del Signore).
– Il passaggio dalla prospettiva dell’autoreferenzialità, alla prospettiva ‘aperta’ che ci fa considerare prima di tutto Cristo e l’altro. Siamo strumenti vivi di salvezza nelle mani di Cristo Gesù per gli altri e con gli altri.
– Il bisogno di evitare ogni estraneità, ogni stile ‘assente’ nel relazionarci agli altri, valorizzando così il Vangelo e considerando le persone che incontriamo, come grandi doni di Dio e nelle situazioni concrete della loro vita. Ciò significa comunicazione e comunione.
– Il passaggio dall’atteggiamento di chi “lavora per Dio” – che presenta il pericolo dell’attivismo e dell’amare più la vigna del Signore che il Signore della vigna – a quello di chi “fa il lavoro di Dio” – che implica discernimento – e poi a quello di chi ha questo grande desiderio: lasciare che “Dio lavori in lui e per mezzo di lui”.
E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci fa essere contemplativi in azione e che fa sì che il nostro apostolato sia un condividere con gli altri ciò che Dio ci dona nella contemplazione (l’unico apostolato che è efficace!).
LA LUCE MODELLA IL TEMPIO CRISTIANO DI ENZO BIANCHI
L’architettura di una chiesa dovrebbe riuscire nell’operazione o meglio nella predisposizione architetturale – di rendere possibile che la luce, nella quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), ci riveli chi è la luce del mondo, colui che ha detto: «lo sono la luce del mondo» (Gv 8,12). E se «nel Logos era la vita, la vita luce degli uomini» (cf. Gv 1,4), se «il Logos è la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo» (cf. Gv 1,9), allora in un’architettura di assemblea cristiana la luce deve sempre tendere a essere simbolica, sacramentale.
Questo non significa che la luce debba abbagliare, ma che il suo potere rivelativo deve modularsi in luce, penombra e oscurità, dicendo e non dicendo, mai abbagliando e mai lasciando regnare le tenebre. È significativo lo spazio di qualsiasi chiesa cristiana, nella quale la luce del giorno entra in molteplici modi: in squarci di ogiva, oppure attraverso filtri che la rendono dolce, attraverso vetrate che ne dettano un racconto…
E quando scende la sera e lo spazio della chiesa potrebbe essere invaso dalle tenebre, ecco la lampada palpitante, che impedisce alle tenebre di regnare.
«Sia la luce!» (Gen 1,3), è stata la prima parola uscita dalla bocca di Dio sulla terra che era «informe e vuota» (Gen 1,2), mentre «le tenebre ricoprivano l’abisso~ e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque » (ibid.). In questa gestazione, la parola di Dio crea la luce prima di ogni sorgente luminosa, prima del sole, della: luna e delle stelle, creati il quarto giorno. Luce che non si vedeva, ma che faceva vedere; luce creata e rivolta
verso l’altro da sé, verso le » creature, in uno slancio in cui si può cogliere come in Dio la luce sia amore e vita.
Il desiderio di Icaro
Ecco perché noi umani siamo rivolti alla luce, cerchiamo la luce, siamo affascinati dalla luce. Il desiderio di Icaro abita le profondità dei nostri cuori, e tale desiderio nel cristianesimo
è stato disciplinato, ma non negato. Basterebbe pensare all’orientamento verso oriente delle nostre chiese, soprattutto antiche e medievali, alle trifore o alle monofore cistercensi nelle absidi, alle fenditure che consentono di segnare il tempo, con la luce del sole che penetra attraverso di esse nelle chiese. Ma anche agli inni che nelle lodi mattutine della liturgia horarum cantano alla luce, al sole, alla stella del mattino. Se davvero ci fosse consapevolezza della bellezza e della forza della luce, i cristiani potrebbero capire che cosa significano le parole di Gesù: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,15), o quelle
dell’Apostolo: «Voi siete figli della luce e figli del giorno»
(1Ts 5,5 cfr. Ef 5,8). Ma la cecità oggi pare inguaribile, perché chi non vede è convinto di vedere (cfr. Gv 9,41)…
La chiesa di Bose non è una chiesa che possa vantarsi per qualche aspetto. È stata pensata, progettata e costruita da noi monaci e monache di Bose, attraverso una lunga meditazione, durata almeno
un decennio. Abbiamo anche commissionato il progetto ad architetti italiani ed europei, ma poi siamo stati incapaci di accogliere le loro suggestioni, per noi poco modeste. Volevamo infatti una chiesa modesta, una chiesa che nascesse con lo stesso spirito che aveva guidato i cistercensi a costruire le loro prime chiese monastiche. E da loro ci siamo lasciati ispirare, in particolare dalle loro granges della Francia del Nord.
Esuli nel deserto
Quella di Bose è una chiesa monastica nella quale l’assemblea si sente popolò di Dio pellegrino, esule nel deserto, dunque una chiesa che deve significare l’icona di una carovana in cammino verso il Regno. L’abside è lo spazio di gloria che raccoglie gli sguardi e le preghiere di tutti. Nell’abside la luce penetra dalla trifora, luce unica e capace di alludere alla Triunità di Dio. Sull’assemblea la luce giunge tenue, accogliente, non diretta, e permette l’habitare secum, il raccoglimento; il silenzio adorante, l’assemblea ordinata e composta.
Avendo costruito la chiesa rivolta a Nord, come quelle certosine rivolte alla stella polare – secondo l’antico adagio «Stat crux dum volvitur mundus» -, essa riceve il sole direttamente dalle finestre unicamente a mezzogiorno, quando i raggi penetrano lungo la linea centrale sulla quale stanno ambone, altare, tabernacolo e libro; e il 6 agosto, solennità della Trasfigurazione del Signore, la luce cade proprio a mezzogiorno sull’ambone. È
una povera chiesa monastica, al immagine della nostra comunità; una chiesa senza pretese, non degna di essere guardata, ma capace di insegnare, di fare segno, a chi sa guardare.