Archive pour novembre, 2018

MARIA NEL « MISTERO DEL TEMPIO »

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MARIA NEL « MISTERO DEL TEMPIO »

Nell’immagine del ‘tempio’ si celebra la maternità divina e la santità della Beata Vergine Maria. – La « Giornata pro orantibus ».
Può anche sembrare curioso il fatto che la raccolta di formulari di Messe della Beata Vergine Maria non contempli uno specifico formulario riferito alla « Presentazione di Maria al Tempio », mentre la stessa raccolta contiene il bellissimo formulario 23° che propone il tema del « mistero del Tempio », nella celebrazione di Maria Vergine, Tempio del Signore.
« Il ‘mistero del Tempio’ – dice la presentazione – raggiunge il suo compimento (cfr. Gv 2, 19-22) in Gesù Cristo, nel quale « abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Col 2, 9).
La Beata Vergine è ‘tempio santo’ a titolo del tutto speciale:
poiché, portando nel suo grembo immacolato il Verbo fatto Uomo, è diventata il vero tempio del vero Dio;
poiché ha serbato la Parola di Dio nel suo cuore (cfr. Lc 2, 19.51); così, amando ardentemente Cristo e osservando fedelmente la sua parola, il Figlio e il Padre, secondo la promessa, sono venuti a lei e hanno preso dimora presso di lei (cfr. Gv 14, 23).
Sotto l’immagine del ‘tempio’ si celebra la maternità divina della Beata Vergine Maria e la santità della sua vita. Maria Santissima è chiamata perciò ‘santuario’, « preparato con arte ineffabile » da Dio per il Figlio suo (cfr. Colletta), singolare ‘tempio della gloria’ di Dio, per « l’obbedienza della fede (…) nel mistero dell’Incarnazione » (cfr. Prefazio); ed è chiamata con altre immagini tratte dalla Sacra Scrittura, il cui significato è pressoché identico a quello del ‘tempio’ ».
Alla luce di queste considerazioni, vogliamo centrare la nostra riflessione sul fatto che, nella « memoria » della Presentazione di Maria al Tempio, non siamo tanto invitati a ricordare l’episodio narrato nell’apocrifo Protovangelo di Giacomo, ma siamo piuttosto invitati a coglierne il valore teologico più profondo, cioè la verità di Maria, « Tempio del Signore, Santuario dello Spirito ».
Dei primi anni di Maria non possiamo sperare di saperne più di quanto non ci dicano fonti apocrife o le cosiddette « rivelazioni private », tipo quella lasciataci scritta dalla mistica spagnola d’inizio Seicento, la Ven. Sr. Maria di Gesù d’Agreda, nell’opera voluminosa « Mistica Città di Dio – Vita della Vergine Madre di Dio ».
È da notare, peraltro, che la Chiesa Orientale – a differenza dall’Occidente che ne celebra solo la Memoria liturgica – riserva alla festa della Presentazione un posto di rilievo superiore, per esempio, ad altre due feste relative all’infanzia della Madonna: nientemeno che alle feste dell’Immacolata Concezione e della Natività di Maria.
Per la Chiesa bizantina, infatti, la festa della Presentazione fa parte del Dodecaórton, o ciclo delle dodici grandi feste dell’anno liturgico; ed è tuttora considerata festa di precetto. Essa, detta dai vari libri liturgici bizantini Eísodos o « Entrata nel Tempio della SS.ma Madre di Dio », è considerata di seconda classe dai Greco-ortodossi e addirittura di prima classe dagli Ortodossi slavi; e la celebrazione si articola in più giorni di preparazione ed è accompagnata da un ricco testo di ufficiatura. Abbondante è pure la letteratura omiletica della festa, almeno a partire dal VII secolo (Germano di Costantinopoli, Andrea di Creta, Umile Giorgio e altri).
Gli storici della liturgia ci ricordano che soltanto nel 1373 questa festa cominciò a essere celebrata in Occidente, presso la Curia pontificia di Avignone; e solo un secolo dopo, nel 1472, papa Sisto IV la estese a tutta la Chiesa cattolica. A seguito della riforma liturgica del Concilio Vaticano II, è stata ridotta a semplice « memoria », con rinvio all’ufficiatura del Comune della B. V. Maria. Paolo VI accenna alla festa della Presentazione nella « Marialis cultus » (n. 8), ma soltanto per riguardo alla Chiesa orientale.
La Presentazione nei racconti apocrifi
L’episodio della presentazione di Maria al Tempio è così narrato dal Protovangelo di Giacomo: « La bambina raggiunse i tre anni, e Gioacchino disse: « Chiamate le figlie degli Ebrei che sono senza macchia, e prendano ciascuna una lampada, e queste restino accese perché la bambina non si volti indietro e il suo cuore non sia trattenuto fuori del Tempio del Signore ». E quelle così fecero, sino a quando salirono al Tempio del Signore. E il sacerdote la accolse e, dopo averla baciata, la benedisse dicendo: « Il Signore ha glorificato il tuo nome in tutte le generazioni. In te, negli ultimi giorni, il Signore farà vedere la redenzione da lui concessa ai figli d’Israele ». E fece sedere la bambina sul terzo gradino dell’altare, e il Signore la ricolmò della sua grazia, ed ella danzò, e tutta la casa di Israele la ebbe cara. E i suoi genitori discesero, colmi di ammirazione, lodando il Dio potente perché la bambina non aveva cercato di tornare indietro. E Maria stava nel Tempio del Signore, nutrendosi come una colomba; e riceveva il cibo dalla mano di un Angelo ».
La Ven. Madre Maria di Gesù d’Agreda, da parte sua, riporta la rivelazione secondo la quale la piccola Maria « fu portata al Tempio di Gerusalemme, nell’abitazione dove si trovava il Collegio delle fanciulle che venivano solitamente educate nel raccoglimento e nei costumi, fino al raggiungimento dell’età del matrimonio; in particolare si ritiravano là le primogenite della tribù reale di Giuda e di quella sacerdotale di Levi » (Mistica Città di Dio, pag. 301).
Madre d’Agreda si dilunga poi nel dirci dei sette doni dello Spirito Santo e delle sublimi virtù della piccola « Regina del Cielo », insieme con i ‘turbamenti’ della sua giovanissima età, perché sembrava che Dio le si nascondesse: i suoi diventano così « dolci lamenti d’amore » (cfr. Libro II, cap. 17, pagg. 475-481 e ss.), fino a quando l’Altissimo le ordina, all’età di tredici anni e mezzo, di « sposarsi con il santo e castissimo Giuseppe ».

Valore teologico della Presentazione
Il fatto che la Presentazione di Maria al Tempio non abbia un fondamento scritturistico ha indotto autori e teologi, specie in Occidente, addirittura a negarne la storicità. Ma noti studiosi ci hanno ragionato sopra in modo più equilibrato.
Il mariologo p. G. Roschini, ad esempio, trova l’episodio « in armonia con le costumanze giudaiche quali ci appaiono dallo stesso sacro testo: la consuetudine di consacrare al servizio di Dio figli e figlie sarebbe conforme al capitolo 27 del Levitico; l’esistenza di un corpo speciale maschile e femminile deputato al servizio del tabernacolo e del tempio risulterebbe da Es 38, 1Re 11.12 e Lc 11,37; le donne destinate al servizio del tempio abitavano nelle adiacenze, come risulterebbe da 4Re 28,11 e 1Paralip. 9,26.27.33″ (cfr. G. Roschini, Vita di Maria, Roma 1947, pagg. 63-64).
Qualunque sia la ‘verità storica’ dell’episodio, quanto interessa la liturgia e la pietà sul problema è il valore religioso e teologico dell’episodio della Presentazione.
La realtà religiosa è quella della totale consacrazione a Dio della Vergine, fin dai primi giorni della sua esistenza. Perciò, molto presto la riflessione cristiana si è fermata sulla misteriosa preparazione di questa anima eletta al compito che Dio le affidava. Può darsi, invece, che le esitazioni occidentali riguardo a questa festa provengano dal fatto che il suo contenuto teologico si era per loro già riversato nella festa dell’Immacolata Concezione. Gli Orientali, a loro volta, hanno riconosciuto alla festa del 21 novembre gli stessi valori che gli Occidentali hanno attribuito alla solennità dell’8 dicembre. Questa considerazione invita a vedere non in opposizione, ma complementari, le due diverse tradizioni.
Dunque, la preparazione di Maria alla sua sublime vocazione di Madre di Dio e il fatto ancora più importante di considerare la Vergine stessa « Tempio santo di Dio » danno il significato pieno alla festività mariana della Presentazione. Non per nulla questa ‘memoria’ viene dalla liturgia fissata in prossimità dell’Avvento, tempo dell’attesa e dell’accoglienza del mistero dell’Incarnazione. E non a caso per i Padri e per la liturgia orientale si realizzano in Maria tutte le figure legate al Tempio: la porta ad Oriente, chiusa, è emblema della sua verginità; il Santo dei Santi e i tesori ivi contenuti sono i simboli della sua santità e della sua intimità con Dio, ecc.
La « Giornata pro orantibus »
È per questo profondo significato religioso e teologico, e per le connotazioni liturgiche accennate, che il 21 novembre viene celebrato come « Giornata pro orantibus » in tutte le Chiese del mondo, intendendo così specchiare in quella della Vergine presentata al Tempio l’offerta radicale a Dio della vita delle Claustrali e dei Monaci; e proclamando che la loro esistenza consacrata si consuma « nel mistero del Figlio che vive la comunione d’amore con il Padre, nel mistero della Chiesa che vive la sua unione esclusiva con Cristo Sposo », come si esprime l’Istruzione Verbi Sponsa della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata del 13 maggio 1999 (Cfr. VS, Parte prima, nn. 3-8).
Proprio per questo, i Monasteri (spesso dedicati alla Vergine Maria) sono « memoria, presenza e profezia del Dio vivente »: memoria o icona del Tabor, presenza del Signore e della sua Santa Madre, profezia della patria celeste. E, riprendendo concetti cari a chi ha familiare la spiritualità monastica, si può aggiungere che nei Monasteri in modo del tutto particolare trova conferma la tradizione ecclesiale che con San Bernardo proclama: « Tutto il mondo risplende per la presenza di Maria »(cfr. Sermo I in Assumptione B. M. V., PL 183, 415).
I Monasteri, dunque, veri Santuari mariani dove la Vergine presentata al Tempio e fatta « dimora vivente del Signore nella città degli uomini » risplende come stella che orienta « il peregrinante popolo di Dio » e lo guida « nei sentieri del tempo, alla gioia del Regno » nell’eternità.
La vocazione ineffabile della donna consacrata – e la consacrazione nella vita claustrale ne è senza dubbio la forma più alta e assoluta – è rivelata pienamente nella verginità e nella maternità umana e divina di Maria, esemplare unico e perfetto della donna vergine, sposa e madre.
È proprio per questa ragione che la Presentazione di Maria al Tempio è celebrata come « Giornata pro orantibus »: perché – seguendo lo schema dell’Esortazione apostolica « Vita Consecrata » di Giovanni Paolo II -
nella ‘confessio Trinitatis’, la prerogativa prima della donna consacrata è la dimensione dell’interiorità: come vita nello Spirito che l’apre e la feconda alla vita vera, cioè alla vita del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; alla vita nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, che la inabitano, ne fanno la loro dimora quale vergine-sposa-madre e la scelgono come grembo per la generazione dei figli della Grazia;
nel « signum fraternitatis », il proprium della donna consacrata è la maternità spirituale; vocazione sua propria, missione « affidatale da Dio », che è sua in modo tutto particolare per una speciale capacità di amare e di generare vita;
nel « servitium caritatis », essa è chiamata ad essere donna per gli altri; ben sapendo che ogni autentico servizio della carità ha origine nella interiorità della maternità spirituale, che è spiritualità dell’Incarnazione.
Maria presentata al Tempio esprime in pienezza questo ideale di Vita Consacrata (cfr. VC, 34); perciò, particolarmente in comunione con le Claustrali di tutta la Chiesa, celebriamo la Vergine che fin dai suoi primi, tenerissimi anni vive ‘adombrata’ dallo Spirito nel Tempio di Dio, lei stessa chiamata ad essere dimora del Verbo in mezzo agli uomini, « Tempio del Signore, Santuario dello Spirito ».

Bruno Simonetto

Publié dans:FESTE DI MARIA |on 20 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

La seconda venuta di Gesù

IL FIGLIO DELL’UOMO RADUNERÀ I SUOI ELETTI DAI QUATTRO VENTI

Publié dans:immagini sacre |on 16 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LA NOSTRA VIGILANZA: DESIDERIO E ATTESA (ANNO B)

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XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – LA NOSTRA VIGILANZA: DESIDERIO E ATTESA (ANNO B)

don Mario Simula

Il tempo della chiamata di Dio è sempre alle porte. La conclusione della nostra vita è sempre una sorpresa.
Anche quando è annunciata da una lunga sofferenza. L’attimo nel quale si chiude un tratto di strada e se ne apre un altro definitivo, rappresenta inevitabilmente un terremoto esistenziale. Ogni legame affettivo si spezza. Il sole si oscura. La luna non dà più la sua luce. Le stelle cadono dal cielo. Lo sconvolgimento della separazione sarà inevitabile e ci segnerà per sempre.
Fino a suscitare in noi interrogativi dolorosi: che senso ha la nostra vita? Quale destinazione tiene accesa la nostra speranza? Ho visto persone agonizzare, incapaci ormai di comunicare, che avevano fortemente incisi su tutto il corpo i segni di queste domande.
Gesù ci invita ad avere gli occhi aperti e il cuore vigilante. Ci chiede di apprendere l’arte della lettura di tutti i segnali della sua venuta. Il tenero albero del fico primaverile diventa il nostro simbolo. Quando le prime foglie si affacciano sui rami, sappiamo che l’estate è vicina.
La vita un po’ gli rassomiglia.
Quando vediamo passare i giorni, le ore e gli attimi, è sempre il “momento”.
E’ il tempo che appartiene al Signore. Alla sua Venuta. All’incontro con Lui. All’inizio di una festa senza fine. Così ci ha promesso Gesù. Ma quanto è difficile comprenderlo e crederlo, per la nostra fragilità e debolezza mortale. Corpi dilaniati, corpi consumati dalla malattia, corpi stroncati da avvenimenti tragici e improvvisi stanno davanti agli occhi e ci indicano una direzione senza luce e senza fiducia.
Ma Gesù ci parla di “festa senza fine”. Ci chiama a vedere più lontano. Ci chiede un occhio di fede più profondo. Ci domanda un atto di fiducia immenso nei suoi confronti.
Che cosa è vero, allora? La nostra miseria o la sua promessa?
Gesù ci dà una risposta piena di tenerezza. Ci invita ad un incontro di amore col Padre e con Lui. Un incontro possibile, anzi certo, se abbiamo vissuto una vita di amore. Se la nostra piccola e fragile esistenza si è resa feconda e meravigliosa di frutti: la misericordia, la pace, la povertà del cuore, la dedizione incondizionata alla causa della giustizia, l’attenzione alla sofferenza e ai sofferenti, la forza di affrontare la persecuzione per amore di Gesù il Maestro, la mitezza del cuore.
Se questi frutti, insieme alla benevolenza, al dominio di noi stessi, alla gioia, all’amore, alla pazienza, alla bontà, alla fedeltà hanno caratterizzato le nostre scelte, la nostra vita e i nostri rapporti, che paura dobbiamo avere della venuta del Signore? L’incontro con Lui, benché segni, per un istante, un distacco terribile e doloroso da ogni affetto umano, appaga tutti i desideri e ci fa entrare in quel Regno di felicità nel quale capiremo ogni cosa, e ogni persona rimarrà per sempre nella nostra vita, trasfigurata e nuova. Come lo saremo noi, trasfigurati e nuovi, in modo definitivo.
Abbracciati per sempre dall’amore di Dio.
Quale bisogno c’è di sapere il giorno e l’ora della venuta del Signore, se viviamo uniti a Lui in ogni respiro della nostra vita?
Quando Lui busserà alla nostra porta, capiremo che non è stata la prima volta. Già innumerevoli volte Gesù era venuto a farci visita, desideroso che noi gli aprissimo perché potesse stare con noi.
Basta pensare ad ogni visita del Signore quando abbiamo sofferto, quando siamo stati fatti oggetto di ingiustizia e quindi sottoposti ad una sofferenza peggiore della malattia, quando abbiamo sperimentato la gioia inestimabile dell’amore con il nostro sposo e la nostra sposa, quando abbiamo ascoltato una persona in difficoltà e le abbiamo spalancato i cancelli della speranza, quando abbiamo donato senza ricevere e senza aspettarci risposta, quando abbiamo sofferto l’emarginazione, l’arroganza, il lento stillicidio del rifiuto, quando nella preghiera abbiamo potuto fissare negli occhi il Signore.
Stiamo camminando verso la conclusione dell’Anno Liturgico. Siamo presi dal pensiero dell’Avvento.
La Parola di Dio diventa maestra e guida. Ci illumina, domenica dopo domenica, lungo i sentieri di una conversione alla misericordia. Affannarci per organizzare, fino all’esasperazione, ciò che proporremo alla comunità del Popolo di Dio, non è necessario. L’atteggiamento liberante, misericordioso, lungimirante ci chiede, in maniera più vera ed efficace, di cercare l’incontro con Gesù, Colui che salva, e di lasciarci cercare da Lui.
Signore, liberami dall’ansia del tempo che mi scivola tra le mani. Liberami dalla paura dell’incontro con Te. Insegnami, invece, a riempire il tempo di attesa di Te, nostra unica e certa Speranza. Come farebbe un fidanzato pazzamente innamorato della sua fidanzata.
Aiutami a cercarti e desiderarti di notte, quando non sono capace di riconoscerti se bussi alla mia porta; quando non sono fedele agli appuntamenti con te e sono costretto a camminare, a rincorrerti, ad implorare e rischiare lungo le strade, domandando se per caso qualcuno ti ha visto.
Aiutami a cercarti quando mi allontano e mi lascio portare fuori dietro desideri malati, inseguendo i miei peccati, le mie insulse voglie di comandare e di godere.
Aiutami a cercarti quando la prova mi accartoccia in me stesso e non mi lascia vedere oltre e non mi dà tregua e mi tenta facendomi apparire la vita senza futuro.
Aiutami a cercarti e desiderarti quando la solitudine mi fa vedere gli spettri di una vita misera, lamentosa e povera.
Gesù desidero vivere oggi, questo tempo, questa storia, questa mia vicenda umana, senza perderti mai di vista, ma tenendo lo sguardo sempre proteso, come fa un uccello notturno che scruta la notte e vede in lontananza ciò che il buio sembra nascondere a me.
Gesù amo la vita debole e semplice di oggi. Amo, ancora di più, la vita che mi attende e che verrà.
Quando? Attraverso quali vicoli? Per quali asperità? Non lo so. Forse non lo voglio sapere. Forse è bene che non lo sappia, perché ogni attimo ti appartiene e in ogni attimo ti appartengo e puoi rivolgermi la tua dolcissima chiamata: “Vieni. Vieni, benedetto, nel Regno. E’ preparato per te.
Impara, già da adesso, che il mio Regno è in mezzo a voi, ne puoi già sentire la gioia e la dolcezza. Io ho comunque e infinitamente nostalgia di Te”.
Gesù, ti cerco. Ti desidero. Non ho paura della tua venuta. Non temo di smarrirti perché sono certo che tu mi cercherai e ti farai ritrovare. Io, sempre con Te, fino ad essere una sola cosa con Te

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 16 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

Vierge Noire de ROCAMADOUR – FRANCE

imm paolo Vierge Noire de ROCAMADOUR - FRANCE - 12th century

Publié dans:immagini sacre |on 15 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – La legge e la carne (anche Paolo)

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PAPA FRANCESCO – La legge e la carne (anche Paolo)

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE

Venerdì, 31 ottobre 2014

(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.250, Sab. 01/11/2014)

Ci sono «due strade». Ed è Gesù stesso, con i suoi «gesti di vicinanza», a darci l’indicazione giusta su quale prendere. Da una parte, infatti, c’è la strada degli «ipocriti», che chiudono le porte a causa del loro attaccamento alla «lettera della legge». Dall’altra, invece, c’è «la strada della carità», che passa «dall’amore alla vera giustizia che è dentro la legge». Lo ha detto Papa Francesco alla messa celebrata venerdì mattina, 31 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta.
Per presentare questi due modi di vivere, il Pontefice ha riproposto, per commentarlo, il passo evangelico di Luca (14, 1-6). Un sabato, ha ricordato, «Gesù era in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare con loro; e loro lo osservavano per vedere cosa facesse». Soprattutto, ha fatto notare il Papa, «cercavano di prenderlo in un errore, anche facendogli delle trappole».
Ed ecco che irrompe nella scena un uomo ammalato. A questo punto Gesù rivolge ai farisei questa domanda: «È lecito o no guarire di sabato?». Come a dire: «È lecito fare il bene il sabato? O non farlo? E non fare il bene sempre, e fare il male?». Quella di Gesù, ha aggiunto Francesco, è «una domanda semplice ma, come tutti gli ipocriti, loro tacquero, non dissero niente». Del resto, ha notato, «tacevano sempre quando Gesù li metteva davanti alla verità», restavano «a bocca chiusa»; anche se «poi sparlavano dietro» e «cercavano come far cadere Gesù».
In pratica, ha affermato il Pontefice, «questa gente era tanto attaccata alla legge che aveva dimenticato la giustizia; tanto attaccata alla legge che aveva dimenticato l’amore». Ma «non solo alla legge; erano attaccati alle parole, alle lettere della legge». Per questo «Gesù li rimprovera», deplorando il loro atteggiamento: «Se voi, davanti ai bisogni dei vostri genitori anziani, dite: “Carissimi genitori, io vi amo tanto ma non posso aiutarvi perché ho dato tutto in dono al tempio”, chi è più importante? Il quarto comandamento o il tempio?».
Precisamente questo modo «di vivere, attaccati alla legge, li allontanava dall’amore e dalla giustizia: curavano la legge, trascuravano la giustizia; curavano la legge, trascuravano l’amore». Eppure «erano i modelli». Ma «Gesù per questa gente trova soltanto una parola: ipocriti!». Non si può, infatti, andare «in tutto il mondo cercando proseliti» e poi chiudere «la porta». Per il Signore si trattava di «uomini di chiusura, uomini tanto attaccati alla legge, alla lettera della legge: non alla legge», perché «la legge è amore», ma «alla lettera della legge». Erano uomini «che sempre chiudevano le porte della speranza, dell’amore, della salvezza, uomini che soltanto sapevano chiudere».
A questo punto ci si deve chiedere «qual è il cammino per essere fedeli alla legge senza trascurare la giustizia, senza trascurare l’amore». La risposta «è proprio il cammino che viene dall’opposto», ha suggerito Francesco, ripetendo le parole di Paolo nella Lettera ai Filippesi (1, 1-11): «Perciò prego che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, perché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili».
È appunto «il cammino inverso: dall’amore all’integrità; dall’amore al discernimento; dall’amore alla legge». Paolo, infatti, afferma di pregare «perché la vostra carità, il vostro amore, le vostre opere di carità vi portino alla conoscenza e al pieno discernimento». Proprio «questa è la strada che ci insegna Gesù, totalmente opposta a quella dei dottori della legge». E «questa strada, dall’amore alla giustizia, porta a Dio». Solo «la strada che va dall’amore alla conoscenza e al discernimento, al pieno compimento, porta alla santità, alla salvezza, all’incontro con Gesù».
Invece «l’altra strada, quella di essere attaccati soltanto alla legge, alla lettera della legge, porta alla chiusura, porta all’egoismo». E conduce «alla superbia di sentirsi giusti, a quella “santità” — fra virgolette — delle apparenze». Tanto che «Gesù dice a questa gente: a voi piace farvi vedere dalla gente come uomini di preghiera, di digiuno». Si tratta solo di «farsi vedere». E «per questo Gesù dice alla gente: fate quello che dicono, ma non quello che fanno», perché «quello non si deve fare».
Ecco dunque «le due strade» che ci troviamo davanti. E con «piccoli gesti» Gesù ci fa capire qual è la strada che va «dall’amore alla piena conoscenza e al discernimento». Uno di questi gesti lo presenta Luca nel brano del Vangelo proposto dalla liturgia: «Gesù aveva quest’uomo davanti, malato, e quando i farisei non hanno risposto, cosa ha fatto Gesù?». Scrive l’evangelista: «Lo prese per mano, lo guarì e lo congedò». Dunque per prima cosa «Gesù si avvicina: la vicinanza è proprio la prova che noi andiamo sulla vera strada». Perché è quella «la strada che ha scelto Dio per salvarci: la vicinanza. Si avvicinò a noi, si è fatto uomo». E infatti «la carne di Dio è il segno; la carne di Dio è il segno della vera giustizia. Dio che si è fatto uomo come uno di noi e noi che dobbiamo farci come gli altri, come i bisognosi, come quelli che hanno bisogno del nostro aiuto».
Francesco ha fatto anche notare quanto sia «bello» il «gesto di Gesù quando prende per mano» la persona malata. Lo fa anche «con quel ragazzo morto, figlio della vedova, a Naim»; così come «lo fa con la ragazzina, la figlia di Giairo»; e ancora «lo fa con il ragazzino, quello che aveva tanti demoni, quando lo prende e lo dà al suo papà». Sempre c’è «Gesù che prende per mano, perché si avvicina». E «la carne di Gesù, questa vicinanza, è il ponte che ci avvicina a Dio».
Questa «non è la lettera della legge». Solo «nella carne di Cristo», infatti, la legge «ha il pieno compimento». Perché «la carne di Cristo sa soffrire, ha dato la sua vita per noi». Mentre «la lettera è fredda».
Ecco allora le «due strade». La prima è quella di chi dice: «Sono attaccato alla lettera della legge; non si può guarire il sabato; non posso aiutare; devo andare a casa e non posso aiutare questo malato». La seconda è di chi si impegna a fare in modo, come scrive Paolo, «che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento»: è «la strada della carità, dall’amore alla vera giustizia che è dentro la legge». A esserci d’aiuto sono proprio «questi esempi di vicinanza di Gesù», che ci mostra come passare «dall’amore alla pienezza della legge». Senza «mai scivolare nell’ipocrisia», perché «è tanto brutto un cristiano ipocrita».

 

Mount of Precipice (Israel)

imm Mount_of_Precipice

Publié dans:immagini Terra Santa |on 12 novembre, 2018 |Pas de commentaires »

IN TUTTE LE TRIBOLAZIONI NOI SIAMO PIÙ CHE VINCITORI PER VIRTÙ DI COLUI CHE CI HA AMATI! (ROM 8,37)

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IN TUTTE LE TRIBOLAZIONI NOI SIAMO PIÙ CHE VINCITORI PER VIRTÙ DI COLUI CHE CI HA AMATI! (ROM 8,37)

A nessuno piace soffrire. E se qualcuno gode di soffrire, costui è malato, malato di masochismo o di autolesionismo.
E’ normale che gli uomini evitino la sofferenza, tanto normale che gran parte delle energie del mondo sono impiegate nella lotta contro la sofferenza.
Anche Pietro non voleva sentir parlare di sofferenza. Questa parola in bocca al suo Maestro lo ha messo in stato d’allarme: ha reagito con le solite frasi d’occasione: « no, a te non succederà… ». Credeva, con questi complimenti, di esprimere amore per Gesù. Riteneva che amore fosse augurare di non soffrire. Si faceva in tal modo portavoce del senso comune di tutti gli uomini che sono in continua lotta contro la sofferenza propria o altrui. La vedono come il principale nemico dell’uomo e dell’umanità.
Ma Gesù rispose decisamente a Pietro: Va’ via Satana! tu non pensi con la mentalità di Dio, tu porti in cuore le paure degli uomini!
Pietro aveva messo al centro dell’attenzione la sofferenza, cioè, in fin dei conti, l’uomo! L’uomo che bada a se stesso ha paura della sofferenza e della morte, e questa paura aumenta I , attenzione a se stesso. Così Dio rimane fuori gioco, fuori di ogni calcolo e ragionamento. L’uomo si ritrova nudo, come Adamo dopo il peccato, solo, in balia di se stesso, senza difese, senza protezione, ateo, senza relazione d’amore né con Dio (dimenticato) né con l’uomo (gli diventa nemico!).
L’uomo che rifiuta ad ogni costo la sofferenza si ritrova a rifiutare, alla fin fine, anche Dio.
L’adesione a Dio, alla Sua paternità, può comportare talvolta anche sofferenza: se la rifiuto in partenza posso rifiutare la mia figliolanza a Dio.
La sofferenza non deve stare al centro dell’attenzione, né deve essere elemento da prendersi in considerazione nelle decisioni. Non si può decidere qualcosa in base a maggiore o minore sofferenza, decidere quello che fa soffrire di meno o quello che fa soffrire di più! In questo caso la sofferenza diverrebbe idolo, qualcosa che sta al posto di Dio.
Al centro dell’attenzione lascerò Dio; Egli è degno di occupare il posto centrale, ed io sono figlio se decido ogni cosa in base ai Suoi progetti, alle sue chiamate.
E’ quanto ci mostra Gesù pregando nella notte nell’orto degli ulivi. « Non la mia, ma la tua volontà sia fatta ». In questo modo Egli allontana quella tentazione che gli era pervenuta anche tramite Pietro: distoglie gli occhi dalla sofferenza, « il calice amaro », per posarli sul Padre: Egli va amato, anche se quest’amore comporta grandi sofferenze.
Tre tipi di sofferenze
Si possono classificare le sofferenze dell’uomo?
Una semplice osservazione mi fa scoprire la differenza tra le sofferenze del corpo e quelle dell’anima e quelle dello spirito. Le sofferenze del corpo le chiamiamo dolore, e sono causate da privazioni e malattie, dalla fragilità delle nostre membra e dal loro esaurirsi!
Le sofferenze dell’anima sono più complesse e provengono in genere dalla rottura di rapporti affettivi o dalle loro esagerazioni, da accentuazioni d’importanza del proprio passato o del proprio futuro, da paure e incertezze di vario genere.
Le sofferenze dello spirito, talvolta nemmeno consciamente percepite, sono procurate dalla distanza da Dio, dal rifiuto del suo amore; e ciò porta nello spirito dell’uomo tensioni e ansie, confusioni e aberrazioni che lasciano una sofferenza tale che s’estende all’anima e pure – a lungo andare – al corpo.
Siccome poi anima e spirito e corpo sono un’unità inscindibile, la sofferenza che inizia in una parte può invadere tutta la persona. A meno che lo spirito non sia saldamente unito a Dio. Allora le sofferenze dell’anima e del corpo possono esser incanalate nell’offerta e nell’amore: così non danneggiano la persona, anzi, la fanno crescere interiormente fino alla somiglianza col Figlio di Dio che offre se stesso al Padre attraverso la croce.
Le cause
Ci sono sofferenze che incontriamo, direi, naturalmente. L’evolversi naturale della vita diviene causa di dolore già fin dalla nascita, sia per la madre sia per il figlio!
Lo spuntare dei denti, compresi quelli del « giudizio », non fanno parte di un dolore naturale, inevitabile?
Così pure le sofferenze psichiche dell’adolescenza o di altri stadi della vita sono semplicemente attribuibili alla maturazione dell’uomo e ne divengono strumenti provvidenziali.
Un limite insito nella nostra carne, o meglio nella nostra natura ci rende costantemente vigilanti, prudenti e attenti a un’infinità di possibili nemici: freddo e caldo, malattie e ostacoli, cadute e incidenti.
Ma la capacità di peccare porta l’uomo a contatto con la sofferenza più indesiderata: quella che si trova ad essersi comprata con la propria disobbedienza. Che dire del mal di fegato dell’alcoolista? o delle gambe rotte dell’imprudente? o dei disastri ecologici che causano sofferenze a popolazioni intere?
Gesù, quando può – quando è favorito dalla fede dell’uomo toglie agli uomini le sofferenze del corpo e dell’anima e col perdono elimina quelle dello spirito. Le guarigioni, i miracoli, le risurrezioni, la moltiplicazione dei pani, il dominio del vento, il dono del vino agli sposi di Cana, ci fanno intuire che nessun tipo di sofferenza dell’uomo è gradito a Dio, né voluta da Lui. Non Dio vuole la sofferenza. Questa è conseguenza o della ribellione generale dell’umanità o del peccato di qualcuno o di qualche convivenza umana. Se Dio avesse voluto il male, Gesù non lo avrebbe tolto a nessuno. Egli, in piena unità col Padre, lo ha tolto a chi lo incontrava con fede: ciò significa che il male non è da Dio. E non era da Dio nemmeno in quelle ore e in quei giorni in cui ha toccato l’anima e il corpo di Gesù stesso.
Sofferenze benedette
Ma se le sofferenze non sono volute da Dio, io le posso però offrire a Lui! e allora, da segno del Male divengono strumento d’amore.
Talvolta le posso anche prendere come dono di Dio: il fatto che Dio le permette lo posso cogliere come suo dono. Se Egli non ne è mai la causa, Egli però non impedisce che arrivino a me. E ciò che Egli non impedisce non mi potrà far del male, benché mi possa far soffrire.
Colui che ha scritto la lettera agli Ebrei vede le sofferenze dei cristiani in questa dimensione: « è per la vostra correzione che voi soffrite ». La sofferenza è occasione con cui Dio – Padre premuroso – corregge quelli che ritiene suoi figli. Diviene segno dell’amore di Dio!
E S. Paolo scrivendo ai Corinzi interpreta quasi allo stesso modo una grossa sofferenza che lo tormenta: « perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia ».
Così egli professa che il male non è da Dio, ma che Dio glielo permette per un bene spirituale, per una sorta di prevenzione dall’orgoglio, dalla superbia! Paolo riceve questa sofferenza come Dono di Dio!
Altre volte le sofferenze possono diventare segnali, segni della Volontà di Dio. Sempre S. Paolo dice ai Galati: «sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il Vangelo!».
E anche noi conosciamo persone che – grazie alla malattia hanno conosciuto l’amore del Signore o ne hanno approfondito qualche aspetto. Forse a noi stessi è stata concessa questa grazia.
Molti Santi grazie alla « disgrazia » della sofferenza hanno conosciuto e accolto la Volontà di Dio!
E molti malati che vivono nelle nostre case, grazie alla sofferenza, divengono testimoni di Gesù. Dal modo con cui sopportano nella fede e accettano il dolore e dal modo con cui continuano ad amare si può vedere la bellezza e la forza dell’amicizia con Gesù!
Sofferenze d’amicizia
C’è un tipo di sofferenza che sembra assurdo. E trova la sua occasione nell’amicizia con Gesù! L’amicizia con Gesù è sempre fonte di gioia e serenità, di pace e fortezza, ma è pure l’occasione di grandi sofferenze.
Gesù stesso lo aveva compreso e non ne aveva fatto mistero ai suoi: « se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi » (Gv 15, 20).
Il mondo, cioè le persone che ci stanno attorno, qualche volta addirittura parenti o amici e conoscenti, mi rifiutano in quanto cerco di essere obbediente a Dio. 0 mi calcolano un poveretto da lasciar in disparte perché sono e voglio restare in amicizia con Gesù. Rientro in quella classe di emarginazione che non viene calcolata tra i classici emarginati della società. Un tipo di emarginazione che non rientra nelle attenzioni di chi vuole eliminare ogni emarginazione!
Le scelte che uno opera in obbedienza al Vangelo lo mettono in situazione di esser rifiutato da molti.
E se annuncio il Vangelo senza tagli redazionali operati per incontrare il favore degli ascoltatori, mi ritrovo con qualche amico in meno e con sofferenze di vario genere.
< Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo » (Gv. 16,33).
« Vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome » (Mt. 24,9). Essere amici di Gesù comporta un prezzo alto di sofferenza! Quando il Signore chiama Paolo nella sua sequela, rivela ad Anania: « Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio Nome! » (Atti 9,16). In questo modo l’amico partecipa alla missione dell’Amico!
Il significato della vita di Gesù viene partecipato a quelli che lo vogliono amare condividendone i compiti. Gesù permette che il principe di questo mondo possa metterlo alla prova.
Il principe di questo mondo non ha potere sulla sua vita, perché Gesù ama il Padre e non smette quest’amore. Gesù non vuole avere altra volontà che quella del Padre, non collabora ad altri programmi che a quelli del Padre. Ma come facciamo a saperlo? Non basta che Gesù lo dica. Le parole sono parole. Gesù dev’essere messo alla prova. Nel corso di tale prova risulta evidente, straordinariamente evidente, che Egli continua l’amore del Padre, che Egli non si lascia trascinare nel vortice di questo mondo. L’amore al Padre da parte di Gesù diventa tanto evidente sul Calvario che il centurione pagano se n’accorge e lo dichiara pubblicamente a tutte le generazioni: « Veramente quest’uomo è il Figlio di Dio! ».
Gesù aveva accolto la propria sofferenza come il punto culminante della sua missione di annuncio: « bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato ». L’accettazione della condanna e della morte in croce è l’annuncio più forte che Gesù diffonde nel mondo. La croce è il suo ambone più vero e più autorevole. Dal modo con cui Egli soffre si capisce la sua figliolanza di Dio e quindi la sua importanza per noi.
I cristiani che soffrono possono partecipare a questa missione di Gesù, e diffondere il suo annuncio, donandogli forza proprio con l’amore con cui accettano la prova del patire.
Quando i cristiani soffrono la prova, la privazione dei beni, quelli stimati dal mondo, come la libertà e la stessa vita terrena, e soffrono senza smettere l’amore e la gioia della loro salvezza, allora essi sono testimoni. Allora la loro croce diviene annuncio – silenzioso – di un’altra sapienza e di un’altra vita, annuncio della presenza di un Padre che merita obbedienza e di un Signore degno d’amicizia.
La croce non è perciò mai assente dalla storia del vero discepolo. « Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati » (2 Tim 3,12). « Dovete attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio » (Atti 14,21).
« Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo » (2 Tim 1, 8).
Ai due discepoli che Gli vogliono esser vicini, Gesù chiede semplicemente: « Potete voi bere il calice che io sto per bere? » (Mt 20, 23).
E sappiamo che in cielo trionfano « quelli che vengono dalla grande tribolazione »! (Ap 7,14).
Chi si fa figlio di Dio dona se stesso, poiché questa è la natura di Dio – Amore! Donare se stesso è perdere la propria vita.
La sofferenza della persecuzione è solo un modo « accettato » dal discepolo, un modo non cercato di donare se stesso, di rimanere amore fino alla morte, fino alla fine, un modo di partecipare al compito del Figlio di Dio.
Voler soffrire?
Il figlio di Dio sa che il Padre è amore che dona se stesso.
E sa che egli è per davvero figlio di Dio se dona se stesso, come il Padre. Egli cerca perciò il dono totale di sé, cerca il proprio morire.
Per questo lo Spirito Santo dice: « Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli » (Sal. 116, 15) perché la morte è il compiersi della vita del figlio di Dio, che ama donandosi del tutto. Col termine « morte » non s’intende certamente l’attimo del diventare cadavere, ma ogni attimo in cui la mia persona cede il posto, si rinnega, si mortifica per far spazio all’amore. Questa morte è cercata dal figlio di Dio, è cercata, non per il gusto di morire o di annullarsi, ma per fare spazio alla vita del Figlio, all’amore di figlio, alla vita quindi del Padre!
Il cristiano cerca la propria « morte » per amore, per portare a compimento l’amore a Dio e agli uomini.
Porta a compimento l’amore a Dio donandogli spazio in sé: « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2,20). « Il vivere è Cristo, il morire un guadagno» (Fil 1, 21).
« Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (Col 3,3).
Porta a compimento l’amore agli uomini per essere un dono per loro, un dono di Dio, il dono migliore.
Il figlio di Dio cerca perciò la morte ogni giorno nei modi che gli sono possibili: muore ai propri desideri, al proprio gusto, ai propri progetti e abitudini, ai propri sentimenti e impulsi. Si serve dei contrattempi, delle ostilità, delle volontà dei fratelli, della propria attenzione agli altri: accettandoli muore a se stesso. Cerca la vittoria sui primi moti del cuore per far posto ai suggerimenti dello Spirito Santo.
La sofferenza diventa una strada, una strada maestra! L’uomo non cerca certamente la sofferenza, ma la percorre come si percorre la strada quando si vuol giungere alla meta. L’uomo cerca il Signore, cerca di collaborare con Lui, di fargli posto e perciò cerca di morire a se stesso, per offrirgli spazio in sé. E’ l’amore al Padre e al Figlio che fa sì che il cristiano cerchi anche la sofferenza della morte di se stesso.
Gesù ha avuto parole sufficientemente chiare in proposito:
« Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ».
« Chi perderà la propria vita per me, la salverà » (Lc 9,23).
« Se uno non odia … perfino la propria vita…. » (Lc 14,26s). Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra (Col 3, 5).
In tal modo l’uomo si prepara alla testimonianza di Gesù anche nella persecuzione che – poco o tanto – c’è per tutte le generazioni cristiane. Gli apostoli non ci lasciano illusioni né ci vogliono ingannare.
« E’ una grazia, per chi conosce Dio, subire afflizioni soffrendo ingiustamente.
Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza ciò sarà gradito davanti a Dio.
A questo siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi . . . » (I Pt 2, 19).
« Se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi»! (3, 14). « I vostri fratelli sparsi nel mondo subiscono le stesse sofferenze di voi » (5,9).
« Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata, e la virtù provata la speranza! » (Rom 5, 3-5). « Mi compiaccio nelle mie infermità … nelle angosce sofferte per Cristo » (2 Cor 12, 10).
« Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza » (Gc 1, 2-4).
Sofferenza di vocazione
Quando non c’è la persecuzione aperta contro il cristiano, egli vigila ancora di più, per non esser sopraffatto nello spirito. Quando è cessata l’epoca dei martiri, nella Chiesa è iniziata l’epoca degli anacoreti, degli eremiti – asceti, di coloro che per amore del Signore rinunciavano a tutto, sottoponendosi a privazioni d’ogni genere: e così ricordavano a tutti che non c’è sequela di Gesù senza croce.
S. Antonio abate con i suoi discepoli, S. Pacomio, S. Benedetto,
S. Romualdo, S. Francesco e un’infinità di altri testimoni hanno
volutamente e consciamente continuato la vita di Gesù crocifisso, secondo la parola dell’Apostolo: « Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo » (Col 1, 24) e « mi affatico e lotto, con la forza che viene da Lui » (1, 26).
Egli, l’apostolo Paolo, continua la sofferenza della lotta contro impulsi interni ed esterni: « nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo … » (Rm 7,23s). « Tratto duramente il mio corpo, e lo trascino in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato » (1 Cor 9,27).
Questa durezza con se stesso è il risultato dell’esperienza che se non c’è il dominio di sé, anche a costo di soffrire, l’uomo precipita nella schiavitù delle proprie passioni, e si allontana dalla somiglianza a Dio.
Il cristiano perciò accoglie nella propria vita spirituale di penitenza, di ascesi, cerca talvolta sofferenze volontarie quali il digiuno o altre forme – nascoste – di dominio e sottomissione della propria voglia di comodità.
Non cerca modi di vita eroica, né fa eventuali penitenze per il gusto di diventare « perfetto », cioè per amor proprio.
Se lo fa, lo fa solo per amore, per dire all’Amato la propria volontà di morire per Lui, di cedergli il posto della propria vita.
Ed allora succede che questa sofferenza genera gioia! quando l’uomo raggiunge il culmine dell’amore e il suo cuore si riempie! Proprio così ebbe a scrivere S. Pietro: « Voi esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede»! (1 Pt 1, 8).

 

Publié dans:Lettera ai Romani |on 12 novembre, 2018 |Pas de commentaires »
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