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CAPACI DI STUPORE E DI MERAVIGLIA? APPUNTI PER UNA LETTURA DI FILIPPESI 2,5-11
(Faustino Ferrari)
Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.
« Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò come una rapina la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di schiavo
e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre ».
Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.
È un inno delle comunità cristiane primitive: abbiamo una composizione strofica del brano e ci sono espressi concetti che non sono abituali in Paolo. Paolo fa suo questo inno apportandovi alcune sue intuizioni ed inserendolo all’interno del discorso della lettera. Poco prima Paolo parla della necessità dell’umiltà (2, 1-4). Ha descritto ciò che non deve contraddistinguere il comportamento dei credenti. Ciò che non va fatto. Ora prosegue con una parola di esortazione, una parola positiva: devono essere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Si potrebbe pensare che qui Paolo rimandi semplicemente all’esempio di Cristo, al fatto che si debba avere i suoi stessi sentimenti. In realtà il discorso di Paolo è più profondo. Il discepolo, tramite il battesimo, viene immesso in un nuovo rapporto con Cristo e perciò con Dio. Con il battesimo il discepolo è nel Cristo, sotto l’influsso della signoria del Kurios. Vivere nella signoria del Kurios significa vivere una legge nuova – quella che ci è data dal Cristo. Essere in Cristo significa essere cristiani, vivere da cristiani. Non si tratta quindi di fare riferimento all’esempio di Cristo, ma vivere in pienezza della sua vita.
L’inno si compone di due parti, che descrivono in una grandiosa sintesi il cammino di Cristo, dalla sua preesistenza presso Dio, alla sua incarnazione nel mondo e quindi al nuovo ritorno alla signoria presso Dio.
C’era Uno nel mondo di Dio, anzi aveva la forma di Dio lui stesso.
Non si sta parlando di un’altra divinità, ma di Dio stesso. A differenza della filosofia del tempo, il neoplatonismo in particolare, non siamo di fronte ad una emanazione ed a una necessità. La motivazione dell’incarnazione è nella libertà. Non c’è costrizione né spinta a questa attività, ma è per libera iniziativa.
Svuotò se stesso.
Il termine usato in greco è kenos. La voce kenos (vuoto) si riferisce concretamente a cose e, per estensione, a persone. Innanzi tutto significa assenza di qualche cosa (ad es: pozzo vuoto, casa vuota). In secondo luogo indica anche una vita priva di contenuto, una vita vissuta inutilmente, eticamente negativa. Nel greco classico in origine significa vuoto, senza contenuto: è il contrario di pleres (pieno). In senso letterale è sempre riferito a cose, ma a volte anche a persone: una cisterna vuota (Ger. 37,24). Riferito a persona può riscontrarsi in frasi come “a mani vuote” (Gn 31,42). In senso traslato kenos indica mancanza di contenuto (parole vuote) o mancanza di vigore, debolezza. Per quanto riguarda le persone kenos significa vuoto, nullo, sia come giudizio sulle facoltà mentali, sia in senso etico (meschino, vano).
L’ebraico non conosce un termine equivalente al greco kenos. Nella LXX esso traduce ben 19 diverse voci ebraiche. La maggior parte dei passi la troviamo nei profeti (Is. e Ger.) o negli scritti più recenti (Salmi, Gb, Sir). Nel NT. solo Paolo usa kenos. (Si trova anche in Mc 12,3, ma con valore letterale). Paolo conferisce al termine una particolare connotazione usando in genere la formula negativa (mé eis kenòn, non invano). In lui prevale l’accezione di inutilità.
Soggetto delle affermazioni paoline sono:
- la grazia: “Vi esorto a non accogliere invano la grazia di Dio” (2Cor 6,1)
- il kerigma: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra fede” (1Cor 15,14)
- il lavoro apostolico: “Per timore che diventasse vana la nostra fatica” (1Ts 3,5)
- l’apostolo nella sua attività: “Potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato” (Fil 2,16). “Esposi privatamente il vangelo, per non rischiare di correre o di aver corso invano” (Gal 2,2).
In senso positivo si tratta dunque della forza e della potenza dell’apostolato di Paolo. E’ opera di Dio e come tale agisce in potenza. Per Paolo, con i risultati della sua missione, è in gioco la potenza stessa della grazia divina: pertanto il lavoro missionario non può essere senza effetto.
Più difficile è la comprensione del testo di questo inno. Infatti l’espressione ekenosen heauton non è attestata in greco ed è fuori dalle regole grammaticali (forma riflessiva). Per alcuni studiosi si tratta della traduzione del passo di Is. 53,12 (“Ha consegnato se stesso alla morte”). Si dovrebbe perciò intendere: Egli ha svuotato la sua vita, cioè egli ha versato, svuotato se stesso. Il passo significherebbe dunque abbandonare la vita alla croce. Ma ciò pone una forzatura al testo perché al v. 7 si parla della specie umana in genere, mentre solo al v.8 dell’uomo in specifico. Altri interpretano il passo in base alle filosofie del tempo, che conoscevano l’idea dell’uomo primitivo-liberatore. Il Cristo si è cioè privato, ha volontariamente scambiato il suo modo di essere divino e preesistente con quello umano e terreno.
Questo fatto ha per noi qualcosa di semplicemente incomprensibile. Egli non credette di doversi tenere il suo essere come preda, come bottino. Ma ci viene presentato l’imprevisto, l’incomprensibile, l’indicibile: la spoliazione, la autospoliazione, lo svuotamento.
Al posto della forma di Dio subentra la “forma di schiavo”. La contrapposizione Dio-schiavo è fortissima. Non poteva essere più stridente e inquietante. Non è neppure pensabile. Paolo, con Timoteo, si presenta in apertura della lettera come schiavo di Gesù Cristo (1,1). Non usa un titolo che impone rispetto, ma si pone allo stesso livello di Timoteo, suo aiutante.
La schiavitù è per quel tempo un fenomeno sociale comune e ordinario. Fra gli stessi Filippesi, ai quali è rivolta la lettera, non pochi dovevano essere gli schiavi. Lo schiavo ha un padrone e Paolo si è asservito al Kurios. Da questo deriva che la parola schiavo contiene riflessi di gloria agli occhi di Paolo. Non si addice a tutti, ma soltanto a quei cristiani che svolgono azione missionaria. Gli altri sono “santi”: con il battesimo sono stati immessi nella vita in Cristo, sono santi in Cristo. Di fronte a Dio che assume la forma di schiavo non possiamo che prendere atto di tutto ciò che nello stupore, nella meraviglia.
Tuttavia, questa contrapposizione Dio-schiavo ci resta misteriosa poiché normalmente a Dio si oppone l’uomo. Di fatto l’inno vuole esaltare la gloria di Dio che si fa uomo. Lontano dalla tentazione docetista (semplice immagine assunta), viene presentata l’incarnazione di un vero uomo. Si incarna nella realtà: lui è uomo e in quanto uomo anche schiavo. Schiavo può essere detto dell’uomo, in riferimento alla sua bassezza e alla sua assoluta dipendenza, in totale contrasto con la gloria e con la signoria divina.
Nelle ultime due espressioni del v.7 Paolo sostituisce a schiavo la parola uomo, senza che il pensiero progredisca, ma per ribadire il mistero dell’incarnazione. Con immagine diversa, un contenuto analogo a quello espresso in questa prima parte lo possiamo ritrovare in 2Cor 8,9: “Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. Ed ancora, nel prologo del vangelo di Giovanni, là dove si parla della preesistenza del Verbo. “Ed il Verbo si fece carne e piantò la sua tenda in mezzo a noi” (Gv. 1,14).
Egli si rivelò obbediente.
A differenza delle nostre obbedienze, improntate all’osservanza di norme e leggi, qui l’obbedienza si esprime in un contesto di libertà. Questa libertà è più grande di qualsiasi libera obbedienza possibile all’uomo. L’obbedienza è da leggere in parallelo con il concetto di kenosi. All’autospogliazione, allo svuotamento segue l’autoumiliazione. Questa obbedienza giunge fino alla morte. La morte è il termine di un cammino. E nella morte si compie il mistero dell’incarnazione. La morte è il destino che ci unisce come uomini, al di là di ogni razza, condizione sociale, appartenenze. E l’esperienza della morte dimostra che egli è diventato veramente uno di noi. E si accenna che questa morte è la morte di croce.
La croce sta al centro del messaggio di Paolo. Riguarda la morte di Cristo come morte di salvezza. “Il linguaggio della croce è follia per quelli che si perdono, ma per noi che siamo salvi è potenza di Dio” (1Cor 1,18). E’ l’unico motivo di vanto che Paolo riconosce valido per sé (Gal 6,14). Il fatto che la salvezza è racchiusa in una croce suscita scandalo (Gal 5, 11), ma Paolo vi insiste perché nell’esperienza della croce vi è racchiusa la salvezza. E’ l’esperienza salvifica fondante.
Abbiamo poi la seconda parte dell’inno. Qui il protagonista, il soggetto, dell’azione, è Dio. L’azione di Dio è ora rivolta nei confronti dell’obbediente. “Il Signore ha morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire” (1Sam 2,6). “Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte, conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire” (Sap. 16,13). “Egli castiga e usa misericordia, fa scendere negli abissi della terra, fa risalire dalla grande perdizione e nulla sfugge alla sua mano” (Tob. 13,2). E’ l’esperienza biblica del Dio che umilia ed esalta il giusto.
Questa regola dell’esaltazione – che segue al momento dell’umiliazione – è presente nell’inno, ma qui viene presentata con un’accezione unica nel suo genere. Infatti all’unicità dell’esperienza della kenosi, scelta nella libertà, corrisponde una reazione unica nel suo genere da parte di Dio. L’esaltazione è per colui che nella morte aveva spogliato se stesso.
Per Giovanni esperienza della croce ed esaltazione sono momenti che corrispondono:
“Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,15).
“Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di qual morte doveva morire” (Gv 12, 32).
In Giovanni il riferimento dell’elevazione di Cristo sulla croce corrisponde contemporaneamente alla sua elevazione al cielo, alla sua glorificazione. I due avvenimenti croce e risurrezione sono due aspetti dello stesso mistero. L’elevazione sulla croce richiama l’elevazione alla destra del Padre, nella gloria. I due aspetti sono sincronici.
La glorificazione nell’inno viene messa in risalto attraverso il conferimento di un nome. Per il mondo biblico il nome non è qualcosa di casuale, di poco importante, ma contiene in sé l’essenza. Uno è ciò di cui porta il nome. Quindi, nel corso della vita, uno può anche cambiare nome (Abramo, Giacobbe, Simone). Per Isaia 45,23 “Ogni ginocchio si piegherà davanti a me, ogni lingua mi renderà omaggio”. Qui si indica che si è instaurato un totale cambio di potere sul cosmo. La glorificazione non riguarda soltanto il mondo degli uomini, ma anche quel mondo mitologico che per i contemporanei di Paolo è indicato col nome di Potenza. Sono quelle Potestà che hanno asservito il destino degli uomini, lasciandoli in balia del caos e dell’angoscia. Se ora piegano il loro ginocchio davanti a Cristo significa che il loro potere non è più, è stato abbattuto. E per gli uomini è giunto allora il momento di sperimentare la libertà.
Gesù Cristo è il Signore.
E’ il riconoscimento di questa nuova realtà che investe l’intero cosmo. È una professione di fede. L’enfasi è posta sul nome: Kurios, Signore. Questo è il nome conferitogli da Dio in premio della sua obbedienza. È questa la più antica professione di fede cristiana. “Se tu confessi con la tua bocca che Gesù è Signore, e credi in cuor tuo che Dio l’ha risuscitato da morte, sarai salvo” (Rom 10,9). Anche se nell’inno la confessione è espressa dalle Potestà cosmiche, non ci sono dubbi che è un modo liturgico della comunità riunita nella lode per annunciare la propria fede nella signoria di Gesù sul cosmo.
Le Potestà possono essere intese come espressione della nostra angoscia esistenziale, dell’uomo che si vede in balìa ad un destino cieco, ad una fatalità ineluttabile. La loro deposizione è simboleggiata dall’ingresso del mondo in Dio. Il mondo ora si fonda non sul caos ed il caso, ma su Gesù Cristo. E con il salmista si può allora dire: “Solo in Dio riposa il mio essere”.
Il nome “Signore” corrisponde nell’AT dei LXX al nome di Dio. E la comunità che riconosce Gesù Cristo come il Signore può rivolgersi a Dio come “Abbà, Padre” “poiché non abbiamo ricevuto uno spirito di figliolanza per cadere di nuovo nelle braccia della paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito di figliolanza nel quale chiamiamo Dio: Abbà!” (Rm 8,15).
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo”. Il riferimento, evidentemente, è alla prima parte dell’inno. Riguarda il mistero dell’incarnazione e non tanto il momento della glorificazione – opera di Dio, questa. Opera che possiamo riconoscere attraverso la professione di fede: Gesù Cristo è il Signore. I sentimenti sono relativi all’esperienza dell’abbassamento, dello svuotamento. Paolo, che si è salutato come schiavo del Signore, invita i cristiani di Filippi a farsi a loro volta schiavi di Gesù Cristo, ripercorrendo nella propria vita quel mistero che è la kenosi.
Riconoscere la signoria di Cristo, oggi come allora, sulle Potestà. La vittoria di Cristo libera l’uomo dall’angoscia del caos e del caso. Ma se Paolo afferma che tale vittoria è definitiva, il rischio che possiamo correre è quello di vivere come se queste signorie e potestà continuassero a dominare sopra di noi. Certo, il quadro mitologico è cambiato, non si tratta più, per noi, di esseri che si collocano tra Dio e l’uomo. Però ancora oggi possiamo correre il rischio di essere angosciati di fronte ad una realtà che vediamo con difficoltà percorsa dalla mano provvidente di Dio, ma con facilità intessuta di caso, di fatalità, di assurdità.
Oppure altre potestà – più concrete, ma non per questo meno asserventi: il denaro, il libero mercato, la televisione, gli oroscopi, ecc… Riconoscere che Gesù Cristo è il Signore diventa allora un atto di fede che ci permette di dare il giusto valore alle cose. Ove la signoria del Signore ci libera da tutte le schiavitù che ci troviamo a creare e a portare.
Il Dio che si svuota di sé è il Dio che si rivela. Se alcuni di noi hanno potuto incontrare Gesù di Nazareth sulle polverose strade di Palestina, se hanno potuto ascoltare la sua voce e accogliere il suo invito, ciò è stato possibile perché prima c’è stato un abbassamento. Questa non è una novità, ma la conferma di una pedagogia perseguita lungo tutta la storia della salvezza. Dio si fa incontro al secondogenito, al povero e allo straniero, all’orfano e alla vedova… Ed ora Dio si fa incontro all’uomo come uomo.
L’abbassamento, lo svuotamento, il nascondimento non è allora un atteggiamento etico-morale. Non è un pio esercizio di umiliazione. E’ la logica stessa della rivelazione e dell’incarnazione. La conformazione a Cristo passa per questa strada. Come cristiani a poco a poco apprendiamo che solo scendendo possiamo salire. Non ci sono altri cammini che possano farci evitare questo itinerario.
«Una storia vera. Durante l’occupazione nazista della Boemia, una sera furono presi dalla polizia numerosi rappresentanti delle classi intellettuali. Mentre aspettavano il processo, vivevano insieme in una grande baracca comune. Come passare il tempo in una situazione piena di incertezze? Venne un’idea: ci troviamo qui in tanti professori, perché non fare lezione? Ognuno cercherà dal punto di vista della sua materia di arricchire gli altri con qualche cosa bella. La proposta fu subito accettata. Una lezione era di letteratura francese, un’altra sulle nuove teorie nelle scienze naturali, un’altra ancora sui grandi personaggi della storia. Un idealista di sinistra commosse gli ascoltatori con il suo modo di proporre in un modo simpatico Karl Marx.
Ma poi venne il turno di un sacerdote. A lui fu rivolta una domanda precisa: «Ci dica qualcosa di nuovo e di attraente sulla persona di Gesù Cristo! » Parecchi anni dopo, nel tempo della liberazione, il sacerdote confesso:
«Era per me uno dei momenti più sconsolati della prigionia. Segretamente piangevo. Tutti sapevano presentare i loro temi in maniera attraente e ne facevano scoprire agli altri qualche aspetto nuovo. Solo io, povero, ripetevo le verità fondamentali del catechismo in un modo tale che non attirava l’attenzione. Eppure, l’oggetto della mia lezione era la Verità e la Bellezza stessa incarnata. Non fu forse, da parte mia, tragico?» (Tomás Spidlìk, Conosci Cristo? Attualità della sua persona, Lipa, Roma, 1997, p. 5)
Il cammino di cui ci parla l’inno è quello che può condurci alla Verità e alla Bellezza incarnata. Saremo ancora capaci di stupore e di meraviglia?
Faustino Ferrari