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SAN LUCA (F) «SCRIBA MANSUETUDINIS CHRISTI»
Colui che ha raccontato lo stupore e la commozione di Gesù. Così Dante definisce l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli
di Stefania Falasca
«Luca solo è con me». Così Paolo, nella seconda lettera a Timoteo (2 Tm 4, 11), scritta a Roma durante l’ultima prigionia che lo porterà al martirio, ricorda l’amico rimastogli accanto. Già nelle lettere ai Colossesi e a Filemone, scritte nel corso della prima prigionia romana, lo aveva menzionato tra i suoi più stretti collaboratori: «Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema» (Col 4, 14). «Il caro medico», lo chiama Paolo, informandoci della sua professione e anche, indirettamente, della sua provenienza pagana poiché Paolo non lo mette tra coloro che vengono dalla circoncisione (Col 4, 10-11). È il discepolo prediletto di Paolo, il compagno fedele di tanti suoi viaggi, il testimone oculare dei fatti accaduti tra quei primi cristiani, come dimostrano i racconti della seconda parte degli Atti degli apostoli scritti esprimendosi in prima persona plurale, colui che la tradizione indica anche come l’autore del terzo Vangelo.
Luca non aveva conosciuto né aveva mai visto Gesù. «Non vide il Signore nella carne», riferisce il Canone muratoriano (un elenco ragionato dei libri del Nuovo Testamento scritto a Roma verso il 160-180). Eppure, dei quattro evangelisti è forse quello che ci ha lasciato le pagine più belle, più vivide e commoventi della Sua vita terrena. Il suo Vangelo è scritto nel greco più classico di tutto il Nuovo Testamento e denota le conoscenze letterarie e storiche dell’autore. Ma al rigore della narrazione, nel rispetto delle fonti e della cronologia dei fatti accaduti – rigore che gli deriva probabilmente proprio dalla sua attitudine professionale –, Luca unisce una sensibilità d’animo e una delicatezza che caratterizzano tutto il terzo Vangelo.
Tanta scrupolosa ricerca su fatti e detti di Gesù presso coloro che si erano trovati presenti ha fatto sì che solo Luca ci tramandasse delle notizie che non hanno riscontro negli altri Vangeli: un terzo dei miracoli e tre quarti delle parabole riportati si ritrovano solamente in lui. Tra queste fonti, nei primi passi specialmente, si può sentire la voce soave della madre stessa di Gesù. Luca è l’unico degli evangelisti a parlarci lungamente di lei, a far parlare Maria, il primo a profilarne l’immagine. E lui più degli altri è riuscito a riportarci con delicata finezza quei particolari lievi, quegli spunti appena accennati che rivelano la misericordia di Gesù, i gesti di profonda compassione, il Suo stupore, la Sua tenerezza, quella tenerezza che lo fece chiamare da Dante «scriba mansuetudinis Christi» (Monarchia I).
«Morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo»
Luca mai si nomina nell’opera in due volumi a lui attribuita. Sono i copisti dei codici greci, nel II secolo, ad intitolare uno dei quattro Vangeli “secondo Luca”, ponendolo al terzo posto dopo quelli di Marco e di Matteo. Essi ci hanno tramandato anche il libro che riferisce le origini della Chiesa primitiva, legata soprattutto alle vicende di Pietro e Paolo, separandolo dal terzo Vangelo (del quale probabilmente costituiva originariamente una continuazione), col titolo “Atti degli apostoli”. Una tradizione antica ed universale, che proviene dalle Chiese di Siria, Roma, Gallia, Africa, Alessandria, riportata dagli scrittori cristiani dei primi secoli tra cui Ireneo (Adversus haereses III), fa di Luca l’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli.
La testimonianza più antica si trova nel Canone muratoriano. Il Canone muratoriano ci dà anche delle informazioni riguardo Luca, descrivendolo come medico e collaboratore di Paolo. A questa prima testimonianza segue quella di un copista della fine del II secolo, che prepose al suo codice un prologo contro l’eretico Marcione, perciò chiamato Prologo antimarcionita. Su Luca riferisce: «Luca è un antiocheno di Siria, medico per professione, discepolo degli apostoli; poi passò al seguito di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio senza crimini; non ebbe mai moglie, non procreò mai figli, morì a 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo». San Girolamo, nel IV secolo, riassumendo tutta la tradizione precedente, indica anche il luogo della sua sepoltura: «Luca, un medico di Antiochia, non inesperto in lingua greca, come lo indicano i suoi scritti, discepolo dell’apostolo Paolo e compagno di tutti i suoi viaggi, scrisse il Vangelo. Pubblicò pure un altro egregio volume che è intitolato Atti degli apostoli […]. È sepolto a Costantinopoli, alla cui città, nell’anno secondo dell’imperatore Costanzo [338], furono traslate le sue ossa» (De viris illustribus III).
Che Luca sia di origine antiochena lo sappiamo dagli Atti stessi dove lo troviamo membro di questa comunità cristiana intorno all’anno 40 e dove probabilmente ebbe modo di conoscere Pietro (At 11, 1-26) . È accanto a Paolo per la prima volta nel secondo viaggio missionario da Troade a Filippi (At 16, 10-17). È da questo punto infatti che Luca continua la narrazione degli Atti in prima persona plurale: «Subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore».
Nella primavera del 58 è di nuovo nella stessa città a fianco di Paolo e lo accompagna nel suo viaggio di ritorno a Gerusalemme (At 21, 1-18), dove si mise in relazione con l’apostolo Giacomo. A Gerusalemme probabilmente ebbe occasione anche di incontrare qualcuna di quelle donne («Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre che li assistevano con i loro beni», Lc 8, 3) che lui solo menziona nel Vangelo.
Accompagna poi Paolo nel suo primo viaggio verso Roma, del quale l’ultima parte degli Atti costituisce il diario (At 27,1-28,26). E a Roma, dove rimase accanto all’Apostolo delle genti, si sarà probabilmente incontrato con Pietro e Marco.
Nulla invece sappiamo di certo della vita di Luca dopo la morte di Paolo. C’è chi lo descrive come evangelizzatore della Dalmazia e della Macedonia e chi, come Gregorio Nazianzeno, dell’Acaia e della Tebaide. Incerti rimangono anche il luogo e la causa della sua morte. Gli scritti più antichi parlano di martirio.
Anche sul luogo e sulla data della composizione del Vangelo (per ciò che riguarda il luogo comunemente è indicata Roma), le testimonianze fornite dalla tradizione e le opinioni degli studiosi divergono. È però certo che la redazione del terzo Vangelo è anteriore a quella degli Atti degli apostoli.
«Gli avvenimenti accaduti tra noi»
Luca apre il suo Vangelo con un prologo nel quale chiarisce subito il metodo e lo scopo del suo scritto. È indirizzato ad un certo Teofilo, personaggio importante a noi sconosciuto, probabilmente di origine greca, che Luca desidera confermare nella fede e al quale indirizza anche il libro degli Atti. Ma al di là di questo personaggio, il suo Vangelo sembra essere rivolto (proprio per la lingua usata, per le spiegazioni circa la geografia della Palestina e le usanze ebraiche, per lo scarso interesse per le discussioni sulla legge e per il riferimento invece continuo ai pagani) a coloro che non provengono dall’ebraismo. Luca per esporre con ordine «gli avvenimenti che sono accaduti» (Lc 1, 1) ha consultato documenti scritti e soprattutto testimoni diretti. Ha attinto indicazioni preziose da Paolo, del quale in tutto il Vangelo si sente l’influsso, da Pietro (Lc 22, 8), forse da Giovanni stesso (Lc 9. 28-36), dal diacono Filippo (At 21, 8), particolarmente al corrente di quanto riguardava la Samaria (Lc 9, 52-56), da Cleopa (Lc 24, 18). Le pie donne insieme a Marta e Maria (Lc 10, 38) hanno potuto informarlo di episodi che le riguardavano personalmente. Manaèn, l’amico d’infanzia di Erode (At 13, 1), gli ha forse riferito la comparsa di Gesù davanti al tetrarca (Lc 23, 7-12). Ma Luca ha attinto soprattutto dal tesoro dei ricordi della madre stessa di Gesù (Lc 2, 19. 51), che egli ha conosciuto e ascoltato di persona. Da lei ha appreso lo stupore dell’annuncio, della visita a Elisabetta, del parto a Betlemme; l’angoscia sua e di Giuseppe per lo smarrimento di Gesù dodicenne. È la voce stessa della Madonna che nel Magnificat direttamente si rivela: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore; perché ha rivolto gli occhi all’umiltà della sua serva…» (Lc 1, 46-48). Tutta la parte del Vangelo sull’infanzia, così come è narrata, ponendo in parallelo l’annunciazione e la nascita di Gesù con l’annunciazione e la nascita di Giovanni Battista, è peculiare di Luca.
È Luca a lasciarci i tratti delicati di Maria, a dipingerne nel racconto le immagini più belle. E forse è proprio da qui che è nata la tradizione di origine orientale che presenta Luca come pittore del volto di Maria. Molte infatti sono le immagini della Madonna attribuite all’evangelista. La testimonianza più antica al riguardo è di Teodoro il Lettore (520 circa) il quale afferma che la regina Eudocia mandò da Gerusalemme a Pulcheria il quadro della Madre di Dio dipinto dall’evangelista. «Neque novimus faciem Virginis Mariae», non conosciamo il volto della vergine Maria, scrive sant’Agostino (De Trinitate VIII). Ma anche se mancano testimonianze storiche più antiche non è affatto escluso che Luca abbia realmente dipinto il volto della Madre del Signore.
Il Vangelo di Matteo e di Marco, quest’ultimo seguito da Luca in tre lunghi tratti della vita pubblica del Signore, sono le fonti scritte utilizzate dall’evangelista. Tuttavia, seppure il terzo Vangelo presenta lo stesso schema generale dei Vangeli di Matteo e di Marco (un’introduzione, la predicazione di Gesù in Galilea, la sua salita verso Gerusalemme, il compimento della sua missione attraverso la passione e la risurrezione), la sua costruzione è elaborata con cura e mira a far risaltare in questa storia i tempi e i luoghi della storia della salvezza, insistendo fin dall’inizio sul Figlio di Dio come il salvatore di tutti gli uomini e sull’attualità della salvezza (Lc 2, 11; 4, 21).
L’assassino buono ruba il paradiso
L’originalità di Luca si manifesta soprattutto nella parte centrale del Vangelo, nel viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove risalta l’insegnamento di Gesù attraverso una serie abbondantissima di parabole come quella del buon samaritano (Lc 10, 29-37), del figliol prodigo (15, 11-32), del ricco epulone (16, 19-31), del fariseo e del pubblicano (18, 9-14). Parabole che solo Luca riporta (18 delle sue 24 parabole non esistono negli altri Sinottici) e che evidenziano gli aspetti a lui più cari: la misericordiosa mansuetudine di Gesù, la sua benevolenza verso i pagani, la sua bontà accogliente verso i peccatori, la sua predilezione per i poveri e i piccoli che della buona novella sono i destinatari privilegiati. La predicazione di Gesù si apre, nel Vangelo di Luca, proprio rivolgendosi a loro: «Mi ha mandato a predicare ai poveri la buona novella» (Lc 4, 18).
Più volte sottolinea che il Vangelo è per i piccoli, più volte si dilunga a raccontare i gesti di perdono e di accoglienza di Gesù. Luca è l’unico, ad esempio, a riportare l’episodio del buon ladrone, mostrando la misericordia di Gesù fino alla fine. È l’ultimo Suo gesto di perdono prima di spirare sulla croce. E quell’attimo, il solo attimo che è bastato al malfattore per “rubare” il cielo, Luca lo descrive con un’intensità che commuove: «“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. “In verità ti dico, oggi stesso sarai con me in paradiso”» (Lc 23, 42-43). È la stessa commovente intensità con la quale descrive l’episodio della peccatrice in casa del fariseo (Lc 7, 36-50). Gesù era a pranzo in casa di un fariseo e mentre erano lì a mangiare irrompe una nota prostituta che circonda di attenzioni Gesù: «Portava un vaso di alabastro pieno di unguento e, fermatasi alle spalle presso i suoi piedi, piangendo, cominciò con lacrime a bagnargli i piedi e li asciugava con i capelli, e gli copriva di baci i piedi e li ungeva con l’unguento». Attenzioni che provocano l’indignato rancore del fariseo.
È soprattutto nel narrare le parabole, i gesti di compassione e di misericordia di Gesù, che Luca mostra la sua qualità di scrittore di grande talento. Con brevi notazioni, con sfumature sottili, a volte con una sola parola riesce ad indicare la tensione drammatica di un’intera situazione e non mancano neppure tracce di linguaggio medico. Usa ad esempio termini tecnici per indicare la febbre alta (Lc 4, 38), la paralisi (Lc 5, 18), e come medico, trattando dell’emorroissa, omette quanto in Marco (Mc 5, 26) può tornare sgradito ai suoi colleghi. Marco infatti, narrando l’episodio, aveva tuonato rudemente contro i medici che avevano costretto la donna «a dilapidare tutti i suoi averi senza avere alcun giovamento, anzi era andata peggiorando». Luca laconicamente scrive: «Nessuno era riuscito a guarirla» (Lc 8, 43). Ma la sua delicatezza si esprime soprattutto quando avvicina la persona di Gesù. Di lui ci suggerisce gli sguardi, le emozioni, i gesti umanissimi, le sofferenze nascoste. Luca è l’unico che riferisce del sudore di sangue di Gesù in quella notte di agonia nel Getsemani (Lc 22, 43-44) e di quel pianto, di quei «singhiozzi», quella sera sull’altura degli ulivi a Gerusalemme (Lc 19, 41-44), di fronte allo splendore del tempio al tramonto, presagendo la distruzione della Sua città.
Giovanni ci ha mostrato Gesù commuoversi fino alle lacrime per la morte dell’amico Lazzaro (Gv 11, 35-38), Luca è il pittore della sua tenerezza, come nell’episodio della donna curva da tanti anni al punto che non poteva più raddrizzarsi (Lc 13, 10-17). È Gesù a prendere l’iniziativa. Nessuno, neppure la donna, gli aveva richiesto niente. Stava insegnando nella sinagoga: la vede e chiamatala vicino a sé la guarisce. E quel giorno quando, entrando nella città di Nain, si imbatte in un corteo funebre e viene a sapere che il morto è il figlio unico di una madre vedova (Lc 7, 11-17). Gesù vede tra la folla quella madre portare al sepolcro l’unico suo figlio. «Vedendola» scrive Luca «ne prova compassione». Allora le si avvicina, piano le dice: «Donna, non piangere». Un atto di tenerezza è il suo primo gesto, poi le restituirà il figlio vivo.