2Cor 4, 7

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Una realtà sempre nuova
Editoriale
LA MIA POTENZA SI MANIFESTA NELLA DEBOLEZZA – (2COR 12,8-9).
La vulnerabilità riguarda tutti, indistintamente. Per l’antropologia, essa non è una condizione periferica o accidentale, ma indica una dimensione intrinseca all’umano: in modi e gradi diversi, chiunque può essere “ferito” e nessuno può dirsi “invulnerabile”. Non si tratta di semplice “contingenza” né di un destino avverso che si abbatte solo su alcuni, limitandone le possibilità o le aspirazioni, ma di una caratteristica costitutiva della condizione umana.
Nell’antichità, l’uomo sperimentava la propria fragilità soprattutto in rapporto alla malattia, alla violenza, alle forze della natura e infine con la morte. In un contesto dominato dal fato, dalla condizione sociale e da altri elementi sui quali l’uomo non aveva alcun potere, il sapiente era colui che affrontava la vulnerabilità assecondando il destino, senza opporre resistenza.
Diverso il quadro offerto dalla tradizione biblica. Il primo uomo appare sulla scena del mondo con l’appellativo di Adam, per indicare la sua fragilità costitutiva, significata dal riferimento “alla terra”, da cui era stato tratto e a cui sarebbe ritornato. Il vulnus di cui è portatore va oltre i limiti esterni, la debolezza morale o il difetto di conoscenza del bene: si tratta del peccato originale, radice di tutte le possibili forme di fragilità. La “ferita” proviene, dunque, dal peccato che pone l’uomo in una condizione dalla quale non può liberarsi senza l’intervento divino. La libertà umana di scelta, anch’essa raggiunta dal vulnus del peccato, non fu annullata, ma il rischio di farne un cattivo uso è divenuto una possibilità concreta e sempre presente («Ecco io pongo davanti a te la vita e la morte: scegli la vita perché viva tu e la tua discendenza»: Dt 30,15.19). La riflessione biblica, dunque, coglie la vulnerabilità umana anche nei suoi aspetti drammatici, ma la comprende in un orizzonte più ampio: quello del disegno salvifico di Dio. Mediante l’evento Cristo, Dio stesso si è fatto uomo, vulnerabile, fino alla morte, «pur di dare la vita anche all’ultimo indifeso e indifendibile peccatore di questa terra. Per questo, la vulnerabilità come ferita dell’esistenza umana ha sempre la possibilità di essere presa in cura, in vita e in morte, da un Amore più grande» (R. Maiolini).
Nella nostra epoca si è notevolmente accresciuta la capacità di intervenire sulla vulnerabilità, in modo particolare nelle sue manifestazioni più vistose, grazie ai progressi della medicina, al miglioramento delle condizioni di vita, ecc. Nello stesso tempo, però, si è scoperto quanto la vita umana sia vulnerabile rispetto a fattori di cui, in passato, non si era compresa la pericolosità o di cui non si sospettava neppure l’esistenza. In campo sociale, ad esempio, molti processi socio-economici sfuggono ormai alle possibilità di controllo dei singoli, dei gruppi e anche delle grandi istituzioni politiche, mentre in riferimento all’individuo la psicologia ricorda quanto l’uomo sia vulnerabile rispetto a dinamiche solo parzialmente note.
Oltre a ciò, emerge un altro elemento: la vulnerabilità non è una realtà statica, ma cangiante; assume volti nuovi, non sempre facili da percepire o da concettualizzare. Spesso si presenta sotto forma di povertà ed esclusione, condizioni esistenziali diverse, ma caratterizzate dal forte impatto sulla situazione esistenziale del soggetto, trasformato in “domanda d’aiuto” o in “assistito”, cioè in semplice destinatario di prestazioni, dimenticando ciò che ha di più prezioso: la capacità e le potenzialità per superare la situazione di indigenza.
Senza pretesa di esaustività, ma con l’intenzione di offrire il proprio contributo, la nostra rivista si confronta con la vulnerabilità, una dimensione dell’umano che chiama in causa anzitutto la chiesa e il suo modo di intendere la nuova evangelizzazione. L’approccio è multidisciplinare, e non potrebbe essere diversamente, nel tentativo di offrire un’ampia panoramica di un fenomeno che si distingue non solo per il suo impatto sulla vita degli individui e della società, ma anche per la sua crescente complessità.
Tiziano Vecchiato si sofferma sui Nuovi volti della povertà e dell’esclusione. È uno studio sulla dimensione “sociale” della vulnerabilità, in cui povertà ed esclusione, pur non identificandosi, esprimono condizioni di vita diffuse e rappresentano un ostacolo allo sviluppo umano e socio-economico.
Sul concetto di vulnerabilità in un discorso antropologico fondamentale riflette Raffaele Maiolini, Tra ferita e cura. Per una riflessione sulla vulnerabilità dell’esistenza umana alla luce del pensiero occidentale. Dopo aver precisato i termini della questione, l’autore si sofferma sull’elaborazione del tema nella tradizione occidentale, concentrando la propria analisi sul binomio “ferita e cura”, una prospettiva singolare e ricca di suggestioni.
La vulnerabilità individua un aspetto integrante della vicenda storica di Gesù. Non solo egli incontrò persone segnate dalla fragilità umana, ma sperimentò personalmente la propria vulnerabilità, dalla nascita fino agli eventi della passione e morte. Aldo Martin indica ne La fragilità di Gesù la strada singolare e sconcertante attraverso la quale si può giungere alla fonte della solidarietà e della comprensione.
L’attenzione a un Dio “vulnerabile” ha segnato il percorso della teologia del Novecento. I conflitti che hanno insanguinato il mondo, il dramma della shoah e un nuovo approccio alle Scritture hanno contribuito a mettere in discussione l’immagine di Dio ereditata dal teismo tradizionale. Nel suo studio, Dio vulnerabile, Alessandro Cortesi suggerisce anzitutto di rileggere lo stile di Gesù, quale narrazione del Dio vulnerabile, e insieme di comprendere il rapporto tra teologia ed esperienza come traccia per ripensare l’incontro con Dio.
La ricerca individuale dell’esperienza religiosa gode di rinnovato interesse, mentre il tessuto ecclesiale, almeno in Occidente, tende ad assottigliarsi, nonostante gli sforzi della teologia e del rinnovamento pastorale. In particolare, sembra diffondersi sempre più la prassi del “credere senza appartenere”. Dei fattori che indeboliscono il senso dell’appartenenza ecclesiale si occupa il contributo di Alessandro Ratti, La chiesa vulnerabile: un’appartenenza fragile.
Una delle manifestazioni più note della vulnerabilità è la malattia, esperienza che attraversa la nostra vita e quella dei nostri cari. La malattia non è solo sofferenza, ma anche occasione per rivedere il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e soprattutto con Dio e le idee che ci siamo fatti di lui. Su questi aspetti riflette Luciano Sandrin, Esperienza della malattia e immagini di Dio.
Paolo Tomatis, I gesti della cura. Liturgia e vulnerabilità, considera il tema della fragilità nel suo rapporto con un “luogo” privilegiato dell’esperienza cristiana: la liturgia. L’autore si chiede quale sia l’apporto della liturgia, la sua specifica risorsa, affinché la fragilità possa essere accolta, integrata ed “evangelizzata”.
Intesa come capacità di accogliere in sé le avversità e di rispondere in modo creativo ed efficace ad esse, la resilienza rientra nel modo cristiano di vivere. Secondo Giovanni Salonia, Resilienza e dono, l’atteggiamento interiore resiliente trova pieno compimento nel consegnarsi – come Maria, come Gesù – fino alla prova ultima: il dono di sé.
L’ultimo contributo è di Domenico Cravero, Vulnerabilità dell’amore: la teologia clinica. La riflessione unisce la domanda religiosa e la condizione di vulnerabilità: l’aggettivo “clinica” indica un percorso che riconosce la centralità dell’agape, un dato dal quale la teologia e la pastorale ricavano ancora troppo poco per la vita dei cristiani e la speranza del mondo.
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XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) CRESCERE IN SAPIENZA E SANTITÀ IN VISTA DELL’ETERNITÀ
padre Antonio Rungi
La parola di Dio di questa XI domenica del tempo ordinario ci presenta la necessità e l’urgenza per noi cristiani, sia individualmente che ecclesialmente, di camminare sulla vita della santità e di una fede adulta e matura, sentendo la responsabilità di chi siamo, dove andiamo e da dove veniamo. Noi siamo figli di Dio e come tali dobbiamo agire e comportaarci, in base al battesimo che abbiamo ricevuto e ci ha inserito nel Regno di Dio, come figli credenti e speranti.
D’altra parte, il Regno di Dio a cui fanno riferimento i testi biblici di oggi, nella prima lettura e soprattutto il vangelo, sappiamo che si trova la sua fase incoativa, nel tempo presente, in attesa della piena manifestazione nel secondo e definitivo avvento di Cristo sulla terra.
Noi viviamo tra il già e il non ancora. Il già costituito dalla prima venuta di Cristo con la salvezza portata a termine nella sua Pasqua di morte e risurrezione, e il non ancora, che arriverà con il giudizio universale, quando tutto verrà ricapitolato per sempre in Cristo, Re dell’Universo.
San Paolo, nel brano della seconda lettura di oggi, tratto dalla sua seconda lettera ai Corinzi richiama alla nostra attenzione queste certe verità di fede: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”.
E nel Vangelo di questa domenica è Gesù stesso ci presenta, con due delle sue parabole, l’identità e la caratteristica del suo Regno, quello che Lui è venuto a instaurare sulla terra.
Egli stesso si pone la domanda: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Ebbene Gesù utilizza due immagini per presentare il volto vero del suo regno: quella del seme gettato nel terreno e che cresce spontaneamente di giorno e di notte, con o senza la vigilanza dell’uomo, e quella del granello di senape, che da piccolo diventa grande, al punto tale, essendo albero consistente, gli uccelli si riparano sopra di esso.
Due immagini tratte, come sempre da Gesù, dalla vita di ogni giorno, familiari ai suoi ascoltatori che, in base a tali riferimenti di vita agricola, naturale e campestre comprendevano esattamente quello che voleva dire.
Le applicazioni alla vita nostra vita cristiana di questo modo di parlare di Gesù sono tante e possibili in vari campi, ma è opportuno sottolineare due aspetti della parola di Gesù in questi esempi: la crescita del regno per opera di Dio, con la disponibilità certamente dell’uomo di accoglierlo, dentro di se; e la sicurezza che tale regno offre, esclusivamente a livello spirituale e in prospettiva di eternità, nel momento in cui si entra a far parte di esso.
L’immagine degli uccelli che possono fare il loro nido sui vari rami di questo albero della grazia e della santità ci indica il percorso che tutti noi cristiani siamo chiamati a fare accogliendo la parola di Dio e mettendola in pratica e raggiungendo la salvezza per vie diverse. Ecco perché Gesù rivolgendosi alla gente usava “molte parabole dello stesso genere, per annunciare loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa”. La parola va annunciata, spiegata e una volta compresa va messa in pratica, altrimenti è un seme gettato in una terra infertile che non produce, non cresce e non fa crescere.
Nel suo modo di rapportarsi in termini comunicativi alla gente che lo ascoltava, Gesù valorizza il suo patrimonio di conoscenza del testo sacro che possedeva ampiamente e che si riferiva all’Antico Testamento. Lo si comprende anche dall’inserimento della prima lettura di oggi, tratta dal profeta Ezechiele, nella liturgia della parola di questa XI Domenica, nel quale si parla di ciò che farà il Signore rispetto al piccolo gregge del suo popolo, utilizzando, in questo caso, anche la pianta del cedro, per far crescere e potenziare il regno di Dio tra gli uomini. Egli, il Signore farà tutto questo e lo farà nella logica divina dell’amore e del dono, contro ogni forma di superbia e arroganza dell’uomo, in quanto “io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco”.
Nell’accogliere la parola di Dio con semplicità, consapevolezza delle nostre umane fragilità, ma anche con il proposito di mettere in pratica la parola ascoltata e commentata, ci rivolgiamo a Dio con questa preghiera: “O Padre, che a piene mani semini nel nostro cuore il germe della verità e della grazia, fa’ che lo accogliamo con umile fiducia e lo coltiviamo con pazienza evangelica, ben sapendo che c’è più amore e giustizia ogni volta che la tua parola fruttifica nella nostra vita”. Amen
PAPA FRANCESCO – 7 GIUGNO 2018 – La memoria cristiana è il sale della vita (anche Paolo)
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.128, 08/06/2018)
È tra «memoria e speranza» che possiamo «incontrare Gesù». E Papa Francesco ha suggerito tre consigli pratici per non essere «cristiani smemorati» e dunque incapaci di dare «sale alla vita»: ricordarsi dei primi incontri con il Signore, di chi ci ha trasmesso la fede — a cominciare dai genitori e dai nonni — e della legge di Dio. È su queste indicazioni ad «andare indietro per andare avanti» che il Pontefice ha centrato la messa celebrata giovedì 7 giugno a Santa Marta. Proponendo anche un esame di coscienza.
Francesco ha fatto notare che «nella prima lettura Paolo attira l’attenzione di Timoteo sulla memoria: “Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo”». E, sempre riferendosi alla seconda Lettera paolina a Timoteo (2, 8-15), il Papa ha anche fatto presente che l’apostolo, «più avanti», rilancia scrivendo: «Richiama alla memoria queste cose».
Insomma, Paolo «fa un’esortazione perché» Timoteo «vada indietro con la memoria per incontrare Gesù Cristo e la memoria, come è presentata nella Bibbia, non è un pensiero, diremmo, un po’ romantico, come dire “i tempi passati sono stati migliori”». No, ha spiegato il Papa, «la memoria è un andare indietro per trovare forze e poter camminare in avanti». Di più, «la memoria cristiana è sempre un incontro, un incontro con Gesù Cristo». Per questo Paolo scrive a Timoteo: «Ricordati di Gesù Cristo, richiama alla memoria queste cose».
«La memoria cristiana è come il sale della vita: senza memoria non possiamo andare avanti» ha affermato il Pontefice. Tanto che «quando noi troviamo cristiani “smemorati”, subito vediamo che hanno perso il sapore della vita cristiana e sono finiti» per essere «persone che compiono i comandamenti ma senza la mistica, senza incontrare Gesù». Invece «Cristo dobbiamo incontrarlo nella vita».
«Mi sono venute in mente tre situazioni nelle quali possiamo incontrare Gesù» ha confidato il Papa indicandole: «Nei primi momenti, così li chiamo io; nei nostri capi, nei nostri antenati; e nella legge».
«Ricordati di Gesù Cristo nei primi momenti», dunque è la prima indicazione. E «la Lettera agli Ebrei è chiara in questo: “Rimandate alla memoria quei primi tempi, dopo la vostra conversione”», un momento in cui «eravate così fervorosi», ferventi.
Del resto, ha detto il Pontefice, «ognuno di noi ha dei tempi di incontro con Gesù». E «nella nostra vita ci sono uno, due, tre momenti in cui Gesù si è avvicinato, si è manifestato». Ed è importante, ha fatto presente il Papa, «non dimenticare questi momenti: dobbiamo andare indietro e riprenderli perché sono momenti di ispirazione, dove noi incontriamo Gesù Cristo». In questa prospettiva Francesco ha fatto nuovamente riferimento alla lettera agli Ebrei: «Fissi gli occhi, fissi lo sguardo su Gesù Cristo, che è il creatore e il consumatore della fede; rimandate alla memoria colui che ha sofferto così ostilità». Dunque, è l’invito del Papa, «sempre pensare a Gesù Cristo ma nei momenti: ognuno di noi ha dei momenti così, quando ha incontrato Gesù Cristo, quando ha cambiato vita, quando il Signore gli ha fatto vedere la propria vocazione, quando il Signore lo visitò in un momento difficile».
E «noi nel cuore abbiamo questi momenti: cerchiamoli, contempliamo questi momenti» ha affermato il Pontefice. Rinnovando l’esortazione ad avere «memoria di quei momenti nei quali io ho incontrato Gesù Cristo, memoria di quei momenti nei quali Gesù Cristo ha incontrato me». Perché quei momenti, ha spiegato, «sono la fonte del cammino cristiano, la fonte che mi darà le forze». Perciò è importante «tornare sempre a quei momenti per riprendere forza e poter andare avanti».
A questo punto, ha rilanciato il Papa, «ognuno può domandarsi: io ricordo quei momenti di incontro con Gesù, quando mi è cambiata la vita, quando mi ha promesso qualcosa?». E «se non li ricordiamo, cerchiamoli: ognuno di noi ne ha, cerchiamoli».
La seconda situazione per l’«incontro con Gesù» è la «memoria dei nostri antenati» ha affermato Francesco. E «la Lettera agli Ebrei è chiara anche su questo: “Rimanda alla memoria i vostri capi, quelli che vi hanno insegnato la fede”, quelli che mi hanno trasmesso la fede». Oltretutto, ha proseguito il Pontefice, nella stessa Lettera proposta dalla liturgia «un po’ più avanti Paolo torna su questo e dice a Timoteo: “Ricordati tua mamma e tua nonna che ti hanno trasmesso la fede”».
L’apostolo, in pratica, indica «l’esempio dei nostri capi, delle nostre radici, di coloro che ci hanno dato la fede». Perché, ha fatto notare il Papa, «la fede noi non l’abbiamo ricevuta per posta». Sono stati «uomini e donne che ci hanno trasmesso la fede». Tanto che si legge ancora nella Lettera agli Ebrei: «Guardate loro che sono una moltitudine di testimoni e prendete forza da loro, loro che hanno sofferto il martirio, tante cose».
Sicuramente possiamo ricevere la fede, ha aggiunto Francesco, anche da coloro «che sono i più vicini a noi, come dice qui Paolo a Timoteo: tua mamma, tua nonna, coloro che ci hanno dato la fede». Con la consapevolezza che «sempre quando l’acqua della vita diviene un po’ torbida è importante andare alla fonte e trovare nella fonte la forza per andare avanti».
In questa direzione, ha proposto il Pontefice, «possiamo domandarci: io rimando la memoria ai nostri capi, ai miei antenati; io sono un uomo, una donna con radici o sono diventato sradicato e sradicata? Vivo soltanto nel presente?». E se fosse così è opportuno «subito chiedere la grazia di tornare alle radici, a quelle persone che ci hanno dato la fede, che ci hanno trasmesso la fede: “Richiamate alla memoria i vostri antenati”».
«Il terzo punto per chiamare alla memoria è la legge» ha detto Francesco. E riferendosi al passo evangelico di Marco 12, 28-34, ha spiegato che «Gesù fa ricordare la legge», ripetendo chiaramente che «il primo comandamento è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio». Sì, «ascolta, Israele!» è una «parola che si ripete tanto, tanto, nell’Antico Testamento, nel Deuteronomio, quando il popolo era un po’ che aveva perso la memoria, il Signore» dice: «Ascolta, Israele, non dimenticare, Israele!». Al punto che, ha spiegato il Papa, questa espressione «è diventata una preghiera per gli ebrei: “Ascolta, Israele!”». Dunque, «ripetono le parole del Signore: la memoria della legge». E «la legge è un gesto di amore che ha fatto il Signore con noi perché ci ha segnalato la strada, ci ha detto “per questa strada non sbaglierai”».
Ecco il valore di «rimandare alla memoria la legge: non la legge fredda, quella che sembra semplicemente giuridica». Piuttosto «la legge d’amore, la legge che il Signore ha inserito nei nostri cuori». In questo senso, il Pontefice ha suggerito di domandarsi se «io sono fedele alla legge, ricordo la legge, ripeto la legge?». Perché a «volte noi cristiani, anche consacrati, abbiamo difficoltà a ripetere a memoria i comandamenti: “Sì, sì, li ricordo”, ma poi a un certo punto sbaglio, non ricordo». Perciò «memoria della legge, legge di amore ma che è concreta».
«Ricordati di Gesù Cristo» ha ripetuto il Papa. Invitando a tenere «lo sguardo fisso al Signore nei momenti della mia vita nei quali ho incontrato il Signore, momenti difficili, momenti di prova; nei miei antenati e nella legge». Certi che «la memoria non è soltanto un andare indietro», ma «è andare indietro per andare avanti».
Difatti, ha fatto presente Francesco, «memoria e speranza vanno insieme: la memoria cristiana va sulla speranza e la speranza va sulla memoria». E così «sono complementari, si completano». Con questa consapevolezza, il Papa ha rinnovato l’invito a ricordarsi «di Gesù Cristo, il Signore che è venuto, ha pagato per me e che verrà, il Signore della memoria, il Signore della speranza».
Infine il Pontefice ha concluso con una proposta: «Ognuno di noi può oggi prendere qualche minuto per domandarsi come va la mia memoria, la memoria dei momenti nei quali ho incontrato il Signore; la memoria dei miei antenati; la memoria della legge». E domandarsi anche «come va la mia speranza, in quale cosa spero». Auspicando «che il Signore ci aiuti in questo lavoro di memoria e di speranza».